Che la storia influisca sul cinema e questo, a sua volta, sulla storia, s’intuisce agevolmente appena si consideri la forza suggestiva del linguaggio cinematografico e l’enorme numero di spettatori che il cinema come tecnica spettacolare può e, come industria costosissima, deve raggiungere; esso potrà adoperarsi metodicamente da chi ne avverta l’eccezionale idoneità pubblicistica, ed allora servirà allo storico specialmente ad individuare le mete e gli scopi, confessati o meno, culturali, ideologici, politici ed economici, di quanti, mediante esso, hanno cercato di determinare particolari avvenimenti storici o di polarizzarli secondo definite direzioni; o potrà rispondere a determinate esigenze collettive, sodisfacendole ed ulteriormente precisandole ed esasperandole –si pensi, per esempio, al fenomeno del divismo –, ed allora fornirà ai sociologi e agli psicologi elementi preziosi per individuare e definire aspirazioni, stati d’animo, correnti ed antagonismi di plaghe più o meno vaste e profonde di umani, la cui azione, consapevole e libera, o più o meno condizionata, decide appunto dei fatti storici, da quelli più spettacolari e convulsivi, come le guerre armate: e gli sconvolgimenti rivoluzionari politici, a quelli di lento trapasso, come le trasformazioni del gusto, il trasformarsi di archetipi e il formarsi di stereotipi di opinione pubblica o di determinati gruppi sociali, il formarsi e l’espandersi di mode, di ideologie sociali e di credenze religiose...
Perciò non sorprende che ci sia chi scrive di cinema in relazione alla storia; così, limitatamente al western, A. Chiattone e T. Kezich: il primo con Il film western (1949) e il secondo con Il western maggiorenne (1953); così, rispetto al cosiddetto neorealismo, i molti che ne hanno scritto saggisticamente in relazione alle condizioni storiche e alle ideologie politiche e religiose dell’Italia del dopoguerra; così, relativamente a nazioni particolari, per la Germania, E. Lotte, con L’écran démoniaque e per gli Stati Uniti, dopo S. Sollima, con il suo Il cinema in U.S.A., che è del 1947, il più impegnato L. Jacobs, con quella critical history che vuol essere il suo The rise of the american film, del 1952. Ma neanche sorprende la mancanza di scrittori che affrontino l’argomento nella sua pienezza, diciamo così, di tempo e di spazio. L’impresa, infatti, per essere condotta a termine con un minimo di oggettività e di completezza, supporrebbe in chi vi si accinge una conoscenza molto ampia, eppur diretta, dell’enorme, ed ormai in massima parte irreperibile produzione cinematografica, un’approfondita conoscenza degli avvenimenti contemporanei del cinema e dei fatti che li hanno causati lungo ormai un buon secolo di vicende storiche, e, finalmente, l’uso attento di uno strumento dottrinale efficiente e sicuro per rilevare e valutare caratteristiche corrispondenze tra cause ed effetti, sì da conferire ad eventuali prospettive, per quanto sempre cariche di elementi soggettivi ineliminabili, valori e certezze oggettivi.
Ecco, invece, uno che vi si cimenta1: a dire il vero non sprovvisto di buone carte. Il Pandolfi, infatti, oltre all’attività e alla critica di teatro, che è la sua specializzazione, da tempo si applica anche alla critica cinematografica, ed a quella dello spettacolo in genere, tra l’altro scrivendone sulla stampa periodica e in volumi, parte originali e parte antologici2; e, ciò facendo, non si limita a rilevare e commentare i valori estetici, bensì si allarga a quelli più ampiamente umani su cui poggiano ed affondano le attività dello spettacolo e i linguaggi che con esse si esplicano; ragione, questa, per cui, nonostante l’evidente arduità dell’impresa, il lettore può iniziare la lettura del volume con fondata fiducia di non doverla poi terminare del tutto deluso.
