Articolo estratto dal volume I del 1970 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Maggio 1926. Per la prima volta un dirigibile sorvolava il Polo Nord. Lo comandava un italiano, Umberto Nobile, che l’aveva progettato e costruito; ma batteva bandiera norvegese, portava il grande esploratore norvegese Amundsen, e si chiamava Norge. In America, sulla via del ritorno, il comandante-costruttore si domandò: “Perché non ritentare l’impresa, questa volta sotto bandiera italiana? " E due anni dopo – marzo 1928 – l’Italia, un semirigido da 18.500 mc gemello del Norge, partiva da Ciampino. Dallo Spitzberg, dopo due raid sulla calotta polare, si dirigeva sul Polo Nord, lo raggiungeva alle prime ore del 24 maggio e vi piantava, insieme con la croce consegnata da Pio XI, la bandiera italiana.
La stampa di tutto il mondo s’interessò all’impresa; ma più s’interessò alla catastrofe ed alle operazioni di soccorso che la seguirono. Sulla via del ritorno, nella mattinata del 25 maggio, l’Italia si sfracellava sulla banchisa. Nove membri dell’equipaggio – tra i quali, due gravemente feriti ed uno morto – venivano proiettati sul pack; gli altri sei, con quel che restava dell’involucro, andavano a fracassarsi, e forse a bruciare, lontano. Fortunatamente, la piccola stazione radio di emergenza s’era salvata. Ma invano dalla minuscola tenda tinta d’anilina – la “tenda rossa!” –, Nobile continuò a far lanciare gli SOS: nessuno li raccolse. Sfiduciati, dopo una settimana, tre naufraghi lasciavano la tenda ed affrontavano un’assurda marcia in cerca di soccorsi. Solo ai primi di giugno un radioamatore russo raccolse il segnale. Allora tutto il mondo seppe, e si organizzarono i soccorsi.
Dalla Russia muove prima il rompighiaccio Malyghin e poi, questo incagliatosi, il Krassin. Dalla Norvegia partono in aereo Larsen ed Holm, volano in vista della tenda rossa ma non riescono a scorgerla. Dall’Italia giungono gli idrovolanti di Penzo e Maddalena, trovano la tenda e lanciano i primi soccorsi. Poi è la volta dei piccoli aerei svedesi, che riforniscono i naufraghi e – 22 giugno – portano in salvo Nobile. Ma sfortuna vuole che il Fokker di Lundborg, nel ritentare la prova, cappotti; e la tenda rossa conta di nuovo cinque naufraghi. Il pack in dissoluzione e la nebbia non permettono altri voli. Il Latham francese, col generoso Amundsen, va a perdersi nel Mare di Barents; la pattuglia alpina del capitano Sora deve arrestarsi. Così per altre tre settimane il mondo segue, impotente, l’agonia della tenda rossa su uno scampolo di ghiaccio semiliquefatto, spinto alla deriva. Soltanto il 12 luglio il Krassin raccoglieva i superstiti dell’Italia: la mattina Mariano e Zappi, della “marcia assurda” (Malmgren era morto), la sera gli altri. Il dramma della tenda rossa era durato quarantotto giorni. Dopo più di quarant’anni, un sontuoso film italo-russo, appunto La tenda rossa di Mikhail Kalatozov, viene a rievevocare quegli eventi1.
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Non si tratta, però, propriamente di un lavoro storico. A parte, infatti, molte patenti omissioni, alterazioni e rinforzature2, in buona parte vòlte – e davvero non ce n’era bisogno! – a rilevare il peso risolutivo dell’intervento sovietico, molti episodi sono libere invenzioni. Magari anche felici, come quello di Amundsen che vaga tra i morti impigliati nel groviglio di tralicci di ciò che fu l’Italia; altri meno, anzi fumettistici, come l’intreccio romantico che s’impernia sulla bella infermiera (Claudia Cardinale), la quale, innamoratasi di Malmgren, prima spinge Lundborg (Hardy Kruger), e con un patto non proprio pulito, e poi Amundsen (Sean Connery), all’opera di salvataggio.
E neanche si tratta di un capolavoro artistico. Gli manca, mi pare, l’accordo tra impianto tematico-drammatico da una parte, personaggi e materia figurativo-narrativa dall’altra. Il film s’imposta, infatti, come un processo a carico di un accusato reale e vivo, lo stesso Nobile (Peter Finch), da parte di accusatori e di testi da lui evocati, si suppone, dall’aldilà, in una notte insonne. Ipotizza quindi un dramma psico-morale, di colpevolezza o meno, tutto intimo dell’imputato, che perciò sembra escludere la visione che degli eventi abbiano avuto gli altri, tanto più il ricordo di fatti di cui l’imputato non sia stato testimone; anzi, che sembra sconsigliare qualsiasi visione oggettiva dei fatti da parte di estranei, regista compreso, sì da concentrare la rievocazione in un psicodramma esclusivamente soggettivo.
