NOTE
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1 Cfr I documenti segreti del XX Congresso del P.C.U.S, Roma, Ediz. C.I.D., s. a.

2 I numeri tra parentesi nell’articolo rimandano appunto alla rivista Cinema Nuovo: il primo al fascicolo, gli altri alle pagine.

3 Il segreto di Pulcinella, in Filmcritica, 1956, n. 59, pp. 142-144.

4 Con buona pace di U. Barbaro, secondo il quale: «La critica di sinistra non è stata mai unanime, né sui film sovietici né su quelli di altri paesi: tutti hanno liberamente detto e scritto ciò che credevano giusto. Collezioni di giornali e di riviste stanno li a dimostrarlo», (Filmcritica, cit., p. 143). Infatti...

5 Per lo stato di terrore endemico imperversante oltre cortina sotto Stalin cfr Il Rapporto ChrušÄev, passim (I documenti..., cit., p. 25 ss.); inoltre l’Autocritica di Togliatti (ivi, p. 132 ss.) e l’Autocritica di Nenni (ivi, p. 171 ss.).

6 «Il grido di ChrušÄev ha illuminato le zone d’ombra della nostra mente, ha rotto in molti di noi il sonno dommatico» (C.S. nel Contemporaneo, 30 giugno).

7 Seguendo la lepida terminologia di C. Salinari, il quale sul Contemporaneo, cit., si produce in questo brano di alta cultura: «Personalmente sono profondamente convinto che il XX Congresso abbia rappresentato un salto qualitativo nella storia del movimento operaio e nelle nostre coscienze... Il semplice buon senso ci deve pure far riflettere che il salto del XX Congresso ha potuto essere effettuato perché le forze democratiche e, in primo luogo, i comunisti, avevano creato nelle singole nazioni e nel mondo intero determinate condizioni. Perché in Italia, ad esempio, avevano contribuito potentemente a salvare le libertà fondamentali, compresa quella dell’espressione artistica...» (29 dicembre).

8 Però con scarsa originalità, perché l’imbeccata gliel’aveva data Alicata, dal Contemporaneo del 31 marzo: «Dire la verità è rivoluzionario... Anzi, l’unico modo di essere veramente rivoluzionari».

9 Cfr I documenti..., cit., p. 59.

10 «Non possiamo lasciare che questo argomento esca dall’ambito del partito, e in particolare che vada in pasto ai giornali. È per questa ragione che stiamo esaminando il problema in questa sede, in una sessione segreta del Congresso. Non dovremmo passare i limiti; non dovremmo fornire munizioni al nemico; non dovremmo lavare i panni sporchi sotto i suoi occhi» (I documenti..., cit., p. 76).

11 ChrušÄev: «Noi eravamo tutti sottoposti a situazioni in cui non potevamo esprimere la nostra volontà personale» (p. 37). Togliatti: «Il rapporto racconta dei fatti... ma questi fatti noi non li conoscevamo...» (p. 159); il quale, però aveva affermato: «Si è costretti ad ammettere che gli errori che Stalin commetteva, o erano ignorati dalla grande massa dei quadri dirigenti del paese e quindi dal popolo, e questo non pare verosimile, oppure non erano considerati errori da questa massa di quadri e quindi dall’opinione pubblica, da essi orientata e diretta» (I documenti..., cit., p. 128).

12 Certamente per amore di siffatta «verità rivoluzionaria» i cineasti russi girarono «documentari che avevano macherato ed abbellito la reale situazione del settore agricolo. Molti film, difatti, descrivevano la vita dei colcos in maniera tale che vi si vedeva il desco dei contadini piegarsi sotto il peso dei tacchini e delle oche. E evidentemente Stalin pensava che le cose stessero realmente così» (I documenti..., cit.. p. 66). Per parte nostra ricordiamo un esempio casalingo di verità marxista. Il padre Lombardi, in un articolo pubblicato sul Nuovo Giornale d’Italia del 9 marzo 1947, dal titolo: I cattolici e il marxiismo, aveva messo questa frase a prova indiscutibile dell’oggettività dell’esposizione: «Le basi teoriche del marxismo da noi riassunte si trovano fissate nel modo più limpido e brutale negli scritti del Duce dei comunisti, Stalin». Ecco come lo citò l’Unità: «Le basi teoriche da noi riassunte si trovano nel modo più limpido e brutale negli scritti del Duce, cosi i lettori del foglio comunista dovevano giudicare qual valore attribuire all’esposizione del marxismo dedotta dalle pagine di Mussolini. E il giornale ardì di dedicare tre righe di stampa, ad avvertire che «per assoluta mancanza di spazio» aveva dato «una citazione, tronca ma autentica, dell’ultimo articolo di padre Lombardi S.I.».

13 Il mestiere di regista. Roma, Bocca, 1954, Prefazione. Ma il tono lo dettero nomi ben più illustri, quali il regista Pudovkin e lo stesso Stalin. Pudovkin: «Nell’arte sovietica il concetto di realismo ha avuto un ulteriore sviluppo e si è venuto creando il nuovo concetto di realismo socialista, un concetto nuovo e profondo, cui corrisponde un’arte che si prefigge consapevolmente questo compito: conoscere la vita per saperla raffigurare in modo veritiero nelle opere artistiche, raffigurare non in modo scolastico, morto, semplicemente come “realtà oggettiva”, ma raffigurare la realtà nel suo sviluppo rivoluzionario» (Il mestiere del regista, cit., p. 195). Stalin: «Il cinema è un grande strumento di agitazione di massa. Si tratta di prendere la cosa nelle nostre mani... il cinema è, nelle mani del potere sovietico, una forza immensa ed inestimabile. Essendo dotato di mezzi eccezionali d’azione ideologica nelle masse, il cinema aiuta la classe operaia e il suo partito a educare i lavoratori nello spirito socialista, a organizzare le masse in vista delle lotte per il socialismo, a elevare la loro cultura e la loro potenza combattiva politica» (riportato da Cinema nuovo, cit., 1952, n. 7, p. 166).

14 Cfr D. MECCOLI, Luigi Zampa, 1956, p. 21; L. CHIARINI – U. BARBARO, Problemi del film, 1939, p. 88.

15 Cinema sovietico del dopoguerra, in Bianco e Nero, 1949, n. 7, p. 27 ss. A conferma della libertà che gli artisti del cinema godono in U.R.S.S., cfr in Cinema nuovo (87, 42-43) le esperienze della soggettista R. Budanzeva; per come è stato trattato in Russia Vs. Meyerhold, cfr G. ANNENKOV, Vestendo le dive, Roma 1955, p. 39. Fa effetto oggi leggere, ciononostante, le lodi dei registi russi ante rapporto ChrušÄev verso «il grande capo dei lavoratori, Stalin, amico e compagno di Lenin»> (J. Raisman), e il capo e maestro dell’umanità lavoratrice (M. Ciaureli): Il mestiere di regista, cit., pp. 256 e 117. Per M. Ciaureli, come anche per Dovcenko, cfr Cinema nuovo, 1952, n. 7, p. 166; ed anche L. MARCORELLES, En passant par Karlovy-Vary, in Cahiers du cinéma, 1956, p. 63.

