Articolo estratto dal volume II del 1956 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Non meno acido di quello dei marxisti1 è l’anticlericalismo di certi liberali; anzi, non essendo infrenato da remore di distensioni imperate dall’alto, si direbbe più piccoso e più insolente. Basta dare una scorsa alle loro riviste per convincersene: per esempio al Borghese e al Mondo, campioni conclamati di laicismo.
Il Borghese, di Leo Longanesi, è il superstite più evoluto di quella stampa scandalistica, piagnona, pessimista e mettimale, che lussureggiò tra le rovine dell’Italia del dopoguerra. Ce l’ha con tutti e con tutto perché tutti e tutto fanno e va male: i ministeri, i cartelli pubblicitari, la T.V., le mostre d’arte, i signori e i loro menu, i falsi nobili, le dispense universitarie, i telefoni, Idea, le pensioni, Vanoni, la giusta causa, la R.A.I., le contravvenzioni, le regioni, i film, le lettere smarrite, i libri... unica eccezione, pour cause!, quelli editi dal Longanesi, tra i quali l’’onesto” Bonjour, tristesse! A questo muro del pianto affiggono le loro lamentele l’impiegato che è andato in pensione per limiti d’età, la massaia che trova il pane immangiabile, la signora non sodisfatta della serva, il cittadino che trova la sua strada sbarrata per le corse (849), il lucchese infastidito dalle fogne che non funzionano...; tutti quelli, insomma, che trovano più comodo denunciare le pecche altrui che correggere le proprie; tattica, quest’ultima, che sarebbe più onerosa per i singoli ma più utile per la nazione, se è vero, per dirla col Manzoni, che «si dovrebbe pensare più a fare bene che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio»2.
Il bello è che molte lamentele poi risultano infondate, sicché piovono in redazione le rettifiche da pubblicare a termini di legge; ma tant’è: le lamentele continuano, anzi, come se non bastassero per esse le materie prime nazionali, si mandano inviati a incettarne all’estero: in Brasile, in Liberia, Uruguay, U.S.A... Quest’insistere nell’ostentare il putrido, e le frequenti concessioni ad un linguaggio volgare ed a cose triviali (50, 87, 138, 251, 276, 481)3 ci fanno deplorare che il non nobile arnese più volte riprodotto come pubblicità nella copertina interna, non sia stato fatto passare stabile sul frontespizio esterno, dove, molto meglio delle bislacche illustrazioni che vi si vedono, avrebbe simboleggiato atmosfera e metodi di lavoro della redazione.
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Ed al solito, come sulla stampa marxista, il motivo onnipresente degli alti lai e il bersaglio preferito delle critiche è la Chiesa: fedeli, gerarchia e dottrina, con un’insistenza, come dicevamo, ignota persino ai rossi. Com’essi, il Borghese ce l’ha col Papa: perché parla di politica (180), parla troppo (101) e di cose che non sa (101); se la prende col Centro Cattolico Cinematografico e relativa promessa (439), con la Pontificia Opera Assistenza (668), coi troppo numerosi bollettini parrocchiali (199); trova da ridire sulla festa di san Giuseppe operaio (728); per diritto e per traverso infuria contro la scuola ’’privata”; inoltre ha da ridire sul vino delle messe (1000), sulle chiese nuove (337), sulla consacrazione di Genova al Sacro Cuore (737), sui preti argentini «causa della rivolta antiperonista» (498), con un parroco che osa bocciare un ragazzo al catechismo così «allontanandolo dalla grazia» (493), col padre Morlion, con don Guanella e don Orione (500), con le campane elettriche e le luci al neon, con quattro chiodi messi a San Siro di Genova (330), coi microfoni in chiesa, coi preti e le monache in bicicletta o in motoretta (745), coi cappellani delle «organizzazioni vaticane» (500) (ma non con quelli della «milizia» buonanima: 578), coi preti che non vanno a Piazza Venezia (725) o che, invece, vanno a vedere le azalee a Trinità dei Monti (664), contro le tavolette votive, le quali, «oltre alle vetuste mura di Roma, deturpano il sentimento religioso» (628), poi contro tutti i danni, veri o presunti, arrecati all’Italia dai preti, la Chiesa, il Vaticano. la Santa Sede e la D.C., una volta che tutti questi termini, sull’esempio dei comunisti, sono usati come sinonimi di clericali (343). Anche nel sarcasmo della terminologia esso emula i marxisti, manifestando il suo sdegnoso disprezzo per i «clericali», individuati spesso come «figli di Maria» (349), allevati nei «circoli salesiani» o «al Sacro Cuore» (402), per i frati «golosi di zuppa» (445), «educatori del Vaticano», «diplomati in seminario» (960).
