NOTE
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1 A questo Istituto internazionale cattolico aderiscono tutti i Centri nazionali cattolici cinematografici, creati in seguito all’enciclica Vigilanti cura, di Pio XI, del 1936, che oggi assommano a circa cinquanta.

2 Una preselezione dei Centri Nazionali di tutte le nazioni, affiliati all’O.C.I.C., limita ad una decina i film candidati a questo Gran Premio. Fra questi vanno inclusi di diritto i film che le giurie dello stesso O.C.I.C. abbiano premiato nei festival dell’annata. Dal 1961 l’assegnazione del Gran Premio avviene stabilmente nella «Cittadella» di don Giovanni Rossi in Assisi.

3 Giuria: L. Maas, presidente (Lussemburgo), A. Ayfre (Francia), G. Ciaccio (Italia), J. Debongnie (Belgio), R. Oreiro Vásquez (Uruguay), P. Sackarnd (Germania). – Consislieri ecclesiastici: E. Flipo S.I. (Francia), G. Raymond (Canada).

4 Giuria: Mons. J. Bernard, presidente (Lussemburgo), J. Martin Biedma (Argentina), R. Claude S.I. (Belgio), A. Lodigiani (Italia), P. Rodrigo (Spagna). – Consiglieri ecclesiastici: Mons. Fr. Yarza (Spagna), F. Lepoutre S.I. (Francia).

5 Giuria: Fr. Weyergans, presidente (Belgio), M. Butcher (Inghilterra), M. Walsh (Stati Uniti), P. Cebollada (Spagna), M. Guidotti (Italia), J. M. Poitevin (Canada), B. Rasmussen (Danimarca). – Consiglieri ecclesiastici: D. Fr. Angelicchio (Italia), Fr. Lepoutre S.I. (Francia).

6 Giuria: Mons. Kochs, presidente (Germania) V. Baghi (Italia), Mons. J. Bernard (Lussemburgo), J.A.V. Burke (Inghilterra), J. Dewavrin (Francia), P. Franzidis (Egitto), L. Lunders O.P. (Belgio), J.M. Poitevin (Canadà), Y. de Hemptinne (Belgio), E. Flipo S.I. (Francia). – Per il lettore che li gradisca, ecco le «raccomandazioni» della stessa Giuria circa i cinque candidati al Gran Premio, raccomandati dai Centri Cattolici Cinematografici Nazionali, che poi sono risultati non premiati:
CRONACA FAMILIARE: «La qualità cinematografica eccezionale e la recitazione eccellente degli attori rendono ancora più efficace il messaggio di questa grande opera. Immediatamente si sente un calore umano e si partecipa agli intimi sentimenti dei personaggi espressi con molta verità, forza e descrizione: l’amore tra i fratelli e nei confronti della loro madre e della loro nonna. Lo scambio sincero e approfondito dei loro pensieri porta i due fratelli a porre il problema della fede in Dio attento agli uomini, il bisogno del quale si fa sentire in particolare per quello che è morente. Ci si può chiedere se sia stato utile insistere sull’anonimato degli ospedali tenuti da religiosi, che lo spettatore è portato a generalizzare» (per altri nostri rilievi cfr Letture, ott. 1962, p. 690 ss.).
ELETTRA: «La considerevole trasposizione cinematografica che ha fatto M. Cacoyannis della tragedia di Euripide è per noi occasione di riconoscere il valore del cinema come mezzo d’espressione. Se non avesse dato altro risultato che quello di avvicinarci a un capolavoro della letteratura greca, questo film avrebbe già diritto al nostro elogio. Inizia il pubblico moderno ai drammi, ai misteri, alla fede, rappresentati dalla tragedia antica nei confronti di un soggetto profondamente umano, analizzando personaggi di grande dignità in una compiuta forma filmica. L’amore filiale, il coraggio, il rispetto della giustizia, la probità della gente umile costituiscono i punti culminanti ai quali la religione antica può giungere. È stato necessario il cristianesimo per apportare soluzioni che placano la coscienza per mezzo del perdono, frutto della redenzione» (Per altri nostri rilievi cfr Letture, luglio 1962, p. 543 ss.).
LILIES OF THE FIELD (I GIGLI DEL CAMPO): «Sotto una forma gradevole, che lo avvicina ai Fioretti, il film riesce a incarnare lo spirito evangelico con una autentica profondità, che non smentisce la naturalezza di certi personaggi. Il film è pervaso dalla fede in Dio, la quale, sostenuta dalla preghiera e dalla grazia, fa intraprendere e realizzare in comune opere quasi impossibili. Al centro del quadro, interpretato con molta intelligenza, è il personaggio di un negro di confessione battista, che presta i suoi servizi a delle religiose povere e diviene il costruttore della loro chiesa. Uomini e donne di nazionalità, razza e confessione differenti, dedicandosi fraternamente e gioiosamente a un lavoro disinteressato, oltrepassano il loro orgoglio, il loro scoraggiamento e la loro indifferenza» (Per un giudizio più ampio cfr Letture, ag.-sett. 1963, p. 613 ss.).
NOCHE DE VERANO (IL PECCATO): «Il virtuosismo di cui è testimonianza questa prima opera di un cineasta alla ricerca di un nuovo stile, non esclude nel risultato espressivo una certa confusione che rende oscuro il messaggio del film. La sua tela di fondo è costituita da una umanità egoista, superficiale, gaudente, che crea di riflesso una ambientazione pesante. Tuttavia questo film mette coraggiosamente in luce, unitamente alla grandezza del matrimonio e al rispetto dei vincoli coniugali, le condizioni di un amore autentico e durevole tra gli sposi, che, oltrepassando di gran lunga la loro unione fisica, esige una comunione costante di pensieri e di sentimenti, in una totale sincerità».
GLI ULTIMI: «Il film è un saggio poetico sulla figura di un fanciullo infelice all’unisono con un paesaggio desolato. Mostra la austera grandezza della vita di campagna e introduce ai problemi angosciosi della famiglia e di un paese immersi nella povertà, dove si vede il fanciullo maturare poco alla volta. L’autenticità e la purezza dei sentimenti provocano una sana e discreta emozione. L’evoluzione sociale ed economica non è sufficientemente illustrata in questo documentario su un periodo del passato; ed è difficile riscontrare in questa successione di belle immagini elementi di soluzione; ciò che avvicinerà senza dubbio un pubblico più sensibile ai nostri problemi moderni che alla ricerca poetica».

