NOTE
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1 La traduzione italiana è stata edita dal Garzanti. Il titolo originale dell’opera è: The Called and the Chosen (cfr Civ. Catt. 1959, III, 202, ed anche Studi cattolici n. 14, p. 87). Per il primo libro della Baldwin: cfr Civ. Catt. 1952, III, 316.

2 Il racconto romanzato, dal titolo originale The Nun’s Story, è stato edito in italiano dal Garzanti, Milano 1957, pp. 245. L. 1.500.

3 Naturalmente la lettura di esse conviene solo a persone mature di età e di giudizio, capaci quindi di intuire dove cessi l’autentico e cominci il romanzato, e di distinguere i casi particolari e straordinari dalle situazioni normali e comuni, nonché le ardue altezze di un ideale cattolico dalle mediocri realizzazioni con cui spesso la fragilità umana lo mortifica. In particolare non le riteniamo nocive alle religiose ed alle persone che pensino di diventarlo, purché non difettino dell’equilibrio e della maturità culturali e spirituali di cui sopra; anzi riteniamo che, opportunamente affrontati ed integrati, possano giovare a disperdere certe perduranti concezioni romantiche della vita religiosa femminile e, messi in mano a quanti hanno dirette responsabilità nella formazione e nel governo delle religiose, possano anche aiutarle a rilevare e ad eliminare inconvenienti, rilevare e soddisfare esigenze umane e spirituali oggi particolarmente avvertite, così salvando più di una vocazione che veramente lo meriti, ed evitando secolarizzazioni tanto più dolorose quanto più tardive.

4 Regia: Fred Zinnemann; sceneggiatura: Robert Anderson; fotografia (technicolor e vistavision): Franz Planer; musica: Franz Waxman; interpreti: Audrey Hepburn (= Gabrielle van der Mal e suor Lucia), Peter Finch (= dottor Fortunati), Edith Evans (= madre Emanuela), Peggy Ashcroft (= suor Matilde), Deam Jagger (= dottor van der Mal); produzione: Henry Blanke, per la Warner Bros, 1958. – Girato a Roma (Cinecittà), in Belgio (Ostenda, Anversa, Bruges e Bruxelles) e nel Congo Belga (Stanleyville).

5 Cfr A. AYFRE, La religieuse personnage de film, in Revue internationale du cinéma, 1957, n. 26, p. 61, ed anche Problemi estetici del cinema religioso, Roma 1953, p. 81 ...

6 Anche noi nel titolo avremmo preferito suora, usato in quello della traduzione italiana del romanzo, a monaca, dato che, secondo il Codex Juris Canonici, il termine moniales si addice in proprio alle religiose membri di ordini e viventi in clausura stretta, mentre quello di sorores conviene a quelle che appartengono a congregazioni religiose (Cann. 588, 2° e 7°; 601 e 604). Ma nel linguaggio corrente i due termini sono come sinonimi; lo stesso Manzoni, che, scrivendo del monastero di Monza, usa sempre monaca e monache, una volta, al cap. X, si permette un suora. Purtroppo il doppiato italiano è avvilito da tre sgrammaticature nei testi liturgici e da un tono austeramente predicatorio nelle esortazioni delle superiore, al quale si deve l’impressione di giansenistico rigore che ne abbiamo ricevuto noi, che invece ricordiamo gli anni della nostra formazione religiosa tutt’altro che “tragici” nella forma, per quanto tutt’altro che miti nelle indicazioni ascetiche.

7 Tra questi, palesemente, il miscredente Fortunati, ma anche tutti i membri della famiglia Van der Mal, per quanto praticanti e pii. Tra essi il regista richiama l’attenzione sulla sorella minore, che per due volte rivolge al padre uno sguardo muto ma imperioso, come se si sentisse defraudata dell’affetto della partente.

8 La superiora generale è sempre coerente nel suo insegnamento. Comincia l’esortazione di ammissione delle postulanti con un: «Non è facile essere monaca... È una lotta senza fine per raggiungere la perfezione»; e a Gabrielle, che le confida: «Voglio diventare una buona infermiera e una buona monaca...», ribatte dolcemente ma decisamente: «Diventa una buona monaca, prima».

9 Tendiamo ad interpretare in questo senso il particolare figurativo della Madonna indottivi anche dal motivo musicale della Salve Regina, che si ripete due volte accomunato all’attività missionario-infermieristica di suor Lucia, vale a dire come preludio alla prossima conversione di Ilunga e nell’ultima inquadratura, quando alla suora tornata Gabrielle resta, come unico scopo della vita, la cura del prossimo.

10 Per quanto non sempre con la paziente discrezione che molto saggiamente le viene inculcata dalla superiora della clinica psichiatrica: «... non devi struggerti così nella colpa e nel rimorso. Devi imparare a piegarti un po’ o ti spezzerai... Abbi pazienza con te stessa; i santi intolleranti sono perduti fin dall’inizio...». – Come al solito buon diagnostico, il dottor Fortunati, indicandole come esempio il padre Vermeulen, «che la religione non ha reso troppo rigido ed intransigente», le rimprovera «una rigidità, indice di una snervante lotta interiore», una «feroce volontà».

11 Salvo sviste, questa variante rispetto al romanzo della Hulme ci risulta calcolando circa un anno di probazione, due anni di noviziato, tre di primi voti e sei passati nel Congo. Partendo da questi dati abbiamo fissato i tempi della vita di Gabrielle-suor Lucia riportati nella nostra trama del film.

12 Per ricordare soltanto le sue due opere più note: un ambiente comunitario civile statuale è l’antagonista in High Noon (Mezzogiorno di fuoco), un ambiente-collettività militare in From her to Eternity (Di qui all’eternità).

13 Farà piacere al lettore sapere che la vera protagonista della storia, che oggi lavora come infermiera a Los Angeles velata sotto il nome di Gabrielle van der Mal, dopo avere, insieme con la K. Hulme, per tre volte visto questa pellicola, ha detto: «Non la voglio vedere più: se la vedo un’altra volta torno al convento. Al vedere la cappella con le religiose... non posso restarvi senza piangere, non di rimorso o di pentimento, ma vinta da tanta bellezza. È bella la vita religiosa, se è veramente religiosa, se ci si sottomette ad essa pienamente. Mi dicono che ho fatto male ad uscire. Non mi capiscono. Tante vi resistono e vi vivono: io non sono stata capace ed ho fallito» (Echos y dichos, 1959, n. 10, p. 676). – La stessa fonte riferisce che il racconto delle esperienze della Van der Mal avrebbe convertito al cattolicismo la Kathryn Hulme; voci non sappiamo quanto attendibili hanno dato per convertita al cattolicismo, o in procinto di convertirsi, la stessa attrice Audrey Hepburn.