Lo strano è che i suoi redattori non si stancano di proclamarsi veri cristiani (1030), cattolici78 ferventi (78, 389, 969), sia pure «non clericali» (970). Strano cattolicismo di chi può affermare: «Scettici o credenti, eravamo e siamo cattolici, perché tutti noi siamo nati in questo paese di tradizione cattolica, e il cattolicesimo l’abbiamo nel sangue, anche se non ascoltiamo la messa la domenica» (937): sulla quale ammissione ci si domanda che cosa comporti in peggio la rappresaglia minacciata dal «buon cattolico» Siberia, che, allarmato dall’eventualità della messa celebrata in volgare, assicura che «gli italiani non ci andrebbero mai» (969); un cattolicismo «senza dommi e superstizioni» (389), che trova difficile digerire la definizione dommatica dell’Assunta (345) e ridicolo il racconto di Fatima (925), esagerato il culto della Madonna rispetto a quello di Gesù (468), giudica in merito al contenuto del Vangelo vantandosi di non leggerlo mai (539) e sente Lutero bussare alle porte della sua anima travagliata (225); cattolicismo che, oltre di diffidenza, si nutre di larga ignoranza religiosa, tanto più notevole quanta più sicura competenza si supporrebbe in così pignuoli critici. Fioccano improprietà da nulla che tradiscono l’orecchiante che vuole passare per navigato, come un Gersoné; (729), un san Vincenzo de Paòla (935), un giudicare nuovo, oltre che ridicolo, il nome di santa Margherita M. Alacoque e domandarsi dove possa trovarsi una sua vita (971), il definire evangelico il «crescete (sic!) et multiplicamini» della Genesi (781), dare dell’eminenza a un vescovo (695), passare per indiscutibile che Leopardi e Pascal abbiano tutte le opere all’Indice (610), scovare legami inesistenti tra Propaganda Fide e i gesuiti (250), notare che un sacerdote celebra la messa con la stola verde mentre sbaglia gli accenti del suo latino (167)... Sono poi spropositi belli e buoni, come quando si fa parlare ex cathedra il papa in circostanze in cui la cattedra non c’entra affatto (730), si afferma che il cattolico non può uccidere le bestie (942), che sant’Agostino è padre di molte eresie (766), che secondo san Paolo il matrimonio è il minore tra due mali (870), (mentre, al più, si doveva dire il minore tra due beni) e che «la storia della Chiesa non aveva, che si sappia, mai registrato la canonizzazione di persone dotate di virtù in grado eroico, di cui si potesse dire di averle viste viventi, anzi di cui fossero viventi uno o i due genitori» (926), quando invece non c’è mediocre lettore di Digest che non sappia che, per limitarsi agli interventi papali, la canonizzazione sollecita fu in uso dal secolo X al secolo XVII, cioè fin quando il noto decreto di Urbano VIII non la ritardò4.