7 Segnaliamo specialmente: tra i cattolici: L. BINI (in Letture, maggio 1963, p. 373 ss.), R. BUZZONETTI (in Studi Cattolici, 1963, n. 63, p. 80 ss., e, più ampiamente, in Rivista del Cinematografo, 1963, n. 5, p. 203 ss.), FR. DORIGO (in Cine Forum, 1963, n. 24, p. 355 ss.; ma la stessa rivista, nei nn. 22-23, riporta l’intera sceneggiatura del film), M. VERDONE (in Bianco e Nero, 1963, n. 5, p. 51 ss.). Tra i non cattolici: M. ARGENTIERI (in Rinascita, 4 maggio 1963), G. C. CASTELLO (in Il Punto, 20 aprile 1963), A. MORAVIA (su L’Espresso, 28 aprile 1963), e, finalmente, R. RENZI (in Cinema Nuovo, 1963, n. 163, p. 166 ss.), con molte pretenziose sciocchezze, ad una parte delle quali risponde J. BURVENICH (in Cine Forum, 1963, n. 27, p. 701 ss.), concludendo con questo rilievo, che facciamo nostro: «É tempo che l’uomo moderno, degno di questo nome la finisca di attaccare quello che conosce male, di portare nelle sue dispute ciò che non riesce a comprendere» (p. 703).

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Articolo estratto dal volume IV del 1963 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Dato che, grazie a Dio, e grazie anche ad alcuni uomini di buona volontà, non tutto nel cinema va male, anzi ogni anno ci scappa qualche film, nel suo insieme, encomiabile, fin dal 1947 l’Office Catholique International du Cinéma (O.C.l.C.)1, nel corso dei maggiori festival internazionali conferisce un suo premio a quello dei film programmati «che, per la sua ispirazione e la sua qualità, possa più contribuire al perfezionamento spirituale ed allo sviluppo dei valori umani»; inoltre, dal 1955, in aggiunta ai premi attribuiti nel corso dei festival, lo stesso O.C.I.C. ha istituito un Gran Premio per il miglior film dell’annata, sia esso stato presentato o meno ad un festival2.

Queste felici iniziative perseguono tre scopi: 1) Riconoscere e lodare pubblicamente quanti abbiano contribuito nei meriti culturali e morali dei film degni di lode; 2) Segnalare quei film che più si avvicinano al «Film Ideale» delineato da Pio XII, ed in tal maniera mostrare all’industria cinematografica ciò che i cattolici si aspettano da essa, così spronandola a sodisfarli; 3) Valorizzare i film premiati, mobilitando in loro favore tutti i mezzi di cui dispongono i Centri nazionali, per facilitarne il buon andamento commerciale.

Ispirando il nostro scritto agli stessi scopi, presentiamo qui i sei film premiati dall’O.C.I.C. nell’annata 1963, che ci è stato possibile vedere.

A Cannes

1 – I fidanzati, di E. Olmi

Giovanni (interprete, non professionista, Carlo Carbini) è uno dei tanti e tanti operai della grande Milano industriale. Con la sua cultura poco più che elementare, e con i suoi interessi limitati al breve arco della sua vita individuale, non emerge in nulla e vive alla giornata. Se un’ispirazione ha, è quella, molto modesta, di passare operaio specializzato. Perciò, quando la ditta dalla quale dipende gliene offre la possibilità, a condizione che si trasferisca per un anno e mezzo in Sicilia, egli acconsente, non esitando a ricoverare suo padre in un ospizio di vecchi e ad allontanarsi dalla fidanzata Liliana (interprete, la commessa Anna Canzi).

Questa, poveretta, cerca di dissuaderlo, perché ha motivo di temere che quel distacco ne prepari un altro definitivo. Come si dice? Lontano dagli occhi lontano dal cuore! Tanto più che il loro fidanzamento, trascinatosi per le lunghe, e bruciate in anticipo tutte le effusioni consentite o meno, ormai s’è ridotto ad una scialba routine, sicché anche le gite in moto, le ore trascorse sul greto del fiume e quelle passate nelle balere di periferia, ormai non fruttano che un greve sopportarsi, preludio ad un prossimo respingersi.

Una corsa in auto, un aereo, un’altra corsa in auto, ed eccolo, dunque, sul nuovo posto di lavoro. Qui non gli mancano le piccole sodisfazioni di operaio specializzato, che si attendeva. A parte lo stipendio, c’è il modo con cui viene alloggiato; il tratto più deferente dei dirigenti e l’occhio ammirativo degli operai locali nel vederlo disimpegnare magistralmente le sue mansioni. Né, almeno i primi giorni, gli mancano occasioni che lo distraggano, nel daffare per trovarsi ed attrezzarsi un alloggio, nel vagare tra le saline locali in un paesaggio desertico e lunare rispetto a quello frastornante della lontana Milano, ma anche nella gioconda confusione di un carnevale paesano, che riesce a schiudere un po’ quel suo animo schivo.

Tuttavia, ben presto, tutto ciò non gli basta più. Nel gran vuoto, nel silenzio interiore, il pensiero gli ritorna alla sua Liliana. La relazione, che la consuetudine aveva consunto ed inaridito, nella lontananza riprende a rivivere, in un calore ed in una luce nuovi, quel che era caduco ed egoistico separandosi e purificandosi in un’esigenza di mutuo completamento e di donazione disinteressata. Allora, timidamente, senza quasi che egli se ne renda conto, ricordi ed aspirazioni, rimorsi e nostalgie trovano la via di affiorare e di esprimersi come in passato non gli era mai capitato. Prima è una cartolina, dove i saluti dicono molto più di quanto la formula convenzionale non sembra permettere; quindi, timide ed impacciate, ma calde e sincere, cinque lettere, da veri fidanzati; infine una telefonata interurbana – la domenica, quando costa meno –, nella quale quel che conta non sono tanto le cose, quanto le voci, note e ritrovate, che le dicono, come di due che, ormai, si comunicano in pienezza amorosa, anticipando la perfetta e definitiva unione di vita che li attende.

Come si vede, il giovane regista non abbandona il mondo umile e schietto, tenero di un lirismo pudico e un po’ romantico, da lui scoperto con Il tempo si è fermato (1959) e, meglio, con Il posto (1961). Un mondo mille miglia lontano da quello, poniamo, capitalista e sofisticato caro all’Antonioni, nonostante comuni analisi e crisi di sentimenti; come pure da quello del Visconti di Rocco e i suoi fratelli, nonostante la condizione di operai sradicati dal proprio ambiente, comune ai protagonisti.

