Articolo estratto dal volume IV del 1973 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Convinto che mansione del critico cinematografico sia, non solo dare giudizi motivati dei film, ma anche, sic et simpliciter, consigliarne o sconsigliarne la visione al pubblico, il critico del settimanale milanese Il Tempo, Morando Morandini, in una lista di film vistosamente rubricata "Vi sconsigliamo” includeva il film Scipione, detto anche l’Africano, regista Luigi Magni, attori Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman.
Per la produttrice Ultra Film, Turi Vasile denunciava al settimanale “l’inaccettabile campagna denigratoria”, contestandone la legittimità e minacciando un’azione legale in difesa dei suoi diritti. Per nulla affatto intimidito, il direttore de Il Tempo pubblicava la lettera del Vasile, ma la postillava dichiarando che il Morandini avrebbe continuato ad esercitare il suo diritto-dovere alla critica, e concludendo: “Quello del signor Vasile è uno dei tanti esempi di pressione che tutti i direttori di giornale ricevono, posso dire, quotidianamente”.
Dando seguito alle minacce, la Ultra Film conveniva in giudizio l’editore Aldo Palazzi, il direttore responsabile Nicola Cattedra, nonché il Morandini, chiedendo la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni, essendo il film in questione, a suo dire, “di grande impegno industriale ed artistico e, alla data dell’atto di citazione – 12 giugno 1971 – nel pieno del suo maggiore sfruttamento economico”.
Con sentenza del 22 febbraio 1973, la Sezione I Civile del Tribunale di Milano – presidente G. Jucci, giudice estensore C. Tondi, – condannava i tre al risarcimento in solido del danno nei confronti della Ultra Film, da liquidarsi in separata sede, ed al pagamento, sempre in solido, delle spese processuali liquidate in complessive L. 450.330.
Nella sentenza si legge tra l’altro:
“L’unica questione che viene sottoposta al giudizio di questo Tribunale è quella se rientri oppure no nel diritto di critica riconosciuto dall’art. 21 della Costituzione, e se costituisca quindi un illecito civile ex art. 2043 del Codice Civile1, il fatto di chi esprime, tramite diffusione giornalistica, un giudizio negativo dell’altrui opera dell’ingegno, senza alcuna motivazione di ordine critico.
”[...] Va innanzi tutto rilevato che, ai fini della decisione della presente questione, è certamente ultronea ogni indagine quanto alla generalizzazione del fenomeno lamentato dall’attrice e ricordato dalla convenuta con riferimento sia ai bollettini parrocchiali affissi sulle porte delle chiese e che sconsigliano sic et simpliciter la visione di certi film, sia alle rubriche cosiddette con stellette dei giornali d’informazione.
”È chiaro infatti che i primi risultano sufficientemente individualizzati, e quindi motivati, per la loro esclusiva riferibilità ad un giudizio critico di carattere preminentemente morale operato dalla Chiesa Cattolica, e le seconde sono il risultato di un’indagine statistica condotta a livello di critica cinematografica e di pubblico, tendente ad esprimere una graduatoria con riguardo all’intera programmazione quotidiana.
”[...] Venendo al merito della questione, è d’uopo osservare che, come il Supremo collegio ha rilevato, il diritto di cronaca giornalistica, considerato tra i diritti pubblici soggettivi inerenti alla libertà di pensiero e di stampa riconosciuti dall’art. 21 della Costituzione, comporta il potere-dovere riconosciuto al giornalista di portare a conoscenza dei lettori fatti, notizie e vicende realmente interessanti la vita associativa, in modo che il pubblico, esattamente informato, abbia la possibilità di orientarsi e di formarsi una propria opinione sugli avvenimenti e le persone, che ne sono talora i protagonisti, traendone le debite conclusioni ed assumendo, all’occorrenza, nelle forme e nei modi di legge, tutte le iniziative atte ad ottenere il rispetto e la tutela di quei principi giuridici ed etici che sono alla base della vita di un popolo in un determinato momento storico. Se è vero, quindi, che la critica non è, e non può essere, uno sfogo personale e irrazionale determinato da reazioni soggettive, ma è soprattutto una espressione di cultura, l’avvio di un discorso con il pubblico per promuovere il miglioramento ed, al limite, creare quelle reazioni morali e di pensiero che, per essere le più genuine e spontanee, a lungo andare condizionano inevitabilmente le stesse persone che le critiche hanno posto, tale discorso non può che essere il frutto di un’attività raziocinante, che deve essere quindi esternata nelle sue motivazioni.
