Articolo estratto dal volume II del 1956 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Per i negozianti di pantofole e di pigiama americani, dal 1951 al 1954 la provvidenza si chiamò televisione; infatti, grazie alle 4.000 ore di trasmissione giornaliere delle 370 trasmittenti e dei 27.000.000 di televisori funzionanti negli Stati Uniti, la vendita di quei capi di vestiario vi aumentò del 60 per cento. Ma negli stessi anni, per il cinema la televisione si chiamò disgrazia, perché i neo pantofolati, già suoi clienti, lo tradirono per essa, sicché i locali si chiusero alla media di due al giorno, mentre quelli dei centri maggiori che scampavano alla moria vedevano il loro rendimento ridursi del 40 per cento. Allora i magnati dell’industria cinematografica di Hollywood ricorsero ai ripari con mezzi proporzionati alle iperboliche somme di dollari che maneggiavano e al rischio che quelli stavano correndo, lanciando sul mercato i “nuovi” procedimenti Cinemascope, 3D, Cinerama, Vistavision... E fu come condire di salsa piccante un cibo reso insipido dal lungo uso: qua e là l’inflessione delle presenze ai cinema si arrestò e, anzi, si mutò in ripresa; all’euforia dei produttori, degli esercenti e del pubblico medio si aggiunse quella di certi intellettuali, che fu quelle novità videro un nuovo merito di questo secondo dopoguerra, cosi borioso delle sue invenzioni; anzi, tra i più corrivi di essi, non mancò chi ne menò vanto come di una conquista addirittura dell’Arte con la maiuscola.
Chi è addentro nel mondo del cinema sa quanto sia infondato l’orgoglio dei primi ed erroneo l’entusiasmo dei secondi; ma gli altri non hanno elementi sufficienti per fare altrettanto. Ad essi ci permettiamo offrire alcuni dati e suggerire poche considerazioni essenziali per giudicare l’entità del fenomeno.
Cinema contro televisione
Cominciamo col precisare che le nuove tecniche non sono tutte frutto di recenti ritrovati, bensì spesso di riesumazioni più o meno venerande1. Del resto è noto che l’obiettivo Hypergonar, su cui si fonda il Cinemascope, per due decenni giacque inutilizzato nelle mani dell’inventore H. Chrétien, finché i produttori non pensarono di snidare gli utenti dalle pareti domestiche e convogliarli di nuovo nelle sale pubbliche con l’esca di spettacoli cinematografici tanto sbalorditivi da superare ogni possibilità presente e futura della televisione; e siccome, stante i risultati già sperimentalmente raggiunti, non nutrivano alcuna speranza di batterla sul colore, ingaggiarono la battaglia sulla grandezza e profondità della visione.
Il primo attacco fu sferrato nell’autunno del 1952 col Cinerama, programmato nel Broadway Theatre di New York. È questo un sistema in cui tre macchine proiettano contemporaneamente tre pellicole, vale a dire tre sezioni contigue di un’unica immagine cinematografica, su di uno schermo fortemente concavo, alto circa la metà più del normale e largo quattro volte l’altezza; sincrona con le tre marcia un’altra pellicola, portante quattro o più piste magnetiche, che eccitano tre o cinque altoparlanti dislocati dietro lo schermo, ed altri disposti in sala ai lati del pubblico. Questo ne rimase come ubriacato; per otto mesi fece ressa, prenotandosi settimane in anticipo, per vedere Questo è il cinerama, un centone di cattivo gusto tra il documentario, l’opera e il varietà.
Il cinema così vinse la prima battaglia, ma non s’illuse di aver vinto la guerra. Gli enormi costi di produzione, d’impianto e di esercizio richiesti dal Cinerama per assicurare spettacoli di alta perfezione tecnica, lo limitavano, ad esser generosi, a non più di una ò due decine di grandissime città. Fu allora la volta della 20th Century Fox, che al Roxy, sempre di New York, nel settembre del ’53 programmava La Tunica, in Cinemascope, emulando gli effetti del Cinerama, ma evitandone appunto le maggiori complicazioni tecniche2. Anch’esso utilizza uno schermo panoramico3 e quattro piste magnetiche, ma usa una sola macchina e una sola pellicola, nella quale però l’immagine della realtà, amplissima, nella ripresa viene opportunamente anamorfizzata, cioè compressa, e in proiezione viene di nuovo espansa, liberata da ogni aberrazione, mediante l’Hypergonar del Chrétien. Contemporaneamente la Paramount lanciava il procedimento Vistavision4, suscettibile di una proiezione su schermo panoramico e sonorizzazione stereofonica.