Infatti l’Olmi non avvilisce l’uomo ad argomento di eleganti cerebralismi o ad oggetto di redditizia denuncia, ma gli si avvicina affettuosamente, rispettandone i sentimenti ed i drammi, quali cose grandi e nobili proprio perché, prima di essere sentimenti e drammi di una «società» fittizia, o almeno astratta, sono fatti «umani» concreti, individuali e personali. Dopo di che non si diverte ad abbattere l’uomo sofferente, e non divaga verso colpe e responsabilità di strutture anonime, troppo facile ripiego per schivare la via, più scomoda, di esami di coscienza e di responsabilità ed impegni personali; al contrario, pur non ignorando la realtà sociale, anzi ritraendola nella fastidiosa scomodità delle esperienze quotidiane, mostra che per l’uomo di buona volontà non c’è incomunicabilità ed alienazione che tenga, quando si faccia appello a quelle cose tanto ostiche alla morale laica corrente, che sono il dono di sé e l’industriosa pazienza.

In fondo, l’angoscia esistenziale – ecco i paroloni della critica! – che I fidanzati di Olmi sperimentano nella prima parte del film si alimenta soltanto al loro meschino egoismo, che tanto più li estrania spiritualmente quanto più li spinge a vivere fisicamente vicini; mentre, nella seconda parte, per estinguerla, quell’angoscia, e mutarla in gioiosa esperienza a due, basta che l’egoismo si sgeli, che gli animi si aprano al colloquio, ognuno nella dimenticanza di sé e nella ricerca dell’altro. Così – come rileva la motivazione del Premio O.C.I.C. – «con la massima discrezione... l’autore dà modo allo spettatore avvertito di persuadersi come i sentimenti umani, nonostante la loro instabilità e le difficili condizioni di lavoro della vita odierna, non sono affatto condannati a soccombere, ma che possono, invece, rivivere e rafforzarsi come valori duraturi, oltre ogni distanza di luogo e di tempo»3.

Artisticamente parlando I fidanzati né entusiasma né delude. Meno lineare, ma più approfondito, del Posto, ne ripete alcuni motivi ambientali e psicologici, in una struttura narrativa che risente delle esperienze resnaisiane: realtà presenti e ricordi passati, vicino e lontano si alternano per stacco, costruendo un tempo-spazio soggettivo, psicologicamente motivato ma, almeno a prima visione, di non facile accesso. Non mancano qua e là indulgenze bozzettistiche, indugi e compiacimenti formalistici che rivelano un debole del consumato documentarista; la stessa soluzione della vicenda mediante una corrispondenza epistolare, cinematograficamente convince poco.

In compenso, l’uso della macchina, l’impasto della fotografia, la scelta e la condotta del materiale umano, le annotazioni ambientali e di atmosfera, il calibrato uso del sonoro dei rumori e dei silenzi sodisfanno appieno, qua e là raggiungendo quasi la perfezione (per esempio, sul principio, nella balera milanese). Insomma, pur nei suoi limiti, è un film che si raccomanda per un insieme di buone qualità espressive ed umane non comuni, e che conferma nell’Olmi un regista di buon cinema sotto tutti gli aspetti.

Non gli resta che farsi le ossa in una narrativa più robusta e meno monocorde.

San Sebastian

2 – Days of Wine and Roses, di Blake Edwards
3 – Sono Yowa Wasunerai, di Kimisaburo Yoshimura

Anche Days of Wine and Roses (Giorni del vino e delle rose), sotto l’aspetto artistico non convince pienamente. Certo, della selezione U.S.A. a San Sebastian era il pezzo migliore, rispetto al torbido Toys in the Attic, di G. Roy Hill, ed al falso-edificante Dirne with a Halo, di B. Sagal. Evidentemente punta tutto il successo sull’interpretazione dei due protagonisti: Jack Lemmon e Lee Remick – che, di fatto, si sono aggiudicate le due coppe per le migliori interpretazioni, rispettivamente maschile e femminile –, e su una regia più scaltra che ispirata; nell’insieme però non va molto più in là del mestiere lubrificatissimo delle botteghe hollywoodiane, pur segnando qualche impennata (per esempio sul finale, quando il marito, alcoolizzato vincitore, vede allontanarsi la moglie, alcoolizzata vinta). Ma, manco a dirlo, come spettacolo regge anche troppo, pur convogliando un contenuto sostanzialmente positivo.

Nella sua professione di Public Relations a San Francisco, Joe Klay (Jack Lemmon) deve spesso organizzare serate e cocktails tra i clienti dei suoi committenti, e, tra l’altro, indurli a bere; quindi beve egli stesso fino a contrarne il vizio. In uno degli incontri da lui organizzati fa conoscenza, non senza equivoci, con Kristen Arnesen (Lee Remick), conoscenza che in breve lo porta ad un bel matrimonio. Ma la donna, passata dal biasimo alla sopportazione del vizio del marito, e poi dalla comprensione all’imitazione, finisce anch’essa vittima dell’alcool. Allora, consapevole della rovina economica e morale verso la quale sta avviando la sua esistenza e quella della moglie e della figlioletta Debbie, persuaso anche da un ex alcoolizzato, che pone a servizio fraterno del prossimo la sua esperienza liberante, Joe si sottopone ad una cura, e riesce a guarire. Ovviamente, una volta rientrato in casa, cerca di convincere la moglie ad imitarlo; ma questa, non soltanto non se ne dà per intesa, ma fugge di casa per concedersi più liberamente al vizio. Ritrovatala, dopo una disperata ricerca, abbrutita in un motel, stanchezza amore e paura di perderla di nuovo lo inducono a cedere alle insistenze della donna, e ricomincia a bere. Deve dunque tornare in clinica. Quando ne riesce, ancora una volta, guarito, sempre abbandonato dalla moglie, si dà tutto all’educazione della figlia; ed un giorno che la donna ritorna, provata inutile ogni insistenza nel persuaderla a sottoporsi anch’essa ad una cura, si rassegna a vederla lasciare la casa, si direbbe, definitivamente. Tuttavia confida alla figlia Debbie una sua intima speranza. — Non sono riuscito, io, a guarire? — le dice; — non bisogna, dunque, mai disperare.

La casistica dei poveri alcoolizzati è pietosamente vera; l’analisi e la descrizione dei processi che li travolgono verso il vizio, nonché le alternanze di gioia, nelle vittorie, e di cupe disperazioni, nelle ricadute, come pure le nostalgie di volontà sempre più velleitarie ed i rimorsi sempre più avvilenti, sono descritti con attendibilità psicologica e, per lo più, anche con una certa partecipazione umana. Il guaio è che si scorge netta, nel film, la commistione tra interessi e temi schiettamente umani ed ingredienti usuali alla cucina hollywoodiana, e perciò tra appello ad una partecipazione umanamente disinteressata da parte dello spettatore, e sollecitazioni erotico-spettacolari in funzione di successo di cassetta. E, probabilmente, a questa poca chiarezza d’impostazione tematica si deve addebitare lo squilibrio che vizia il film tra i toni comici e tragici, e il suo indulgere a parossismi narrativo-interpretativi psicologicamente non giustificabili.