L’autore è troppo prudente per tentare l’approdo a conclusioni semplicisticamente generali. La scarsezza di dati sicuri e controllati lo condiziona fin dal suo primo disporre la struttura generale del volume, che si snoda a mo’ di monografie susseguentisi piuttosto che secondo uno schema unitario. Dopo una premessa sul film come industria e come creazione, in una rapida panoramica nel tempo e nello spazio, egli sposta la sua indagine alle due guerre mondiali e ai relativi dopoguerra, inquadrando via via le caratteristiche delle produzioni cinematografiche dell’U.S.A., dell’U.R.S.S., della Germania, della Francia, dell’Austria-Mitteleuropa: quindi i movimenti d’avanguardia e la crisi del ’29, le correnti neorealistica italiana e propagandistica sovietica, l’esperienza documentaristica, i successi delle cinematografie orientali; si sofferma poi su alcuni generi, come il comico, il western e il rivoluzionario russo, rilevandone le comuni origini col circo; infine, sotto il titolo Il tempo libero per il film, tenta un giudizio d’assieme sull’influsso morale e culturale del cinema nelle sue condizioni storiche di spettacolo di massa e di organizzazione industriale.
Si potrà dissentire dal Pandolfi su alcuni particolari, per esempio quello del «peso che il film eserciterebbe, minore di quanto generalmente si supponga, nell’animo popolare» (p. 25), ma non si può negare l’impegno con cui egli cerca di stabilire le correlazioni causali che intercorrono tra l’uomo, il suo ambiente storico e i suoi strumenti di comunicazione; tuttavia ci sembra che le sue pagine più felici non siano quelle di motivazione ideologico filosofica dei film, bensì quelle consacrate ai loro valori stilistici; mentre, infatti, ciò facendo, lo sorreggono la sua lunga pratica di teatro – onde il suo frequente riferirsi ad esso, alla sua letteratura e alle sue forme spettacolari – una pronunciata sensibilità estetica e una documentazione, se non molto ricca, generalmente esatta3, nell’individuare le maglie del connettivo ideologico, che condiziona la produzione cinematografica troppo spesso, ci pare, si lascia guidare da criteri discutibili e, qualche volta, errati.
Se, com’è chiaro, dato che il cinema è fenomeno di massa, motivi oggettivi non possono non persuaderlo a spiegare in chiave sociale molti film e molte correnti filmistiche, non ci sembra motivato il suo polarizzare gli interessi sociali prevalentemente verso fattori economici e classisti, o il suo dare eccessiva prevalenza ad altri, per quanto rilevanti, come la guerra e la resistenza. Avvertiamo, inoltre, nel suo modo di procedere e di giudicare, di scegliere, di rilevare, di minimizzare o di dimenticare, molte direttive comuni all’ideologia marxista. Vero è che egli qua e là si mostra sganciato dagli obblighi del servizio comandato cui soggiacciono molti dei suoi colleghi, e giudica con una certa spregiudicata libertà di opinione opere ed autori già unanimemente elogiati da quella critica (pp. 43, 44, 53), ma si vede benissimo dove vadano le sue simpatie. Si osservi, per esempio, il giudizio semplicista che egli dà dell’intervento italiano in Spagna (p. 41), l’esaltazione da lui fatta della rivoluzione leninista, per quanto ne critichi poi l’intorbidamento avvenutone a causa di necessità di situazioni storiche (p. 109), la piuttosto benigna sua comprensione rispetto ai limiti posti alla libertà in U.R.S.S. e poi il suo severo giudizio circa quelli posti alla stessa libertà in U.S.A. (p. 120) – contrasto che si ripete a proposito della sorte toccata al grande Eisenstein nei due paesi (p. 118), – l’ottimistica e rosea interpretazione della rivoluzione cinese, calcata pari pari sui clichés della propaganda marxista (p. 239), e l’originale apprezzamento del buddismo come condanna della società (pp. 237 e 238); si osservi, infine, il sottofondo del suo pensiero, amalgama di storicismo, razionalismo, materialismo e socialismo, da cui prendono accentuato rilievo ripetute e stranamente apodittiche affermazioni areligiose ed antireligiose. Premesso, infatti, che, per chi non lo sapesse, «la religiosità è l’espressione collettiva e storica dei sentimenti umani» (p. 174), che «le religioni oggi... non si adattano alle presenti situazioni sociali, in quanto mezzi di comunicazione ormai remoti» (p. 301), che «i fastosi riti cattolici sono accettati perché non richiedono alcun travaglio mentale e creano anzi un’atmosfera di raccoglimento distensivo» (p. 317), e, in ogni modo, che «possiamo legittimamente affermare che le chimere dietro a cui corre la fede siano proiezioni di complessi psichici, per lo più appartenenti ad altre epoche storiche» (p. 308), per lui «a ragion veduta» sono state «gettate alle ortiche le antiche credenze» (p. 83); merito di Kierkegaard sarebbe l’aver «rimesso in luce le fonti bibliche e cristiane di cui le nostre credenze si servono per giustificare una situazione concreta», scoprendo «come queste credenze fossero superficiali pretesti» e facendo così «crollare automaticamente le costruzioni religiose e le loro istituzioni» (p. 89). Né questo è l’unico rintocco a morto per il, secondo il Pandolfi, trapassato cristianesimo; secondo lui, ormai «le mitologie delle passate religioni hanno gradatamente perso i loro poteri di fata morgana. Alla speranza del paradiso celeste si è sostituita quella di un paradiso terreno...» (p. 185). Parlando della Linea generale, di Eisenstein, gli risultano «fugate le tenebre di una religione ormai caduta nel fango di un mercato d’interessi» (p. 107); rispetto al Qué viva México, dello stesso regista, «si pongono gli sparsi tentativi di dare agli uomini, dopo il crollo delle credenze classiche e cristiane, un’autentica ragione di vita, una struttura libera al lavoro e ai sentimenti» (p. 174). Ma poi, come di rito, alle trenodie sul defunto seguono i profetici presentimenti sul messia che dovrà più degnamente sostituirlo. Per il Pandolfi, infatti, un’aura di avvento spira nel Bravo soldato Scheijk, del regista cecoslovacco Trnka, in cui «si sentono vibrare i germi di una nuova, sincera, sensibilità nei rapporti col prossimo..., i germi innegabili di un’etica che non è più fatta di intenzioni e di comandamenti, ma sostanziata da naturali e libere tendenze» (p. 263); per lui «indubbiamente, in un prosieguo di tempo, lo spettacolo cinematografico tenderà ad assumere il ruolo avuto dal rito nei millenni» (p. 315), anzi si può dire, è cosa fatta, dato che ormai «l’uomo non ha più bisogno di sentirsi protetto da enti superiori, di crearsi una comunicazione con essi che dia serenità ai suoi impulsi e li ordini. Tutto ciò è ormai acquisito nella forte struttura della società attuale, nella nuova costruzione e deificazione dello Stato. Egli ha bisogno soltanto del sentimento che lo spingeva alla preghiera, dell’istanza immaginativa che lo faceva muovere tra le vicende dei libri sacri e dell’agiografia, del percorso cioè verso l’alto e verso l’universo, verso ciò che gli è estraneo e lontano, ma che vorrebbe possedere in quanto non può, almeno mentalmente, rinunciare ad una sua totalità, al sogno di poter disporre di tutte le risorse della vita» (p. 302).