Ma siffatte ed altrettali cantonate sono quisquilie per i “cattolici” del Borghese, per i quali la «non verità» clericale va combattuta, e non confutata, sicché non vale la pena di appurarla oltre le posizioni massicce che contrastano con la verità laicista, la quale sì che va ripetuta, chiarita ed insegnata alle genti, impostandola su assiomi da accettarsi senza discussione, essendo evidentissimi come quelli di Euclide. È assioma per essi che la religione sia affare del tutto privato, al più al più: complesso di riti, «culto», suggestivo ed educativo anche, ma che non può e non deve influire sulla vita pubblica, dominio riservato dello Stato; è assioma che la cattolica, una delle tante religioni storiche, non deve fare eccezione alla regola. Altro assioma, mutuato dagli illuministi e dai modernisti, è che la religione sia affare di sentimento (178, 180), cui non soggiaccia una realtà oggettiva: dunque niente definizioni logiche e niente rivelazione! I «cattolici non clericali» del Borghese si accontentano di un “sacro” non meglio individuato, ignorando il Dio uno e trino dei patriarchi, dei profeti e dei santi; rispettano un romantico “ineffabile”, ma non i misteri oggetto di fede teologica; la vita e la persona di Gesù Cristo per essi appartengono ad una bella favola, più vicina agli svolazzi razionalistici di Renan che alle solide definizioni dei concili ecclesiastici; la Chiesa è un’astrazione di anime senza corpi, a mezzo tra i poeti e i filantropi, fuori del tempo e dello spazio, decorative della storia ma, in fondo, inutili: in ogni caso libere da gerarchie visibili e da doveri esterni, pena la loro materializzazione più deteriore; le sue gerarchie storiche, dunque, ridotte alla inconsistenza degli ectoplasmi spiritici: un Papa tanto sopra e lontano da noi da inibirci qualunque confidenza (607) (ma da permetterci qualunque critica!); preti: purissimi «predicatori del verbo di Dio», ai quali, per sostenersi, bastano i sospiri e non servono i soldi (122); l’aldilà: un tabù, sul quale non conviene indagare: chi ci crede si regoli pure di conseguenza, purché non turbi i sonni di chi preferisce non pensarci. Unica realtà oggettiva nelle coordinate della storia è l’uomo terrestre; supremi suoi valori la scienza e la libertà; fonte primaria assoluta di diritti e di doveri: lo Stato, uno, sacro e intangibile, in cui il cittadino, creandolo e strutturandolo, ritrova se stesso e nessun altro fuori di sé.
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Su queste premesse, l’atteggiamento verso una Chiesa che la pretenda a società autonoma e «sociale» (947) non può essere che di lotta, specialmente in Italia, dove la compresenza dei due poteri faciliterebbe, a non ben difendersene, vergognose commistioni. «A Roma c’è il Papa, e il Quirinale... non può costituire che il contrapposto del Vaticano... La colpa è della storia d’Italia, nella quale è segnato il destino di un eterno conflitto fra Chiesa e Stato... sicché un presidente di repubblica che non tradisce il Papa, tradisce lo Stato»! (685). Ogni atto di presenza del Papa nella vita degli italiani, si affacci egli dalla finestra su Piazza San Pietro (856), rilevi i pericoli dell’energia nucleare (101), accolga gli atleti cattolici e i loro doni (607): è per il Borghese un disagio, un arrovellarsi, che diviene costernazione quando il Papa «obbliga» il presidente Gronchi ad inginocchiarglisi davanti (925): quest’atto di religione diventa un disastro paragonabile solo al terremoto di Messina (226): la distruzione di tutti i sacri ideali di un secolo di risorgimento, da Cavour a Mussolini, il quale avanti al Papa non s’inginocchiò; dimostra il definitivo nuovo servaggio d’Italia, e, dunque, che urge «il ristabilimento di un’antitesi inconciliabile tra l’Italia... e un inerme stato soprannaturale, attento soprattutto ai propri superiori interessi spirituali» (926)6. A questo punto i confini tra anticlericalismo e antireligione sono valicati da un pezzo. A conferma del, forse non inteso, ma di fatto attuato passaggio, valga vedere quanto resta della morale religiosa e naturale nell’etica del Borghese.
