NOTE
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1 Cfr Obiezioni facili contro il cinema come arte, in Civ. Catt. 1957, I, 610-619. La questione che trattiamo in questo articolo, diretto evidentemente a non specialisti, è una delle più trite nella stampa cinematografica. Tra gli altri ne hanno trattato nel 1932 B. BALÁZS, SELIGNAN, F. MORLION ecc. in Filmkunst; nel 1936 piuttosto confusamente nelle premesse ed ortodossamente nelle conclusioni, A. CONSIGLIO, in Cinema arte e linguaggio, Roma 1946, pp. 71 ss., 86 ss.; nel 1943 A. ARNOUX, in Du muet au parlant, Parigi 1945, p. 161 ss. (secondo il quale sarebbe stato R. Clair a suscitare la questione); nel 1949 L. CHIARINI, in Il film nei problemi dell’arte, Roma, p. 47 ss. Più recentemente ne hanno trattato, tra gli altri, M. VERDONE, a proposito di Hein Heckroth, in Bianco e nero, 1952, n. 12, 40-42; N. GHELLI, in Il problema dell’autore del film nel quadro della filosofia dell’esistenza (ivi, 1953, n. 3, p. 66 ss.). Nello stesso anno il Circolo romano del cinema ne faceva argomento di un dibattito. Anche A. FRATEILI ne ha trattato in Da nessun padre a troppi, in Filmcritica, 1956, n. 56, p. 45 ss.

2 Per una più ampia trattazione di questo argomento cfr R. CLAIR, Réflexion faite, Parigi 1951, pp. 245-256; G. L. Rondi, Analisi del film, Roma 1955; R. MAY, La tecnica del film, 1951; L. SOLAROLI, Com si organizza un film, Roma 1951; U. BARBARO, Soggetto e sceneggiatura, Roma 1947.

3 Cinema dell’intelligenza, Roma s. a., p. 14.

4 RONDI, op. cit., p. 18.

5 È noto il caso di un film italiano, al quale poche battute di dialogo nel finale hanno del tutto mutato la portata del tema, sicché la protagonista, che in un primo tempo si ribellava alla sua condizione, finisce con l’accettarla e con convertirsi, con quale verisimiglianza psicologica e validità estetica ce lo dice A. BAZIN: Son dénouement mystique, auquel l’auteur tien beaucoup, est artificiel. Nous ne croyons pas une minute à la conversion d’Ingrid (L’amour du cinéma, 1954, p. 110).

6 Valga, per le cento che si potrebbero portare, la testimonianza di L. BARSACQ, scenografo, tra gli altri film, del clairiano Les silence est d’or (1946). «Tutti i collaboratori di un film hanno un piccolo peccato: si tratta di dimostrare, ogni volta che viene loro offerta l’occasione, che l’apporto della loro specialità è preponderante nella realizzazione di un dato film. Questo è vero per lo sceneggiatore come per il montatore, per il direttore di produzione, senza dimenticare le vedette. In un film di R. Clair non si sono mai verificati simili controversie» (in La scenografia nel film, Roma 1956, p. 145). Nello stesso volume si riporta (p, 15) questo passo di A. Cavalcanti: «Gli operatori diventavano dei piccoli dittatori ogni qual volta si trattava di illuminare una scena, riuscendo in tal modo ad immischiarsi nel nostro lavoro. Può sembrare paradossale, ma succedeva effettivamente che, per ingraziarsi questi fotografi, gli architetti erano costretti a montare le costruzioni senza riguardi per l’illuminazione, cosa che non aiutava davvero a migliorare la scenografia».

7 G. FLORES D’ARCAIS, Il problema dell’arte, Napoli 1936, p. 19.

8 Ciò U. Barbaro scriveva nel 1936. Il brano è riportato in C. LIZZANI, Il cinema italiano, Firenze 1954, p. 326. Lo stesso concetto egli ribatte in L’attore creatore (in L. CHIARINI – U. BARBARO, L’arte dell’attore, Roma 1949, p. 323 ss.), ed è un mistero come poi egli possa affermare col Croce che e l’arte è passaggio... dal patico desiderare, bramare, volere allo estetico conoscere» (ivi, p. 325).