Come si vede, il Pandolfi, a proposito di cinema e di storia, introduce il lettore, com’era prevedibile, dato l’argomento, in una sua filosofia e teologia della storia, che, ai fatti, si rivelano agli antipodi di quelle religiose e cristiane. E noi, su questa costatazione, ci limitiamo ad osservare che nella storia, ben altri funebri corrotti hanno risonato sulla presunta morte della Chiesa cattolica, senza che essa se ne addesse, garantita com’è dal suo divino Fondatore, di poter superare tutte le sorti del tempo, a dispetto di tutti i suoi troppo frettolosi affossatori; ed inoltre, che alcune affermazioni del Pandolfi sulla natura della religione e sulle storiche condizioni del cristianesimo ci risultano, grazie a Dio, tanto infondate quanto apodittiche. Egli parte da pregiudizi che non hanno nulla che fare né con la storia né con la filosofia; d’altra parte molti problemi umani gli sembrano inspiegabili ed inammissibili, assurdi, proprio perché egli non accede a quella filosofia spiritualistica e a quella fede, dono di Dio, che permettono a qualsiasi umile fedele di rispondervi, col semplice catechismo alla mano, e che, anzi, furono pienamente spiegati anche da quei fedeli analfabeti, di cui egli parla, «tutt’altro che in grado di comprendere il latino ecclesiastico» (p. 306)4.
Con immensa pena avvertiamo nel suo volume motivate ammirazioni per valori lontani, parziali ed intuìti, che hanno tutto il tono di nostalgie per altri valori a lui vicinissimi e totali, ma sconosciuti. Quando egli scrive: «Finché non giungerà il momento in cui non sentiremo necessaria un’altra dimensione della vita, un’esistenza che non si esaurisca nel lavoro collettivo senza scopo. In questo senso i pochi film orientali che sono pervenuti in Europa... hanno dato all’osservatore attento il senso di un vuoto interiore riscontrabile nel nostro vivere quotidiano, nella meccanicità delle nostre credenze, nell’angoscia che si abbandona alla dottrina di direzione politica e alle applicazioni della scienza, senza la prospettiva di una voce serena...» (p. 233), che cosa fa egli mai se non costatare la mancanza dei valori umani e supremi di quella religione che il razionalismo e il materialismo moderni si vantano di aver ripudiato?
Quindi la conclusione: Il posto del cinema nella storia, come di ogni realtà grande e complessa, risulterebbe ben più importante se si studiasse alla luce non di pseudo verità, o di verità parziali, ma di una filosofia e teologia della storia che, essendo l’unica vera, non può non giovare a chi umilmente l’accoglie, come non può non nuocere a chi la disprezza o la ignora.
1 VITO PANDOLFI, Il cinema nella storia. Firenze, Sansoni, 1957, in-8º, pp.348. Con 24 ill. L. 1.200.
2 Cfr, tra gli altri, il suo Antologia del grande attore, in Civ. Catt. 1955, III, 427.
3 Non mancano, però, qua e là refusi e sviste; per esempio: la soggettista tedesca Thea von Harhou è data per van Harbour (p. 124) ; il film Körkarlen, di Sjöström, è dato per Körkalen (pp. 93 e 342); per quattro volte (pp. 125-130) il film Cape Forlorn, del Dupont, diventa Cape Horn...
4 «Non si riesce più a fornire una spiegazione plausibile alle contradizioni insite nell’esistere. Non si riesce a dare una risposta ai perché che ci assillano... Ci si affanna a porre uno scopo alla vita. Ma come si può farlo fino a quando non si riesce a capire la ragione per cui questa vita ci è stata concessa, la ragione per cui il mondo e l’uomo sono stati fatti così e non in un altro modo? Perché un individuo nasce in un modo e non in un altro, ricco o povero, brutto o bello? Perché il caso lo favorisce o no? ... La scienza della vita che Chaplin espone... chiedendo alla natura perché ha formato l’uomo con desideri che resteranno sempre inappagati, con aspirazioni che resteranno sempre deluse, pone questi desideri e queste aspirazioni in un piano di necessario equilibrio. Quando vede che l’esistenza si crea e si annulla senza un motivo che lo giustifichi... quando indica alla società le evidenti e pure codificate ingiustizie della sua struttura, che spesso si alleano a quelle della natura, pronta a concedere tutto ad un essere umano, nulla ad un altro...» (pp. 83-84).