Fedele tutore della libertà del cittadino e del suo inabdicabile diritto a godere la vita senza clericali inibizioni di “natura corrotta” e di colpe teologiche, le più volgari esibizioni del costume odierno non lo turbano, se non nel deprecabile caso che vi si abbassino «principesse» (301, 565), le quali, come superdonne, al contrario dei nietzschiani superuomini, resterebbero soggette ad una morale cui sfugge la comune dei mortali; slips, dunque, e baci in pubblico, disinvolture e procacità cercate e offerte (587), concorsi di bellezza ostacolati dal clero (68), spudoratezze di attrici cinematografiche, trovano in lui il difensore di ufficio, che approva, anzi che si rammarica che l’ipocrisia odierna non permetta quel di più che sarebbe necessario per infrenare la sodomia (127). Il divorzio, naturalmente (W Perón!), è un diritto (983), il meretricio una necessità di natura, chi indulge alla quale può vantarsene senza vergogna, e anzi sentirsi in diritto di irridere i «figli di Maria», che se ne astengono (349, 378); quella delle case chiuse una questione da difendere per il prestigio della nazione, e il controllo delle nascite, se attuato mediante la «politica malthusiana in cui si è buttata la Chiesa» (424), è assurdo e ridicolo, se invece con tutt’altri mezzi... si potrebbe vedere (238). Fanno testo di morale Totò (68) e Mantegazza59; in etica del giuoco, Prezzolini (210), e G. P. su quella dei «pappagalli» (109).
La Chiesa, a modello della sua morale, aveva i santi: il Borghese ripiega su Voltaire e Peyrefitte (976), su Guerrazzi, noto per il suo odio in grado eroico antipretino, e su Garibaldi, fulgido esempio di religione e di morale matrimoniale (653). E mettiamoci anche Mazzini, Cavour e Carducci...: perché bisogna sapere che il martirologio dei nostri liberali laicisti s’è fermato a mezzo il secolo scorso; essi non sono ancora riusciti a sceverare il caduco e il corrotto dal sano e duraturo del risorgimento italiano, confondono ancora il patriottismo di buona lega con la rettorica patriottarda. Mal destreggiandosi tra l’epico e il ridicolo, pongono ancora lo stato antichiesastico a ideale dei concetti e della prassi della vita nazionale, e a quel metro tutto giudicano, approvano o condannano. In quest’atmosfera s’inquadra la loro campagna più assidua e tenace: contro la scuola ’’privata”.
Sarebbe inutile provarci a far loro rilevare che la stessa dizione è erronea, essendo la Chiesa società pubblica non meno dello Stato, e potendo dunque essere pubbliche, per quanto non statali, le istituzioni che ne dipendono: sarebbe come chiedere a un indù di abiurare la metempsicosi! Ma almeno evitassero, condotti dal pregiudizio anticlericale, le contraddizioni interne al loro laicismo, e prima tra tutte l’antinomia tra il diritto del cittadino ad organizzarsi come gli garba e l’organizzazione monopolistica dell’istruzione imposta dallo Stato! Perché mai l’ortodossia liberale delle scuole non statali lodata da Henry Furst 7 per gli Stati Uniti, nello stesso numero, a pagina seguente, può violentemente venire attaccata come eretica e dannosa per l’Italia? (1025-1026). Perché, in un altro numero, le libere fondazioni private, che rendono floride le scuole non statali, dalle primarie alle universitarie, sempre in America, vengono lodate, e insieme poi vi si depreca che da noi lo Stato permetta qualche cosa di simile? (688). Sono contraddizioni patenti, che fanno sospettare in chi vi incappa più livore anticlericale che amore ai valori culturali della nazione. Manifestamente quel che nuoce ai nostri laici non è tanto la scuola “privata” ma la scuola dei preti; contro questi; e solo perché tali, essi generalizzano inconvenienti non esclusivi delle scuole non statali (589), anzi, secondo lo stesso Borghese, forse propri di quelle statali (688)!, e, quando non soccorrano loro i fatti, ricorrono alle calunnie, fino ad incolparle del disagio economico che ha causato il recente sciopero dei professori statali (960)! Menzogna palese, perché nasconde che quelle scuole, anzi, fanno risparmiare miliardi allo Stato, non addossandogli migliaia di edifici costruiti e riparati in proprio, e centinaia di migliaia di alunni, le famiglie dei quali, con le loro brave tasse, provvedono i mezzi con cui lo Stato compensa, come vuole o come può, i suoi impiegati! Un’altra menzogna indica le scuole dei preti come floridissime imprese economiche, alla faccia di bilanci e di acrobazie che si preferiscono ignorare, pur di potere poi, alla maniera di Maramaldo, ingiuriarle come accozzaglia di figli di papà ricchi e neghittosi, dimenticando che se oggi in Italia la Chiesa non può impartire gratuitamente l’istruzione come vorrebbe, e come una volta poteva permettersi, gran merito va riconosciuto appunto ai “laici”, che, a suo tempo, eroicamente ne incamerarono i beni.
