Articolo estratto dal volume IV del 1959 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Ancora oggi è utile scrivere del Ponte sul fiume Kwai, romanzo e film, benché quello1, pubblicato nel 1952, dopo il trionfale successo del film derivatone, sia giunto ormai, solamente nell’originale francese, al traguardo del centesimo migliaio, e questo2, entrato nel mercato italiano nel marzo del 1958, ormai si programmi soltanto in sale di terza visione. Anzi riteniamo che sia utile scriverne proprio per questo, dato che il nostro intento non è indurre qualche ritardatario ad acquistare il libro o a recarsi a vedere il film, ma assistere quanti ne sono stati lettori o spettatori a dare dell’uno e dell’altro un giudizio quanto più è possibile oggettivo, per poi allargare con essi il discorso da un libro ed un film, per molti rispetti, tipici, a problemi estetico-morali inerenti, si può dire, a tutto il cinema spettacolare ed ai rapporti di esso con le sue fonti letterarie.
Cominciamo, dunque, con l’introdurci nel romanzo Le pont de la rivière Kwai, pubblicato in Francia da Pierre Boulle. Eccone la trama.
Nel novembre del 1942, eseguito l’ordine di arrendersi ai giapponesi, un reggimento inglese viene avviato da Singapore in Tailandia col compito di costruire sul fiume Kwai il più grande dei ponti della ferrovia tra Bangkok e Rangoon, per allestire la quale i giapponesi, data la sua importanza strategica, impiegano 60.000 prigionieri di guerra. Al colonnello inglese Nicholson, che lealmente gli mette a disposizione la truppa, il colonnello Saito, comandante del campo, spinto dall’odio, ed anche dal poco tempo lasciatogli – appena sei mesi – per condurre a termine l’opera, ordina di sottoporre al lavoro manuale anche gli ufficiali. Nicholson rifiuta. Minacciato di morte con essi, quindi seviziato, per un mese perdura nel rifiuto, mentre la truppa, privata degli ufficiali, non solo, come Nicholson temeva, non prende a cuore il lavoro, ma apertamente lo sabota. Solamente quando si annuncia un’ispezione superiore giapponese, camuffando la sua disfatta con un atto di clemenza elargito in occasione della festa nazionale, 7 dicembre3, Saito si piega ad escludere dal lavoro gli ufficiali inglesi, ed accetta inoltre tutte le onerosissime condizioni che Nicholson gli impone affin di riprendere il tempo perduto e di assicurare al ponte la solidità irrimediabilmente compromessa dall’imperizia dell’ingegnere nipponico, tra le quali la sostituzione di questi con un ingegnere inglese e l’adozione di un progetto del tutto nuovo per concezione e per sito, col conseguente totale abbandono di quanto durante un mese è stato fatto. Restaurata in tal maniera la disciplina nella truppa inglese ed assicurata la più stretta collaborazione tra questa e quella giapponese, i lavori del ponte procedono sì spediti da farne prevedere il compimento entro i cinque mesi che restano per l’inaugurazione della ferrovia.
Sennonché, qualche settimana prima di questo termine, un commando di guastatori dell’esercito inglese – composto dal comandante Shears, dal capitano Warden e da Joyce, giovane licenziato della scuola di sabotaggio di Calcutta –, viene paracadutato a qualche giorno di marcia dalla ferrovia con l’incarico di renderla inutilizzabile, e i dati forniti dai partigiani, nonché quelli raccolti da Joyce in due ricognizioni notturne, lo determinano a scegliere a bersaglio appunto il grande ponte sul fiume Kwai, e di distruggerlo, conforme agli ordini successivamente trasmessi da Calcutta, nel momento preciso in cui sarebbe stato attraversato dal treno inaugurale, presumibilmente carico di munizioni e di truppe giapponesi. Ed il piano viene eseguito. Dopo una rischiosa ricognizione di Warden, in un’ancora più rischiosa operazione notturna condotta a termine due giorni prima dell’inaugurazione, Shears e Joyce minano le pile del ponte. Ciò fatto, Shears si apposta su di una sponda col proposito di proteggere la ritirata di Joyce, restato su quella opposta a comandare la batteria collegata con i detonatori, mentre Warden resta nel suo alto osservatorio a controllare quanto avvenga sul ponte, pronto a completare con i suoi mortai l’opera di distruzione ad esplosione avvenuta.