9 B. BALÁZS, Estetica del film, presentata e tradotta in italiano dallo stesso BARBARO nel 1954 (p. 184): l’originale tedesco, De Geist des films, è del 1931.

10 Per esempio, S. YUTKEVIC, in una conferenza del 1934, esalta la teoria del lavoro collettivo e ne descrive l’applicazione fattane al suo Montagne d’oro (1931); mentre, però, afferma che il metodo ha contribuito, e chi ne dubita?, a far conoscere a lui l’ambiente operaio e a dare agli operai una conoscenza del cinema che non avevano, non parla dei risultati artistici raggiunti dal suo film (cfr M. LAPIERRE, Anthologie du cinéma, 1946, pp. 210-214. Nello stesso volume, p. 275 ss. A. CAVALCANTI riferisce di un tentativo simile fatto da J. Grierson in Inghilterra). Per S. GHERASSIMOV «il cinema è senz’altro un’arte collettiva». Quando però dall’affermazione apodittica passa alla prova, sembra indeciso tra la tesi impostagli dal partito e la verità dimostratagli dalla sua esperienza di regista: «Soltanto la creazione collettiva di molte persone animate da una comune concezione del proprio compito artistico, trascinate e guidate dal pensiero, dal sentimento e dalla volontà del regista, può portare ad un pieno sucesso. Ed è vano il tentativo del regista di sostituirsi ai membri del suo collettivo, assumersi il compito di risolvere individualmente i compiti figurativi e drammatici. Esattamente allo stesso modo porta ad un insuccesso la tendenza opposta: rinunciare alla propria funzione direttiva, lasciando a ciascuno dei collaboratori del film la possibilità di ricerche personali che non derivano dalla trattazione dell’opera» (cfr ll mestiere del regista, Roma 1954, pp. 40-41). La stessa ambiguità di pensiero si sorprende in M. CIAURELI, il regista, per chi non lo sapesse, di quel Giuramento e di quel La caduta di Berlino, che tutta la stampa marxista di tutto il mondo esaltò come capolavori quando ancora era sacro il grande Stalin, il quale in essi veniva esaltato, e che la stessa stampa scopri che, in fondo, erano film mediocri quando il rapporto Kruscev decretò che l’idolo era falso. Mentre, infatti, il Ciaureli, esige che il regista «veda il futuro film come se fosse già creato, ne veda i personaggi in carne ed ossa, veda l’ambiente dell’azione, esterni ed interni, senta già il ritmo del montaggio, senta i suoni e la musica ancor prima dell’inizio delle riprese», poi afferma che «allora gli attori, lo scenografo e il compositore, i truccatori, i costumisti e, innanzi tutto, l’operatore – primo aiutante del regista, suo coautore per la soluzione figurativa del film – potranno indirizzare la loro creazione su un’unica linea partendo da quell’unico compito creativo che è stato trovato ed elaborato insieme a loro ed è divenuto il compito comune di tutto il collettivo. E ciascuno di loro saprà dare il massimo di cui è capace, manifesterà un’ampia iniziativa creativa, sapendo che ogni proposta preziosa. ogni trovata creativa saranno accolte con gratitudine anche dal regista» (ivi, p. 90)
A questo proposito, con la solita acutezza, R. Clair nota: «Quando Eisenstein, qualche anno dopo, affermerà che autore dei suoi film non era stato lui ma il popolo, egli non farà che colorire demagogicamente una teoria delle più contestabili. Non giochiamo sulle parole. Se La corazzata Potiomkin è fatta dal popolo, anche Gli ultimi giorni di San Pietroburgo sarebbe del popolo; ma, intanto, nel primo film c’è tutto lo stile di Eisenstein, e nel secondo c’è tutto quello di Pudovkin, differentissimi l’uno dall’altro, cosa inspiegabile se uno stesso popolo fosse l’autore dei due film» (op. cit., p. 97).