Ma, in considerazione della scarsità di valori morali che si lamenta nel grosso del cinema, non andiamo troppo per il sottile e prendiamo per buona la generosa motivazione con la quale la giuria O.C.I.C. ha assegnato mezzo premio a questo film dell’Edwards: «Meravigliosamente realizzato [?] ed interpretato, il film denuncia, con forza bravura ed efficacia, i danni dell’alcoolismo sull’individuo, la famiglia e la società; mostrando la solidarietà degli uomini così nel bene come nel male, mette in luce tanto la forza morale di un alcoolizzato nel debellare il suo vizio, quanto i tentativi disperati messi in opera dallo stesso per liberarne anche la sua donna, e salvare così dalla rovina il focolare domestico»4.

* * *

L’altra metà del premio O.C.I.C. di San Sebastian è andata al giapponese Sono Yowa Wasurenai, reso, nel titolo inglese, come Angoscia di Hiroshima.

Si direbbe l’anti Hiroshima, mon amour, di Resnais. Qui, infatti, niente lambiccature stilistiche, niente amori adulterini, niente vacuo cerebralismo, nessun personaggio sofisticato, e neanche vaghe denunce sociali; ma il racconto sommesso di dolori familiari, sentiti nella propria carne, confidati più che raccontati, vissuti, più che evocati ad argomento di spettacolo, nella pietas di vittime silenziose, ma capaci ancora di amare, di tanto amare.

«Ricercando nelle remote conseguenze del bombardamento di Hiroshima – rileva la motivazione O.C.I.C. – il film, senz’ombra di acredine polemica e con tatto delicato, patrocina la causa della pace, in accordo con l’attesa degli uomini ed in armonia con la Pacem in terris del compianto Giovanni XXIII. E lo fa esaltando l’eroismo morale di una donna che, atrocemente segnata dall’orrendo evento nella carne e nell’anima, rinuncia ad un amore insperato per non esporsi a deludere l’uomo da lei amato».

Eccone il canovaccio narrativo.

Un inviato di un grande giornale di Tokio si reca a Hiroshima per un servizio sugli strascichi lasciati dalla bomba atomica a diciassette anni dall’esplosione. Sotto il sole estivo, corre in lungo ed in largo la città, ma ne rimane deluso. Infatti la sua inchiesta approda a poco. A parte un rudere di cemento armato appositamente conservato, si direbbe che tutte le rimembranze dell’apocalittico cataclisma si riducano alle fotografie esposte nell’apposito museo ed a qualche malformazione – mutilazioni, dita in soprannumero... – di rari superstiti, i quali, del resto, vengono mostrati più come curiosità che come casi di sventura. Per il resto, tutta la città sembra aver dimenticato l’evento. Ricostruita nuova e moderna, la gente vi va per i suoi affari, i giovani specialmente vi si divertono rumorosamente; se qualcuno si ricorda dell’evento terribile, questi è il mutilato venditore di ricordi, che approfitta della curiosità, in verità un po’ delusa, dei turisti, specialmente americani.

L’inviato, dunque, occupa il suo tempo in altre ricerche meno penose. Si mette, infatti, a seguire una ragazza: la deliziosa Akiko, giovane, elegante, riservata, misteriosamente malinconica. I due si parlano, si confidano, si innamorano. In breve, lui le chiede di sposarlo. Per tutta risposta lei gli mostra il petto invaso da un’enorme cicatrice. Sì, lo ama, però non può sposarlo; perché, sembra sana, ma la terribile esplosione l’ha bollata per sempre. «Come questi bei ciottoli — gli dice, sul greto della spiaggia. — Vedi? Sembrano saldi e compatti; ma l’esplosione avvenne in bassa marea, ed il calore e le radiazioni li hanno come calcinati. Prova: basta che tu li stringa un poco, e ti si sbriciolano tra le dita!» Egli, tuttavia, insiste offrendosi a sposarla così com’è, tanto che la ragazza finisce col promettergli che un giorno, forse...

Interrotto il suo inutile servizio, il giornalista torna a Tokio e scrive lunghe lettere all’amata; ma queste, presto, restano senza risposta. Allora egli torna ad Hiroshima, e si spiega quel silenzio: da due mesi Akiko è morta di leucemia. Affranto, ripercorre gli itinerari già percorsi con lei, e sul greto del mare, come allora, raccoglie delle pietre, che sembrano dure e compatte, ma che, come allora, gli si sbriciolano tra le dita...

A parte la commozione prodotta dal motivo e dall’argomento del racconto, il film vibra di un suo pathos, che si alimenta nel contrasto tra il pudore dei sentimenti dei personaggi-vittime, e l’apocalittica tragedia di cui essi sono terrificanti testimoni e documento. Sembrano aver dimenticato, ma delle cose innominabili conservano, si può dire, un marchio fisico; sembrano lieti, ma soffrono; sembrano forti, ma sono fragili. E tutto questo nella vaporosa gentilezza dei costumi giapponesi, nel pastello dei loro paesaggi primaverili e dei loro mobili ombrellini, nel delicato sorriso delle loro donne, quasi irreali – nell’era atomica – nei loro kimono policromi.

Narrativamente e psicologicamente la prima parte, sullo stile del film-inchiesta, regge meglio, mentre l’intreccio della seconda dà un po’ nel convenzionale e nel patetico: lo stesso simbolismo delle pietre calcinate, se giova alla chiarezza tematica, forse scade di suggestione poetica. Ciò non toglie però al film la sua sostanziale dignità espressiva e morale.

Venezia

4 – Hud, di M. Ritt

Dal regista Martin Ritt non bisogna attendersi capolavori. Di solito egli trascrive da testi letterari – drammi, teledrammi, romanzi – di vita americana, che egli conosce assai bene; e lo fa col mestiere inappuntabile dei più collaudati laboratori hollywoodiani; e, attore egli stesso, nonché docente nell’Actor’s Studio, assicura l’ottanta per cento della riuscita commerciale dei suoi film con la scelta e la guida di attori bravissimi, il venti per cento restante affidandolo all’interesse dell’argomento, variato, se occorre, con oculato dosaggio di elementi spettacolari. Questo film, pur essendo, forse, il suo migliore, non esce dalla norma. Intanto dipende da un romanzo: l’Horseman, Pass By, di L. McMurtry. L’eccellente Paul Newman vi interpreta, in modo anche troppo perfetto, il protagonista: il selvaggio, cinico ed egoista Hud; il giovanissimo e bravo Brandon de Wilde vi fa da Lon, candido e sognatore, nipote dello zio Hud e del nonno Homer; Patricia Neal vi interpreta in maniera stupefacente la matura ed ancora piacente donna di casa Alma, mentre il calibratissimo Melwyn Douglas vi caratterizza il vecchio Homer, duro ed onesto capofamiglia. L’ecatombe di una intera mandria di bovini vi fa da clou spettacolare, mentre una classica zuffa, un tentativo di violenza ed una paesana corrida al maiale vengono a concitare la narrazione, che, altrimenti, tutta in chiave psicologica, risulterebbe troppo statica. C’è, inoltre, il dialogo, concettoso all’eccesso, ed i colpi di scena, tutti teatrali, che, se, ad un secondo momento, riflessivo, tradiscono la loro artificiosità, durante la proiezione non mancano di produrre un godevole scoppiettio come di fuoco d’artificio.