Quest’anticlericalismo forse in molti non è consapevole faziosità, che poi sarebbe la più stridente eresia nella dommatica liberale, ma piuttosto radicale incomprensione, dottrinale ed affettiva, della realtà divina della Chiesa, ed anche, in fondo, radicale scetticismo sull’esistenza e sul valore di una verità assoluta: residuati, l’uno e l’altro, del virus razionalista, che ha snervato la fede cattolica di tre generazioni d’italiani. Se così non fosse, come negherebbero, i liberali, i diritti che competono alla verità, o come ne riconoscerebbero di uguali all’errore? Come potrebbero, uomini di cultura quali si professano, davvero trovare ridicolo il cristianesimo? Come potrebbero pensare che il fatto più straordinario della vita di Dio, l’avvenimento che dà un senso a tutta la storia dell’universo passata, presente e futura: la natura umana assunta dal Verbo di Dio e, provata dalla morte, introdotta nella vita intima della Trinità, debba incidere oggi nella vita dell’uomo, non investendola da capo a fondo, ma solo con un facoltativo atto di culto, privato, pari in valore a quello di un romano per i suoi penati? Come attribuire allo Stato un valore assoluto, sacrificandogli anche i valori eterni dei cittadini che gli danno vita? Come potrebbero giudicare la Chiesa solo col metro delle società umane e, pur dicendosi suoi membri, sindacarne le dottrine e la prassi, quasi che il suo Fondatore divino non le avesse dato vita a nostra guida e tutela, bensì avesse costituito noi suoi infallibili tutori? Come potrebbero vedere i suoi sacerdoti quasi fossero funzionari di un’impresa terrestre, seguaci più o meno coerenti di una filosofia più o meno antiquata, e non piuttosto impreteribili distributori della vita di Dio, chi manca della qualità è più morto dei morti? Infine, come spiegare il mostruoso daltonismo di chi, se finalmente si decide a lodare sacerdoti come il padre Leoni e monsignor Ferroni (1030) e, modestamente, noi della Civiltà Cattolica (504), lo fa proprio per dare addosso a quella Chiesa e a quella gerarchia per la quale quei martiri hanno sofferto e che è l’unico scopo della nostra attività di scrittori? Manifestamente ci troviamo dinanzi ad una delle più teratologiche manifestazioni d’ignoranza e di pregiudizio religiosi!8.
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Sulla stessa falsariga ideologica del Borghese si muove l’anticlericalismo degli altri periodici liberali, come Il Mulino, Il Ponte, Il Mondo e, ultimo arrivato sul fronte laico, l’Espresso. Tra essi merita almeno qualche battuta di commento il Mondo, il quale, tra le altre qualità che lo fanno molto affine al Contemporaneo, ha quella di pretenderla a cultura, con facile vantaggio sul concorrente marxista; non per nulla, tra i non disprezzabili suoi collaboratori ordinari annovera molti uomini di cultura, come E. Rossi, G. Calogero, P. Calamandrei, Br. Visentini, G. Salvemini, U. La Malfa, A. C. Jemolo, B. Tecchi, R. Morghen, V. Arangio Ruiz... Un altro netto vantaggio sul suo emulo lo segna nella scelta e nell’abbondanza delle illustrazioni che ridicolizzano preti, frati e monache (2, 10, 17, 21, 26, 27, 29, 33, 38, 45 ecc.)9. o li mostrano in allusivi accostamenti con gli elementi mondani, piccanti, erotici e libertini, in cui amano rigirarsi con deteriore compiacimento i suoi redattori, con quale correttezza pubblicistica, onestà di polemica e finezza di educazione civile non diciamo.