16 I documenti..., cit., p. 48, film che, invece, per S. Gherassimov era «veramente innovatore» (Il mestiere..., cit. p. 57).

17 C. MAURIAC, L’amor du cinéma, Parigi 1954, p. 315.

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Articolo estratto dal volume III del 1957 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Nella notte dal 24 al 25 febbraio dello scorso 1956 il primo segretario del Comitato Centrale del P.C.U.S. dell’U.R.S.S., S. Nikita ChrušÄev, leggeva in seduta segreta il suo rapporto «sul culto della personalità e le sue conseguenze». Quattro mesi dopo, attraverso sempre meno frammentarie pubblicazioni del New York Times, del Borba e delle agenzie Reuter e Continentale, tutto il mondo veniva a sapere che il signor Josif Vissarionovic Giugasvili, detto Stalin, vissuto e morto (per i marxisti) in odore di santità, di fatto era stato un megalomane, mostro e traditore, stratega inetto e vile, torturatore ed assassino1.

Negli ambienti non marxisti le rivelazioni non commossero molto, contenendo giudizi da essi già da tempo maturati; ma in quelli marxisti, com’era prevedibile, hanno causato una specie di «cataclisma» (Nenni), sia tra i dirigenti, messi all’aut aut di confessare o che non sapevano (e quindi essere accusati d’ignoranza), o che sapevano (ed essere accusati di connivenza), sia tra i gregari, che vedevano d’un colpo atterrato il nume in cui avevano cecamente creduto e servito. Nell’idea di ChrušÄev si dovevano disgiungere le responsabilità dell’ex capo da quelle dei suoi collaboratori, nonché gli «errori» di quello e di questi dall’ideologia in nome della quale erano stati commessi; di fatto, però, la ciambella non gli riuscì col buco: i moti e i morti di Polonia nel giugno (liberazione di Gomulka, sollevazione di Poznam, cacciata del console Rokossowski), le tragiche settimane di luglio e di ottobre in Ungheria, i moti di Tiflis, le agitazioni della Germania Est e della Bulgaria, represse dal fuoco dei cannoni e soffocati sul nascere dalle minacciose parate di migliaia di carri armati sovietici, le crisi interne subite in Italia e in Francia dai due maggiori partiti comunisti hanno dimostrato che, Stalin o non Stalin, per gli oppressi, se voleva essere nuovo, il «nuovo corso» doveva dire liberazione dal marxismo e dai suoi capi.

Ma non è di queste ripercussioni politiche che vogliamo parlare, bensì di quelle avvertite dalla critica cinematografica in Italia, anzi, tra queste, solo di alcune poche da noi rilevate seguendo Cinema nuovo, la rivista cinematografica nostrana più marxisticamente impegnata. Prendendo occasione dalla sconfessione fulminata dalla Literaturnaja Cazeta ai film La caduta di Berlino e Il giuramento, ambedue del regista russo M. Ciaureli, il signor R.R., nel giugno, partiva con un torrentizio Sciolti dal giuramento (84, 340-342)2, così torrentizio che, il mese dopo, U. Barbaro, da Filmcritica, col cipiglio caporalesco che egli suole assumere nei suoi scritti3, E. C. in una lettera al direttore e F.C. con un Quando il «disgelo» provoca inondazioni (86, 1 e 6), partivano alla loro volta a difendere gli argini dell’ideologia in pericolo, seguiti da V.C., che da Ancona, nel settembre, spediva un’altra lettera al direttore (89, 97) e dallo stesso R.R., obbligato a ridurre le interpretazioni troppo ardite date al suo «scioglimento» da comunisti francesi e nostrani (90, 133); tentativo inefficace, perché altre lettere al direttore arrivavano, una di V.R., da Milano (92, 103) e l’altra di N.R., da Reggio Calabria (95, 289), le quali, tutto sommato, venivano ad ingagliardire la forza d’urto dell’articolo di R.R., la prima citando esempi di sistematica e non motivata esaltazione dei film russi e di altrettanto sistematica e non motivata condanna dei film americani da parte della critica marxista, la seconda rilevando che i critici marxisti, così agendo, avevano fatto politica e non critica estetica4. A questo punto vennero a far straripare il torrente le Confessioni di un critico comunista, vale a dire di P.G., critico dell’Unità; di Torino (95, 306), alle quali il solito R.R. questa volta portò un suo valido rincalzo rilevando la scandalosa mancanza di film di denuncia in Ungheria, nonostante il po’ po’ di rivoluzione che, da anni, studenti, donne e operai vi covavano (96, 340). Naturalmente, da più parti si accorse a vedere l’alluvione in atto: i critici non marxisti, desiderosi di allargare la falla (e, tra questi, anche noi pubblicando sulla Rivista del Cinematografo un’Autocritica comunista: anno 1957, n. 1); quelli marxisti per tamponarla o ridurla: tra gli altri, l’allarmato C.S. dalle colonne del Contemporaneo (1956, n. 51) con uno sdegnoso Manichei di ritorno, nonché C.C. sullo stesso Cinema nuovo (Il rapporto G.), gomito a gomito con P.G., persuasosi a fornire Le ragioni di una confessione (100, 82 e 84).

Senza attendere ulteriori scosse telluriche vorremmo esaminare il già vistoso sismogramma rilevato e tirarne alcune illazioni sulla natura della critica d’arte marxista, in particolare, cinematografica; e siccome già una volta P.G. ci ha tacciato di «massima avidità» nello «sfruttare la sua confessione ai nostri fini», di essere, dunque, come cattolici «in mala fede evidente» (100, 84) – a differenza di C.C. che, essendo marxista, sarebbe solo «leggermente in malafede», e di lui stesso, che, per otto anni critico dell’Unità, ha sbagliato «nella massima buona fede» (ivi) e «nella più completa buona fede» (84, 340) – ci limiteremo a riportare tali e quali le confessioni dei marxisti intervenuti nella lizza, interloquendo solo per porre alcune domande, retoriche s’intende, perché già conosciamo le indubbie risposte che ad esse daranno tanto i nostri lettori, non marxisti, quanto i marxisti, se faranno del «semplice buon senso», raccomandato da C.S. sul Contemporaneo citato.