11 Cfr Il mestiere di regista, cit., pp. 195, 73 e 86. Sarebbe interessante un confronto tra questi atti di fede nell’arte contenutistica e quelli similari proclamati dagli “esteti” del fascismo e del nazismo. Cfr, tra l’altro, il discorso del presidente della Reichskulturkammer GIUSEPPE GOEBBELS, nel «Saggio di antologia estetica» Problemi del film, Roma 1939-XVII, raccolta da L. CHIARINI e U. BARBARO; il primo dei quali, presentandolo, lo dice «meritevole di particolare attenzione per la sua chiarezza, specifica conoscenza dei problemi e il suo coraggio», e perciò lo riporta per intero; ed affermato che «il cinema fatalmente deve avviarsi verso quella missione di civiltà e di cultura cui è destinato», dice di «credere fermamente che a rendere più rapido questo suo perfezionamento contribuiranno i paesi autoritari, che hanno più degli altri la forza per agire, ma soprattutto più degli altri la fede in una missione di civiltà». Di U. Barbaro abbiamo sott’occhio due brani di estetica contenutistica che, tuttavia, per essere stati scritti nell’Italia del 1935 e 1936 non sappiamo se vadano interpretati in senso fascista, secondo il tempo, o in senso marxista, conforme alla lettera. Eccoli: «Alla creazione di un film concorrono varie personalità collaboranti, che, per quanto affiatate, possono essere contraddittorie, su qualche punto almeno; è quindi necessario che il mondo morale che dovrà essere espresso in un film sia criticamente cosciente, delimitato, ed espresso in una forma sintetica, che possiamo chiamare tesi o tema; questa tesi costituirà l’asse morale del film e gli darà l’organicità necessaria ad ogni opera d’arte». «Il compito e il dovere (del film) è quello di interpretare i bisogni e le aspirazioni delle collettività. Da queste considerazioni si può dedurre e tenere per fermo che ogni film deve avere una tesi che ne costituisce l’asse ideologico, che ne determini tutti i particolari, e che sia il punto di convergenza degli sforzi di tutti i collaboratori. Tesi che non può essere un mediocre precetto, ma un’ampia e universale visione del mondo». Il bello si è che queste affermazioni seguono una che non si direbbe della stessa mano: «Pudovkin è autore di film a tesi realistici: secondo i canoni estetici ufficiali del bolscevismo. Che l’arte a tesi sia oratoria, e cioè pratica e non arte, è cosa che la sanno ormai cisposi e barbieri...» (cfr V. PUDOVKIN, Film e fonofilm, Roma 1935, Introduzione; C. LIZZANI, op. cit., p. 326).

12 Non prendiamo in considerazione la teoria di quanti sembrano ammettere il film come opera composita, mera compresenza nel tempo e nello spazio di espressioni artistiche compiute e a se stanti, come una statua in una cattedrale o un quadro in un salone di buona architettura. Sembra accedere a questa ipotesi G. CALOGERO, il quale nota: «... nell’ipotesi ideale... che a musica eccellente si accompagni un film non meno eccellente, chiaro resta che si avrà... la mera concomitanza di due capolavori, ciascuno dei quali sarà perfettamente separabile dall’altro» (Estetica, Semantica, Istorica, Torino 1947, p. 157); così pure, ma meno chiaramente, C. MOLLINO, in Le belle arti e il film (Roma 1950), il quale si rifà appunto all’esempio delle cattedrali gotiche (p. 73). Tuttavia, prevenendo le conclusioni verso le quali ci moviamo, non troviamo difficoltà ad ammettere che, di fatto, molto spesso dagli artisti (scrittori, compositori, attori, coreografi, pittori, scultori ecc....) la collaborazione è data al cinema non come arte a sé, bensì come miscuglio di varie arti (letteratura + musica + dramma + danza + pittura + scultura ecc.).

13 Legge 22 aprile 1941 Sulla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi col suo esercizio, artt. 10 e 44, in M. MONTANARI-G. RICCIOTTI, Disciplina giuridica della cinematografia,  Firenze 1953. vol. II, p. 97 ss. Per questo argomento cfr ivi, vol. I, p. 9, e M. RISTUCCIA, L’autore del film, in Rivista del cinematografo, 1956, n. 8, p. 13.

14 L’avventura del film, Roma 1952, p. 38, nota.

15 Può darsi il caso che, avvertita l’unità stilistica di un film, lo spettatore non ne sappia poi indicare la paternità in un nome preciso; ma questo capita anche in altre attività artistiche; basti ricordare le incertezze che ancora alimentano la questione omerica, e le contese tuttora non estinte circa la paternità delle tragedie di Shakespeare, dello Stabat Mater, del Concerto del Giorgione... e depone solo per un difetto o di dati obiettivi di cultura soggettiva.