Da allora, con queste armi, e con altre derivate da esse5, la lotta tra cinema e televisione dura negli Stati Uniti palese e senza tregua, e dilaga nel resto del mondo, Italia compresa6, mano mano che il cinema tocca limiti di saturazione e la televisione ricopre maggiori aree e potenzia meglio i suoi programmi.
Non è possibile fare pronostici sul termine e sui risultati del conflitto, tanto varie, fluide e incerte sono le forze in giuoco; al più, in questa sede, è lecito formulare un augurio, ed è che cinema e televisione, formidabili complessi di interessi economici, ma anche fattori ancor più formidabili di valori culturali e spirituali, passino dallo stato di guerra a quello di collaborazione; che non ci siano tra essi né vincitori né vinti, bensì solo complementari apportatori di civiltà alla società umana, ultimo scopo e termine di ogni ritrovato tecnico. Ma in attesa che l’augurio si compia, una cosa è certa, ed è che il cinema viene sconvolto da una rivoluzione: la seconda, profonda e definitiva, subìta nei suoi sessant’anni di vita.
Due rivoluzioni
La prima la subì negli anni 1926-’29, quando le immagini, da mute che erano rimaste per trent’anni, divennero sonore e parlanti. Ma a noi, che sbalordimmo avanti al nuovo miracolo, forse non meno di quanto i nostri nonni avevano fatto avanti al fonografo di Edison, poté sfuggire allora la portata reale dell’innovazione. Non solo le macchine di presa e di proiezione dovettero aumentare di metà la velocità di trazione della pellicola, portata da 16 a 24 fotogrammi al secondo, e renderla assolutamente costante sì da evitare ridicole o terrificanti distorsioni di voci; non solo gli studi di ripresa e le sale di spettacolo dovettero equipaggiarsi in costosi impianti sonori, ma la regia stessa e l’arte degli attori ne vennero sconvolte. Sommi registi, come Charlie Chaplin e René Clair, fortunatamente presto ricredutisi, temettero il prossimo tramonto dell’arte cinematografica e si affrettarono a salutarla con nostalgici addii, mentre altri, come Eisenstein, plaudivano al nuovo mezzo espressivo e ne teorizzavano l’uso col famoso manifesto dell’asincronismo, ovvero, del contrappunto sonoro.
Intanto, quasi per dare ragione ai primi, molte antiche stelle del muto tramontavano eclissate da nuovi astri, provvisti, più che di occhi, di ugole fatali, e i teorici si affrettavano a notare che la parola, più lenta a proferirsi e a percepirsi rispetto al gesto, che è di più immediata comunicabilità, mentre arricchiva il cinema di contenuti logici a danno di quelli emotivi, ne frenava il ritmo e quindi l’espressività artistica. Per soprammercato, proprio quando i maggiori costi di produzione e d’impianto e le necessità espansive delle sorgenti ideologie sociali e politiche esigevano linguaggio e mercati mondiali, come già alla Torre di Babele, col parlato il mondo si trovò in una nuova confusione delle lingue. Non fu più sufficiente quella della mimica, facilmente comprensibile, e più che mai dopo trent’anni di esercizio, tanto da esprimersi in film che, senza una riga di didascalie, erano stati intesi da pubblici di tutto il mondo...: ogni nazione produttrice si ritrovò chiusa nella sua lingua, bisognosa d’interprete, quindi obbligata ad affrontare ardui problemi economici, espressivi e di comunicazione umana, ancora non superati dopo venticinque anni di tentativi, se a tutt’oggi si discute tra le nazioni se sia da preferire la visione originale di film scarsamente comprensibili, alla facile comprensione di film più o meno adulterati dal doppiaggio.