La famiglia Bannon – tre uomini ed una donna – vive in una fattoria isolata in una pianura del Texas. Capofamiglia è il vecchio Homer, allevatore di bestiame antico stampo, attaccato alle tradizioni e, soprattutto, nella sua dirittura morale, sdegnoso di ogni benché minima transazione con la coscienza e la legge. Hud è suo figlio, trentenne. Stufo di vacche e di cavalli, non vede l’ora di sfruttare le praterie del padre con più facili e redditizie imprese petrolifere; intanto se la spassa con tutte le donne che trova a portata della sua macchina, che continua a guidare a velocità pazzesche, nonostante la morte del fratello, da lui causata, quindici anni prima, per quella sua mania. Tra i due vive l’orfano diciassettenne Lon. Animo mite, ancora aperto agli incanti ed agli entusiasmi della giovinezza, da una parte lo seduce la vigoria spericolata dello zio Hud, la sua mondanità piena di successi galanti, la sua insofferenza per le tradizioni e per la solitudine della fattoria, i suoi progetti di evasione verso imprese moderne e guadagni facili; dall’altra, con un richiamo più continuo e profondo, meno esaltante ma nobile, lo attrae la onestà monolitica del vecchio nonno. Prima o dopo egli sarà chiamato ad una scelta decisiva per tutta la sua vita di uomo; gli eventi drammatici, dei quali entro pochi giorni sarà testimone e parte, lo spingeranno al grande passo. La inattesa morte di una vaccina, apparentemente sana, inizia il dramma dei tre. Sospettando un’epidemia, Hud, senza scrupoli, propone al padre di salvare il capitale vendendo come sana tutta la mandria, per poi attuare, una buona volta, l’impresa del petrolio. Homer, invece, fedelmente, chiama il veterinario. La diagnosi è catastrofica: afta epizootica. Occorre, dunque, isolare abbattere ed interrare tutta la mandria. Addio, per il vecchio allevatore, ogni fortuna; addio tutta un’esistenza di onorato lavoro! Eppure fa eseguire le disposizioni di legge, lui stesso abbattendo a fucilate gli ultimi due superbi campioni superstiti della mandria. Lon medita, e confronta la condotta dell’uomo integerrimo con quella, tutt’altro che nobile, dello zio Hud. Questi, non contento delle conquiste femminili che si paga nel villaggio, ed alle quali cerca di avviare anche l’inesperto nipote, una notte, semiubriaco, tenta di violentare Alma, che da anni ai tre uomini fa da donna di casa, e tocca proprio a lui, Lon, che per la donna ha sentito nascere una sua prima timida affezione, sottrarla alle brutalità di Hud. Non basta: fisso nella sua idea dei pozzi di petrolio, egli addirittura inizia presso un avvocato la pratica di interdizione del vecchio dalla gestione degli affari di famiglia. Allora scoppia tra i due il più violento alterco, durante il quale le rispettive inconciliabili concezioni della vita si disegnano con la massima nettezza.

Lon ormai conosce, senza ombra di dubbio, da quale parte sia il male e da quale il giusto e l’onesto. Il dramma è maturo per risolversi. Infatti, Alma fugge dalla fattoria. Il vecchio Homer, abbattuto dalla sciagura, viene trovato gravemente ferito in mezzo ad una strada. Soccorso dai due, muore condannando il figlio Hud ed affidandosi al nipote Lon. Questi abbandona la fattoria ai progetti dello zio, e se ne parte verso un mondo di più ampio respiro: più moderno di quello che fu l’ideale del nonno, ma più onesto di quello perseguito dal cinico Hud.

Nell’impianto, tutto teatrale, del racconto interferiscono, come si vede, due temi e due contrasti: quello dell’incomprensione e dell’urto tra due generazioni diverse e quello dell’incomprensione e dell’urto tra due concezioni morali dell’esistenza umana. Perciò il protagonista non è Hud, per quanto sia sempre presente sullo schermo e totalizzi la maggior parte dell’azione; e neanche lo è Homer, personaggio drammaticamente più carico; bensì Lon, chiamato a compiere una scelta tra i due.

Sotto il primo aspetto egli sta piuttosto dalla parte dello zio Hud. Forse ad interpretare l’irrequietezza delle nuove generazioni americane, la vita dei leggendari farmers, sentimentalmente collegata con l’epoca pioneristica del Far West, ma solitaria, e condizionata dai cicli dell’allevamento e delle coltivazioni, poco attira Lon; anzi il giovane sogna i grossi centri abitati, arde di vedere un po’ di mondo e di organizzarsi un’esistenza più ariosa; perciò, pur partecipando all’accoramento del nonno, non appena diventa padrone della sua parte lascia la fattoria e se ne va verso l’ignoto. Sotto l’altro aspetto, invece, per decidersi deve veder chiaro tra quello che l’istinto tutto giovanile sembra fargli desiderare e quello che la retta coscienza finisce per persuadergli come migliore. A questo fine il Ritt accumula le notazioni fin con troppa didascalica insistenza, sicché lo spettatore non può non afferrare l’aspetto morale dell’alternativa. A parte, infatti, l’opposizione palese tra il cinismo delle azioni compiute e proposte da Hud e la eroica rettitudine di quelle compiute e proposte da Homer, anche figurativamente i due sono confrontati senza possibilità di equivoco: al termine della lite risolutiva, sotto gli occhi di Lon, il vecchio è fotografato vestito di bianco, in luce ed al sommo della scala, mentre Hud lo è vestito di scuro, in ombra ed al piede di essa; e lo sono anche nelle concettose sentenze con le quali vengono qualificati: un «Sei più sporco di un maiale», lanciato a Hud da uno spettatore dopo la rusticana corrida, e un «Non trascinatemi nella polvere!» mormorato dal morente Homer quasi come Leitmotif di tutta la sua esistenza.