Ma la mattina del giorno atteso un evento imprevisto manda a vuoto tutto il piano: il livello del fiume cala tanto da mettere allo scoperto le mine. La cosa sfugge alla pattuglia giapponese inviata da Saito per un’ultima ispezione, ma non al colonnello Nicholson, recatosi ad esaminare soddisfatto la sua opera. — «Il ponte è minato!» — egli dice al colonnello Saito, disceso con lui sulla riva che il riflusso dell’acqua ha posto allo scoperto, mentre gli indica la lunga miccia che l’attraversa... Fu così che, mentre già udivano l’ansimare del treno in arrivo, tanto Shears quanto Warden videro Nicholson chinarsi e raccogliere la miccia, e Saito accosciarsi per fare altrettanto, ed in questa posizione il giapponese cadere, senza dare un grido, sgozzato dalla lama di Joyce, quindi Nicholson invocare a gran voce aiuto ed impegnarsi in un corpo a corpo col giovane, che invano si sforzava di spiegargli la sua missione. Allora Shears si buttò a nuoto in suo soccorso, ma inutilmente. Infatti i giapponesi, accorsi, tagliavano la miccia giusto quando il treno imboccava il ponte e, presso Nicholson sbalordito, catturavano Joyce, ancora vivo, e Shears. Dall’alto del suo nido Warden non poté fare altro che scaricare tutte le sue munizioni sui tre inglesi e sui giapponesi, nonché sul treno tardivamente saltato in aria sopra una mina da lui posta oltre il ponte, quindi rimettersi sulla via di Calcutta, dopo aver trasmesso al comando in questi termini il magro risultato della spedizione: «Perduti due uomini; danni irrilevanti; ponte in piedi grazie all’eroismo del colonnello inglese».
Verso il film
Un ponte che deve saltare per opera ed a danno di connazionali gli uni contro gli altri armati, un inglés sacrificato inutilmente perché all’ultimo momento un imprevisto manda a vuoto il piano...: chi non ricorda l’hemingwayano Per chi suona la campana? Ma quanto male si prestava ad una trasposizione cinematografica commerciale il romanzo dell’americano, tanto era idoneo questo del francese. In quello vive il dramma, insieme personale e cosmico: dello scrittore, dei suoi personaggi e di tutta l’umanità – esploratori, sempre insoddisfatti, di una natura crudele e pur sempre affascinante, giuoco di forze ineluttabilmente alleate con la morte e tuttavia implicanti una super-realtà, ignota ma angosciosamente intuita, che le trascenda e le spieghi –, si cala indissolubilmente nella forma letteraria di un dialogo-fiume, mediante il quale autore e personaggi prendono via via coscienza della loro angoscia, e l’amplificano in echi sempre più vasti, e l’esasperano man mano che se la comunicano; non sorprende quindi se l’unico, regista e produttore, che abbia tentato l’ardua impresa di portarlo sugli schermi approdò sì ad un film di tre ore, ma restò molto «lontano dallo spirito e dal significato del romanzo..., e impegnato nel facile sfruttamento degli elementi marginali della storia, per la creazione di un clima banalmente avventuroso»4.
Al contrario, quello del Boulle è un racconto a tesi e tutto esteriore; i suoi pochi personaggi sono a componenti elementari, secondo le esigenze dei ruoli loro assegnati; gli avvenimenti sono coordinati secondo un procedimento meccanico, in quanto dipendono più dalle premesse di una situazione di fatto ben definita che da imponderabili umane, si impostano quindi e si svolgono sullo schema di una tenaglia, che crea una suspense fin dall’inizio, la soluzione della quale resta incerta fino alla fine, dipendendo dalla più imprevedibile casualità; per giunta il suo ambiente è esotico, tesi e suspense sono costantemente visualizzate in un ponte e, particolare non spregevole, le sue poco più di duecento paginette di testo, piuttosto asciutte e tecniche, non differiscono molto da una normale sceneggiatura per film. Ciò spiega come il romanzo abbia tentato registi quali H.G. Clouzot e A. Korda, ed un produttore come Sam Spiegel; il quale se lo aggiudicò, fedele alla sua norma: – «Quando scopro un soggetto insolito mi domando se la sua originalità colpirebbe anche un pubblico medio; se sì, mi metto subito al lavoro per realizzarlo» –, tirandone fuori un film, come dicevamo, per molti aspetti esemplare (beninteso, nel senso «da portarsi come esempio di come vanno le cose nel cinema», e non di come dovrebbe essere un film ideale). Infatti s’è visto aggiudicare ben sette Oscar5: vale a dire: per il miglior film dell’anno 1957, per la regia (D. Lean), per la sceneggiatura (ufficialmente attribuita allo stesso romanziere P. Boulle)6, per la fotografia (J. Hildyard), per la musica (M. Arnold), per il montaggio (P. Taylor) e per l’attore protagonista (A. Guinness); poi ha realizzato incassi stupefacenti: dieci miliardi di lire nella sola America del Nord (in Italia, nel 1958, è stato superato soltanto dai Dieci comandamenti, di De Mille), così avviando forse la nuova formula di film di alto costo (chi dice due, e chi tre miliardi e mezzo di lire) ma che puntano su interessi umani e non soltanto spettacolari; tuttavia, pur essendo composto di una quantità non ordinaria d’ingredienti eccellenti, e pur avvincendo, nonostante la sua lunghezza (tre ore), pubblici di ogni provenienza e livello, è molto lungi dal raggiungere la compitezza dell’opera d’arte7; infine, pur manipolando una ricca varietà di situazioni umane, a prima vista orientate secondo esigenze etiche, se non di morale vera e propria, ad un esame meno superficiale, si rivela film eticamente ambiguo, se non anche moralmente lacunoso.