Orbene: abbiamo motivo di credere che la seconda rivoluzione, che per brevità chiameremo dei formati, stia avendo conseguenze più sovvertitrici della prima. Basti pensare a quelle più immediatamente valutabili in termini economici: sale non adattabili a grandi schermi, o adattabili solo sacrificandovi gran numero di posti, tutti quelli, cioè, che, non sodisfacendo a un minimo di condizioni acustiche ed ottiche richieste dal sistema, offrirebbero ai clienti solo una parodia dello spettacolo grandioso promesso; macchinari ed apparecchiature sempre più complessi, non ricavabili mediante adattamenti ed accessori dai tradizionali, e dunque dispendiosissimi, oltre che d’incerto avvenire, stanti i sempre nuovi ritrovati della tecnica. Non devono correre tempi molto piacevoli per gli esercenti, da una parte vogliosi di battere la televisione attrezzandosi sui grandi formati, d’altra parte costretti ad ammannire l’enorme produzione ancora esistente in formato normale a pubblici resi schifiltosi dai sapori forti cui ormai hanno fatto il gusto: di qui le accorate loro suppliche alla produzione di voler finalmente unificare i formati (e i sistemi), grandi e complicati quanto si voglia, ma tanti e non più! Nel frattempo molti esercenti si vedono tagliati fuori dalla produzione più redditizia, o perché privi delle apparecchiature ottiche richieste o perché attrezzati solo su sonoro a tracciato fotografico e non anche a piste magnetiche; e il grande pubblico, che è poi quello che non può pagarsi il lusso delle prime visioni, assiste, ora divertito, ora disorientato e ora (da parte dei pochi che vi cercano un godimento di cultura e di arte) disgustato, ai più fantasiosi adattamenti delle novità ai mezzi di cui i cinema secondari dispongono: film di formato normale dilatati su grandi schermi, sì da falsare le inquadrature originali, tutte sistematicamente promosse da piano americano a mezza figura, da primissimo piano a particolare, e sì da rendere ogni minimo movimento di macchina traballante e farfalleggiante come certe panoramiche dei vecchi film muti...; fotogrammi standard proiettati in proporzioni cinemascope o vistavision, e perciò tagliando o le teste, o i piedi, o le une e gli altri, alle originali figure intere; film in cinemascope proiettati su schermi normali, o quasi, o non debitamente ricurvi, e dunque: o sfocati, o violentemente «condensati» tanto nei colori, rapportati ai contrasti delle più pacchiane «marmellate», quanto nel quadro, sì da fornire al pubblico, vedi ironia!, attirato con l’esca del cinemascope, non la promessa visione dilatata in larghezza, ma ridotta in altezza!
Se non è rivoluzione questa! E non c’è da farsi illusioni: essa si quieterà, se si quieterà, solo quando le forze in urto, coscienti o meno, avranno trovato un loro equilibrio, ma certamente non col restaurare l’ancien régime, definitivamente rotto. Ormai lo schermo s’è dilatato: d’una finestra ch’era sul mondo, è diventata una terrazza, un osservatorio, un aereo; le due dimensioni sono state abbandonate per la visione in rilievo naturale, e l’astrazione convenzionale del suono senza riferimenti allo spazio reale s’è abbandonata per quello stereofonico. Queste innovazioni resteranno, e non ne potremo più fare a meno: l’esperienza del sonoro non ce ne lascia il minimo dubbio.
Ci dorremo per questo? Francamente, in linea di principio, no! Tutto sta a vedere se la violenta mutazione in atto si conchiuderà con un miglioramento qualitativo della produzione o con un peggioramento; vale a dire: se i ritrovati tecnici si risolveranno in valori di civiltà umana positivi, oppure, nonostante le chiassose apparenze, in disumanizzazione dell’uomo.
Evoluzione o involuzione?