Come s’è visto, Lon finisce con lo scegliere secondo coscienza ed onestà; perciò Hud può dirsi, secondo la motivazione del premio O.C.I.C., «un’opera che oppone al mito del falso eroe contemporaneo un esponente della nuova generazione, il quale cerca e sceglie la sua strada nella libertà e nell’affermazione della sua coscienza». Motivazione che non possiamo non sottoscrivere5.

Tuttavia occorre anche rilevare due incrinature nella sostanziale onestà del messaggio del film. La prima è nella relazione affettuosa che si profila in Lon verso una donna che, per quanto separata dal marito, è ancora sposata, con una concezione di fondo dell’amore sensibile più all’aspetto psicologico che a quello morale e cristiano; e la seconda è nell’ambigua risposta con la quale, finiti i funerali, lo stesso Lon accoglie le parole di circostanza del pastore sull’entrata in paradiso del virtuoso Homer: «Spero di no: a meno che il fango sia migliore dell’aria pura» (cosi, almeno, salvo errori, nella didascalia italiana).

Due incrinature che possiamo, forse, ritenere compensate da un’altra concettosa sentenza del vecchio Homer: «L’America decade per colpa di quelli che vengono stimati».

Assisi

5 – To Kill a Mockingbird, di R. Mulligan
6 – Nattvardsgasterna, di I. Bergman

Alle Giornate O.C.I.C. di Assisi (24-28 sett. 1963), tra gli undici film candidati al Gran Premio, oltre ai quattro già qui presentati, c’erano lo spagnuolo Noche de verano, di J. Grau (premiato al festival di Mar del Plata), e l’americano Lilies of the Field, di R. Nelson (premiato a quello di Berlino); ce n’erano, inoltre, cinque proposti dai Centri cinematografici: gli italiani Cronaca familiare, di V. Zurlini, e Gli ultimi, di V. Pandolfi; il greco Elettra, di M. Cacoyannis, l’americano To Kill a Mockingbird, di R. Mulligan, e lo svedese Nattvardgasterna, di I. Bergmann. Ed il Gran premio è stato assegnato ex aequo a questi ultimi due6.

Come Hud, ed anche un po’ di più, il film di R. Mulligan non si raccomanda per alti meriti artistici, bensì soltanto per valori di scaltro mestiere. Intanto si appoggia ad un best seller particolarmente fortunato – Premio Pulitzer 1960, due milioni di copie vendute in diciotto mesi, ed un altro milione in pochi giorni in edizione tascabile! –; quindi tratta dell’integrazione razziale dei negri, argomento particolarmente sentito in America e fuori; in più conta su una interpretazione superba di Gregory Peck nel personaggio di un avvocato, tanto onesto quanto modesto, nonché di un vedovo, amorevolissimo padre di due teneri bambini, e, naturalmente, sulle prestazioni degli stessi bambini (che sullo schermo, come i cani, i gatti ed i fiori, sono sempre graditi); finalmente conta sulla suspense fornita da un misterioso personaggio rintanato oltre una misteriosa siepe, il quale, tra l’altro, serve anche per farci scappare il morto in un film che, altrimenti, avrebbe stentato a reggersi soltanto sulle limitate, ed ormai sfruttatissime, risorse di un processo. Per giunta, l’abbondanza del dialogo lo dimostra troppo dipendente dalla pagina scritta, e l’impianto delle sequenze, compresa quella, del resto suasiva, del processo, è più teatrale che cinematografico.

Dall’aurea mediocrità, oltre all’exploit di Gregory Peck, si salvano innegabilmente i buoni sentimenti, nonostante un certo sentore di prudente reticenza che sembra attenuarne la genuinità, perché il mordente di un antirazzismo se trattato in una vicenda odierna, sarebbe stato tutt’altro da quello convenzionale che assumono una vicenda ed un contesto di trent’anni fa.

L’azione, infatti, del romanzo, in parte autobiografico, della Harper Lee, Il buio oltre la siepe, si svolge nel 1932. A Maycomb, cittadina dell’Alabama, il quarantenne vedovo Atticus Finch (Gregory Peck), nei larghi margini di tempo che gli lascia liberi la sua fiacca attività di avvocato, si applica tutto ad allevare ed educare nella bontà e nella giustizia i suoi due rampolli: il tredicenne Jem (Ph. Alford) e la novenne Scout (M. Badham); perciò li educa anche a rispettare un povero di mente (R. Duvall), che vive ritirato e misterioso a poca distanza dalla loro casetta. Un giorno, nel paesetto stagnante sotto l’afa estiva, capita un fattaccio: il fattore Bob Evell (J. Anderson), conosciuto come ubriacone e prepotente, accusa il negro Tom Robinson (B. Peters) di aver tentato violenza alla figlia Mayella (C. Wilcox): una diciannovenne isterica che effettivamente mostra lividi sul viso, ma causatile dallo stesso Bob, che l’ha sorpresa insistenti smancerie verso il negro. Ora l’avvocato Atticus viene incaricato di difendere Tom; e l’incarico, stante la diffusa avversione contro i negri, non è propriamente quel che ci vuole per far simpatizzare con Atticus i bianchi del paese, come si accorgono subito Jem e Scout, costretti ad incassarne di ingrate dai compagni di scuola.

Al processo, Atticus ha un bell’invocare i principi sacrosanti della morale naturale e cristiana circa l’uguaglianza essenziale di tutti gli uomini e circa l’ingiustizia di ogni scriminazione di pelle, ed ha un bel citare, a rincalzo, i principi fondamentali della Costituzione americana; e neanche gli giova far costatare che, la ragazza essendo stata colpita sulla destra, il colpitore non può essere il negro, che ha il braccio destro paralizzato. Atticus perde la causa; e, se lo consola il silenzio riconoscente col quale, all’uscita dal tribunale, lo ossequiano i negri presenti in aula, e, soprattutto, lo sguardo di ammirata comprensione col quale lo ripagano i suoi due figlioli, che l’hanno seguito in tutte le drammatiche fasi del processo, l’addolora la morte di Tom, il quale, in un disperato tentativo di fuga, si è fatto abbattere dalla polizia.

Ora, nella rabbia, Bob Evell se la prende con l’avvocato, moralmente vincitore, e con i suoi bambini; sicché una notte, quando questi sono di ritorno da una festa, coltello alla mano piomba loro addosso. Jem viene duramente colpito e Scout viene malamente gettata a terra. Ma, inopinatamente, l’assalitore finisce ucciso dal misterioso vicino. Atticus e lo sceriffo ne costatano la morte, e s’accordano sulla versione ufficiale dell’accaduto: Bob si è ucciso da se stesso cadendo sul proprio coltello...