Proprio circa questi due ultimi aspetti vorremmo alquanto approfondire la nostra indagine, analizzando alcuni dati obiettivi del film e largamente presumendo intorno ai molti accomodamenti consigliati o imposti dalle esigenze della produzione per trasformare il racconto di Boulle nel film di Spiegel-Lean.
La tesi del Boulle
Opiniamo che la tesi del romanzo sia questa: nulla autorizza a giudicare che la nostra civiltà occidentale valga più di quella orientale, anzi più di un argomento convince a giudicarla deteriore; quindi irragionevole è la nostra pretesa di imporla agli orientali, ed è delitto ricorrere ad imprese belliche per questo scopo.
Per dimostrarla, il Boulle ipotizza, a rappresentanti delle due civiltà, personaggi inglesi e giapponesi, e fa loro mettere in mostra tipi, mentalità, tradizioni e metodi relativi ad esse, implicandoli appunto in un’impresa bellica. Indugia poco sui secondi: appena quel tanto che serve per confermare l’idea che ne corre tra noi europei, di esseri di razza inferiore, tardivi e maldestri emulatori della nostra civiltà tecnica, vanamente spinti dall’odio a soppiantare il secolare dominio europeo sull’oriente; anzi, tra essi dà rilievo al solo Saito, lasciando anonimi ed indistinti quasi tutti gli altri, come pure i pochi indigeni che coinvolge nell’azione. Abbonda, invece, nei personaggi inglesi, incarnando in essi i molti pregi della nostra civiltà. Primeggia tra tutti il col. Nicholson, «concentrato di sentimento del dovere, di attaccamento alle virtù ancestrali, di rispetto all’autorità, di culto alla disciplina ed alla precisione» (p. 12): insomma, il tipo più rifinito del coloniale inglese glorificato da Kipling; lo affiancano i suoi due ufficiali di stato maggiore: Reeves, come personificazione della tecnica, ed Hughes, come genio dell’organizzazione. Vengono poi i quattro inglesi della Force 316: Shears, il professionista della guerra di distruzione, Warden, l’uomo di cultura, che applica alla guerra il rigore cattedratico di Oxford, Joyce, per il quale la guerra è una felice evasione dalla monotonia della professione civile, ed il colonnello Green, che, contro l’accidia orientale, personifica il supremo dei valori della nostra civiltà occidentale: l’azione!
Creati i personaggi, il Boulle procede alla dimostrazione per tre vie. Intanto, fa parlare i fatti, che mostrano la nostra civiltà bravissima nel costruire tecnico, ma ancora di più nel distruggere, nell’un caso e nell’altro, quando s’incarna nel militarismo, efficacissima nel ridurre i suoi campioni o in eroi a vuoto (il protagonista colonnello Nicholson), o in uccisori a freddo, contro ogni ripugnanza di natura (i quattro del commando), in ossequio ad una disciplina bellica elevata a valore assoluto. Quindi assegna ad un personaggio creato ad hoc – l’ufficiale medico Clipton – la funzione di commentare i fatti, rilevandone tutta l’assurdità. Il romanzo si apre appunto presentandoci una sua problematica, dato che egli è l’unico «che cerca la pace nelle cause prime», mentre tutti gli altri la pace già la godono ignorando ogni dubbio di coscienza; in seguito, egli non fa altro che rilevare elementi comuni o equivalenti, falsi valori, nella condotta dei giapponesi e degli inglesi, sintetizzando quelli di Saito in un complesso d’inferiorità rispetto agli inglesi (p. 31), e restando a lungo incerto circa quelli di Nicholson – eroe o imbecille? –, per finalmente propendere verso il secondo corno del dilemma. Infine, terza via, il Boulle interviene egli direttamente manifestando un suo giudizio esplicito di condanna col caricare i toni di ironia e di sarcasmo, sia nello strutturare l’azione drammatica, sia nel colorirne l’espressione letteraria. Si snoda, infatti, nel romanzo tutta una serie di situazioni volutamente assurde. La più architettata si nota nella