14 Per esempio, per T. Ch., nel Paese, «a tratti appare evidente l’intenzione di narrare una storia emblematica, di intima condanna alle Regole, che sono tanto più conformistiche quanto più non tengono conto dell’uomo e dei suoi problemi». Più sbrigativo, Biraghi, sul Messaggero, scrive: «la morale della storia: essere ormai l’uomo moderno poco adatto a certe forme di spiritualità. Purtroppo, diranno alcuni. Per fortuna, diranno altri». Meno apodittico, M. C. sulla Giustizia sentenzia: «... è implicita la deduzione che la regola dell’ordine ostacola il legittimo impulso di una operante solidarietà: lo spettatore è indotto a riflettere sul significato non più attuale di certe forme di organizzazione di vita religiosa».

15 e.m. sull’Unità!, dopo aver scritto: «La fede, per lei, resta sempre un fatto tra la propria coscienza e dio (sic!)... il petulante meccanismo delle funzioni fiaccano suor Lucia». Concorda il critico del Lavoro nuovo scrivendo: «Tornare con le gonne e la camicetta per le strade del mondo non è atto di viltà ma è semplicemente un riconoscere alla vita la libertà della scelta».

16 M. liv., in Paese sera, dove titola un suo servizio strombettando su cinque colonne: «Si buttano le tonache al festival di S. Sebastian. L’interessante pellicola di Zinnemann affronta temi scabrosi per la Chiesa Cattolica. Si capisce perché la Mostra veneziana abbia respinto un film sì “sgradevole”». – Il Nostro è seguito a ruota da m.q. sull’Avanti, che scrive di un «conflitto tra coscienza cristiana e regola religiosa... le virtù che dovrebbe conquistare spesso contraddicono il più profondo ed autentico amore per il prossimo... La sua scelta è anche tra il bene ed il male, la giustizia e l’ingiustizia... e si schiera dalla parte dei patrioti contro i nazisti».

17 CALLARI, in Momento sera.

18 M. C., in La Giustizia.

19 MAROTTA, su L’Europeo. Questo «annullarsi completamente nella regola» non ci garba affatto. Più pertinentemente, ma solo nell’affermazione finale, il critico della Stampa scrive: «Tema... una vocazione sbagliata. Ma sbagliata nei confronti degli ordini, delle discipline conventuali, delle regole assolute (?!). Non certo errata per ciò che è e può essere sentimento, fede, ardore... Sarà una ottima meravigliosa infermiera; è e potrà essere un’esemplare cristiana (?!), non è e non riuscirà ad essere che una monaca mediocre».

20 Per alcuni giudizi sulla stampa cattolica cfr J. VAN LIEMP, in Gazet van Antwerpen: Revue Internationalt1 du cinéma, 1959, n. 34, p. 10; C. M. STAEHLIN, in Razon y fe, 1959, n. 740-741, p. 224; Echos y dichos, 1959, n. 10, p. 676. – Giudizi che non concordano sempre in tutto. Così, mentre la giuria dell’O.C.I.C. a San Sebastiano «signale l’inspiration de son sujet et la pureté de sa réalisation sur le pian esthétique et humain», ma non gli attribuisce il premio, «la majorité des ses membres ayant estimé qui ce film risque de donner une idée fausse et incomplète de la vie religieuse et d’avoir un répercussion défavorable sur les vocations», la Legion of Decency americana l’ha giudicata «Oeuvre noble et sensible, respectueus, dans son inspiration. Ce film constitue une analyse profonde à résonnance théologique de la signification essentielle d’une vocalion religieuse, à travers l’histoire d’un femme qui ne possède pas les qualités fondamentales d’une vocation authentique. Si le film ne réussit pas à saisir le sens plénier de la vie religieuse, avec sa joie spirituelle et sa charité qui pénètre tout, il faut l’attribuer aux limites propres à un art visuel» (Revue Internationale du cinéma, cit.). – Incompleto ma centrato il il giudizio di M. CASOLARO in Digest Cattolico, 1960, n. 1, pp. 54-56.

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Articolo estratto dal volume I del 1960 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Due ex suore scrivono

Segno dei tempi: monache e suore che tornano nel mondo, magari dopo decenni di vita religiosa, ormai rinunciano al riserbo tradizionale e divulgano per le stampe i travagli che le hanno condotte all’estremo passo. Cominciò nel 1948 Monica Baldwin, con Ho saltato il muro, libro che, dato l’argomento e il cognome dell’autrice, nipote del noto uomo di Stato inglese, ebbe grande fortuna; ragion per cui la stessa Baldwin ha ritentato la buona sorte, romanzando i suoi ventotto anni di clausura nel recente I chiamati e gli eletti1; e l’ha seguita una ex suora belga, confidando le non liete vicende dei suoi sedici anni di vita religiosa alla nota scrittrice americana Kathryn Hulme, la quale le ha pubblicate nella Storia di una suora, bestseller 1957, ormai tradotto in quindici paesi2.

L’innovazione, tutto sommato, non ci dispiace troppo, quando a pubblicare certe memorie, indiscutibilmente meno vacue delle molte che l’editoria laica ci propina, sono donne di buoni sentimenti e di retta dottrina, come si dimostrano queste due, nonché di gusto e di cultura superiore, quale ci sembra soprattutto la prima3. Cominciammo, invece, a temere, che sì delicate esperienze interiori venissero prostituite per un ennesimo spettacolo ad uso e consumo di platee domenicali, quando ci giunse la voce che Hollywood si accingeva a portare sullo schermo il racconto della Hulme; ma, grazie a Dio, oggi, a trasposizione avvenuta, dobbiamo ricrederci. Fred Zinnemann ci ha dato un film molto migliore, formalmente e contenutisticamente, di quanto la maniera consueta a certo cinema di trattare certi argomenti non ci autorizzasse a sperare; e crediamo che la stessa lieta sorpresa gusteranno quelli dei nostri lettori che si recheranno a vedere il film The Nun’s Story (La storia di una monaca)4 dopo averne letto la trama, che qui sunteggiamo, e molto più quelli che avranno conosciuto il soggetto direttamente dal volume della Hulme, più carico di situazioni e di suggestioni delicate, forzate ed ambigue.

Nel 1928, a ventiquattro anni, Gabrielle van der Mal, figlia di un celebre chirurgo belga e sua preziosa aiutante in laboratorio, lascia famiglia e fidanzato ed entra in un istituto religioso missionario. Durante i cinque giorni di ambientamento e poi, col nuovo nome di suor Lucia, durante i sei mesi di postulantato e l’anno di noviziato, affronta e supera tutte le prove, vincendosi particolarmente nella virtù dell’ubbidienza, sempre sorretta dalla segreta ma ardente speranza di andare missionaria nel Congo.

Nel 1930, pronunciati i voti temporanei, viene inviata a frequentare la scuola di medicina tropicale di Anversa, donde, superato brillantemente l’esame finale, viene assegnata come assistente infermiera ad un manicomio presso Bruxelles. Affrontate e superate con rinnovata caparbia energia, ma non sempre con successo, le stesse difficoltà d’ubbidienza, e scampata a stento anche dall’assalto di una pazza furiosa, nel 1933 pronuncia i voti perpetui e parte per il Congo tanto sospirato; ma, quivi giunta, invece che al posto missionario in piena foresta che si aspettava, o almeno all’ospedale dei negri, viene assegnata all’ospedale civile degli europei, come assistente al chirurgo italiano dottor Fortunati, tanto dedito alla sua professione medica quanto irreligioso, e scapolo privo di scrupoli morali.