“Diritto di critica, sì, ma inteso come collaborazione ad un progresso culturale e civile, in cui l’ipse dixit acquista sapore di stampa autoritaria e perde perciò stesso il suo mordente, trovando il rifiuto, quanto meno, della parte migliore della coscienza civile.
”[...] È lapalissiano che, al di fuori della motivazione del proprio convincimento non c’è critica, ma solo affermazione, e che ammessa la liceità di un giudizio critico del tutto immotivato, non sarebbe più possibile porre alcun limite tra liceità ed illiceità della critica, ed ogni criterio di verifica della sua rispondenza a crismi obiettivi di utilità sociale, pur ricercati faticosamente dalla dottrina a presidio del diritto all’onore, all’intimità ed al proprio patrimonio, resterebbe del tutto vanificato.
“Non senza rilevare che un giudizio critico apodittico, privo di alcuna motivazione, lungi dal promuovere il progresso culturale e sociale e provocare le reazioni del pubblico ad un dibattito, potrebbe servire in casi limite a coprire, sotto l’apparente liceità del fatto, azioni dirette all’altrui discredito, e perciò illecito. La libertà scadrebbe fatalmente in licenza [...].
”[...] Non può esservi dubbio che l’avere invitato ripetutamente e pervicacemente e senza motivazione alcuna gli spettatori a non recarsi a vedere il film prodotto dall’attrice può senz’altro avere arrecato alla stessa un danno patrimoniale”.
Sentenza discutibile...
Alla sentenza ha subito reagito la stampa. Con applausi, ovviamente, quella dei cinematografari; e, altrettanto ovviamente, con biasimi indignati quella dei critici2.
A noi, personalmente, la sentenza non soddisfa molto, tanto nel dispositivo quanto nella motivazione. Tra l’altro perché riteniamo che le “stellette” non siano affatto “il risultato di un’indagine statistica condotta a livello di critici cinematografici e di pubblico”. Inoltre perché riteniamo che dire o scrivere – con stellette o no –, anche senz’appoggio di motivazioni, “Ti consiglio (o ti sconsiglio) questo o quello”, spettacoli compresi, sia certamente “una manifestazione di pensiero”, e come tale tutelata dall’art. 21 della Costituzione, che riconosce a tutti i cittadini, critici compresi, il “diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, vietando esclusivamente “le pubblicazioni a stampa [...] e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”. In quanto poi al danno economico che siffatti (s)consigli, oggi come oggi e in Italia, di fatto arrecano ai singoli film, specie se “di grande impegno industriale ed artistico” e, per giunta, già entrati “nel pieno del loro sfruttamento economico”, ci permettiamo di dubitare.
Concludendo, riteniamo che, in casu, non occorreva scomodare tribunali, Codici e Costituzione. Per giudicare della scorrettezza o meno di certi “Vi sconsigliamo”, e dell’eventuale ingiusto danno da essi causato, bastava ed avanzava ricorrere ad un Giurì d’onore, sul tipo di quello del Codice di lealtà pubblicitaria3, sempre che, beninteso, a tutela dei critici, allo stesso venga demandato anche il definire la correttezza o meno della prassi disinvolta con cui i cinematografari reclamizzano i loro film cavando isolati elogi da critiche, magari motivatissime, sostanzialmente negative, nonché definire l’onestà o meno del lucro da essi così ricavato.
...e più discutibile compito del critico
Ma, a prescindere dalla loro liceità legale, ci si può chiedere quali garanzie di attendibilità, e perciò di fornire un servizio veramente utile al pubblico, e non deviante, offrano semplici stellette, secchi “Vi sconsigliamo” e simili. A nostro parere, ne offrono poche o punte.