16 Il rilievo è di un regista: A. BERTHOMIEU, il quale nel suo pratico Essai de grammaire cinématographique (Paris 1945, p. 65) scriveva: En cas d’insuccès disons-nous, car s’il est vrai qu’un film réussi se trouve des quantités d’auteurs et de collaborateurs, le film raté, lui, n’a qu’un responsable unique, le réalisateur.

17 Cfr M. LAPIERRE, Anthologie du cinéma, Parigi 1946, p. 293. Si avvicina all’idea di Pagnol l’americano J. MANKIEVICZ, il quale nel 1954 dichiarava: «Caratteri e tipi dominano nei miei film, e tutta la mia cura va al dialogo, perdendo ogni interesse per i valori scenici e formali. Ho voluto dimostrare in questi ultimi anni, in particolare in All about Eva (1949) e con A letter to three Wives (1949), che un film basato sul dialogo può reggersi perfettamente» (Rivista del cinematografo, 1954, n. 2, p. 16).

18 Per ST. PASSEUR, cfr M. L’HERBIER, Intelligence du cinématographe, Parigi 1946, p. 163; per G. ANNENK0V, cfr il suo volume Vestendo le dive. Roma 1955, pp. 19 e 25; per G. M. COISSAC, cfr M. L’HERBIER, cit., p. 319; per il padre MORLION e A. RUSZKOWSKI, cfr Revue international du cinéma, 1949, n. 4, p. 8; per S. GHERASSIMOV, dr Il mestiere del regista, cit., p. 17 ss. Anche A. FRATEILI sembra optare per la coppia soggettista-regista (cfr Da nessun padre a troppi, in Filmcritica 1956, n. 56, p. 45 ss.).

19 Tra i quali M. L’Herbier (in M. LAPIERRE, Anthologie du cinéma, cit., p. 303); L. CHIARINI, Il film nei problemi dell’arte, cit., p. 74 53.; G. L. RONDI, op. cit.; V. PUDOVXlN, Film e fonofilm, cit., pp. 174 e 149; 153 e 154, e passim; S. A. LUCIANI, Il cinema e le arti, 1942, p. 74.
A. Boaissov, attore russo, guidato da G. Roscial, difensore della collaborazione del collettivo anche in cinema, scrive: «A causa della natura stessa del cinema, assai spesso l’attore non può immaginarsi autonomamente i risultati del suo lavoro, e ciò a causa degli scorci di ripresa scelti dal regista, a causa del montaggio, dell’accompagnamento musicale. Già solo per questo l’attore cinematografico deve avere un’estrema fiducia nel metteur en scène e seguirlo fino in fondo» (Il mestiere del regista, cit., p. 360). A conferma A BERTHOMJEU (op. cit., p. 63) scrive: «Per illustrare in termini precisi le ragioni che ci fanno ritenere che un attore, per quanto intelligente sia e pratico nella tecnica cinematografica, non può interpretare normalmente un film senza le indicazioni e gli ordini del regista, ricordiamo l’esperienza seguente: avendo pronta una sceneggiatura, convocammo uno appresso l’altro il protagonista, la protagonista, il padre nobile ecc. pregandoli di leggerla e qualche giorno appresso domandammo loro il sunto del racconto. Il primo disse: “È la storia di un giovane che vuole bene a una ragazza, ma i suoi genitori si oppongono al suo matrimonio, allora egli fa questo e fa quello... ”. La seconda racconta: “È la storia di una ragazza molto fine e povera che si innamorata di un giovane figlio di un grosso industriale; ma siccome i parenti del giovane non approvano, la giovane fa questo e quello...”. L’autore scelto per il ruolo di padre senza un’ombra di incertezza spiegò: “È la storia di un grosso industriale il figlio del quale si vorrebbe sposare con una ragazza, e allora lui, l’industriale, fa questo fa quello...”: insomma, ogni personaggio aveva visto la storia in funzione del suo personaggio».

20 Op. cit. p. 168.

21 Op. cit. p. 208.

22 «Je décrète père de Thomas Garner... le monteur de l’ouvrage insignificant, dit-on, et assez platement conduit avant que ce démiurge de la pellicule en eût tiré la plus merveilleuse méditation sur les caprices de la durée et son kaléidoacope» (opcit. pp. 178-179).