Tra i due si stabilisce subito un’intesa professionale perfetta, tanto che il medico affida alla suora compiti organizzativi ed operativi di alta responsabilità, ed essa li assolve con piena sodisfazione di tutti, ma non sempre in armonia con le esigenze dell’ubbidienza religiosa. Straccata dalla fatica e colpita da un inizio di tbc, il medico la cura a lungo ed energicamente, con sì buon successo che riesce ad impedirne il rinvio in Belgio, ma in pari tempo ne smantella le difese e la rende consapevole delle difficoltà interiori che l’angustiano, a suo dire probanti una vera vocazione da infermiera ideale, in contrasto con quella da lei presunta, di buona religiosa.

Tuttavia, dopo sei anni di missione, nel 1939, suor Lucia deve lasciare il Congo, per accompagnare un alto ufficiale belga rimpatriando perché colpito da un collasso mentale, e, una volta in patria, viene trattenuta nella casa madre. Qui comincia a struggerla una crisi violenta nel ricordo del Congo lontano, per nulla risolta dai colloqui con la superiora, anzi acuita dall’assegnazione ad un ospedale sulla frontiera olandese, quindi dallo scoppio della guerra e dalla brutale invasione tedesca, e portata alla tensione più tragica dalla morte incontrata dal padre sotto la mitraglia (1940). Alle difficoltà dell’ubbidienza si uniscono l’odio per gli invasori e le sue non platoniche simpatie per i partigiani. Invano ella prega, invano il confessore e le superiore la esortano a durarla. Sente che il suo abito non concorda più con le sue aspirazioni e con le attività che si permette: quindi, ottenute e firmate le dimissioni, lo depone e torna nel mondo, infermiera tra i partigiani...

Pericoli evitati

Quante grossolane banalità non rischiava di fruttare un soggetto siffatto in mano a registi in cerca di successi di platea? Invece, bisogna far merito a Zinnemann di averle evitate tutte.

Cominciamo col rilevare che il chirurgo e la suora non s’innamorano. Se s’interessa dei casi della sua giovane assistente, e la cura malata, con un’assiduità più che professionale, dalla quale, evidentemente, esula qualunque motivo soprannaturale, per quanto miscredente Fortunati non si permette un gesto, una parola, uno sguardo scorretto o indelicato. Dal canto suo la suora vive serenissima il dono offerto al Signore della sua verginità, apostolicamente feconda. Essa sorride divertita quando le spiegano la singolare notizia che sul suo conto hanno comunicato i tam-tam, confida gioiosamente a Emil, che ne la richiede, la sua condizione di sposata all’Unico che è in cielo, ribatte scherzosa al papà che il suo cuore sta benissimo e che l’ex fidanzato Jean non fa più parte del mondo dei suoi ricordi; infine protesta, durante la sua crisi solitaria, che il suo affetto non è per nulla impegnato col terribile Fortunati che tuttavia non può non ammirare; a ciò si aggiungano le felici scelte compiute dal regista nell’affidare la parte della protagonista ad un’attrice che, si direbbe, non ha nulla di corporeo, sicché si cala a suo agio nell’abito religioso, in esso ulteriormente smaterializzandosi; quindi nel ridurre la sua recitazione quasi unicamente ad un parlare con gli occhi, nell’annullarne progressivamente l’esile persona mettendola spesso in ginocchio e prostrandola, rondine ferita, sul nudo pavimento, infine mostrandola, nell’ultima inquadratura, invilita dalla capigliatura negletta e dal vestituccio borghese.

Inoltre Zinnemann, non nella protagonista e non in nessuna delle circa cento religiose che fa comparire sullo schermo, ha ricalcato uno dei quattro luoghi comuni ai quali ci ha abituato il cinema commerciale, raffigurando suore e monache ora vacuamente decorative, come sono tante comparse camuffate da suore che, svanitelle, piamente caramellate e con voci di gattine, circolano in tanti ospedali, orfanotrofi e prigioni di film nostrani, ora giansenisticamente tormentate o disumanamente acide, come in certa produzione d’oltr’Alpe, ora più belle dive che pie religiose: canterine, trafficone, campionesse di boxe e spericolate conducenti di jeep, come nei film made in U.S.A.5. È suo merito se, per la prima volta, abbiamo visto sullo schermo una rappresentazione della vita religiosa che quasi ci soddisfa. Gli abiti non vi hanno nulla di pittoresco: sono divise sacre, che significano una radicale trasformazione voluta, e spesso già raggiunta, da parte di quelle che li indossano. I corpi vi perdono ogni consistenza. Il giuoco dei bianchi e dei neri si alterna nelle tre parti in armonia con la doppia attività della vita religiosa: quella dell’ascetica mortificante e quella dell’irraggiamento della carità apostolica. I volti non hanno nulla di divistico e di sofisticato, ma molto di umano e, insieme, di spirituale. L’obiettivo indugia su quello di suor Lucia, e passa con lente panoramiche su quelli delle altre: giovanissime, mature, anziane, e li mostra né splendidi né sgraziati, ma tutti “religiosi” specchi di anime impegnate a fondo nella lotta, ma non tormentate, siano essi quelli sorridenti, quando non anche gioiosi, delle tre superiore, oppure quelli composti in un raggiunto dominio di volontà e d’interiorità delle anziane nel capitolo o nel coro.

Manifestamente queste religiose danno tutto e si danno senza riserve, in prestazioni spesso eroiche: si ricordino le sorveglianti dell’ospedale psichiatrico, così serene nel quadro dantesco delle vasche fumanti e fragorose e nell’assalto dell’«arcangelo» schizofrenico, le missionarie, dai volti più luminosi dei loro abiti candidi, la stessa superiora di Anversa che, fissando su suor Lucia due occhi fermi e limpidi, le consiglia di mandare a male l’esame col tono naturale di chi ha fatto della rinuncia per amore il suo pane quotidiano; eppure il regista non divaga in commenti lirici, non indulge a forzature retoriche, se non forse quando drammatizza, col sonoro più che col visivo, l’esame di coscienza quotidiano ed il conflitto tra esigenze di ubbidienza ed esigenze di carità fraterna, senza spiegarci se tale drammatizzazione appartenga in proprio alla vita religiosa o, più presumibilmente, oltre che allo strafare di fervorose novizie, al temperamento fantastico e puntiglioso di suor Lucia. Di norma, egli si attiene ad uno stile documentaristico, lasciando all’oggettiva rappresentazione della vita religiosa il compito di rivelare e i propri valori soprannaturali – indubbi – e le ombre umane – inevitabili –; insieme togliendo ad essa quell’aria di mistero di cui suole circondarla la curiosità dei profani.