Il film, invece, procede traccheggiando tra l’impianto tematico intimista e le tentazioni del grande spettacolo, alimentate queste dalla stessa spettacolarità degli eventi e dalla straordinaria abbondanza dei mezzi tecnici e finanziari messi a disposizione del regista dalla coproduzione russo-italiana. Di qui, su piano espressivo, i molti compromessi. Attori di richiamo, ed una bellissima attrice, a riscattare le psicologie sommarie dei personaggi condizionati dalla tesi; l’intreccio fumettistico di cui sopra; il calcolato alternarsi di flash back di azione a sequenze statiche del processo, di clamorose scene corali a rarefatti spettacoli di natura, ed anche di schiarite amene a compenso, o a rinforzo, di suspense drammatiche.
Certo, non mancano cose da ammirare, quali: la buona resa degli attori; tutta la festosa sequenza del radioamatore russo; i possenti particolari documentaristici del rompighiaccio; la perfetta ricostruzione, esterni ed interni, dell’Italia e del suo impatto sulla banchisa (ma l’accidente dell’aereo russo tradisce troppo il modellino e il trasparente), e dell’interno della tenda rossa (però, quelle facce ancora pulite dei naufraghi! ...). Ammirevoli soprattutto, in un sempre smagliante technicolor, le scenografie: delle infinite distese nevose spolverate di sole; del pack infernale sotto la nebbia; delle verdi pareti di ghiaccio, che sprofondano nel mare e ne riemergono in cadenze bachiane... Ma sono bellezze a sé stanti, spettacolo appunto, sia pure di ottimo livello: tutto sommato, estranee al centro d’interesse del film: il dramma interiore del protagonista.
Sono noti gli strascichi meschini e diffamatori che, in Italia e nel mondo, avvilirono quella che, invece, Pio XI additò come “grande impresa...: una di quelle gesta che toccano le più alte bellezze e sublimità che possono incontrarsi nella vita”3. Alla fame di prestigio del fascismo scottò l’esito dell’impresa, tanto diverso da quello del Norge. Diciotto morti, tra i quali otto stranieri4, pesavano molto. Inoltre, molta stampa straniera giunse a sospettare di cannibalismo i due italiani compagni di Malmgren. Ce n’era abbastanza per alimentare una vendetta da parte d’invidiosi concorrenti di Nobile, e specialmente da parte del quadrunviro Italo Balbo, allora sottosegretario all’aeronautica. E Nobile fu il capro espiatorio. Una commissione “fidata” ne inquisì l’operato e, con procedura tipicamente fascista – Mussolini cautelosamente assenziente dietro le quinte –, lo condannò; né gli concesse facoltà di difendersi. Il più pesante capo d’accusa fu di essersi messo in salvo con l’aeroplano di Lundborg, abbandonando sul pack, lui capo, i suoi compagni di naufragio. E proprio da questa accusa muove il film.
Immagina che continuino a pesare sulla memoria e sulla coscienza del vecchio generale quegli eventi lontani. Nelle notti insonni, i personaggi già in essi coinvolti gli si ripresentano innanzi a rimbastire tormentosi processi. Questa notte l’accusa è sostenuta da Lundborg. Quali testi a carico, emergono Malmgren e la sua ragazza, Zappi, Biagi, il comandante Romagna... ; come giudici: Samoilowitch del Krassin e Amundsen. L’accusa incalza beffarda, i testimoni depongono in disfavore, l’accusato finisce col ritrovarsi ancora una volta dubbioso se ha agito bene o male seguendo la sua coscienza.
La sentenza (marxisticheggiante) del russo – “La morale di un capo non è l’eroismo, ma l’utilità della scelta” – pare assolverlo. Anche quella di Amundsen sulle prime sembra favorirlo, almeno incrinando la sbandierata onoratezza dei suoi testimoni-accusatori, a cominciare da quella di Lundborg, svelato più cinico affarista che purissimo eroe. Ma poi, anche la mano del grande norvegese si fa pesante. Archiviato, per così dire, il processo di foro esterno, egli passa a quello di foro interno, nella ricerca delle ragioni ultime, confessate o meno, che hanno deciso realmente le scelte dell’accusato, ed anche quelle degli accusatori e dei giudici, lui compreso. Si scopre così che ci sono veri e falsi eroismi, encomiabili e non encomiabili esecutori di ordini, e soprattutto che, in quel guazzabuglio del cuore umano, raro è non trovare, dietro la facciata del dovere, dell’onestà, e magari anche dell’eroismo, tracce più o meno vistose di egoismo meschino.