* * *

Cominciamo dai fatti

Non avendo ancora, né la teoria né l’esperienza, dimostrato che il genio artistico sia necessariamente condizionato dal regime politico dei popoli, osiamo opinare che l’espressione del bello artistico non segua necessariamente l’andamento dei confini geografici e ideologici che possono dividere in blocchi contrapposti il genere umano, di maniera che tutto quello che si operi da una parte sia necessariamente bello e capolavoro, e tutto quello chi si produca dall’altra parte sia necessariamente sgorbio e falso; in altre parole crediamo che per giudicare bella o brutta un’opera data per artistica, non sia obbligatorio indagare di quale partito sia tesserato l’artista, né sotto quale Gran Can di turno egli abbia lavorato, né se di esso Gran Can l’artista sia stato cliente devoto o vittima. Ma, stando alle loro confessioni, pare che non precisamente cosi abbiano opinato i critici cinematografici marxisti nel decennio trascorso.

Abbiamo sostenuto e lodato con aggettivi esageratamente adulatori... opere gonfie di retorica... opere che lasciavano invece profondamente perplessi i nostri compagni, militanti di base, ai quali ci sforzavamo di spiegare, senza molta dialettica ma con molto zelo, che ci trovavamo di fronte a non so quale età dell’oro del cinema sovietico... Se la caduta di Berlino fosse stata proiettata in Italia, avrei scritto con la massima convinzione tre o quattro o cinque, o forse più colonne di piombo sulla terza pagina dell’Unità, indicandola come opera d’arte superiore, un capolavoro, un monumentale affresco, tipico esempio di una nuova cinematografia in marcia verso i più gloriosi destini. Non facile oggi rileggere certe frasi che si vorrebbe non aver scritto (95, 306).
Ricordo molto bene certe recensioni a insignificanti film sovietici... così come ricordo altrettanto bene certe avventate interpretazioni di film americani... L’U.R.S.S. era vista mitologicamente, o inferno o paradiso. Non era una nazione che aveva intrapreso un esperimento sociale che era utile studiare e che portava in sé bene e male, ma era la meta finale, era la città di Dio realizzata su questa terra. Una città di Dio deve essere naturalmente perfetta e quindi anche il più insignificante e apparentemente inutile accadimento doveva avere una giustificazione. Dove non arrivava la ragione soccorreva la fede. Vedemmo così stimati e intelligenti uomini di cultura compiere veri salti mortali per salvare certi film che lasciavano allibito lo spettatore non prevenuto (92, 193).
Di fronte a film come Il giuramento, non ci si contentava di giustificarli. Si andava più in là: si diceva che essi erano forme nuove di arte, forme mai viste, superiori a tutte le precedenti... E più, agli occhi del buon senso, molti tratti erano soltanto errori, insufficienze espressive, mancanza di sincerità degli autori, più quegli errori venivano trasformati in meriti «di tipo nuovo». Se un film, non riuscendo a risolversi, continuava a finire per due o tre volte di seguito, ecco, quello era un fatto rivoluzionario. Se un trasparente ballava sul fondo (un banale difetto tecnico), si trattava di una finezza per creare una certa atmosfera. Se una favola... si concludeva in un paesaggio di Fiera di Milano, con preoccupanti discorsi cantati, chi avrebbe mai potuto concepire un finale più bello? La difesa a spada tratta di ciò che non era sostenibile creava la convinzione di voler aiutare la nascita... di un mondo nel quale la gradazione del giudizio andava soltanto dal bello al bellissimo; dove era impossibile la stroncatura e apprezzatissima la lode incondizionata e la più ferrea ortodossia (84, 340).
... monumenti di cartapesta ... zibaldone di stile, sempre grossolano e oratorio... sequenze che parevano riportate di peso da un film all’altro, l’idolatria del capo vi si esercitava secondo una concezione mistico-magica, in base alla quale le trasformazioni sociali russe avvenivano in un clima miracolistico (dalla palude alle mele, da un trattore a mille trattori, d’un colpo) determinate dal cenno della divinità celebrata. Lo stile magniloquente di Ciaureli rivela ancor più la montatura cartellonistica. Erano quelli i tempi del piano Bolscianov per la cinematografia. Nello stabilire i terni che i registi sovietici avrebbero dovuto trattare, Bolscianov partiva, ogni volta, da una frase di Stalin: Stalin ha detto, Stalin ha scritto: noi dobbiamo fare, noi dobbiamo dire. Ne usciva il quadro di una specie di arte da caporali che non poteva non offendere chi ha sempre creduto alla libertà dell’arte (84, 340).

Dato che ci è stato assicurato che «tutto questo, naturalmente, avveniva nella più completa buona fede» (84, 340), dato e non concesso che, a giustificare l’operato decennale di critici di professione, la buona fede possa supplire la competenza, siccome, da buoni cristiani, sappiamo che solo a Dio benedetto spetta giudicare l’intimo degli uomini, saremmo dispostissimi a restare ai fatti e a non risalire agli stati d’animo e alle intenzioni che possono averli accompagnati; sennonché, quando gli stessi critici ce li rivelano, questi loro stati d’animo, confessando che una cosa sentivano e un’altra ne scrivevano, e ci rivelano i motivi di questo loro modo di agire – la difesa ad ogni costo dell’U.R.S.S. e la lotta al governo democristiano – allora, se buona fede significa lealtà con se stessi prima che con gli altri e se critica d’arte significa critica d’arte e non lotta politica, confessiamo che ammettere la buona fede nel loro caso ci riesce difficile alquanto. Ma ascoltiamoli:

La condanna di questi film da parte della Pravda, del giornale cioè che eravamo abituati a considerare come una guida sicura, se non infallibile, ha creato in me, e penso in molti miei colleghi, gravi problemi di coscienza (95, 306).
... Non poteva certo quella condanna... far sorgere in noi dubbi e perplessità. Erano dubbi e perplessità che da tempo andavano agitandosi in noi; dubbi e perplessità che forse non ci hanno mai abbandonato negli anni passati, ma che, quasi fastidiosi diavoletti impertinenti, cercavamo di ignorare e di far tacere nell’interesse della politica generale del nostro partito. La condanna della Pravda venne a dimostrare che questi diavoletti non erano cattivi e impertinenti e che era interesse del nostro partito lasciarli muovere e manifestarsi liberamente (100, 84).
Il silenzio da parte di tutti noi, che ci siamo sentiti toccati da gravi dubbi e incertezze, è stato indubbiamente doveroso. Il minimo che si può chiedere a chi ha commesso, nella massima buona fede, errori, è di riflettere profondamente e riesaminare le proprie responsabilità: di fare quell’autocritica, di cui molto si parla ma che raramente è compiuta con sincerità... Pensavamo allora che lo stalinismo conteneva molte cose che nel profondo dell’animo ci ripugnavano, ma che si presentava come l’unica via per giungere a quell’ideale di giustizia sociale che rappresentava per noi il socialismo e senza il quale qualsiasi democratica libertà ci appare insufficiente e monca. Visto che il governo osteggiava il cinema sovietico, pensavamo nostro dovere aiutarlo; e siccome il pubblico aveva una certa diffidenza nei suoi confronti, eravamo convinti di dover trasformare le nostre critiche in soffietti pubblicitari, tanto più inutili quanto più chiaramente reclamistici... (95, 306).
La ragione vera, più seria, di quel modo di ragionare, stava in un vizio di ragionamento, che pareva rispettare i modi della logica. Poiché la società socialista – si pensava – è superiore alla società borghese, ovviamente i suoi prodotti, anche artistici, debbono essere sempre superiori a quelli di un mondo borghese. Il sillogismo, aprioristico, quindi dogmatico, aveva un solo difetto: che non chiedeva nessuna autentica verifica alla pratica, accontentandosi di deformare la pratica per confermare la tesi... C’era un’altra ragione...: la necessità propagandistica... Quest’ultima considerazione aveva una sua indiscutibile validità (84, 340).
L’azione svolta dagli intellettuali di sinistra è stata, forse senza volerlo, quasi sempre di natura politica, anche se dettata da contingenti preoccupazioni... Messi da parte gli strumenti del proprio mestiere, meno malleabili che non quelli del politico, il critico cercò di imitare tecniche e metodi che non erano suoi, creando ibridi connubi, che oltre a confondere le idee, venivano ad arrestare lo sviluppo della critica cinematografica. Il critico marxista lodando incondizionatamente i film che venivano da Mosca non obbediva che alla sua fede politica... Ma le giustificazioni cercate su un piano politico o sociale non valgono a diminuire le nostre responsabilità per aver mescolato a un discorso politico frasi e giudizi che volevano essere di critica estetica, artistica (95, 289 e 206).

Non è molto onorifico per la cultura nostrana sorprendere uomini non privi di intelligenza e non scarsi di studi ridotti a questi estremi; e la vergogna non si allevia quando, forzati dalle loro stesse confessioni, per non far torto alla loro intelligenza, dobbiamo ricusare la loro buona fede e scusarli piuttosto con la paura. Eppure! Leggevamo, sempre su Cinema nuovo (83, 306), l’amara confessione del regista russo M. Donskoj sulla paura degli artisti suoi colleghi: «Alcuni artisti hanno semplicemente paura di vedere il mondo a modo loro»5, e sulla paura dei critici: «È assai sintomatico che nessuno dei sessantacinque film sia stato decisamente scartato o abbia incontrato una chiara e netta disapprovazione da parte della critica e dell’opinione pubblica, anche quando si trattava di opere ovviamente mediocri, grigie, deboli». Orbene, che queste cose avvengano in Russia, dove il regime comunista imperversa, ci addolora ma non ci sorprende; ma che in paesi di libertà tanto possa su libere intelligenze la pressione marxista, francamente non sembrerebbe credibile, se non venissero a provarlo altre confessioni degli stessi marxisti, invocanti, «tra i critici una maggiore libertà di espressione» (86, 6).

Bisogna dire che in tempi passati non fu molto facile sostenere la necessità di un atteggiamento realmente critico nei riguardi del cinema sovietico, senza essere immediatamente sospettati di aver ricevuto fondi segreti dal capitalismo americano per compiere opera di disgregazione. Ma è un fatto che se legami simili vengono interpretati troppo rigidamente, si toglie ogni respiro a qualsiasi lavoro di ricerca culturale... Né il sospetto di licenziamenti all’interlocutore può impedire di considerarne e discuterne le ragioni, senza cadere in un clima irrazionale di congiure da sventare, anche nei casi più semplici (ma non era questo clima tipicamente slavo, orientale, importato in maniera ingiustificata?) (84, 341).
Noi crediamo che un tale problema si potrà avviare a soluzione con maggiore libertà e verità quando sarà stato sottoposto ad una radicale verifica un totalitario sistema a piramide, il quale ha l’inevitabile tendenza a produrre giudizi che sono fatti a sua immagine e somiglianza. Allora, da un lato la critica potrà conquistare una maggiore libertà nel distinguere, trovando nuovi strumenti; dall’altro, gli artisti non saranno afferrati dall’ingranaggio di una inesorabile ortodossia (84, 342).
Ben venga il disgelo, la democratizzazione, la critica e l’autocritica, e per gli artisti – e perché no? – una maggiore libertà d’espressione. Anche nel cinema, naturalmente! (86, 6).
... abbiamo avuto una direzione autoritaria della cultura, considerata come strumento di politica, senza l’indispensabile autonomia di sviluppo e di discussione. C’è stata carenza di elaborazione creativa, critica ed estetica... Ogni iniziativa era impostata burocraticamente; è venuta meno la democrazia culturale... Non si è mai discusso di problemi culturali nelle commissioni culturali, in quanto tali commissioni erano strumenti, per l’applicazione di una linea e non di discussione. La linea culturale veniva praticamente elaborata da un gruppo di attivisti e di dirigenti non sempre a contatto con la base... scarsamente legati alla vita culturale della nazione. Ogni iniziativa... veniva imposta burocraticamente (100, 85).
... soprattutto sul piano culturale l’aspetto più negativo, quello di cui sentiamo oggi in modo particolarmente grave e sensibile la conseguenza, è l’imposizione d’un domma e la rinuncia a un’attività critica veramente libera e cosciente. Quello che non possiamo perdonare a Stalin... è di aver fatto dimenticare a tanti cervelli pensanti e ragionanti che bisogna pensare e ragionare; di averli convinti... della necessità di rinunciare, nell’interesse della classe operaia e della civiltà stessa, a certe nostre idee individuali, a soffocare certe nostre sensibilità per accettare le idee e i gusti di una direzione burocratizzata. Sotto questo punto di vista lo stalinismo fu una vera e propria droga; e chi ancora non vuole riconoscerlo è ancora vittima di questa droga. Ricordando agli anni passati ci viene da piangere pensando a quanti cervelli hanno smesso di esprimersi liberamente e fecondamente, quante energie vitali sono state costrette, umiliate nell’accettazione di dommi in definitiva sterili come tutti i dommi... Lo stalinismo ha dimenticato che ognuno di noi era un uomo, una coscienza, un cervello capace di ragionare; ha rifiutato di accettare il nostro contributo, genuino e spontaneo, perché aveva paura delle masse e della loro spontaneità... Non veniamo a dire oggi: io comunista ho sempre avuto la mia coscienza critica: perché non è vero. E bisogna dire che non è vero... Tutto questo ha portato l’intellettuale a ritrovarsi in quella posizione di cortigiano che avremmo creduto impensabile alla metà del secolo ventesimo! (100, 86).