Il critico cinematografico, infatti, è un giornalista sui generis. I suoi colleghi, per lo più, si muovono in campi ben definiti – economia, sociologia, politica interna o estera, religione, cronaca nera o bianca, moda, sport, ecc. –, nei quali, o entrano per merito di una riconosciuta competenza, o finiscono col farsela. Questi, invece, scrivendo di cinema e di film, vale a dire di un’attività e di prodotti che possono toccare e trattare di tutto, è portato ad avventurarsi, anche se sprovvisto della relativa competenza, in tutti quei campi, oltre che in quelli, già molteplici, che non riguardano gli argomenti dei film, ma piuttosto il cinema in quanto espressione-comunicazione, quali la linguistica e l’estetica, la letteratura e il teatro, la musica e le arti figurative... Ora, se non tutto egli può sapere, neanche tutto può attingere, e tanto meno approfondire, nelle enciclopedie, dizionari e repertori vari, schede personali e materiale pubblicitario fornito dalle produzioni, soprattutto nella fretta che, di regola, accompagna il suo lavoro, non meno che quello dei suoi colleghi.
In queste condizioni, riteniamo che compito proprio del critico cinematografico culturalmente e socialmente utile sia soltanto la critica ragionata: non quello di fare da guida paternalistica, o da maestro ex cathedra su tutto, per il quale, in quanto critico, non ha né la competenza né il mandato. Né vale l’obiezione del Morandini contro la sentenza: “Che cosa s’intende per giudizio critico motivato? È motivata una stroncatura di cinque righe, o ne occorrono cinquanta? Oppure bastano gli aggettivi? Quanti?”. Perché, al limite, già basterebbe se il critico, senza stroncature, sviolinature o aggettivi di sorta, chiarisse lealmente ai lettori l’angolatura – quella dell’arte? della politica? dello storico? o dello studioso di costume? ... o, magari, quella del regista o dell’attrice suoi amici? o del produttore, suo padrone? o del contestatore anarchico? – sotto la quale egli si consideri qualificato (o comandato) a consigliare o a sconsigliare un film4. Tanto meglio, poi, se, con la sua critica ragionata, egli dia modo al lettore di farsi un’opinione personale sulla validità o meno del film, e, su questa, di decidersi ad andare o no a vederlo.
Una “discriminazione” costituzionale
Questa è appunto la via seguita dal Centro Cattolico Cinematografico nell’assegnare ai film le sue qualifiche5; circa le quali grossolanamente equivoca il Morandini, così ancora recriminando contro la sentenza:
“Più grave è la discriminazione tra i giudizi del Centro Cattolico Cinematografico e quelli di un critico qualsiasi come me: perché i primi sono leciti anche senza motivazione, e illeciti i secondi? Rispondono i giudici: i primi sono di carattere prevalentemente morale. E allora? In base a qual principio logico o giuridico un giudizio morale sull’opera dell’altrui ingegno è sempre lecito o, comunque, non suscettibile di violare i diritti altrui, mentre lo è un giudizio estetico (si fa per dire)? O non dipende, forse, la discriminazione – come dice la sentenza, peraltro approssimativamente – dalla circostanza che quel giudizio è ’operato dalla Chiesa cattolica’?”.
Il Nostro sembra ignorare: 1) che le qualifiche del Centro Cattolico Cinematografico sono sempre accompagnate da giudizi motivati; 2) che, in ogni caso, quando – come purtroppo avviene – esse vengano pubblicate prive di questi giudizi, il sapersi da tutti – e per l’organismo che le esprime, e per i luoghi e sedi in cui compaiono – che esse sono di carattere eminentemente morale, le distingue nettamente dai suoi gratuiti e generici “Vi sconsigliamo”, circa i quali egli stesso è incerto se qualificarli estetici o qualcos’altro6; 3) che la Chiesa cattolica indirizza tali qualifiche morali, non ad un pubblico indifferenziato, quali i lettori de Il Tempo, ma esclusivamente ai fedeli suoi membri, i quali le riconoscono e l’autorità e la competenza di siffatto servizio; sicché lo Stato che non le vieta, o non le impedisce, tale servizio, non compie discriminazione alcuna a favore della Chiesa cattolica a danno del critico de Il Tempo, ma semplicemente la lascia liberamente operare in quell’ordine suo proprio in cui anche la Costituzione (art. 7) le riconosce piena indipendenza7.