Rientra in siffatto rigore documentaristico anche l’esattezza con la quale egli descrive e il portamento generale delle religiose e tutto il complesso cerimoniale sacro, che occupa una buona metà della prima parte. Tenuta e postura delle persone, atteggiamenti dei volti, inflessioni di voce e toni dei canti, rubriche e testi liturgici, sì da parte degli officianti e degli inservienti come da parte delle religiose, tutto è perfetto: devozione ma senza sguardi estatici; esattezza ma per niente meccanica; solennità quando occorre, ma non magniloquenza (almeno nell’originale americano); e ciò ci soddisfa doppiamente: primo perché apprezziamo in un protestante quel volersi e sapersi documentare, e rispettare le cose sacre, che spesso, con disdoro della cultura e della religione, difetta a registi di casa nostra6; secondo perché tanto rigore documentaristico non raggela il racconto cinematografico, anzi lo anima, ne ritma visivamente e sonoramente le cadenze e i tempi, innalzandolo, se non proprio ai vertici dell’arte somma, almeno alle altezze del buon gusto e di una scaltrita indagine psicologica, senza diminuirne gli eccellenti valori spettacolari.

Il film, in realtà, con la sua tripartitura in Adagio-Allegro-Adagio, ha l’andamento di una sinfonia lulliana. Il largo maestoso del primo movimento, si distende nelle lunghe inquadrature corali, bipartite nei recitativi delle tre istruzioni e nei canti all’unisono che accompagnano le tre solenni consacrazioni liturgiche, con un inserto di crescendo drammatico formato dalle sequenze dell’ospedale psichiatrico e culminante nel fortissimo dell’avventarsi dell’«arcangelo» furioso: col lento ritmo generale concordano le dominanti bianco e nere sulle mezzetinte degli interni conventuali, interrotte dalla vivace variante dei verdi e dei rossi degli esterni e degli interni di Anversa. L’andante mosso del secondo tempo comprende tutta l’avventura missionaria, ricca di variazioni dinamiche: dal brio quasi scherzoso del primo contatto della suora con la missione sognata, al concitato delle prime prove e dei primi cedimenti, nonché dei due incontri – chirurgico il primo, medico il secondo – con i due missionari, all’amabile della convalescenza, all’agitato dell’omicidio, seguito dal patetico della notte natalizia, e finalmente al rallentato affettuoso della partenza; e qui i colori sono caldi, violenti, sotto la piena luce che inonda persone, animali, cose, e scintilla sulle acque, formando uno sfondo policromo e mobilissimo, su cui spiccano i bianchi lucenti delle suore, simbolicamente alternati al nero degli indigeni, prima in funzione di carità esercitata, poi, nella sequenza del presepio, di carità premiata. Il terzo movimento, più breve, inizia in sordina con la seguenza della casa madre, si concita in quelle della guerra e dell’invasione per terminare nel diminuendo smorzatissimo delle dimissioni e della svestizione, in cui si risolve l’ultima crisi della suora; e qui tornano i colori dai toni discreti del primo tempo, nel trapasso per stacco dallo sbaldore degli esterni coloniali alle strade senza cielo del Belgio, flagellate dalla pioggia.

L’ideale e la realtà

Questi ed altri particolari dì struttura ed espressivi, che emergono in un ripensamento critico del film, dimostrano che esso è molto più ricco di elementi evocativi di quanto il suo apparente rigoroso documentarismo lascerebbe supporre, e motivano la gradevole impressione che se ne riporta anche a prima visione. Sì: questa storia di una monaca è indagata da Zinnemann con simpatia ed umanissima comprensione, con un sincero sforzo di penetrare nel mondo delle religiose nonostante che il regista non sia in grado di parteciparne personalmente le esperienze più interiori (per altro troppo sfalsate nel testo della Hulme). Così, il suo indugiare nella prima parte – da qualcuno giudicato eccessivo – non ci sembra imputabile all’incanto esercitato sul regista dalla drammaturgia cattolica, tanto suggestiva quando dispiega tutta la sua ricchezza di simboli, di coreografie e di canti liturgici fatti preghiera interiore, ma giustificato dalla ragione che, proprio nel solenne dispiegarsi di quei riti, egli cinematograficamente concreta la drammatica storia di Gabrielle-suor Lucia.

Il film, infatti, inizia col rivelare che prosperano nella Chiesa cattolica, oltre porte anonime e muri qualsiasi, certe mirabili forme divinizzate di vita associata, irreali ed assurde ai più che non vedono e non sentono quel che anime elette chiaramente vi vedono e fortissimamente sentono7; e che queste forme di vita comune divinizzata sono anche divinizzanti, a patto che le elette, le quali spontaneamente scelgono di farne parte, di fatto s’integrino spiritualmente in esse. Solo in questo caso, sia pure nella lotta interiore, anzi proprio per essa, le progressive visibili consacrazioni esterne – quali il cambio di abito, di nome, di comportamento e di occupazioni, e poi la pubblica professione dei voti, prima temporali indi perpetui – hanno un significato e giovano, in quanto accompagnano e sanzionano la progressiva consacrazione interiore, sicché il perfezionarsi e concludersi di ogni stadio preluda e prepari l’impegno per quelli successivi, sulla linea dell’integrale uniformarsi a Gesù Cristo, secondo moduli approvati dalla ste&

L’attività esteriore, che nella vita di suor Lucia viene ad alternarsi con quella interiore, svela a tutti, ma non a lei, la radice profonda di questo suo non sapersi integrare nella vita religiosa: cioè l’amore al servizio del prossimo come infermiera, prevalente sul dono totale e perfetto della propria vita a Dio come religiosa. Glielo svela, senza mezzi termini, il dottor Fortunati, cui la miscredenza non impedisce di essere eccellente diagnostico: «Ho avvicinato molte suore – le dice – ma voi non ne avete lo stampo, e non lo avrete mai... Siete quello che si chiama una suora laica...». Non sfugge all’infermiera Lisa, che risponde con un laconico e deciso: «L’avevo intuito», alla suora che le confida che sta per abbandonare la vita religiosa. Glielo conferma, nell’ultimo accorato colloquio, la superiora generale: «Sei entrata in convento per fare la monaca, non l’infermiera. Per te la vita religiosa deve essere più importante dell’amore della medicina»8. In termini equivalenti glielo aveva predetto il padre nel giorno del suo ingresso in religione: «Riesco a vederti povera, riesco a vederti casta, ma non concepisco che una ragazza con un carattere forte come il tuo obbedisca a quella campana»; il padre, che, alla maestra delle postulanti proclamante «vocazione sincera» quella di Gabrielle, ribatte: «Io la chiamerei cocciutaggine. Ve ne accorgerete anche voi!».

Due elementi espressivi

Zinnemann non scarseggia nell’uso di elementi espressivi che avviino lo spettatore a rilevare questa radice del disagio interiore di Gabrielle-suor Lucia, non avvertita e non riconosciuta da essa. Nella prima inquadratura, a significare l’aspetto apostolico-esotico della sua vocazione, fa campeggiare sulla parete della stanzetta della ragazza la fotografia di una missionaria con un negretto; in ogni solenne consacrazione liturgica egli indugia con l’obiettivo su una grande statua della Madonna col Bambino, allusiva, ci sembra, all’attività apostolico-materna con cui, nell’ideale di suor Lucia, s’identifica la vita religiosa9; nelle severe prove della vocazione, che la suora affronta e supera con un impegno che le fa onore10, l’attività d’infermiera e quella di missionaria nel Congo, le sono di aiuto o di evasione se sperate o raggiunte; sono invece occasioni di sconvolgenti lotte interiori se procrastinate, interrotte o negate. Sotto questo aspetto due elementi espressivi, coloristico il primo, sonoro il secondo, ci sembrano particolarmente efficaci. Precisiamoli.