A parte questo particolare di fondo, a prima scorsa, nei suoi attacchi anticlericali si direbbe meno volgare e petulante del Borghese, ma in realtà lo batte nettamente per la sistematicità del suo anticlericalismo, sbandierato come sistema positivo di dottrina filosofico politico religiosa. Supposto, infatti, come pacifico che una religione vale l’altra, e che ogni religione è ridicola (3, 14, 33), non esclusa la cattolica, con la sua «morale da seminario»17 e la sua santità medievale (5, 9), sostiene che se un cristianesimo va accettato da chi non vuol estraniarsi dalla civiltà europea e italiana, non può essere altro che quello purificato dalla «cultura laica, immanentista, che non accetta il Cristo Dio, ma non tradisce il Cristo Uomo; che è fuori del cristianesimo dei teologi, ma dentro il cristianesimo della storia: le sue ragioni non possono incontrarsi con quelle della fede»26; onde la sconcertante professione di fede: «Non possiamo non dirci cristiani, anche se in noi langue o si spegne la fede nella natura soprannaturale del Fondatore del cristianesimo»14. Del resto, esso continua, la Chiesa dei teologi ha fallito il suo scopo: su piano di messaggio religioso, perché oggi essa è soltanto un’organizzazione politica16, su piano di struttura etico-morale perché «la ristretta concezione della vita propria di ogni cattolico è tutta intrisa di pessimismo e di sfiducia nella capacità degli uomini di liberarsi delle loro passioni»34, e su piano politico perché, ponendosi come contraltare dello Stato, la Chiesa ha reso i fedeli costituzionalmente incapaci d’inserirsi in esso, se non addirittura suoi demolitori (13, 23), ed ha viziato nel midollo un eventuale capo di Stato cattolico, facendolo suddito del Vaticano!13.
Messi così sott’accusa il cristianesimo e la sua Chiesa, il Mondo pone l’alternativa laica, opponendo a quello e a questa, senza mezzi termini, il laicismo come crociana religione della libertà (7, 12), unica capace di guidare la democrazia5.
«Esso non è negazione polemica, ma una fede ed una convinzione»41, «un momento dello spirito eterno quanto quello religioso, e in ogni modo precedente la data storica della nascita di tutte le religioni rivelate»26...
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Potremmo continuare a rilevare nei più quotati settimanali gli elementi della teoria e della prassi dell’anticlericalismo odierno nostrano; ma ci rinunciamo per non superare i limiti, già raggiunti, di una rassegna, e non passare ad una più impegnativa trattazione o refutazione organica dell’argomento. Del resto, quel poco, rispetto al molto di più spigolato scorrendo le annate 1955 di quattro settimanali, che abbiamo riferito, ci pare più che sufficiente per concludere.
È innegabile che si è sferrata in Italia una lotta sistematica contro la religione cattolica, nella quale confluiscono uomini ed organizzazioni di opposte denominazioni politiche: comunisti e socialisti di tutte le sigle, liberali e radicali; uomini di opposte denominazioni filosofiche: materialisti, idealisti10.