contrapposizione dei due gruppi inglesi, l’uno tutto teso a costruire e l’altro che ha come unica ragione d’essere quella di distruggere, costituiti da elementi rappresentativi corrispondentisi: due colonnelli-tipo per origini, disciplina ed ideali (Nicholson e Green), due ingegneri specializzati in ponti (Reeves e Joyce), due tecnici-organizzatori (Hughes e Shears), e due uomini di cultura umanitaria ed umanistica (Clipton, medico, e Warden, glottologo). Non meno sarcasticamente assurda è la situazione di Nicholson, che per tutelare la disciplina militare della truppa sfida la morte, e poi, una volta assicuratala, la piega alla più evidente collaborazione col nemico, finendo coll’esigere dai suoi soldati, ridotti alla condizione di forzati e moribondi, ed anche dai malati, da lui snidati dall’infermeria, un “tradire in letizia”, molto più tragico del «lavorare in letizia», dato come ideale del giapponese Yamashita! E sopra siffatte ed altre situazioni è tutto un ironizzare letterario. Si noti, per esempio, la contrapposizione tra i giapponesi, che agiscono come agiscono per un piuttosto ingenuo e primitivo «salvare la faccia», e gli inglesi, che operano secondo un più elaborato «imporsi al vincitore con la condotta irreprensibile!» e «dimostrare la nostra superiorità a questi barbari!» (p. 94); si veda il tono lirico-beffardo con cui la sublime tecnica costruttiva dei ponti inglesi è opposta agli intrichi di pali che sono quelli giapponesi (p. 91); ironica è anche la descrizione dell’esaltato lavorare di Reeves (p. 96) e del plastic: «une pâte molle, brune, malléable comme de la glaise, en laquelle plusieurs générations de chimistes du monde occidental avaient patiemment réussi à concentrer toutes les vertus des explosif antérieurement connus, et quelques autres supplémentaires» (p. 102); sarcastiche sono le notazioni dell’entusiasmo lirico di Joyce, della tecnica dell’omicidio e dell’opportunità di abituarcisi (p. 205), della «pace con tutti» di cui gode Nicholson ad opera compiuta; sarcastici soprattutto i fatti e le espressioni che chiudono la triste impresa: l’imprevisto della natura, che sventa tutta la meticolosa scienza ed organizzazione occidentali e, contro ogni previsto, fa restare in piedi il ponte, l’assurdo di un alto ufficiale inglese che scopre quello che sfugge alla pattuglia giapponese, l’assurdo di tre inglesi che cercano di uccidersi a vicenda come traditori, l’assurdo di un quarto inglese che li uccide tutti e tre perché non cadano vivi in mano del nemico, infine la più mostruosa assurdità di Green che, in perfetto accordo con la natura della Plastic & Destructions Co. Ltd da lui diretta, assunta a simbolo di tutta la civiltà occidentale e militaristica, giudica il triplice omicidio di connazionali come la seule action vraiment raisonnable (p. 236).
Non occorrono molte parole per rilevare l’artificiosità del romanzo del Boulle, al quale del resto non difetta vivacità descrittiva, felice ambientazione e sapiente struttura di racconto. Come spesso succede agli scritti a tesi, soprattutto politica, per voler provare troppo si finisce col provare poco o nulla, togliendo ai personaggi ogni consistenza umana e riducendo i fatti ad accadimenti meccanicamente predisposti. Riteniamo perciò che il suo successo sia dovuto più che altro a quello del film.
1 PIERRE BOULLE, Le pont de la rivière Kwai, Parigi, Julliard, 1958, pp. 236 (alle pagine di questa edizione si riferiscono i rimandi nel testo dell’articolo). Enrica e Giuseppe Ciocia: hanno curato la traduzione italiana di: Il ponte sul fiume Kwai, Torino, Editrice S.A.I.E. (2ª ediz.), 1958, pp. 217. – Prima di questo romanzo il Boulle aveva pubblicato: William Conrad e Le sacrilège malais; ad esso fece seguire i romanzi: Contes de l’absurde, La face, Le bourreau, L’épreuve des hommes blancs, E-MC².