Che di fatto Nobile abbia avuto cinquanta ragioni per restare sul pack ed altrettante per lasciarlo prima degli altri, e che, nell’equilibrio tra i pro ed i contra, la sua scelta sia stata determinata... dal desiderio di un bagno caldo5, mi sembra la trovata meno felice del film, una barzelletta che fa torto ad Amundsen, il quale, infatti, nella sua autocritica, ridimensiona il suo eroismo con motivi egoistici, sì, ma più intelligenti. Tuttavia resta al film il merito di aver portato l’attenzione su di un problema non consueto al cinema: quello della responsabilità delle scelte umane rispetto alla voce insopprimibile della retta coscienza, prima ancora che rispetto alle convenzioni ed alle leggi umane. Merito che sarebbe stato ben maggiore se siffatta problematica non fosse stata dispersa in sontuosità spettacolari e appesantita con toni didascalici, ma levitata, da un’ispirazione genuina in personaggi autentici.
1 Tra i circa cento volumi che ne riferirono, cfr, di UMBERTO NOBILE, specialmente L’Italia al Polo Nord (Milano, Mondadori, 1930), pubblicato sotto le remore censorie del fascismo, e Posso dire la verità (Milano, Mondadori, 1945), che lo corregge e completa in tempi di rinnovata libertà. Valido, anche, per oggettività il volume di F. BEHOUNEK, Il naufragio della spedizione Nobile (Firenze, Bemporad, 1930).
2 Per esempio: si tace nel film che i primi ad avvistare ed a rifornire la tenda furono aerei e piloti italiani; che nel suo secondo viaggio Lundborg cappottò, e che sotto il suo apparecchio ribaltato fu trasportata la tenda. Contro i fatti, invece, si suppone che nei pruni giorni dopo la catastrofe la radio di fortuna non abbia funzionato, e che perciò Biagi se la sia cavata soltanto con l’originale resistenza di grafite inventata sul posto; e si suppone pure che all’arrivo del Krassin i naufraghi si trovassero agli estremi e privi di tutto, quando invece risulta che erano ben provvisti e che, per quanto precariamente, usarono la tenda rossa e continuarono a comunicare per radio fino all’ultimo momento prima di mettere piede sul rompighiaccio russo.
3 Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 16 dic. 1928.
4 Gli italiani: Alessandrini, Arduino, Caratti, Ciocca, Lago e Pontremoli, perdutisi con l’involucro; Pomella, morto nell’impatto sul pack; Penzo, Crosio e Della Gatta, che nel ritorno perirono nel Rodano. Gli stranieri Malgrem, svedese, che si lasciò morire dopo la partenza dalla tenda; il russo Babuskin, partito dal Malyghin e non più ritornato; ed Amundsen, con i suoi cinque francesi compagni di volo: Guilbaud, de Cuevervillc, Brazy, Vallette e Dietrichson. – Tuttavia va ricordato che la storia del “più leggero dell’aria”, dopo quello dell’Italia registrò disastri ben maggiori. Tra il 1933 ed il 1937 quelli dell’R 101, dell’Akron, del Macon e dell’Hindenburg totalizzarono 161 morti.
5 L’avvio alla peregrina trovata, soggettista e sceneggiatori lo devono aver preso negli scritti autobiografici sull’impresa; ma i testi non permettono quell’interpretazione. Scrive NOBILE (op. cit., 385): “Mi portarono in cabina... Di sfuggita mi guardai allo specchio, per la prima volta dopo trentadue giorni: ero orribile, irriconoscibile. Un’ispida lunga barba grigiastra mi ricopriva il volto. Chiesi un bagno, unico ardente desiderio. Avevo addosso un sudiciume ripugnante. Soltanto ora mi sembrava di accorgermene. D’un tratto vedevo la patina di sporco che ricopriva qua e là la pelle e sentivo il puzzo nauseante dei panni, tutto il sudiciume accumulatosi durante trenta giorni...”. E scrive BEHOUNEK (op. cit., 230): “Restammo solo pochi minuti [sul Krassin, con Mariano e Zappi] e ci avviammo quindi verso la sala da pranzo. Intanto vennero preparati per noi due bagni. Siccome mi sento incapace di descrivere i sentimenti di un uomo che dopo cinquantadue giorni può per la prima volta spogliarsi ed immergersi in un bagno, preferisco rinunciarci”.