23 A questo proposito cfr il nostro Il tetto, in Ferrania, 1956, pp. 6-7.

24 Per J. Giradoux, cfr M. LAPIERRE, op. cit., pp. 301-302; per M. VERDONE, cit., pp. 41-42.

25 Il musicista lo riporta in Cinema dell’intelligenza, cit., p. 50.

26 V. PUDVKIN, op. cit., p. 147.

27 B. IDESTAM ALMQUIST, Dramma e rinascita del cinema svedese, Roma 1954, p. 231.

28 In M. L’HERBIER, op. cit., p. 182.

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Articolo estratto dal volume II del 1957 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Onestamente, già prima di prenderle in esame, abbiamo qualificato come del tutto esteriori al processo espressivo del cinema, e perciò scarsamente concludenti, le quattro obiezioni mosse contro le sue possibilità artistiche1, e se vi abbiamo dedicato un impegno che i competenti avranno giudicato eccessivo, è stato, più che altro, perché il parlarne e il definirne la portata ci dava modo di fissare alcuni concetti sul cinema che sappiamo ignorati anche da molti, i quali, senza averne fatto oggetto di studi seri, tuttavia ne parlano, e magari ne sentenziano, a sua difesa o ad offesa poco importa. Al contrario, due obiezioni ci restano da esaminare, che, mentre si attaccano alla tecnica stessa del cinema, più di una volta trovano, anche tra i competenti, strani consensi ed aberranti soluzioni; e sono: l’asserita pluralità degli autori dell’opera cinematografica e l’assoluta dipendenza del cinema dalla realtà, la quale verrebbe materialmente riprodotta dalla macchina da presa.

Riserviamo questo articolo alla prima di esse, proponendoci insieme e di dimostrarne l’inconsistenza e di chiarire ulteriori caratteristiche di quello strano guazzabuglio di cose semplici e di cose complesse che è il cinema.

* * *

Che questo sia un’opera di collaborazione, a differenza di altre attività artistiche, lo intuisce anche chi solo una volta assista ad una ripresa cinematografica. Mentre il musico, il poeta o il pittore restano solitari creatori quando, avanti a un pezzo di carta o di tela, «quel che amore loro ditta dentro vanno significando», il cinema, se ha qualche cosa da significare, non lo fa senza spostare un esercito di persone, tante (e tanto invadenti e fragorose) che ben loro sta il termine francese di troupe, con cui in gergo vengono designate. E di questa sua caratteristica non si vergogna affatto, anzi si direbbe che si vanti, sciorinando avanti agli spettatori, prima di ogni film, le lunghe liste di attori che vi hanno preso parte (dette, con termine inglese, Cast), e quelle non meno lunghe dei suoi dirigenti e consulenti artistici e tecnici (con altro termine inglese dette Credit). Tuttavia, non è tanto la compresenza fisica di molte persone nell’atto della ripresa a far contestare al cinema la possibilità di fare dell’arte, quanto le interferenze e i rapporti di concorrenza che possono intercorrere tra le altre molte persone agenti nella lunga serie di passaggi che il suo nucleo originario deve superare prima che il film venga proiettato sullo schermo. Una descrizione sommaria di essi darà ai meno esperti un’idea di quanto sia complessa la produzione di opere cinematografiche e, insieme, faciliterà loro alcune nozioni, l’ignoranza delle quali fa impostare e sciogliere male non solo quello estetico, che ora ci interessa, ma anche gli altri problemi culturali, etici ed apostolici del cinema.