Indubbiamente il grosso del pubblico tende a scambiare l’introduzione di nuove tecniche per una positiva evoluzione artistica, equivocando tra emozione prevalentemente psicologica, di cui sono più carichi certi mezzi di linguaggio rispetto ad altri, ed emozione propriamente estetica, che dipende unicamente dall’ispirato uso di essi. Di qui la tendenza comune a dire un dipinto «più bello» di un semplice disegno, qualunque prospettiva cinquecentesca «più bella» di ogni piatta composizione bizantina, un lucido olio «più bello» di un acquerello o di un affresco e, sulla stessa linea di sensibilità epidermica, ma in altri campi, il monumento a Vittorio Emanuele «più bello» del non lontano Palazzo Massimo alle Colonne, la trionfale marcia di Bizet, specie poi se soffiata a pieno gas dalla banda comunale, «più bella» del minuetto del Boccherini e, in fondo, i fuochi d’artificio «il più bel» numero della festa patronale. Per il pubblico-massa non c’è discussione: un film sonoro vale più di qualunque film muto, ed un film a colori è preferibile a qualunque film in bianco e nero...; col grande schermo curvo, poi, del Cinerama, lo spettatore non assiste più ad uno spettacolo, ma violentemente è fatto partecipe egli stesso dell’azione: il rilievo l’ingoia, la musica lo circonda da ogni parte, sicché egli non ascolta più i suoni, ma vibra egli stesso come in una cassa armonica, fatto suono egli stesso. Dopo una esperienza di questo calibro, che l’ha preso tutto, scosso, rovesciato e ubriacato, come non definire «bellissima» una tale somma di conturbanti ed esaltanti emozioni? Come, al suo paragone, non giudicare poveri e scipiti, poniamo, il vecchio Million (1931), di R. Clair, e Brief Encounter (1945), di D. Lean? E se La febbre dell’Oro (1925), di Chaplin, riuscisse a sostenere il paragone della Tunica, sarebbe solo perché quello fa ridere... Sesquipedali spropositi! Eresia! – gridano scandalizzati non pochi, che oppongono all’entusiasmo volgare della massa un pessimismo, suffragato, a loro dire, dalla logica. E ragionano così: il quadro cinematografico finora in uso, sul rapporto 1:1,33, aveva le sue buone ragioni fisiologiche ed artistiche di essere. Esso, infatti, corrispondeva all’optimum della visione binoculare umana, essendo il rettangolo massimo inscritto nell’area di visione comune ai due occhi, dunque interamente intuibile senza nessun movimento di essi; inoltre si avvicina al rettangolo aureo (1:1,667) prescelto dei pittori come più adatto ad una composizione interna armonicamente ordinata; infine, conchiudono gli iniziati, dilatando il formato classico, il cinema dovrà rinunciare a molti dei mezzi espressivi che si era faticosamente appropriati, come i piani ravvicinati, i rapidi movimenti di macchina, specialmente verticali, e il montaggio per stacchi: onde una rinuncia all’indagine psicologica dei personaggi, un rallentamento generale del ritmo, nerbo e vita del cinema, che è definito: arte delle immagini in movimento...
Queste considerazioni ci sembrano fondate, ma parziali, e perciò non sufficienti per giustificare una condanna pura e netta dei nuovi formati. Quanto, per esempio, in esse è suggerito soltanto dalla natura obiettiva delle cose e quanto è piuttosto dal condizionamento da noi subìto in sessant’anni di esperienza monocorde cinematografica? Perché mai, per esempio, l’optimum della visione fisiologica umana dovrebbe escludere quella periferale con cui l’occhio scorge gli oggetti al limite del suo campo, offerti appunto dallo schermo dilatato? Chi può dimostrare che la natura stessa dell’arte cinematografica esiga il rapporto 2:3 del quadro empiricamente assegnatogli da Edison e da Lumière? Forse le esigenze estetiche che il cinema avrebbe in comune con la pittura? Ma quando mai il formato del quadro ha condizionato l’arte del pittore? Il pieno tondo della Sacra Famiglia del Buonarroti non è meno valido del tormentato mezzo cerchio del Miracolo di Bolsena, né meno espressiva è l’alta e stretta Assunzione di Tiziano perché non distesa in panoramica come il Convito di Levi del Veronese. Anzi, si direbbe che proprio la fissità di rapporto finora imposta al cinema per motivi puramente tecnici ed economici influisca a dargli quel carattere meccanico con cui difficilmente sembra accordarsi l’ispirazione artistica...
Altrettanti interrogativi si possono opporre a proposito dei mezzi espressivi che verrebbero ripudiati dal grande schermo. Sì, è vero, il Giovanna d’Arco (1928), di Dreyer, tutto giuochi di primi piani, in Cinerama sarebbe impossibile; è vero, il ritmo frenetico di Ombre rosse (1940), su schermo panoramico darebbe il capogiro: ma che ne consegue? Solo che non tutti i mezzi espressivi si attagliano a tutti i formati! Ma: adagio con le profezie catastrofiche! Chaplin e Clair, che, come abbiamo detto, si azzardarono a farne, dovettero riconoscere di aver errato; fortunatamente lo fecero da eccellenti artisti quali erano, creando i parlati Limelight (1952) e Le silence est d’or (1946)!7.