Formalmente il film si svolge in racconto diretto ed in terza persona, ma psicologicamente in flash-back ed in prima persona, vale a dire secondo la visuale dell’autobiografia Hulme-van der Mal, dando della vita della suora non un racconto diaristico oggettivo, bensì di memorie, rivissute alla luce dell’abbandono dell’abito religioso che mestamente l’ha conclusa. Quindi il film va accettato quale visione soggettiva, ripensata, della protagonista, anche nelle poche inquadrature non riempite dalla sua presenza. Il primo e l’ultimo “movimento” sono girati quasi tutti in interni, a colori stemperati ed in tempo dilatato, perché l’ex suora, oggi, ricorda, di quei periodi di prova, piuttosto gli aspetti di chiuso, di grigiore e di attesa, sia pure sublimati in una sacralità ormai perduta; la parentesi del corso di medicina tropicale si apre e torna in esterni, ravviva alquanto i colori e le luci ed accelera il ritmo, perché la suora la visse, e la ricorda, nell’euforia di un sogno ormai avviato ad attuarsi; il secondo “movimento” invece è girato quasi tutto in esterni, in colori vivacissimi ed in un tempo ritmato da una serie vivace di avvenimenti, perché l’ex suora oggi lo ricorda così, come quando lo visse, inebriata dal miraggio ormai raggiunto.

Parallele alle variazioni visive riflettenti gli stati d’animo della suora procedono, nel film, le variazioni dei due temi sonori che ne scandiscono tutti i passaggi, vale a dire: il tema dell’antifona gregoriana Gaudeamus..., e quello delle campane. Per quattro volte essi si uniscono unisoni in un pieno gioioso, cioè: a conclusione della cerimonia dei voti perpetui (come esplosione della gioia dell’olocausto perfetto), nell’inquadratura dello scompartimento ferroviario, che il convertito Ilunga ha trasformato in una serra floreale (ad esprimere la gioia dell’apostolato fecondo) e finalmente nei titoli di testa e dopo l’ultima inquadratura, con evidente valore di sintesi tematica gioia-dolore e scelta-rinuncia, di tutto il film. Per il resto di esso, il primo tema, in sé gioioso – come il suo contenuto liturgico: «Rallegriamoci !» – ma sempre troncato e sfumato in accordi sommessi e nostalgici, anzi una volta (nell’assalto dell’«arcangelo»), tragicamente sincopato, rileva e commenta tutte le esperienze più salienti dei dodici11 anni, cioè: l’uscita della connovizia, la proposta di cadere all’esame e l’esame stesso, l’assalto della pazza furiosa, la «fuga» dal Belgio verso il Congo, l’assegnazione all’ospedale dei bianchi (accettata con uno scoppio di pianto), la vista delle mani del missionario colpito dalla lebbra, l’uccisione della superiora, il rinvio in Belgio, la sua prima intesa con i partigiani, l’ultimo colloquio con la superiora generale e, finalmente, il suo irrevocabile avviarsi a deporre l’abito...

Il tema delle campane, invece, rileva e commenta gli stati d’animo con i quali vengono accolti, diciamo così, dalla paziente, i segni materiali in cui si concreta l’ubbidienza e la disciplina religiosa. La prima volta che esso risuona isolato, il colloquio tra padre e figlia chiarisce perché all’uno sembri insopportabile e all’altra torni per nulla sgradito: – «Non concepisco come una ragazza con un carattere forte come il tuo obbedisca a quella campana. – Al Congo quella campana mi chiamerà al lavoro che amo. – Potresti non andar mai al Congo...: i tuoi desideri cesseranno di esistere appena varcata quella soglia!». – Il suono successivo, che stacca Gabrielle dal padre, e poi quello che precede l’istruzione della maestra delle postulanti: – «Le postulanti impareranno la stretta ubbidienza alla campana, che è la voce del Signore, lasciando immediatamente qualunque cosa quando essa chiama ad un altro dovere o per le orazioni...», – non le creano particolari difficoltà; queste cominciano quando la campanella viene ad interrompere suor Lucia nell’assistenza ad una malata. Viceversa, quando squilla nel Congo essa acquista un timbro gioioso per la suora, trasfigurata nel primo suo contatto con i neri; ma anche nel Congo essa risuona triste ai suoi orecchi quando, diagnosticatasi tubercolotica, paventa un rinvio in patria. Tornata di fatto in Belgio, i suoni della campana le ridiventano drammatici rispetto al suggestivo rullare del tam-tam, che la distrae nella sua desolata preghiera. Ultimo particolare significativo: un suono di campana squilla durante l’ultimo suo colloquio con Lisa e questa che, al dire di suor Lucia, sarà «una brava suora, e non un fallimento», con tutta naturalezza interrompe prontamente la risposta al «Ma...», col quale l’aveva cominciata!

Il dramma più intimo

Questi rilievi ci inducono a ritenere La storia di una monaca film pregevole per il materiale umano, la scenografia, il suono, il colore e la sceneggiatura, non tuttavia opera d’arte vera e propria, perché ci pare che scarseggi di afflato e di approfondimento interiore. Ci interessa molto, ma ci commuove poco. Occorreva forse un Bresson per raccontarci in un altro Journal, ma, forse, accessibile soltanto a pochi eletti – guidando attori non invadenti, in un modesto bianco e nero, e nei lunghi silenzi di un sonoro discreto, con accenti di autentica verità e di spirituale bellezza, i segreti di un’anima in lotta con se stessa e con Dio. Zinnemann, da onesto americanizzato, ha invece optato per il grande spettacolo accessibile ai grandi pubblici, indebolendo la qualità. La stessa scelta dell’attrice protagonista, indovinatissima sotto l’aspetto spettacolare, non è stata scevra d’inconvenienti sotto quello artistico; la Hepburn, infatti, recita tanto bene che lo spettatore è portato più a compiacersi nell’attrice deliziosa che a partecipare al dramma del suo personaggio, e, per quanto i1 regista ne limiti la recitazione quasi solo agli occhi, la piena rivelazione di esso non avviene. Anche il colore e i primi piani finiscono con l’esaltarne la tranquilla avvenenza fisica quando occorreva piuttosto scavarla interiormente.