Dal soggetto allo schermo 2

All’origine di ogni film (come, del resto, di ogni opera d’ingegno) c’è un’idea; la quale si precisa narrativamente in un soggetto, cioè in un’indicazione sommaria della trama dell’azione e dei caratteri dei personaggi che vi prendono parte. Disponendo strutturalmente gli elementi narrativi del soggetto in una progressione cronologica dei fatti, sì da verificare se esso sia cinematografico o no, sia cioè esprimibile con immagini in movimento, si ha la cosiddetta scaletta: primo strumento di lavoro, che successivamente viene sviluppato nel trattamento (treatment): un elaborato, in cui si precisano ulteriormente i fatti, disponendone il racconto in unità narrative (sequenze), si approfondisce la psicologia dei personaggi e si preordina il cosiddetto materiale plastico, vale a dire tutto l’equivalente visivo e fotografabile delle espressioni letterarie contenute nel soggetto. Al trattamento segue la presceneggiatura, nella quale si sviluppano le singole scene, si fissano l’ordine delle stesse entro ogni sequenza, i modi di passaggio tra scena e scena, le qualità somatiche del materiale umano (= scelta degli attori), le battute-chiave del dialogò e i principali effetti sonori. Infine, la presceneggiatura, che è come la sintesi del futuro montaggio, si perfeziona nella sceneggiatura, che è come l’ultima analisi dello stesso, vale a dire: l’elenco ordinato delle inquadrature, corredato di tutte le relative indicazioni tecniche necessarie per l’attuazione del film.

A questa ultima tappa della fase letteraria del film, il soggetto, già contenuto in non più di cinque o sei cartelle, è diventato un volume di tre o quattrocento pagine, distinte in quattro colonne, nella prima delle quali sono segnati: il numero progressivo delle inquadrature, le indicazioni dei piani di ripresa, i movimenti di macchina, le azioni degli attori e del materiale plastico e i modi dei passaggi da un’inquadratura a un’altra; nella seconda: le battute del dialogo; nella terza: i rumori e la musica; nella quarta: le eventuali indicazioni sul colore.

Già a questo punto l’obiezione della pluralità degli autori nel cinema trova elementi più che sufficienti per prendere corpo. Infatti, raramente è avvenuto, ed è pochissimo probabile che avvenga, che uno stesso autore intuisca l’idea, stenda il soggetto e da solo lo sviluppi fino alla sceneggiatura. Intanto, all’origine di molti film non c’è neanche un’idea intuita vera e propria, ma solo una situazione qualunque, un assunto da dimostrare, un impegno propagandistico, che una, due, tre... cento persone possono fare propri, e descrivere, raccontare, ampliare e dimostrare, con un processo di accessione del tutto esterno al nucleo primitivo, nella maniera con cui più manovali possono sistemare una massa di mattoni: tali sono molti film-varietà, nei quali solo un convenzionale filo lega insieme filze di episodi e di sketchs delle più disparate provenienze. Altre volte il soggetto del film viene desunto da opere letterarie in sé concluse: romanzi, commedie, tragedie..., artistiche o meno; ed allora, Ladri di biciclette (1948) è del romanziere L. Bartolini o di Zavattini e De Sica, i quali, a suo dire, gli avrebbero rovinato il libro e la tesi?3. E Les deux timides (1928) è del commediografo E. Labiche o dello sceneggiatore e regista R. Clair? E Hamlet (1948), che della tragedia originale conserva a paroletta il testo, resta ancora di Shakespeare o è anche, e tutto, di Olivier?

Del resto, la produzione corrente è organizzata in modo tale che il concorso materiale di più autori, anche in questa prima fase preparatoria e letteraria, si rende normale e necessaria. Per essa, infatti, un “ufficio soggetti” li acquista come materiale grezzo, sul quale il loro autore, sia o non sia un poeta, vendendoli, perde qualunque diritto di paternità. In fase di trattamento e di presceneggiatura, se il soggetto, come spesso avviene, non è stato pensato cinematograficamente, specialisti ad hoc ne fanno quello che credono, pur di tradurre in equivalenti schermici le espressioni letterarie, sicché, se ci sanno fare, Dio solo sa quanto si salva del soggetto originario; indi, specialmente nella produzione americana, fedele alla formula della double story, se il soggettista non ci ha già pensato, un’altra storia secondaria viene inserita a contrappunto nella principale; dopo di che, se il soggetto risultasse ancora un po’ fiacchetto, o monocorde, si cerca di rinvigorirlo e di variarlo con un numero più o meno grande di trovate (= Gags), fornite da altri specialisti (= Gagmen), che le vendono un tanto l’una.