Ma poi fu il rapporto ChrušÄev e col rapporto ChrušÄev fu anche la luce6, la quale fugò le tenebre e rafforzò i cuori. Allora, nel «nuovo corso», fiorirono le autocritiche, i mea culpa e i buoni propositi, quali: «Non possiamo fare a meno di dichiararci decisi ad evitare il ricadere in errori simili nel futuro, e chiedere a chi ci ha spesso con ragione criticato di voler credere ora alla nostra sincerità» (95, 306).

Nessuno più di noi cattolici, incalliti rilevatori degli «errori» dei marxisti, vorrebbe far fidanza a chi manifesta siffatti propositi, estremamente onorifici per chi li formula. Tuttavia, mentre sinceramente ci auguriamo che essi siano efficaci, dobbiamo confessare che, a leggerli, a nostra volta sentiamo «sorgere in noi dubbi e perplessità... quasi fastidiosi diavoletti impertinenti», i quali, non avendo da difendere noi alcun interesse di politica generale di partito, non cerchiamo affatto di ignorare e far tacere. Perciò ci domandiamo: Un critico, il quale pagato perché con la sua critica illuminasse il pubblico, per malafede o per ignoranza poco importa, durante otto anni ha preso cantonate tanto massicce, può seriamente esigere credito dai suoi lettori ingannati, col semplice proclamare: «Ho sbagliato: ora non lo faccio più»? Dato poi che egli parla in plurale, può davvero lusingarsi che sulla sua sola parola crediamo impegnati negli stessi buoni propositi tutti i critici marxisti suoi colleghi, già suoi inveterati compagni negli «errori»? Ma come spiegano P.G. e R.R., i quali almeno hanno avuto il coraggio di riconoscersi pubblicamente in errore, il silenzio quasi assoluto dei loro compagni e, anzi, i tentativi di essere messi a tacere come «manichei di ritorno», da parte, si noti bene, di certa intellighensia di una «rivista di cultura» fondata proprio per stabilire il dialogo tra non comunisti e comunisti in fase di disgelo? Inoltre: le «confessioni» sono venute dopo il rapporto ChrušÄev e dopo la sconfessione della Pravda: ma se ChrušÄev non avesse ancora incriminato Stalin e se fa Pravda non avesse ancora condannato i film che lo celebravano, che cosa scriverebbero oggi i critici marxisti? E supponendo che un altro «salto qualitativo» sul tipo di quello che si è verificato al XX Congresso del P.C.U.S.7 – e chi mai può prevedere che cosa può succedere in U.R.S.S.? – venga ad impartire un «Contrordine, compagni!», annunciando che, no, il delinquente traditore non era Stalin, ma è ChrušÄev, ora suo accusatore, come se la caverebbero gli ora pentiti e confessi critici marxisti? Lascerebbero ancora «muovere e manifestarsi liberamente i loro diavoletti niente affatto cattivi ed impertinenti», infischiandosene della Pravda, non più «guida sicura», o avrebbero un ritorno di fiamma di ortodossia marxista? Ed eventualmente, così comportandosi, pretenderebbero tuttavia passare per uomini di cultura o per «parafunzionari» (100, 85) comandati dalla Russia? E se, di fatto, volessero proprio passare per paladini della cultura, forse che non si proclamerebbero (in buona fede, s’intende!) «nella più perfetta buona fede»?

Ma i nostri dubbi e perplessità ingigantiscono quando, intercalati ai buoni propositi, sorprendiamo incauti tentativi da parte dei pentiti erranti di scindere le loro responsabilità da quelle del marxismo, che ha informato la loro condotta decennale, sicché i loro «errori», come quelli di Stalin, non sarebbero «del sistema», ma «errori di applicazione di un metodo... il metodo marxista» (100, 86). Infatti: sono scesi a compromessi, sì, ma quei compromessi erano «indegni del linguaggio di un vero comunista!» (95, 306); hanno accettato e seguito umilianti dommatismi, sì, ma quei «rigidi schemi ben poco avevano col marxismo, cui si richiamavano» (ivi); hanno detto per anni ed anni il falso, ma se ne riscattano asseverando che «dire la verità è rivoluzionario, è il primo dovere di un comunista, perché dalla verità nulla ha da temere il marxismo!» (ivi); ragion per cui una sola cosa resta da fare: «il ritorno all’indagine veramente marxista della realtà»8.

Però!... Stalin, già «amato maestro, educatore e capo, infaticabile edificatore del comunismo» (L. Longo), «genio dell’umanità e guida lungo la via leninista» (Soslov), «capo fedele al marxismo-leninismo» (Kaganovic), «guida sicura e gloriosa» (E. Berlinguer), «gigante della costruzione del socialismo» (P. Secchia), «forza invincibile del marxismo-leninismo» (P. Togliatti), per una trentina di anni fa arrestare, torturare e fucilare, tra gli altri, 99 sui 139 innocenti membri del Comitato Centrale del Partito, nonché ben 1.108 altri innocenti tra i 1966 delegati del XVII Congresso, e Beria, per conto suo «elimina decine di migliaia di lavoratori»9, e nessuno in Russia, per decenni, denuncia questi orrori, e nessuno muove un dito, e tutta la stampa marxista di tutto il mondo, all’unisono, fa passare tali mostri come geni senza macchia, e poi, proprio quando si discutono alcune conseguenze di un rapporto che finalmente apre uno spiraglio su questo po’ po’ di puzza, – rapporto reso di pubblica opinione non dal marxista tardivo accusatore ChrušÄev ma dai suoi nemici capitalisti10 – e proprio mentre i dirigenti marxisti, piuttosto che dichiararsi, come dovrebbero, corresponsabili di quegli assassini, preferiscono mentire giurando che non ne sapevano nulla11, altri marxisti osano, e non sentono tutta la vergogna e il ridicolo di tanto loro osare, proclamare che «dire la verità è il primo dovere di un comunista», e che «dalla verità nulla ha da temere il marxismo!» E sì che sono uomini che hanno ancora la fortuna di non vivere al di là di una certa cortina, e che sanno che, su tutta la faccia della terra, solo per passare quella cortina i non autorizzati rischiano una pallottola nella schiena, e che solo quella cortina, in tutto il mondo civile, costituisce una barriera per il libero scambio di libri e di giornali, e che solo al di là di quella cortina esiste un potentissimo apparato di disturbo per gli ascoltatori radio, evidentemente perché tutta la verità resti monopolio del paradiso marxista, e neanche una briciola se ne dissipi nei paesi disgraziati, come il nostro, dove impera la falsità e la schiavitù della censura...12.