Sicché l’unica conclusione che le esperienze passate ci permettono di trarre, a nostro parere, è questa: che le nuove tecniche e i nuovi formati resteranno, ed altri forse ne verranno, ma ognuno troverà i propri mezzi creativi, sì da offrire all’artista la stessa abbondanza di generi che egli trova, poniamo, in letteratura, in pittura o in musica. Ci sarà lo schermo piccolo, con i suoi piani ravvicinati e il suo montaggio rapido, per il sonetto e l’analisi del romanzo intimista, per la miniatura e il quadro da cavalletto, per gli a solo e la musica da camera; il vistavision, ricco di particolari e d’insieme, servirà per i poemi cavallereschi e i drammi in costume, le grandi tele, i corali e l’opera, mentre lo sfondato del cinemascope, col suo spaziare all’aperto, sarà per l’epopea, per il grande affresco, su cui l’occhio scorre a suo agio, e per i cicli mitici di Wagner; e chissà che un giorno, quando un nuovo Alfieri e un nuovo Beethoven volessero proiettare sullo schermo le loro ispirazioni plurigeneri come il Saul e la Sesta, non ricorreranno all’ultima (per ora) diavoleria tecnica: lo schermo dilatabile a volontà!8.
Timori e speranze
Consiglieremmo, dunque, di non temere per il futuro del cinema come arte, se tre dati di fatto, del tutto estranei alle nuove tecniche, non ci dessero motivo di fondate preoccupazioni. Il primo dato è che, per l’enorme quantità di film che l’industria deve provvedere al consumo, i registi sono costretti a produrre non solo nei loro rari momenti di grazia, ma anche nei periodi dì secca; ora, in questi, quando l’artefice dispone solo di mezzi tecnici rudimentali, gli è difficile nascondere la povertà interiore, ma quando lo soccorrono tecniche complesse e clamorose, facilmente egli può camuffarla con le risorse del mestiere, e riscuotere l’applauso del pubblico sollecitandone i peggiori istinti di violenza e di sensualità, oppure abbondando in effettacci carichi di superficialissime emozioni, per i quali appunto la tecnica offre possibilità impensate.
Occorrerebbe nel pubblico maggiore cultura e finezza di gusto, ma purtroppo, e questo è il secondo dato di fatto, proprio le nuove tecniche del cinema da un pezzo stanno accentuando la sua diseducazione culturale, con effetti rovinosi. Tutto allora si salverebbe se nei produttori l’uso delle nuove tecniche venisse suggerito e moderato da considerazioni culturali ed artistiche; ma questo difficilmente avverrà. Per essi il cinema è solo un affare; l’unica cosa che ne attendono è il guadagno: e siccome questo è assicurato dal pubblico pagante, essi sono affamati di pubblico e, pur di averlo, non guardano ai mezzi: tanto meno oggi, quando appunto l’uso delle nuove tecniche, esagerando con i costi i rischi, richiede pubblico sempre maggiore. Ora essi sanno di che cosa il pubblico è goloso; sanno che cultura, buon gusto, arte... sono belle parole e anche cose rispettabilissime, ma buone solo per fare film da cineteche, e non se la sentono affatto la missione di provvedere, coi loro capitali, a popolare quei dignitosi ricoveri di capolavori economicamente falliti. Se fossero certi d’introitare maggiori guadagni riportando il cinema ai mezzi rudimentali di mezzo secolo fa, essi non aspetterebbero un giorno a far macchina indietro: ma non è così. Perciò, e questo è il terzo dato, continuano a correre verso il più complesso, senza darsi pensiero se, per fare cassetta, continuino a diseducare il pubblico.