Ma, prescindendo anche da siffatti pirateschi procedimenti industriali, le modifiche e gli sviluppi che il soggetto viene a subire in fase di trattamento e di presceneggiatura, di norma sono tali che se chi vi lavora non è lo stesso autore del soggetto, e se, tuttavia, qualche cosa di esso riesce a passare nella sceneggiatura, non si può non ammettere la compresenza di più autori. Si tratta, infatti, di processi e di modifiche i quali incidono anche nel vivo degli eventuali valori espressivi dell’opera, quali: costruire le singole unità narrative (sequenze) e disporle in quella successione strutturale dalla quale dipende la verità dei nessi logici e l’equilibrio di tutto l’arco emotivo della narrazione; inoltre, in ogni sequenza «che comporta un’infinità di azioni e di scene possibili», si tratta di «stabilire una scelta di azioni, di fatti, di scene caratteristiche in funzione della sequenza proposta e trovare un ordine delle scene che, trascendendone i singoli significati, esprima un significato più ampio»4: in fase di sceneggiatura, poi, si tratta, tra l’altro, di fissare il dialogo; se questo, come spesso capita, viene affidato ad altri specialisti, i quali, scientemente o meno, possono, soltanto con qualche battuta, modificare non solo quanto fosse rimasto del tema primitivo, ma alterare e sconvolgere tutta la funzionalità strutturale della narrazione5 il risultato finale di tutte queste manipolazioni a chi dovrà attribuirsi? Chi mai direbbe unico l’autore di un romanzo di cui un pensatore avesse intuito il tema, uno scrittore l’avesse concretato in un abbozzo di racconto, un altro l’avesse sviluppato in capitoli, un terzo avesse stabilito l’ordine della loro successione, un quarto avesse provvisto le descrizioni e i caratteri dei personaggi e... un ennesimo avesse posto in bocca a questi le battute del dialogo?

L’obiezione, non c’è che dire, sembra motivata; ma il bello è che la seconda fase, tecnica, che porta il film dalla sceneggiatura allo schermo, sembra motivarla ancora di più! Infatti, la sceneggiatura non è il film. Finché le sue immagini restano, ci si perdoni il bisticcio, solamente immaginate, vale a dire imbozzolate nella loro espressione letteraria, del film esiste solo un progetto di lavoro. Occorre che esse infarfallino e volino sullo schermo. Per ciò occorre che un regista organizzi una «realtà» fotografabile e la fissi sulla pellicola; ma, per riuscirvi, data la complessità degli strumenti che la tecnica gli mette a disposizione, nonché le esigenze estetiche e culturali che oggi lo spettacolo cinematografico comporta, disponesse pure egli di cento occhi come Argo e di cento braccia come Briareo, deve ricorrere alla rumorosa e fragorosa troupe di cui sopra: attori che prestino il loro volto, la loro mimica, la loro voce; truccatori che li trasformino e costumisti che li vestano; architetti e pittori che progettino scenografie, ingegneri e maestranze che le costruiscano e le allestiscano, tecnici delle luci che le illuminino, operatori alla macchina, fonici, macchinisti...: altrettanti agenti vivi, persone, con proprie competenze specifiche, gusti ed intuizioni, che non possono non imprimere un’orma personale al loro lavoro, che, anzi, generalmente, sono anche vogliosi di imprimerla6!

Come se non bastasse, a motivare ulteriormente l’obiezione occorre il fatto che, una volta terminata la regia come attività tecnica, la pellicola impressionata abbisogna di altre manipolazioni, capaci di determinare ancora o di modificare i valori narrativi ed espressivi del film. Basti pensare alla stampa dei positivi in colore, al doppiaggio delle musiche e delle voci, ma, soprattutto, al montaggio, operazione con la quale dal cumulo di pellicola impressionata (decine o centinaia di chilometri) si scelgono i pochi spezzoni utili e si incollano in un’unica successione narrativa di due-tre chilometri. La più parte dei valori espressivi e della realtà dinamica del film dipendono da questa operazione, tanto creativa che molti hanno individuato in essa lo specifico filmico per eccellenza.