Ma non scantoniamo e, se ci riesce, restiamo nei limiti che ci siamo prefissi della critica cinematografica. Più che illazioni soggettive, alcuni testi di fonte ineccepibile ci renderanno edotti su quale sia la verità marxista e, di conseguenza, quali la poetica e l’estetica che gli artisti e i critici marxisti sono chiamati a seguire. Essi appartengono per la massima parte ad «alcuni tra i registi maggiori dell’U.R.S.S.», presentati da U. Barbaro, marxista di sicura ortodossia, «non per spirito bassamente propagandistico», ma come «base essenziale di un problema estetico»13. Se riusciamo a sopportare la monotonia del frasario, che ci ricorda quello del decennio fatale quando ogni tema scolastico doveva finire col ditirambo al Duce e alla gloria dell’impero risorto, e gli àrbitri della cultura – Polverelli in Italia e Goebbels in Germania – decretavano che l’arte cinematografica italiana e tedesca «dovrà innanzi tutto ispirarsi al nostro tempo!»14 da questi passi ci sarà facile dedurre questa silloge precettistica: 1) L’artista è tale solo se si ispira alla realtà rivoluzionaria socialista; 2) Solo l’assistenza del partito comunista garantisce l’ortodossa applicazione della poetica marxista; 3) Il critico marxista dichiarerà belli o brutti i film, opere d’arte o sgorbi, secondo che essi favoriscano o no la vittoria della rivoluzione socialista.

Il regista S. Gherassimou: «Stalin... richiede agli artisti una raffigurazione ventiera e storicamente concreta della realtà nel suo sviluppo rivoluzionario... Gli sceneggiatori contrappongono una capacità artigianesca alla conoscenza profonda del proprio oggetto, che il partito, nelle sue storiche deliberazioni ... ha richiesto agli artisti sovietici... La logica dello sviluppo del soggetto è di per se stessa morta se non viene illuminata da un giusto sguardo di partito sugli avvenimenti raffigurati... L’artista sovietico deve accostarsi alla realtà da una posizione di partito... Questa è la principale esigenza che s’impone all’attore cinematografico... Non basta all’attore amare o odiare l’immagine che egli incarna sullo schermo. Bisogna c’he egli si accosti a tale immagine da un punto di vista politico...» (Il mestiere di regista, pp. 20, 30, 33, 45, 46 e 47).
G. Alexandrou, regista: «Coloro che stanno creando un film sovietico debbono con molta serietà e attenzione tener presente il parere dei loro futuri spettatori... Guai a chi agisce con leggerezza o in maniera poco coscienziosa: non solo la sua produzione sarebbe criticata in pieno dai critici di professione, ma lo sarebbe anche da molti spettatori che, dopo lo spettacolo, farebbero una riunione nel foyer del cinematografo, o nei circoli, avanzerebbero ben fondate proteste contro un’inesatta presentazione della foro vita e chiederebbero di sospendere il film per apportarvi le dovute modifiche» (Bianco e Nero, 1949, n. 7, p. 20).
Il critico B. Balàzs: «Proprio perché i sovietici fanno della propaganda politica possono impiegare tutte ie risorse possono far suonare tutti i registri del film» (Estetica del film, 1954, p. 209).
L’attore A. Borissou: «La cosa più terribile per un attore, come del resto per qualsiasi artista, è di chiudersi nell’ambito dei suoi interessi strettamente professionali e di credere di poter perfezionare la propria arte senza uscire negli spazi sconfinati della nostra realtà socialista, senza partecipare quotidianamente alle grandi imprese del nostro popolo, senza sentirsi indissolubilmente legato a tutto ciò che hanno fatto, che fanno e che faranno i suoi eroi, coloro che egli ha già interpretato e coloro che deve ancora interpretare» (Il mestiere di regista, cit., pp. 349-351).
Il regista G. Roscial: «La funzione della critica di partito nel lavoro sui nostri film biografici è in genere enorme... La critica di partito ha aiutato Dovcenko e, insieme a lui, tutti coloro che lavorano nel campo di formazione del film biografico, a porsi su posizioni giuste e chiare... Affinché il film venga realizzato sulla base della filosofia marxista ed affinché quest’ultima costituisca la sua guida nella costruzione del soggetto e nella pittura dei personaggi dell’epoca. I nostri migliori film sono nati quando sono stati impostati sulla base delle leggi della teoria marxista-leninista. Gli insuccessi sono derivati proprio dalla sottovalutazione di queste leggi e da un insufficiente studio di esse» (ivi, pp. 263, 282, 346, 274).
Il regista J. Raismann: «Il passato, il presente e l’avvenire del personaggio sono direttamente condizionati dal passato, dal presente e dall’avvenire di quel processo di vita, di sviluppo della società, di invincibile movimento verso il nuovo, verso il comunismo, che costituisce il fondamento e il tema di qualsiasi nostro film dedicato all’epoca contemporanea. In sostanza, la chiave del carattere del personaggio si trova proprio in questo processo. E l’immagine stessa del personaggio è un’incarnazione, un’espressione di questa attività vitale del popolo sovietico, che si sviluppa e trionfa... Ogni nostro film, infatti, è il riflesso di uno dei momenti di sviluppo della società sovietica, del processo del movimento verso il comunismo, di uno dei periodi della biografia dell’unione sovietica... La concezione del mondo dell’artista sovietico, l’unica concezione veramente rivoluzionaria e veramente progressiva, la sua posizione di partito, gli danno la possibilità di capire, di vedere, di valutare e di incarnare ogni immagine in ogni sua profondità e complessità, di capire quelle leggi storiche e sociali che hanno formato il carattere dell’immagine, di valutarne giustamente la funzione sociale» (ivi, pp. 220, 221, 250, 260, 199, 217).
Il regista I. Raciuk: «Il tema principale della nostra cinematografia rimane la viva attualità, l’uomo sovietico costruttore della società comunista ... La produzione di nuovi film che rispecchino le grandi idee del comunismo a un livello artistico elevato è il compito a cui i cineasti sovietici dedicheranno tutte le loro energie» (riportato da Cinema nuovo, 94, 275).