Tutte le loro innovazioni finora hanno ubbidito a questa unica regola: introdussero il sonoro per far soldi; per far soldi introdussero il colore e, oggi, per far soldi passano al rilievo, al grande schermo e alla stereofonia. Le rare eccezioni di film artisticamente validi, come per esempio, Halleluja! (1929), di K. Vidor, Henry the Fifth (1955), di L. Olivier, East of Eden (1955), di E. Kazan, Continente perduto (1955), di Bonzi e Moser, in cui o il sonoro, o il colore, o il grande schermo o la stereofonia sono stati usati in funzione espressiva, confermano la regola, cui sfuggono solo rarissimi artisti, i quali riescono a non avere mortificata l’ispirazione dalle esigenze dell’affaristica imperante, come il grande Chaplin o, tra noi, Rossellini di Paisà; (1946) e di Roma città aperta (1945).
Come norma, il pubblico è sollecitato a pagarsi melodrammi lacrimosi e farse equivoche, epopee di cartapesta e farraginosi romanzi di appendice, caleidoscopici varietà, pagliacciate e repertori di canzonette, melense storie americane a lieto fine e rimasticature di western, contorsioni di anime torturate e psicanaliticamente sezionate, il tutto condito di musiche fragorose, di colori violenti, di colpi di scena e di ritmi convulsi... Ed il pubblico, docile, accorre ed applaude La rebelion de los colgados, La donna più bella del mondo, Grisbi, La Tunica, The Kentukian... e atrofizza quel poco di fantasia che ancora doveva mettere in moto quando assisteva a film che non erano solo grossolana riproduzione della più corposa realtà. Per comprenderli e gustarli occorreva una sua partecipazione personale: molta per seguire il muto, poca per il sonoro bidimensionale, nulla nel Cinerama. Ma il produttore lo vuole sempre più abbandonato, cosa, succube di un evento non “rappresentato” ma “prodotto”, nel quale esso viene violentemente lanciato ed assorbito, perché ne partecipi con una specie di agitazione molecolare, subita e non intellettualmente consapevole, se non negli effetti più grossolani di un’ubriacatura.
A quali eccessi tecnici ed inumani possa spingere la preoccupazione affaristica dei produttori non è dato prevedere. Per il momento, finalmente, c’è chi sta mettendo a punto il cinema a odori, evidentemente vitalissimo apporto agli interessi dell’arte!9, e pare che a Disneyland, presso Anaheim, già funzioni il circarama, vale a dire una fragorosa, e colorita e rilevata ripetizione del cinéorama, abortito mezzo secolo fa, per cui undici macchine proiettano simultaneamente su uno schermo circolare di 360 gradi: gli spettatori, situati al centro di esso, seguono lo spettacolo piroettando su poltrone girevoli, pare per non più di venticinque minuti alla volta, a causa del capogiro... Concludiamo osservando che non c’è innovazione di un certo rilievo la quale oggi non si ripercuota con profonde mutazioni sociali: se quelle del cinema facessero eccezione non ne avremmo parlato in questa sede. In realtà il cinema «crea un campo d’influsso straordinariamente ampio e profondo nel pensiero, nei costumi e nella vita dei paesi ove esso esplica il suo potere, soprattutto fra le classi umili, per le quali il cinema costituisce sovente l’unico svago dopo il lavoro, e tra la gioventù, che vede nel cinema il mezzo rapido e dilettevole per saziare la naturale sete di conoscenze e di esperienza che l’età loro promette»10.
Per questi motivi la rivoluzione in atto nel cinema c’interessa come uomini di studio e come sacerdoti, e con noi preoccupa quanti per vocazione e per mandato sono solleciti dell’avvenire umano e divino dell’umanità. Come crediamo di aver mostrato, i progressi della tecnica in se stessi non ci spaventano11, ma ci lascia perplessi l’uso che l’uomo ne può fare; perciò temiamo i loro tristi effetti finché la piena disponibilità di essi resterà in mano di quanti sono sordi a qualunque interesse che non sia quello del danaro. Sicché in cuor nostro formuliamo una nuova litania, che tenga presenti le nuove necessità spirituali dei nostri giorni, e preghiamo il Signore che liberi il cinema dall’impero del danaro e del cattivo gusto, i quali minacciano di trasformare il mondo di divino in umano, e di umano in selvatico, ma anzi si affretti, per più rapidamente trasformarlo di selvatico in umano e di umano in divino12, ad inviare al cinema, che ne ha urgente bisogno, molte anime di artisti e di poeti: essi soli potranno trasformare in opere d’arte i pericolosi e dispendiosi giocattoli che la tecnica ha fornito al cinema.