2 Il titolo originale The Bridge on the River Kwai. Il film è stato prodotto da Sam Spiegel nel 1957, e distribuito dalla Columbia-Ceiad. – Tra i saggi critici di maggior rilievo che l’hanno commentato citiamo: G. BEZZOLA (Ferrania, 1958, n. 6, p. 18 ss.), R. BUZZONETTl (Rivista del cinematografo, 1958, n. 5, p. 169 ss.), H. HARDT e J. D’YVOIRE (Reveu Internationale du Cinéma, 1958, n. 29, p. 13 ss. e 16 ss.), T. KEZICH (Bianco e Nero, 1958, n. 6, p. 49 ss.), N.N. (Cinema Nuovo, 1958, n. 130, p. 281 ss.), N. TADDEI (Letture, 1958, n. 6, p. 445 ss.).
3 Questa è la data dell’incursione giapponese su Pearl Harbour e della entrata in guerra del Giappone; con più tatto psicologico essa nel film è stata sostituita con quella della vittoria giapponese sulla Russia del 1905, meno insultante per i prigionieri inglesi.
4 N. GHELLI, Faulkner ed Hemingway, sfortunati in cinema, in Cronache del cinema e della televisione, 1959, n. 28, p. 52. Sullo stesso argomento cfr T. RANIERI: Hemingway e il cinema, in Bianco e Nero, 1957, n. 4, p. 48 ss., dove opportunamente si nota che il ponte di Per chi suona la campana è derivato dal ponte di Brihuega, fotografato da J. lvens in Spanish Earth (1937) (p. 52); M. LACALAMITA, Il cinema e la narrativa americana ed europea, ivi, 1959, n. 1, p. 1 ss.
5 Per i nostri lettori meno introdotti nel mondo del cinema, precisiamo che Oscar è il termine familiare usato più frequentemente per designare la ventina di academy Awards, ossia premi, conferiti ogni anno in marzo dalla A.M.P.A.S. (Academy of Motion Picture Arts and Science) di Hollywood, consistenti in altrettante statuette d’oro alte un mezzo metro. Istituito nel 1928, quando la crisi del cinema toccava il suo colmo, oggi, temuto ed ambito, è ancora considerato uno dei più importanti tra i molti premi internazionali che poi l’hanno seguito. Più che non l’arte vera e propria esso di solito corona il buon mestiere ed il successo commerciale. Non sono rari i film che ne mietono a mazzi; così, nel 1953 From here to Etemity, di F. Zinneman, se ne aggiudicò sette e, nel 1958, Gigi, di V. Minnelli, ben nove! (Per maggiori notizie, cfr FR. BERRUTI, Questa è Hollywood, Milano 1956, pp. 57 ss., 91 ss.).
6 Secondo T. KEZICH (op. cit., p. 49) «informazioni non ufficiali dànno come autori della sceneggiatura Cari Foreman e Michael Wilson»; a conferma, cfr Un Oscar per l’ignoto, in Schermi, 1958, n. 4, p. 154.
7 Siccome nell’articolo ci diffondiamo prevalentemente sui valori tematici, concedendo a quelli formali soltanto accenni occasionali, precisiamo così in sintesi il nostro giudizio estetico. Ci pare che il film difetti dell’unità richiesta dall’opera d’arte. Si deve a David Lean se esso non è scivolato nel didascalismo a tesi inerente al soggetto originale, nel simbolismo più pacchiano insito nel ponte, nel virtuosismo di un attore cosi spiccato come A. Guinness, nell’esibizionismo turistico consigliato dal colore, dagli esterni esotici e dal cinemascope, o nel facile romanticismo consigliato dalla presenza di giovani donne tra soldati; tuttavia, come avremo occasione di rilevare, il regista non ha voluto, o potuto, liberarsi di troppi elementi di evidente richiamo spettacolare e commerciale; il finale stesso, per quanto tecnicamente ben costruito e misurato, in sede critica risulta tutt’altro che probabile psicologicamente. Inoltre ci pare che il film non eccella per originalità. Il giovane Joyce, per esempio, si direbbe fratello gemello del protagonista dell’hustoniano The red Badge of Courage; la foto di famiglia del giapponese ucciso ed il contrasto rilevato tra bellezza e pace della natura e di indigeni e gli orrori e l’odio della guerra echeggiano l’Arpa Birmana, con la quale il film ha in comune l’ambientazione geografica e la scenografia forestale con i caratteristici controluce. Soprattutto abbondano i richiami al classico La grande illusion, di J. Renoir: per esempio il colloquio dei due colonnelli è parallelo a quello di von Rauffenstein (= E. von Stroheim) e di De Boëldieu (= P. Fresnay), il tipo Shears-Holden parallelo al Maréchal-Gabin; in ambedue i film viene organizzato un ballo-varietà tra i prigionieri, terminante nel film francese col canto della Marsigliese e in questo col God save the King...