Che tra essi emergano i marxisti, la cui ideologia è antireligiosa per essenza, non ci meraviglia; anzi ci meraviglieremmo di non sorprenderli più intolleranti e volgari se non conoscessimo tutta la spregiudicata duttilità della loro tattica; ma che tanto ci s’impegnino dei liberali lo comprendiamo di meno. Chi dà loro tanto ridicola baldanza? Non certo i loro presupposti dottrinali, inesistenti e invalidi; non l’innocens ego sum delle disgrazie che corrodono la patria, quando di molte di esse, da noi come in una sorella nazione vicina, con la loro politica antireligiosa e antimorale sono stati essi la causa precipua; né tanto meno il favore degli italiani, che in altri tempi, fortunatamente tramontati, essi potevano credere di rappresentare, quando avevano in mano governo e parlamento e, si può dire, erano tutto in terreno politico. Ridotti a sparuta minoranza, non la perdonano a chi, su terreno politico, li ha ridotti a fondo da museo; ma, d’altra parte, non potendo attaccare direttamente chi permette loro una presenza attiva nella vita della nazione assolutamente sproporzionata al loro numero, si rifanno contro la Chiesa, da cui il programma della Democrazia Cristiana mutua la dottrina religiosa e morale. Eccoli, allora, marxisti e liberali, già inconciliabili nemici (come dimostrano, tra l’altro, molte coraggiose pagine del Borghese), combattere spalla a spalla. Il loro scopo comune è la sdivinizzazione della società umana; il bersaglio comune: Dio personale, presente nella storia. Non convenendo loro, almeno per il momento, in Italia, l’attacco palese alla religione come tale, ripiegano sulle sue strutture visibili: preti, gerarchia, Chiesa. Sui mezzi, purché efficaci, non hanno pregiudiziali, perciò li usano in comune, con un sincronismo di tempi e di toni, che si direbbe concordato. Togliere alla Chiesa la scuola ed estrometterla dall’uso dei massimi mezzi dell’opinione pubblica: stampa, cinema, radio; in attesa di quell’obiettivo mediato, staccare i fedeli dal sacerdote gettando su di esso il discredito come di retrivo, inumano, incolto, interessato predicatore di virtù impossibili; staccare i sacerdoti dalla gerarchia, scoronandola d’ogni carattere sacro; poi, per tappe, una volta ridotta senza braccia la Chiesa, giungere ad un cristianesimo senza Cristo e a una religione senza Dio. Soppresso così l’avversario comune, ritrovarsi, marxisti e liberali, nemici su due fronti di un solo materialismo, e ingaggiare l’ultima battaglia: i primi confidando sulla vittoria che la loro dottrina materialista assicura a chi avrà meno scrupoli e più barbara ferocia, gli altri illudendosi forse in un soccorso in extremis dell’America, insofferente di un trionfo comunista in Italia e, in fondo, anch’essa, a loro parere, contraria ad uno stato «clericale».
Ai fedeli della Chiesa non sfugge la concorde tattica dei suoi nemici, né incutono pavido timore i loro piani e le fallaci previsioni. Sanno che Cristo è nella Chiesa e che Egli sì è dato a segno di contraddizione nei secoli; e nella sua profezia, argomento di forza divina, trovano i motivi della speranza. Temono, invece, per gli uomini di poca fede e di non illuminato intelletto, facile preda della malafede e dell’ignoranza di tali avversari, e si augurano che in tempo utile essi si decidano per la Chiesa, ingaggiandosi personalmente in una battaglia, forse anche politica, forse anche culturale e civile, ma soprattutto religiosa, vale a dire sollecita dei diritti di Dio e della destinazione eterna della società umana.
1 Cfr Anticlericalismo marxista nell’anno della “distensione”, in Civ. Catt. 1956, I, 528-533.
2 I promessi sposi, cap. XXXVIII.
3 I numeri in parentesi rimandano alla doppia numerazione dell’annata; quando sono in corsivo s’intendono della seconda serie, che inizia col mese di luglio.