Potremmo continuare ma ci pare che basti. Tuttavia, non possiamo chiudere questa edificante crestomazia estetica senza rispondere ad uno scrupolo di R.R., il quale ingenuamente si chiede: «Che dire il giorno in cui venissero condannati film di Eisenstein, di Pudovkin o di Dovcenko?» (84, 342). – Orbene, R.R. decida pure il suo comportamento perché film di quei bravi registi, riformati o condannati dai caporali disinfestatori marxisti, ne esistono già. Per le consolanti vicende subite dall’Ivan Grozny (1943) di Eisenstein, R.R. si legga il non mai troppo sfruttato Il mestiere di regista a pagina 270, e il noto volume della M. Seton: S. M. Eisenstein, a pagina 24 e seguenti; e già che c’è, vada a pagina 368 della stessa opera e verrà informato sulla fine ingloriosa di Bezhine Lovj (1926), sempre di Eisenstein; per l’Admiral Nakhimov (1947), di Pudovkin, e per il Miciurin (1947), di Dovcenko, sempre il primo volume, alle pagine 196, 274 e 282, gli serberà non gradite sorprese.

Ma poi non sono questi gli unici registi epurati dall’ufficio d’igiene marxista: ci sarebbe anche G. Kosinzev, Y. Trauberg, L. Lukov, M. Donskoj... Tuttavia R.R. non sia troppo corrivo a condannare: potrebbe cascargli addosso, dopo quella di U. Barbaro, una reprimenda da parte di un altro critico marxista, G. Viazzi, il quale, almeno nel 1949, trovava, in fondo, non tanto scandalose quelle condanne scrivendo:

Gli errori in cui era caduto Pudovkin stesso nella prima stesura del Nakimov sono indicativi delle ragioni per cui furono tolti dagli schermi sovietici Gente semplice di Kosinzev e Trauberg, La grande vita di Lukov e la seconda parte dell’Ivan Grozny di Eisenstein. Un film, sia che tratti di avvenimenti dei secoli passati che di fatti recenti, è sempre di carattere storico, ed ha quindi il dovere, sulle tracce dell’efficace scienza storica, di rispettare e di rispecchiare fedelmente la sostanza dei fatti che narrano. Ma i film di Kosinzev e Trauberg, Lukov ed Eisenstein facevano esattamente l’opposto. Non rispecchiavano la realtà. Non che ne dessero una loro eventuale interpretazione, più o meno approfondita, più o meno efficace; semplicemente snaturavano fa realtà, e quindi la verità, ignorando i fatti e manifestandosi incapaci di esprimerli15.

Più perspicace ed equo dei nostri critici marxisti, Claude Mauriac, stroncando La caduta di Berlino nel 1954, vale a dire prima che, meno coraggiosamente, nel suo rapporto ChrušÄev affermasse che «gli provocava la nausea»16, osservava che En U.R.S.S. le cinéma n’est pas un art, mais une arme: il ne raconte pas des histoires, il fait l’Histoire!17. Ma se questo è il cinema in Russia, lo è anche per tutti i marxisti in tutte le parti del mondo; conseguentemente i registi cinematografici marxisti non devono farla da artisti ma da cospiratori, e i critici cinematografici marxisti, se vogliono restare fedeli all’ideologia cui servono, non devono comportarsi da esteti ma da funzionari. La polemica svoltasi sulle colonne di Cinema nuovo in questo senso ha portato un inequivocabile contributo di chiarificazione. Ci pare perciò del tutto infondata l’attesa di P.R., che nell’ultimo numero della rivista così scrive in una «lettera al direttore»: «Io penso che Cinema nuovo potrebbe farsi promotore d’una iniziativa per il rilancio creativo della critica cinematografica di sinistra» (111, 33); a meno che i suoi collaboratori «correggessero tutto un modo di vedere la vita e l’uomo», come, qualche pagina dopo, a gran voce si augura G.V. (111, 52). Ma, allora, non sarebbero più marxisti.

1 Cfr I documenti segreti del XX Congresso del P.C.U.S, Roma, Ediz. C.I.D., s. a.

2 I numeri tra parentesi nell’articolo rimandano appunto alla rivista Cinema Nuovo: il primo al fascicolo, gli altri alle pagine.

3 Il segreto di Pulcinella, in Filmcritica, 1956, n. 59, pp. 142-144.

4 Con buona pace di U. Barbaro, secondo il quale: «La critica di sinistra non è stata mai unanime, né sui film sovietici né su quelli di altri paesi: tutti hanno liberamente detto e scritto ciò che credevano giusto. Collezioni di giornali e di riviste stanno li a dimostrarlo», (Filmcritica, cit., p. 143). Infatti...

5 Per lo stato di terrore endemico imperversante oltre cortina sotto Stalin cfr Il Rapporto ChrušÄev, passim (I documenti..., cit., p. 25 ss.); inoltre l’Autocritica di Togliatti (ivi, p. 132 ss.) e l’Autocritica di Nenni (ivi, p. 171 ss.).

6 «Il grido di ChrušÄev ha illuminato le zone d’ombra della nostra mente, ha rotto in molti di noi il sonno dommatico» (C.S. nel Contemporaneo, 30 giugno).

7 Seguendo la lepida terminologia di C. Salinari, il quale sul Contemporaneo, cit., si produce in questo brano di alta cultura: «Personalmente sono profondamente convinto che il XX Congresso abbia rappresentato un salto qualitativo nella storia del movimento operaio e nelle nostre coscienze... Il semplice buon senso ci deve pure far riflettere che il salto del XX Congresso ha potuto essere effettuato perché le forze democratiche e, in primo luogo, i comunisti, avevano creato nelle singole nazioni e nel mondo intero determinate condizioni. Perché in Italia, ad esempio, avevano contribuito potentemente a salvare le libertà fondamentali, compresa quella dell’espressione artistica...» (29 dicembre).

8 Però con scarsa originalità, perché l’imbeccata gliel’aveva data Alicata, dal Contemporaneo del 31 marzo: «Dire la verità è rivoluzionario... Anzi, l’unico modo di essere veramente rivoluzionari».

9 Cfr I documenti..., cit., p. 59.

10 «Non possiamo lasciare che questo argomento esca dall’ambito del partito, e in particolare che vada in pasto ai giornali. È per questa ragione che stiamo esaminando il problema in questa sede, in una sessione segreta del Congresso. Non dovremmo passare i limiti; non dovremmo fornire munizioni al nemico; non dovremmo lavare i panni sporchi sotto i suoi occhi» (I documenti..., cit., p. 76).

11 ChrušÄev: «Noi eravamo tutti sottoposti a situazioni in cui non potevamo esprimere la nostra volontà personale» (p. 37). Togliatti: «Il rapporto racconta dei fatti... ma questi fatti noi non li conoscevamo...» (p. 159); il quale, però aveva affermato: «Si è costretti ad ammettere che gli errori che Stalin commetteva, o erano ignorati dalla grande massa dei quadri dirigenti del paese e quindi dal popolo, e questo non pare verosimile, oppure non erano considerati errori da questa massa di quadri e quindi dall’opinione pubblica, da essi orientata e diretta» (I documenti..., cit., p. 128).