Si direbbe che Zinnemann, seguendo interessi a lui congeniali12, senta e riesca ad esprimere il dramma dell’individuo rispetto all’ambiente, non quello intimo dell’anima rispetto a Dio; di conseguenza si muova a suo agio nella prima parte, visualizzando cinematograficamente la vita religiosa – l’antagonista – in una comunità concreta, mentre si sperda nell’ultima, dove l’antagonista in azione è soltanto Dio. In questa, il dramma è spesso detto o accennato dalla protagonista, non svolto e vissuto dall’artista; il quale, tuttavia, in due sequenze vi raggiunge una straordinaria efficacia espressiva. La prima segue immediatamente la lettura della lettera recante la notizia della morte del padre: a significare la notte della desolazione e della tentazione, che sconvolge, abbattendone tutte le difese, l’anima di Gabrielle, ormai orfana, e di suor Lucia, che si sente come abbandonata anche da Dio, Zinnemann la inquadra di spalle, nera, nella finestra spalancata sulla notte illune, sicché visivamente essa si sperda nella notte, e così résala tenebre, le fa gridare tra i singhiozzi: «Oh padre, padre mio!». La seconda è quella che chiude il film. Firmate le dimissioni, suor Lucia si avvia verso la foresteria. Le ultime parole della colonna sonora sono quelle della guardiana: «Premi il pulsante quando avrai finito, io ti aprirò». Nel silenzio, sotto una croce nera priva del suo Gesù, si compie la metamorfosi a rovescio. Anche l’anello di sposa, ormai inutile, viene deposto, ultimo oggetto, sul tavolo, e Gabrielle appare dimessa, impacciata, come una farfalla che avesse perduto le ali, tornata crisalide. La porta si apre con uno scatto secco: essa si avvia, assestandosi la gonnella che sente troppo corta. Non chiude la porta. Dimenticanza, o fuga avanti alla commozione che l’invade? Il timido motivo della Salve Regina unito alle luci azzurrine che illuminano, in fondo alla viuzza in ombra, il nuovo mattino, esprimono la fiducia nell’avvenire che guida i passi di Gabrielle, ormai semplice infermiera; ma la luminosa ed ormai vuota, spalancata stanzetta, dalla quale noi spettatori la vediamo allontanarsi, esprime anche un senso di delusione per una bella storia che fu e non è più: la sinfonia della vita religiosa di suor Lucia resterà incompiuta...13.

Valori ed interrogativi

Come prevedibile, dato il suo argomento, ed il modo “oggettivo” con cui Zinnemann l’ha trattato, critici differenti hanno attribuito al film significati morali e religiosi diversi. Marxisti e laicisti in genere vi hanno scorto bell’e bene una denuncia contro la vita religiosa14, e conseguentemente si sono congratulati con la protagonista, che, scosso il giogo di un’assurda ubbidienza, dà «il primo passo sulla lunga strada che porta alla riappropriazione di sé e all’autocoscienza»15, o ulteriormente, una denuncia del cattolicismo, in quanto, «con la sua pretesa di porsi al di sopra delle verità attuali in omaggio alle verità eterne, non prende partito nelle tragedie scatenate dagli uomini»16; altri, senza spingersi tanto avanti, credendo che la vita religiosa convenga soltanto a tipi minorati, vale a dire con scarsa o senza personalità, vi hanno visto un caso di contrasto drammatico tra una vita che impone e: di ubbidire, di rinunciare, di perdonare, di dimenticare, di annullare la propria personalità»17 e una donna che «ha troppa energia e troppo slancio per essere ... una creatura sempre sottomessa»18; altri, infine, sia pure esprimendosi con termini impropri, vi hanno visto la storia «di una suora che non riesce, pur volendolo con tutta l’anima, ad annullarsi completamente nella regola dell’ordine»19.

Noi sostanzialmente concordiamo con questi ultimi e, deludendo i primi, riteniamo non scabroso il tema, né scandalosa la maniera con la quale Zinnemann l’ha svolta, anzi, come abbiamo dimostrato, la riteniamo riguardosa e delicata; perciò, sotto l’aspetto morale religioso, giudichiamo il film fondamentalmente positivo; in ogni caso, molto migliore del romanzo. Tuttavia non escludiamo che, mentre gli spettatori culturalmente e spiritualmente più maturi – in specie sacerdoti, religiosi e religiose di salda formazione – potranno riportarne benefiche conferme dei valori morali ed ascetici che informano la loro vita, altri possano riportarne suggestioni, opinioni e giudizi oggettivamente erronei sulla vita e vocazione religiose, e ciò o a ragione di alcune forzature narrative passate dal romanzo al film, o per deficiente lettura del linguaggio cinematografico, di sua natura non concettuale e suggestivamente generalizzante, o per carenza di un minimo di cultura e di prassi ascetica. Quindi riteniamo che questo sia uno di quei film di cultura che esigano, se possibile, un’introduzione ed un commento verbali, o, almeno, un tranquillo ripensamento personale da parte dello spettatore, sì da farlo passare dall’interesse spettacolare a quello di un tema strutturato nel racconto filmico – ciò che qui abbiamo cercato di fare –, e poi condurlo a distinguervi l’asserito dal suggerito, il taciuto dal negato, il vero dal falso, il certo dall’incerto, il possibile dal probabile, il caso particolare dalla norma generale20.

A queste condizioni essi potranno individuare e formulare rettamente tutta una serie di questioni di fatto e di diritto poste dal film, quindi giudicare se l’eventuale ambiguità dei termini di esse o della loro soluzione, ridondi a scapito o a merito dei suoi valori tematici e formali. Per esempio, circa la struttura narrativa del film: è possibile e, se possibile, verosimile che tante circostanze e tanti casi straordinari confluiscano nell’esistenza di una sola persona, per giunta nel breve tempo di dodici anni? – Circa la vocazione religiosa di Gabrielle: stando ai dati del film, essa è da ritenersi incerta? In questo caso, perché si rivela tale soltanto sì tardi? Presunta? E perché ciò appare evidente ad un medico incredulo e ad una infermiera laica, mentre sfugge, oltre che alla diretta interessata, ad una mezza dozzina di superiore qualificatissime? Genuina? Come e perché, allora, perduta? Forse per il progressivo ridursi della vita interiore in una suora sopraffatta dall’attività esterna? o per manco di umile richiesta di grazia da parte di un’anima pelagianamente volitiva? o per ritrosia ad aprirsi con le guide destinate a dirigerla? o per l’incomprensione di queste in un momento di crisi acuta? – Circa le dimissioni: come giudicarle? Ponderate o affrettate? Evitabili o consigliabili? Oggettivamente e soggettivamente: doverosa resipiscenza, male minore inevitabile, o defezione condannevole? Quanto in esse influisce l’insopportazione della disciplina religiosa come tale? Quanto quella più dura per una suora che viene da una lunga permanenza in paese di missione? Ad un certo punto non si fa molta confusione tra esigenze proprie della vita religiosa, che possono cessare con le dimissioni canoniche, ed esigenze di carità cristiana, che nessuna dimissione può allentare? È psicologicamente credibile che suor Lucia, la quale tanto bene ha praticato e predicato a Ilunga il perdono più eroico verso l’uccisore della sua superiora, sì da convertirlo al cristianesimo, creda poi lecito portare con sé nel cuore fuori del convento l’odio per i tedeschi che gli hanno ucciso il padre? – Circa l’ubbidienza e la disciplina propria delle comunità religiose, l’impressione che qualche spettatore può riportarne di piuttosto inumana e formalista, corrisponde all’insegnamento più genuino dell’ascetica cattolica o è imputabile ad eventuali deviazioni da essa? Certi contrasti tra ubbidienza religiosa e carità possono veramente verificarsi? Se sì, sono probabili? E la soluzione datane nel film è quella ortodossa? Posto che certi inconvenienti, tanto quelli minuti e quotidiani quanto quelli drammatici e straordinari, possano verificarsi, e che di fatto si verifichino nelle comunità di suore, sono presenti nel film anche notazioni sufficienti per far ritenere che non da essi va giudicata l’essenza della vita religiosa? Non vi è forse troppo ignorato, anche se non negato, quello spirito di fede e quell’amore radicalmente esclusivo verso Dio senza del quale la vita religiosa sarebbe non soltanto un mysterium absconditum, compreso soltanto dagli eletti quibus datum est, ma, con tutte le sue innaturali minuzie e rinunce, un absurdum? In quale senso la vita religiosa può e deve ritenersi contro natura? – Finalmente, circa singoli particolari: È verosimile che ad una sua suddita, che studia medicina proprio per poter andare in missione, una superiora di una congregazione missionaria consigli di farsi bocciare all’esame finale? È verosimile che un’altra superiora, sia pure nelle circostanze straordinarie di una missione, destini una suora, molto giovane, appena arrivata, ad assistere un chirurgo tipo Fortunati, quindi la dispensi ordinariamente dalla messa e la faccia comunicare sulla porta della sala operatoria, senza preparazione e senza ringraziamento?