1 “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
2 Per la stampa di categoria cfr Limiti e condizioni del diritto di critica, in Cinema d’oggi, 18 giugno 1973; F. DE LUCA, La condanna degli sconsigliori, in Giornale dello Spettacolo, 25 agosto e 8 settembre 1973, e MOSCON (ivi). Il critico Morandini, sollecitato dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, ha pubblicato una sua difesa sul Notiziario dello stesso (luglio 1973). A questa hanno attinto i quotidiani: in prima linea Paese Sera (11 agosto), poi il Corriere della Sera e il Messaggero (12 agosto), infine li Popolo (14 e 21 agosto) e L’Osservatore Romano (23 agosto).
3 Cfr Civ. Catt. 1973 I 407.
4 A meno che l’angolatura non risulti inequivocabilmente da altri elementi, quali, per esempio, la testata del giornale o della rivista. Questo sarebbe il caso di eventuali stellette, “Vi sconsigliamo” ecc. che comparissero, poniamo, su L’Unità, l’Avanti, Paese Sera... , Cinema Nuovo, Cinema 60, Cineforum, ecc.
5 Cfr Nuove qualifiche cinematografiche in Italia, e Ancora sulle qualifiche cinematografiche, in Civ. Catt. 1968 IV 74-79; 1969 III 390-394.
6 Dissente MOSCON (art. cit.), che scrive: “La sentenza di Milano, [...] rispecchia [...] un certo disprezzo, o almeno una notevole dose di sfiducia verso la capacità di comprensione del cittadino che legge i consigli di Morandini: il quale cittadino lettore non è uno sprovveduto incapace di scorgere i nessi logici ed interpretare le motivazioni estetiche sottintese ai taciturni consigli morandiniani, almeno se segue l’attività di quel critico”. – Ma, con tutto il rispetto per le capacità del Morandini, riteniamo che non riviste tipo Il Tempo siano le sedi più qualificate per una critica estetica dei film e che, a giudicare dal loro contenuto generale, ben altri interessi che di seria cultura e di estetica portano i lettori a sfogliarle.
7 Mentre andiamo in macchina leggiamo la Lettera inviata, in argomento, da ALDO BERNARDINI, in qualità di critico e di Segretario del Sindacato dei critici, al Giornale dello Spettacolo (22 sett. 1973). – Dopo aver rilevato: 1) che “contro tale sentenza si è già schierata, con ampie e chiare motivazioni [?!], la stampa italiana più qualificata [?!]”; 2) che “un giudizio assolutamente negativo o positivo è sempre frutto di una forzatura [...], che non può mai essere del tutto attendibile e veritiero”; 3) “ma che è necessario [?!] , dettato com’è da quella esigenza [?!] di un’informazione quanto più possibile rapida e sintetica che condiziona oggi tutta l’attività giornalistica sui quotidiani e sui periodici”; il Nostro si domanda: a) “perché mai il problema della motivazione non si dovrebbe porre anche, e soprattutto, nel caso di giudizi favorevoli”; quindi obietta, anche lui, b) che “nessuno ha mai negato al Centro Cattolico il diritto di ’proibire’ e ’sconsigliare’ ai fedeli un film senza ulteriori motivazioni (e, che si sappia che dietro tale proibizione c’è una valutazione morale, anziché estetica o politica, che differenza fa nella sostanza?)”.
Ferme restando le nostre riserve sulla Sentenza, alla prima domanda sia lecito rispondere che il Codice Civile non prevede, in casu, risarcimenti di vantaggi ingiusti recati ad altri per fatto doloso o colposo; ed all’obiezione sia lecito rilevare: 1) che il Centro Cattolico non “proibisce”; 2) che, se “sconsiglia” film, lo fa, appunto, a fedeli; 3) che, nella sostanza la differenza c’è, e come. I fedeli, infatti, sanno benissimo che la motivazione, in ogni caso, c’è: e che è, appunto, morale; mentre nel caso de Il Tempo e simili la motivazione non c’è, e l’indiscusso “professionismo” del Morandini non reca alcun lume a decidere se i suoi “Vi sconsigliamo” si rifacciano alla morale, all’estetica, alla politica, o ad altro.