La motivazione della giuria, abbondante in buoni sentimenti come il film, recita: «Carico di poesia [?] il film Il buio oltre la siepe ci descrive l’ambiente di una piccola cittadina attraverso gli occhi di una bambina di sei [?] anni. Il personaggio del padre è mirabilmente tratteggiato nei suoi rapporti con i suoi figliuoli. Egli ha la rara qualità di trovare le parole per comunicare loro i valori su cui è fondata la sua propria vita, mettendo a loro portata i problemi degli adulti, in particolare in occasione di un processo razziale. La sua personalità, che si manifesta per un eminente rispetto delle cose [?] e degli esseri umani, si realizza in un amore profondo, che gli fa assumere coraggiosamente le sue responsabilità professionali e sociali, espressione questa di una religione autentica [?]».

Nel leggerla, vien fatto di commuoversi sulla bontà dei suoi estensori, che meriterebbero un Oscar di generosa interpretazione come il Gregory Peck da loro canonizzato; francamente, però, saremmo restati più sodisfatti se avessimo trovato, nel film, i buoni sentimenti sposati a più onorata dignità artistica.

* * *

Ma pare che, al cinema, come nella vita, non tutti hanno tutto. Anche tra i film perbene c’è, dunque, quello çhe fa spettacolo ma non ha ali, e c’è quello che vola tanto alto che dello spettacolo ignora decisamente tutto. È il caso del film d’Ingmar Bergman Nattvardgasterna (letteralmente: Gli ospiti della Cena, vale a dire, liturgicamente: I comunicanti, nel titolo italiano: Luci d’inverno); tutto scavo in profondità di anime, sofferta meditazione priva di azione, sicché non è possibile raccontarlo.

Può dirsi l’angosciata domenica del pastore Tomas Ericsson (G. Bjornstrand), schiacciato dal «silenzio di Dio». Egli officia in una chiesa quasi vuota, e vi distribuisce il Pane della mensa ad una mezza dozzina di comunicanti, dei quali evidentemente nessuno partecipa come dovrebbe all’atto religioso che compie. Terminato il rito, in sagrestia s’incontra con un pescatore (M. von Sydov), che, atterrito del mondo assurdo in cui vive, gli chiede luce e sicurezza; ma Tomas, nelle tenebre e nel dubbio egli stesso, non sa né illuminarlo né rassicurarlo. Non passa un quarto d’ora che il poveretto si uccide, ed il pastore non può fare altro che comporne il cadavere, in un paesaggio nevoso, riempito dal fragore assordante di un torrente in piena.

All’insuccesso del ministro del culto segue quello dell’uomo affettivo. La maestra del villaggio (I. Thulin) insiste nell’offrirgli il suo amore; ma egli lo rifiuta, e perché ancora troppo legato al ricordo amoroso della moglie recentemente perduta, e perché la maestra, atea, non potrebbe dargli che un amore torbido e parziale. Egli, dunque, è solo, rispetto agli uomini e rispetto a Dio, in una natura spoglia e raggelata, in un’abitazione sbiancata e sbarrata come un carcere, con la notte nell’anima e, intanto, obbligato a parlare e ad agire in nome di Dio. Eppure, a sera, in un’altra chiesa di altro villaggio, alla presenza di soli due fedeli, egli si appresta a celebrare un altro culto. Ma nella sua notte interiore pare che qualche luce albeggi. Un sacrestano sformato, tra l’ironico e l’ispirato, gli ha ricordato che anche Gesù provò l’abbandono degli apostoli e la mancanza del Padre... Tomas, allora, si avvicina alla mensa commemorativa del Sacrificio di Cristo, ed iniziando la liturgia, nonostante tutto, intona solenne la lode gioiosa: Santo, Santo è il Signore, Dio onnipotente...

Basta questo accenno per comprendere che il film, nella peculiarità del suo stile, nelle radici filosofico-letterarie alle quali più o meno consapevolmente si nutre, nella realtà psicologico-autobiografica alla quale presumibilmente si ispira, e nei problemi teologico-apologetici sui quali apre amplissimo il discorso, richiederebbe un’analisi-commento alla quale non bastano certo le poche righe che ancora ci restano di questa già lunga relazione. Preferiamo perciò riprendere l’impresa quando uscirà Il silenzio, dello stesso Bergman, a completare il trittico iniziato con Come in uno specchio e continuato con questo Luci d’inverno. E, per il momento, ci limitiamo a rimandare i lettori ai molti critici che ne hanno trattato distesamente, credenti o meno7; i quali hanno provato di quale forza di agitazione culturale e morale sia capace il cinema quando, come avviene nei film del grande ed inquieto svedese, affronta i problemi di fondo dell’esistenza umana, non con animo ed abilità mercantili, e nemmeno con intenti didascalico-predicatòri, ma con anima, e fantasia, e fremiti, e sofferenze di artista.

Con sensibilità tutta pastorale la Giuria O.C.I.C. ha cosi moti vato questo premio, che veramente le fa onore: «Centrato con una concisione ed una ricchezza raramente eguagliate nelle immagini e nelle parole su importanti problemi del problema della fede, Luci d’inverno analizza lo stato d’animo di diversi personaggi, ed in particolare di un pastore, i quali, pur compiendo i gesti esteriori del culto, traversano, ciascuno a suo modo, una crisi della fede. Illustra in maniera pregnante il tormento che è costituito per ogni animo profondo dal “silenzio” di Dio. Lascia sperare che i personaggi comprenderanno il senso della loro prova associandosi alla passione del Cristo, che, morente sulla croce, ha anch’egli provato l’angoscia di questo silenzio; e che ritroveranno Colui che non si può pienamente raggiungere se non in un’umile supplicazione».

1 A questo Istituto internazionale cattolico aderiscono tutti i Centri nazionali cattolici cinematografici, creati in seguito all’enciclica Vigilanti cura, di Pio XI, del 1936, che oggi assommano a circa cinquanta.

2 Una preselezione dei Centri Nazionali di tutte le nazioni, affiliati all’O.C.I.C., limita ad una decina i film candidati a questo Gran Premio. Fra questi vanno inclusi di diritto i film che le giurie dello stesso O.C.I.C. abbiano premiato nei festival dell’annata. Dal 1961 l’assegnazione del Gran Premio avviene stabilmente nella «Cittadella» di don Giovanni Rossi in Assisi.

3 Giuria: L. Maas, presidente (Lussemburgo), A. Ayfre (Francia), G. Ciaccio (Italia), J. Debongnie (Belgio), R. Oreiro Vásquez (Uruguay), P. Sackarnd (Germania). – Consislieri ecclesiastici: E. Flipo S.I. (Francia), G. Raymond (Canada).