4 Lo scandalo del redattore questa volta causato dalla canonizzazione di santa Maria Goretti, avvenuta nel 1950, appena quarant’otto anni dopo il suo martirio, caduto nel 1902. Orbene, ecco, limitandosi ai pochi santi di questa nostra clericalissima Italia, alcuni tra i moltissimi casi di canonizzazioni, che per sollecita procedura la vincono su quella della Goretti (indichiamo tra parentesi l’anno della morte e il tempo intercorso tra esso e la canonizzazione): santa Francesca Saverio Cabrini (1917: 29 anni), san Carlo Borromeo (1584: 26 anni), san Celestino V (1296: 17 anni), san Francesco di Paola (1507: 12 anni), san Bernardino da Siena (1444: 6 anni), san Romualdo (1207: 5 anni), san Gerardo da Potenza (1119: 4 anni), sant’Omobono e san Francesco d’Assisi (1197 e 1226: 2 anni), san Pietro Martire (1252: un anno), san Simeone (1016: 2 mesi). Il primo caso di canonizzazione pontificia precoce si pone nel 995, quando fu canonizzato sant’Uldarico, morto nel 973.
5 Con questo bel risultato, che in uno stesso numero, il 27º, a pag. 10 si fa l’elogio melodrammatico del borghese che si sacrifica pur di osservare le leggi dello Stato, e a pag. 30 sacrilegamente si loda chi, cattolico, delle leggi della Chiesa se ne infischia!
6 Tutto questo dopo che il Borghese, come i comunisti, s’ domandato: “Che gusto c’è perseguitare i preti?” (57), e dopo dichiarato che l’anticlericalismo non gli piace “sapendo a quali orge di cattivo gusto conduce in Italia” (970), solleticandovi “la grossolanità, la volgarità, la cafoneria”. Orbene, se il poco che abbiamo riferito non bastasse, si percorrano l’«Illustrazione dei dodici mesi in Italia» (1028), e la pagina dello sport e il C.S.I. (280) e si dica se non sono anticlericalismo bello e buono, e se non farebbero la loro degna figura in un settimanale marxista!
La teoria dell’italiano costituzionalmente “laico” esposta per disteso, con più spropositi storici e teologici che parole, e con più irreligione che spropositi, a pag. 539-540, in cui, in fondo, si attribuisce non più valore soprannaturale al Vangelo che al Corano, e lo stesso si fa per le due religioni che ne derivano, forse con una punta di simpatia, sia pure occasionale, per quella derivata dal Corano.
7 Uno dei più lucidi e meno settari collaboratori del settimanale; merito del quale è, tra l’altro, la sufficiente risposta antiprotestantica di p. 601.
8 Nel numero 12 di quest’anno, in data 23 marzo, sotto il titolo Santi scomunicati, il Borghese cerca di scagionarsi dell’accusa di anticlericalismo. Venendo meno ai limiti che nell’articolo ci siamo imposti restringendoci all’annata 1955, notiamo che esso non fa che provare ad abundantiam quanto siano pertinenti i nostri appunti, dalla negata distinzione terminologica tra laico e laicista alle questioni di sostanza. Torna, infatti, lo stesso vantarsi di una posizione di «eretico» (446) da parte di chi ci tiene a non essere «cattivo cattolico» (447); l’equiparare la «rete dell’organizzazione vescovile» alle «maglie dell’organizzazione federale fascista», il vantarsi «difensori della Chiesa», mentre la si taccia d’«imprudente e d’incauta»; e terminare, tanto per varietà, con un altro monumentale svarione di dottrina cattolica, asserendo con sicurezza pari all’ignoranza, che il dono degli occhi fatto da don Gnocchi sarebbe contro il domma, o, come a sproposito si dice, contro «i canoni» della risurrezione della carne. His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, l’articolista ha ancora il buon gusto di chiedere per due volte: «Siamo per questo cattivi cristiani, dei pessimi cattolici?».
9 I dati in parentesi si riferiscono ai numeri settimanali de Il Mondo.
10 Non sarebbe difficile spigolare qua e là propositi e proposte concrete di lavoro in comune contro la Chiesa nei due campi avversari. Cfr, per esempio, Il contemporaneo: 6, 1; 11, 2, cui fa riscontro l’asserzione di G. Salvemini sul Mondo: “La nostra ostilità è permanente contro i fascisti e i clerico-fascisti e non contro i comunisti” (20).