12 Certamente per amore di siffatta «verità rivoluzionaria» i cineasti russi girarono «documentari che avevano macherato ed abbellito la reale situazione del settore agricolo. Molti film, difatti, descrivevano la vita dei colcos in maniera tale che vi si vedeva il desco dei contadini piegarsi sotto il peso dei tacchini e delle oche. E evidentemente Stalin pensava che le cose stessero realmente così» (I documenti..., cit.. p. 66). Per parte nostra ricordiamo un esempio casalingo di verità marxista. Il padre Lombardi, in un articolo pubblicato sul Nuovo Giornale d’Italia del 9 marzo 1947, dal titolo: I cattolici e il marxiismo, aveva messo questa frase a prova indiscutibile dell’oggettività dell’esposizione: «Le basi teoriche del marxismo da noi riassunte si trovano fissate nel modo più limpido e brutale negli scritti del Duce dei comunisti, Stalin». Ecco come lo citò l’Unità: «Le basi teoriche da noi riassunte si trovano nel modo più limpido e brutale negli scritti del Duce, cosi i lettori del foglio comunista dovevano giudicare qual valore attribuire all’esposizione del marxismo dedotta dalle pagine di Mussolini. E il giornale ardì di dedicare tre righe di stampa, ad avvertire che «per assoluta mancanza di spazio» aveva dato «una citazione, tronca ma autentica, dell’ultimo articolo di padre Lombardi S.I.».

13 Il mestiere di regista. Roma, Bocca, 1954, Prefazione. Ma il tono lo dettero nomi ben più illustri, quali il regista Pudovkin e lo stesso Stalin. Pudovkin: «Nell’arte sovietica il concetto di realismo ha avuto un ulteriore sviluppo e si è venuto creando il nuovo concetto di realismo socialista, un concetto nuovo e profondo, cui corrisponde un’arte che si prefigge consapevolmente questo compito: conoscere la vita per saperla raffigurare in modo veritiero nelle opere artistiche, raffigurare non in modo scolastico, morto, semplicemente come “realtà oggettiva”, ma raffigurare la realtà nel suo sviluppo rivoluzionario» (Il mestiere del regista, cit., p. 195). Stalin: «Il cinema è un grande strumento di agitazione di massa. Si tratta di prendere la cosa nelle nostre mani... il cinema è, nelle mani del potere sovietico, una forza immensa ed inestimabile. Essendo dotato di mezzi eccezionali d’azione ideologica nelle masse, il cinema aiuta la classe operaia e il suo partito a educare i lavoratori nello spirito socialista, a organizzare le masse in vista delle lotte per il socialismo, a elevare la loro cultura e la loro potenza combattiva politica» (riportato da Cinema nuovo, cit., 1952, n. 7, p. 166).

14 Cfr D. MECCOLI, Luigi Zampa, 1956, p. 21; L. CHIARINI – U. BARBARO, Problemi del film, 1939, p. 88.

15 Cinema sovietico del dopoguerra, in Bianco e Nero, 1949, n. 7, p. 27 ss. A conferma della libertà che gli artisti del cinema godono in U.R.S.S., cfr in Cinema nuovo (87, 42-43) le esperienze della soggettista R. Budanzeva; per come è stato trattato in Russia Vs. Meyerhold, cfr G. ANNENKOV, Vestendo le dive, Roma 1955, p. 39. Fa effetto oggi leggere, ciononostante, le lodi dei registi russi ante rapporto ChrušÄev verso «il grande capo dei lavoratori, Stalin, amico e compagno di Lenin»> (J. Raisman), e il capo e maestro dell’umanità lavoratrice (M. Ciaureli): Il mestiere di regista, cit., pp. 256 e 117. Per M. Ciaureli, come anche per Dovcenko, cfr Cinema nuovo, 1952, n. 7, p. 166; ed anche L. MARCORELLES, En passant par Karlovy-Vary, in Cahiers du cinéma, 1956, p. 63.

16 I documenti..., cit., p. 48, film che, invece, per S. Gherassimov era «veramente innovatore» (Il mestiere..., cit. p. 57).

17 C. MAURIAC, L’amor du cinéma, Parigi 1954, p. 315.

In argomento

Cinema

n. 3193, vol. III (1983), pp. 64-71
n. 3134, vol. I (1981), pp. 116-137
n. 3125, vol. III (1980), pp. 375-393
n. 3119, vol. II (1980), pp. 433-451
n. 3068, vol. II (1978), pp. 154-158
n. 3027-3028, vol. III (1976), pp. 262-267
n. 3017, vol. I (1976), pp. 474-481
n. 3012, vol. IV (1975), pp. 568-573
n. 2964, vol. IV (1973), pp. 564-569
n. 2925, vol. II (1972), pp. 214-227
n. 2916, vol. IV (1971), pp. 569-580
n. 2909, vol. III (1971), pp. 381-390
n. 2907-2908, vol. III (1971), pp. 247-257
n. 2891, vol. IV (1970), pp. 464-474
n. 2878, vol. II (1970), pp. 354-361
n. 2874, vol. I (1970), pp. 583-587
n. 2871, vol. I (1970), pp. 269-723
n. 2872, vol. I (1970), pp. 372-76
n. 2867, vol. IV (1969), pp. 21-29
n. 2809, vol. III (1967), pp. 60-62
n. 2755, vol. II (1965), pp. 21-34
n. 2675, vol. IV (1961), pp. 449-463
n. 2674, vol. IV (1961), pp. 383-395
n. 2669, vol. III (1961), pp. 514-516
n. 2668, vol. III (1961), pp. 403-407
n. 2660, vol. II (1961), pp. 157-168
n. 2662-2664, vol. II (1961), pp. 372-386, 598-612
n. 2654, vol. I (1961), pp. 148-165
n. 2656-2658, vol. I (1961), pp. 382-390, 592-604
n. 2648, vol. IV (1960), pp. 159-176
n. 2651, vol. IV (1960), pp. 483-497
n. 2646, vol. III (1960), pp. 602-617
n. 2644, vol. III (1960), pp. 384-392
n. 2631, vol. I (1960), pp. 277-290
n. 2628, vol. IV (1959), pp. 607-620
n. 2611, vol. II (1959), pp. 56-70
n. 2614, vol. II (1959), pp. 401-407
n. 2608, vol. I (1959), pp. 403-411
n. 2603, vol. IV (1958), pp. 508-523
n. 2557, vol. I (1957), pp. 49-63
n. 2542, vol. II (1956), pp. 373-83
n. 2528, vol. I (1955), pp. 272-288