4 Giuria: Mons. J. Bernard, presidente (Lussemburgo), J. Martin Biedma (Argentina), R. Claude S.I. (Belgio), A. Lodigiani (Italia), P. Rodrigo (Spagna). – Consiglieri ecclesiastici: Mons. Fr. Yarza (Spagna), F. Lepoutre S.I. (Francia).

5 Giuria: Fr. Weyergans, presidente (Belgio), M. Butcher (Inghilterra), M. Walsh (Stati Uniti), P. Cebollada (Spagna), M. Guidotti (Italia), J. M. Poitevin (Canada), B. Rasmussen (Danimarca). – Consiglieri ecclesiastici: D. Fr. Angelicchio (Italia), Fr. Lepoutre S.I. (Francia).

6 Giuria: Mons. Kochs, presidente (Germania) V. Baghi (Italia), Mons. J. Bernard (Lussemburgo), J.A.V. Burke (Inghilterra), J. Dewavrin (Francia), P. Franzidis (Egitto), L. Lunders O.P. (Belgio), J.M. Poitevin (Canadà), Y. de Hemptinne (Belgio), E. Flipo S.I. (Francia). – Per il lettore che li gradisca, ecco le «raccomandazioni» della stessa Giuria circa i cinque candidati al Gran Premio, raccomandati dai Centri Cattolici Cinematografici Nazionali, che poi sono risultati non premiati:
CRONACA FAMILIARE: «La qualità cinematografica eccezionale e la recitazione eccellente degli attori rendono ancora più efficace il messaggio di questa grande opera. Immediatamente si sente un calore umano e si partecipa agli intimi sentimenti dei personaggi espressi con molta verità, forza e descrizione: l’amore tra i fratelli e nei confronti della loro madre e della loro nonna. Lo scambio sincero e approfondito dei loro pensieri porta i due fratelli a porre il problema della fede in Dio attento agli uomini, il bisogno del quale si fa sentire in particolare per quello che è morente. Ci si può chiedere se sia stato utile insistere sull’anonimato degli ospedali tenuti da religiosi, che lo spettatore è portato a generalizzare» (per altri nostri rilievi cfr Letture, ott. 1962, p. 690 ss.).
ELETTRA: «La considerevole trasposizione cinematografica che ha fatto M. Cacoyannis della tragedia di Euripide è per noi occasione di riconoscere il valore del cinema come mezzo d’espressione. Se non avesse dato altro risultato che quello di avvicinarci a un capolavoro della letteratura greca, questo film avrebbe già diritto al nostro elogio. Inizia il pubblico moderno ai drammi, ai misteri, alla fede, rappresentati dalla tragedia antica nei confronti di un soggetto profondamente umano, analizzando personaggi di grande dignità in una compiuta forma filmica. L’amore filiale, il coraggio, il rispetto della giustizia, la probità della gente umile costituiscono i punti culminanti ai quali la religione antica può giungere. È stato necessario il cristianesimo per apportare soluzioni che placano la coscienza per mezzo del perdono, frutto della redenzione» (Per altri nostri rilievi cfr Letture, luglio 1962, p. 543 ss.).
LILIES OF THE FIELD (I GIGLI DEL CAMPO): «Sotto una forma gradevole, che lo avvicina ai Fioretti, il film riesce a incarnare lo spirito evangelico con una autentica profondità, che non smentisce la naturalezza di certi personaggi. Il film è pervaso dalla fede in Dio, la quale, sostenuta dalla preghiera e dalla grazia, fa intraprendere e realizzare in comune opere quasi impossibili. Al centro del quadro, interpretato con molta intelligenza, è il personaggio di un negro di confessione battista, che presta i suoi servizi a delle religiose povere e diviene il costruttore della loro chiesa. Uomini e donne di nazionalità, razza e confessione differenti, dedicandosi fraternamente e gioiosamente a un lavoro disinteressato, oltrepassano il loro orgoglio, il loro scoraggiamento e la loro indifferenza» (Per un giudizio più ampio cfr Letture, ag.-sett. 1963, p. 613 ss.).
NOCHE DE VERANO (IL PECCATO): «Il virtuosismo di cui è testimonianza questa prima opera di un cineasta alla ricerca di un nuovo stile, non esclude nel risultato espressivo una certa confusione che rende oscuro il messaggio del film. La sua tela di fondo è costituita da una umanità egoista, superficiale, gaudente, che crea di riflesso una ambientazione pesante. Tuttavia questo film mette coraggiosamente in luce, unitamente alla grandezza del matrimonio e al rispetto dei vincoli coniugali, le condizioni di un amore autentico e durevole tra gli sposi, che, oltrepassando di gran lunga la loro unione fisica, esige una comunione costante di pensieri e di sentimenti, in una totale sincerità».
GLI ULTIMI: «Il film è un saggio poetico sulla figura di un fanciullo infelice all’unisono con un paesaggio desolato. Mostra la austera grandezza della vita di campagna e introduce ai problemi angosciosi della famiglia e di un paese immersi nella povertà, dove si vede il fanciullo maturare poco alla volta. L’autenticità e la purezza dei sentimenti provocano una sana e discreta emozione. L’evoluzione sociale ed economica non è sufficientemente illustrata in questo documentario su un periodo del passato; ed è difficile riscontrare in questa successione di belle immagini elementi di soluzione; ciò che avvicinerà senza dubbio un pubblico più sensibile ai nostri problemi moderni che alla ricerca poetica».

7 Segnaliamo specialmente: tra i cattolici: L. BINI (in Letture, maggio 1963, p. 373 ss.), R. BUZZONETTI (in Studi Cattolici, 1963, n. 63, p. 80 ss., e, più ampiamente, in Rivista del Cinematografo, 1963, n. 5, p. 203 ss.), FR. DORIGO (in Cine Forum, 1963, n. 24, p. 355 ss.; ma la stessa rivista, nei nn. 22-23, riporta l’intera sceneggiatura del film), M. VERDONE (in Bianco e Nero, 1963, n. 5, p. 51 ss.). Tra i non cattolici: M. ARGENTIERI (in Rinascita, 4 maggio 1963), G. C. CASTELLO (in Il Punto, 20 aprile 1963), A. MORAVIA (su L’Espresso, 28 aprile 1963), e, finalmente, R. RENZI (in Cinema Nuovo, 1963, n. 163, p. 166 ss.), con molte pretenziose sciocchezze, ad una parte delle quali risponde J. BURVENICH (in Cine Forum, 1963, n. 27, p. 701 ss.), concludendo con questo rilievo, che facciamo nostro: «É tempo che l’uomo moderno, degno di questo nome la finisca di attaccare quello che conosce male, di portare nelle sue dispute ciò che non riesce a comprendere» (p. 703).

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151