* * *

Non vorremmo essere fraintesi. Questi, e i molti altri interrogativi che potremmo allineare, non vogliono esprimere biasimo contro il film, bensì soltanto questioni, che ogni avvertito spettatore cattolico dovrebbe essere in grado di porsi esattamente, dando al maggior numero di esse un’adeguata soluzione. Diciamo «al maggior numero» e non «a tutte», perché per alcune i dati del film ci sembrano inadeguati ed ambigui, forse risentendo anche dell’ambiguità originaria dell’esperienza van der Mal, certo di quella del libro della Hulme, più sollecito del successo letterario che della verità religiosa, nonché della regia di Zinnemann, buona, sì, ma non tanto da saper sacrificare alcuni particolari drammatici ad una più interiore contemplazione.

Peccato! Perché proprio siffatto parziale difetto di coerenza psicologica e di unità tematica defrauda il film del fascino della grande arte, affievolendone l’afflato umano e religioso e riducendo alquanto l’efficacia espressiva del suo linguaggio, pur altamente dignitoso.

1 La traduzione italiana è stata edita dal Garzanti. Il titolo originale dell’opera è: The Called and the Chosen (cfr Civ. Catt. 1959, III, 202, ed anche Studi cattolici n. 14, p. 87). Per il primo libro della Baldwin: cfr Civ. Catt. 1952, III, 316.

2 Il racconto romanzato, dal titolo originale The Nun’s Story, è stato edito in italiano dal Garzanti, Milano 1957, pp. 245. L. 1.500.

3 Naturalmente la lettura di esse conviene solo a persone mature di età e di giudizio, capaci quindi di intuire dove cessi l’autentico e cominci il romanzato, e di distinguere i casi particolari e straordinari dalle situazioni normali e comuni, nonché le ardue altezze di un ideale cattolico dalle mediocri realizzazioni con cui spesso la fragilità umana lo mortifica. In particolare non le riteniamo nocive alle religiose ed alle persone che pensino di diventarlo, purché non difettino dell’equilibrio e della maturità culturali e spirituali di cui sopra; anzi riteniamo che, opportunamente affrontati ed integrati, possano giovare a disperdere certe perduranti concezioni romantiche della vita religiosa femminile e, messi in mano a quanti hanno dirette responsabilità nella formazione e nel governo delle religiose, possano anche aiutarle a rilevare e ad eliminare inconvenienti, rilevare e soddisfare esigenze umane e spirituali oggi particolarmente avvertite, così salvando più di una vocazione che veramente lo meriti, ed evitando secolarizzazioni tanto più dolorose quanto più tardive.

4 Regia: Fred Zinnemann; sceneggiatura: Robert Anderson; fotografia (technicolor e vistavision): Franz Planer; musica: Franz Waxman; interpreti: Audrey Hepburn (= Gabrielle van der Mal e suor Lucia), Peter Finch (= dottor Fortunati), Edith Evans (= madre Emanuela), Peggy Ashcroft (= suor Matilde), Deam Jagger (= dottor van der Mal); produzione: Henry Blanke, per la Warner Bros, 1958. – Girato a Roma (Cinecittà), in Belgio (Ostenda, Anversa, Bruges e Bruxelles) e nel Congo Belga (Stanleyville).

5 Cfr A. AYFRE, La religieuse personnage de film, in Revue internationale du cinéma, 1957, n. 26, p. 61, ed anche Problemi estetici del cinema religioso, Roma 1953, p. 81 ...

6 Anche noi nel titolo avremmo preferito suora, usato in quello della traduzione italiana del romanzo, a monaca, dato che, secondo il Codex Juris Canonici, il termine moniales si addice in proprio alle religiose membri di ordini e viventi in clausura stretta, mentre quello di sorores conviene a quelle che appartengono a congregazioni religiose (Cann. 588, 2° e 7°; 601 e 604). Ma nel linguaggio corrente i due termini sono come sinonimi; lo stesso Manzoni, che, scrivendo del monastero di Monza, usa sempre monaca e monache, una volta, al cap. X, si permette un suora. Purtroppo il doppiato italiano è avvilito da tre sgrammaticature nei testi liturgici e da un tono austeramente predicatorio nelle esortazioni delle superiore, al quale si deve l’impressione di giansenistico rigore che ne abbiamo ricevuto noi, che invece ricordiamo gli anni della nostra formazione religiosa tutt’altro che “tragici” nella forma, per quanto tutt’altro che miti nelle indicazioni ascetiche.

7 Tra questi, palesemente, il miscredente Fortunati, ma anche tutti i membri della famiglia Van der Mal, per quanto praticanti e pii. Tra essi il regista richiama l’attenzione sulla sorella minore, che per due volte rivolge al padre uno sguardo muto ma imperioso, come se si sentisse defraudata dell’affetto della partente.

8 La superiora generale è sempre coerente nel suo insegnamento. Comincia l’esortazione di ammissione delle postulanti con un: «Non è facile essere monaca... È una lotta senza fine per raggiungere la perfezione»; e a Gabrielle, che le confida: «Voglio diventare una buona infermiera e una buona monaca...», ribatte dolcemente ma decisamente: «Diventa una buona monaca, prima».

9 Tendiamo ad interpretare in questo senso il particolare figurativo della Madonna indottivi anche dal motivo musicale della Salve Regina, che si ripete due volte accomunato all’attività missionario-infermieristica di suor Lucia, vale a dire come preludio alla prossima conversione di Ilunga e nell’ultima inquadratura, quando alla suora tornata Gabrielle resta, come unico scopo della vita, la cura del prossimo.