1 Basti ricordare, per il suono stereofonico, il film Fantasia di W. Disney, del 1940-41; per la visione stereoscopica, il sistema a occhiali bicolori escogitato da L. Lumière nel 1953, e per il grande schermo, il Napoléon (1926) di A. Gance, che comportava la proiezione simultanea su tre schermi normali: tardo e modesto epigono di più audaci tentativi escogitati quando il cinema era ancora in fasce; infatti risale al 1900 il Cinéorama, di Grimoin Sanson, che usava uno schermo circolare di cento metri di circonferenza, per animare il quale occorrevano ben dieci proiettori. Per i problemi tecnico estetici posti dalle nuove esperienze, cfr specialmente: FRED HIFT, Una nuova dimensione per il cinematografo, in Lo spettacolo, 1953, 2, pp. 110-121; A. PETRUCCI, Introduzione al Cinemascope, in Bianco e Nero, 1955, n. 5, pp. 56-67. Lo stesso PETRUCCI ha curato il volume: Cinemascope, Vistavision, Cinerama, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1955.
2 Si pensi che il suo impianto costa in Italia varie decine di milioni, e che per l’esercizio, al posto dell’uno o due operatori del cinema ordinario, esso richiede non meno di una decina di tecnici specializzati. A tutto il 1955 ai contavano in Europa solo quattro impianti di Cinerama: a Milano, Roma, Parigi e Londra.
3 Va sotto tale termine ogni schermo che superi il rapporto 1,33 tra larghezza e altezza dello schermo normale finora in uso, e perciò esso comprende anche le più comuni tra le moderne innovazioni: l’1,85 del Vistavision, il 2,55 del Cinemascope e il 4 del Cinerama.
4 Parte da un negativo di 952 mm2, pari a tre volte la superficie del fotogramma standard, che è di 320 mm2; per la sua alta definizione sopporta perfettamente la proiezione su superficie doppia di quella a cui si può spingere una pellicola standard (cfr M. PULEJO, Ferrania, 1954, n. 9, p. 28; Rivista tecnica di cinematografia, 1955, n. 4, p. 83).
5 Ricordiamo tra gli altri, il Metroscope (rapporto 1,75, obiettivo a corta focale), il Cinepanoramic e il Superscope (rapporto rispettivamente 2,55 e 2, con obiettivo anamorfico), il Camerama (con pellicola di 70 mm., obiettivo di 160 gradi), il Todd-AO (con la stessa grandezza di pellicola e sei piste sonore magnetiche: cfr Film, 1955, n. 1, p. 42); infine il Cyclotrona, che è un Vistavision, il quale espone tre fotogrammi da 35 mm., superando così i 145 gradi del Cinerama.
Una vera rivoluzione tecnica la introdurrà, sembra, l’incisione dei film su nastro magnetico, sperimentalmente già provata con sodisfacenti risultati dalla Bing Crosby Enterprises di Hollywood. Luci e suoni verrebbero trasformati in impulsi elettronici che disturbano le particelle magnetiche di un nastro simile a quello dei comuni registratori di voce. Nell’esperimento fatto, in un nastro largo poco più di un centimetro, tre sezioni convogliano i tre colori fondamentali: rosso, blu e giallo, una quarta i segnali di sincronizzazione e l’ultima la colonna sonora. Ma qui non ne teniamo conto, trattandosi di una esperienza tecnica che non si sa quanto potrà incidere sui mezzi espressivi del cinema e di cui non è possibile prevedere le modificazioni spettacolari avvertibili dallo spettatore medio (cfr Film, 1955, n. 2, p. 56).
6 Non sappiamo se la televisione abbia aumentato la produzione delle pantofole e dei pigiama anche fuori degli Stati Uniti; però dati inoppugnabili dimostrano che un po’ da per tutto nel mondo, nelle zone dove il consumo cinematografico era già arrivato alla saturazione o quasi, se poi coperte dalla T.V., l’afflusso del pubblico al cinema segna notevoli inflessioni. Per l’Italia, per tacere della fortunata rubrica «Lascia o raddoppia?», cfr Lo spettacolo, 1955, n. 3, p. 241 ss.
7 A dimostrare quanto siano pericolose certe profezie valga la smentita dell’ottimo Continente perduto (1955), ii quale, pur usando il procedimento cinemascope, ha la bellezza di 550 inquadrature.
8 L’invenzione è dell’americano Glenn Alvey: grazie ad uno speciale obiettivo, che viene applicato al proiettore, durante la proiezione le dimensioni e la forma del quadro sullo schermo muterebbero secondo le esigenze espressive delle varie scene. Ma anche questa non è una novità. Venticinque anni fa, quando la crisi economica incideva dannosamente anche sugli incassi del cinema, i produttori americani tentarono un salvataggio con grande schermo Magnascope, che però non ebbe successo per l’eccessiva spesa che importava. Ebbene, il tentativo ebbe tra l’altro il merito di occasionare le enfatiche elucubrazioni di Einsenstein sullo «schermo quadrato regolabile», contro cui poi espose pertinenti osservazioni R. SPOTTISWOODE, in A grammar of film (Londra 1935). Cfr FR. VENTURINI, Il problema estetico nella forma del quadrato cinematografico, in Ferrania, 1952, n. 8, pp. 23-25.
9 Alla Svizzera il merito, dove gli ingegneri Hans Laube e Rob Barth hanno fatto la grande invenzione nell’anno di nostra salute 1940 (Rivista del Cinematografo, 1948, n. 10, p. 9). A questo proposito H. G. WEIMBERG osserva ironicamente: «Il problema principale, per non dire altro, potrebbe essere quello di ottenere che un odore lasci la sala prima che il prossimo odore arrivi. Una volta giunti a questo, il cinerama mancherebbe soltanto dei sensi del gusto e del tatto per differenziani dalla vita reale; ma già si può essere certi che i tecnici sarebbero capaci di superare anche questo ostacolo. La differenza tra la vita vera e quella del cinerama allora si ridurrà a un punto evanescente... Ma che cosa ha che fare tutto ciò con l’arte? O almeno coll’arte del film?» (Bianco e Nero, 1953, n. 2, p. 81).
Nell’andare in macchina apprendiamo che l’America non vuol restare indietro alla Svizzera. Nell’Araldo dello spettacolo, anno XII, n. 41, p. 1 si annuncia: «Il mese scorso è stato sperimentato a New York il sistema Scentovision. Non si tratta di una novità opposta al panoramico ed allo stereofonico, ma bensì di un nuovo presunto passo verso il realismo integrale con l’uso degli odori diffusi nella sala per mezzo di piccoli vaporizzatori. Durante la settimana di esperimento un profumo di banane accompagnava lo scarico d’un piroscafo in un porto americano, mentre un odore d’erba fresca, appena falciata, “aromatizzava” la proiezione d’una scena di giochi campestri. La cronaca non dice quali siano state le reazioni del pubblico e quali potrebbero essere se invece dell’odor di banane o d’erba fresca si dovessero profumare, putacaso, le scene della sequenza nelle fogne di Vienna de Il terzo uomo o quelle di certi “angolini”, che, sino ad oggi, abbiamo solo visivamente ammirati in certi film di acuto e penetrante neorealismo».
10 PIO XII, Discorsi sul cinematografo, I, n. 4; in Civ. Catt. 1955, IV, 434.
11 Perciò condividiamo il fondamentale ottimismo che nel giudicare le possibilità estetiche delle nuove tecniche mostrano alcuni teorici del cinema, quali MAY (Lo stereocinema e il film di domani), C. VINCENT (La rivoluzione del rilievo è in cammino?), F. DI GIAMMATTEO (Il colore nel film: i quattrini, l’arte, la maturità), in Ferrania 1951, n. 9, p. 25; 1953, n. 2, p. 19; 1955, n. 11, p. 30). Anche B. BALÁZS, per quanto rimpianga il suo «uomo visibile» creato dal film muto, non se la sente di far coincidere primitività e povertà di tecniche con elevatezza e raffinatezza d’arte, e riconosce possibilità artistiche al cinema sonoro, al cinema a colori ecc., purché vengano considerati come forme espressive autonome e non come perfezionative di formule precedenti meno perfette (Cfr Il film, Torino, Einaudi, 1954, passim).
12 PIO XII, Esortazione ai fedeli di Roma, 10 febbraio 1952, in Pio XII per un mondo migliore, Roma 1954, n. 95.