10 Per quanto non sempre con la paziente discrezione che molto saggiamente le viene inculcata dalla superiora della clinica psichiatrica: «... non devi struggerti così nella colpa e nel rimorso. Devi imparare a piegarti un po’ o ti spezzerai... Abbi pazienza con te stessa; i santi intolleranti sono perduti fin dall’inizio...». – Come al solito buon diagnostico, il dottor Fortunati, indicandole come esempio il padre Vermeulen, «che la religione non ha reso troppo rigido ed intransigente», le rimprovera «una rigidità, indice di una snervante lotta interiore», una «feroce volontà».

11 Salvo sviste, questa variante rispetto al romanzo della Hulme ci risulta calcolando circa un anno di probazione, due anni di noviziato, tre di primi voti e sei passati nel Congo. Partendo da questi dati abbiamo fissato i tempi della vita di Gabrielle-suor Lucia riportati nella nostra trama del film.

12 Per ricordare soltanto le sue due opere più note: un ambiente comunitario civile statuale è l’antagonista in High Noon (Mezzogiorno di fuoco), un ambiente-collettività militare in From her to Eternity (Di qui all’eternità).

13 Farà piacere al lettore sapere che la vera protagonista della storia, che oggi lavora come infermiera a Los Angeles velata sotto il nome di Gabrielle van der Mal, dopo avere, insieme con la K. Hulme, per tre volte visto questa pellicola, ha detto: «Non la voglio vedere più: se la vedo un’altra volta torno al convento. Al vedere la cappella con le religiose... non posso restarvi senza piangere, non di rimorso o di pentimento, ma vinta da tanta bellezza. È bella la vita religiosa, se è veramente religiosa, se ci si sottomette ad essa pienamente. Mi dicono che ho fatto male ad uscire. Non mi capiscono. Tante vi resistono e vi vivono: io non sono stata capace ed ho fallito» (Echos y dichos, 1959, n. 10, p. 676). – La stessa fonte riferisce che il racconto delle esperienze della Van der Mal avrebbe convertito al cattolicismo la Kathryn Hulme; voci non sappiamo quanto attendibili hanno dato per convertita al cattolicismo, o in procinto di convertirsi, la stessa attrice Audrey Hepburn.

14 Per esempio, per T. Ch., nel Paese, «a tratti appare evidente l’intenzione di narrare una storia emblematica, di intima condanna alle Regole, che sono tanto più conformistiche quanto più non tengono conto dell’uomo e dei suoi problemi». Più sbrigativo, Biraghi, sul Messaggero, scrive: «la morale della storia: essere ormai l’uomo moderno poco adatto a certe forme di spiritualità. Purtroppo, diranno alcuni. Per fortuna, diranno altri». Meno apodittico, M. C. sulla Giustizia sentenzia: «... è implicita la deduzione che la regola dell’ordine ostacola il legittimo impulso di una operante solidarietà: lo spettatore è indotto a riflettere sul significato non più attuale di certe forme di organizzazione di vita religiosa».

15 e.m. sull’Unità!, dopo aver scritto: «La fede, per lei, resta sempre un fatto tra la propria coscienza e dio (sic!)... il petulante meccanismo delle funzioni fiaccano suor Lucia». Concorda il critico del Lavoro nuovo scrivendo: «Tornare con le gonne e la camicetta per le strade del mondo non è atto di viltà ma è semplicemente un riconoscere alla vita la libertà della scelta».

16 M. liv., in Paese sera, dove titola un suo servizio strombettando su cinque colonne: «Si buttano le tonache al festival di S. Sebastian. L’interessante pellicola di Zinnemann affronta temi scabrosi per la Chiesa Cattolica. Si capisce perché la Mostra veneziana abbia respinto un film sì “sgradevole”». – Il Nostro è seguito a ruota da m.q. sull’Avanti, che scrive di un «conflitto tra coscienza cristiana e regola religiosa... le virtù che dovrebbe conquistare spesso contraddicono il più profondo ed autentico amore per il prossimo... La sua scelta è anche tra il bene ed il male, la giustizia e l’ingiustizia... e si schiera dalla parte dei patrioti contro i nazisti».

17 CALLARI, in Momento sera.

18 M. C., in La Giustizia.

19 MAROTTA, su L’Europeo. Questo «annullarsi completamente nella regola» non ci garba affatto. Più pertinentemente, ma solo nell’affermazione finale, il critico della Stampa scrive: «Tema... una vocazione sbagliata. Ma sbagliata nei confronti degli ordini, delle discipline conventuali, delle regole assolute (?!). Non certo errata per ciò che è e può essere sentimento, fede, ardore... Sarà una ottima meravigliosa infermiera; è e potrà essere un’esemplare cristiana (?!), non è e non riuscirà ad essere che una monaca mediocre».

20 Per alcuni giudizi sulla stampa cattolica cfr J. VAN LIEMP, in Gazet van Antwerpen: Revue Internationalt1 du cinéma, 1959, n. 34, p. 10; C. M. STAEHLIN, in Razon y fe, 1959, n. 740-741, p. 224; Echos y dichos, 1959, n. 10, p. 676. – Giudizi che non concordano sempre in tutto. Così, mentre la giuria dell’O.C.I.C. a San Sebastiano «signale l’inspiration de son sujet et la pureté de sa réalisation sur le pian esthétique et humain», ma non gli attribuisce il premio, «la majorité des ses membres ayant estimé qui ce film risque de donner une idée fausse et incomplète de la vie religieuse et d’avoir un répercussion défavorable sur les vocations», la Legion of Decency americana l’ha giudicata «Oeuvre noble et sensible, respectueus, dans son inspiration. Ce film constitue une analyse profonde à résonnance théologique de la signification essentielle d’une vocalion religieuse, à travers l’histoire d’un femme qui ne possède pas les qualités fondamentales d’une vocation authentique. Si le film ne réussit pas à saisir le sens plénier de la vie religieuse, avec sa joie spirituelle et sa charité qui pénètre tout, il faut l’attribuer aux limites propres à un art visuel» (Revue Internationale du cinéma, cit.). – Incompleto ma centrato il il giudizio di M. CASOLARO in Digest Cattolico, 1960, n. 1, pp. 54-56.

In argomento

Cinemaideale

n. 3008, vol. IV (1975), pp. 155-159:
n. 2970, vol. I (1974), pp. 582-585
n. 2861, vol. III (1969), pp. 390-394
n. 2831, vol. II (1968), pp. 472-474
n. 2824, vol. I (1968), pp. 376-378
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
n. 2776, vol. I (1966), pp. 350-353
n. 2744, vol. IV (1964), pp. 151-156
n. 2723, vol. IV (1963), pp. 473-486
n. 2706, vol. I (1963), pp. 565-567
n. 2636, vol. II (1960), pp. 124-39
n. 2617, vol. III (1959), pp. 17-31
n. 2612, vol. II (1959), pp. 113-124
n. 2605, vol. I (1959), pp. 66-69
n. 2555, vol. IV (1956), pp. 521-532
n. 2545, vol. III (1956), pp. 30-42
n. 2532, vol. IV (1955), pp. 601-609
n. 2519, vol. II (1955), pp. 526-535

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151