Di solito, come abbiamo osservato, piani di ripresa, lunghezza ed ordine delle inquadrature, modalità di attacco tra l’una e l’altra, corrispondenza della colonna sonora sincrona o meno, insomma, quanto serve a creare il tempo e lo spazio cinematografico proprio della narrazione, viene fissato in fase di sceneggiatura; tuttavia, ciò non toglie che spesso, anche se si tratta di sceneggiature «di ferro», vale a dire, almeno in teoria, rigidamente vincolanti tanto la ripresa quanto il montaggio, questo raramente viene eseguito dallo stesso sceneggiatore o dal regista, ma piuttosto da un altro specialista, il quale, in parte tenendo conto delle possibilità concrete e delle suggestioni fornite dal materiale girato, e in parte seguendo una sua interpretazione della sceneggiatura, raro è che si limiti a funzioni strettamente esecutive...

Alla fine, dunque, di questa lunga trafila, quando il film arriverà sullo schermo, a chi lo spettatore dovrà attribuirne la legittima paternità? Se a tutti i pretendenti insieme, come si salverà l’unità interna dell’opera d’arte? E se ad uno solo, a quale di essi?

Persona o cooperativa l’artista?

Che un’opera d’arte, per essere tale, debba saldamente consistere in una sua unità interna, cioè in una essenziale semplicità di ispirazione e nel suo totale «informarsi» nei mezzi espressivi usati dall’artista, il quale, proprio in questo suo personale adeguare l’espressione all’intuizione rende stile il suo esprimersi, e crea, ce l’hanno insegnato coi primi latinetti, quando ci addestrarono a scoprire e a gustare nelle opere d’arte letterarie e figurative che erano alla nostra portata appunto quell’unità interna che ne armonizzava l’apparente pluralità, e, attraverso essa, ci avviarono a risalire al mondo di unità e di bellezza delle alte fantasie che ad esse avevano dato vita. E col crescere degli anni trovammo affermata questa esigenza di unità così nelle antiche poetiche di Aristotele e di Orazio come nelle numerose retoriche via via pubblicate dal cinquecento fin sulla soglia di questo secolo, e la ritrovammo confermata dalle varie estetiche, quando queste tentarono di sistemare filosoficamente i precetti empiricamente insegnati da quelle; infatti, per ricordare solo due concezioni estreme, non solo quelle idealistiche l’esigono – e come non lo potrebbero, se vogliono restare coerenti in quel loro ridurre tutto all’unità dello spirito? –, ma anche quelle della mimesi, purché questa non si fraintenda – come spesso è avvenuto per passione di polemica – quasi significasse semplice copia della natura.

Già «con Aristotile la mimesi non è del particolare e del finito, ma dell’universale possibile: che si esprime artisticamente quando una legge razionale – la legge di unità e di coerenza – sappia guidare e regolare la limitazione»7; negli scolastici medievali, poi, essa, più che imitare la natura nel suo materiale esistere, tende ad imitare il modo di agire di essa, o meglio, del Supremo Artista; sicché, come Dio, partecipando l’essere alle cose che crea, conferisce loro quell’unità nel molteplice, la quale, in esse sorpresa dall’uomo, piace, e le fa dire belle, così l’artista, analogico creatore, è chiamato a far esistere l’opera d’arte, partecipandole una sua verità e una sua unità interiore, la quale, sorpresa dallo spettatore, la fa dire artistica. Ma in buona metafisica, se «uno» era l’effetto prodotto, proporzionalmente «una» doveva essere la causa produttrice; sicché, mentre la creazione, opera di Dio, trova nel Suo infinito intelletto e nel Suo volere la radice ultima della sua verità e della sua bellezza essenziale, così l’opera d’arte mutua la sua verità ed unità essenziale da una intelligenza-volontà individua, insieme concepente ed eseguente l’opera; vale a dire, da una persona.

Ci voleva l’estetica contenutistica dei regimi totalitari e, più tra tutte, quella marxista, per far udire voci extra chorum in questo millenario unisono di poeti, di letterati, di esteti e di filosofi! E, date le sue premesse metafisiche, specialmente del marxismo, c’era da aspettarselo! Infatti, negata l’esistenza e la possibilità di qualunque essere non materiale, radicalmente adeguata l’attività dell’intelligenza a quella delle forze fisiche, osteggiato (eccezion fatta per il Tutto-Genio-Duce di turno) qualunque valore autonomo di individui eccezionalmente dotati, ed annullata ogni personalità con ridurla a parte di una massa, che è fonte e termine unico di tutti i valori umani, quale parte poteva restare per l’artista solitario creatore? Eccoli, dunque, codesti esteti, rigettare, con tanto più incivile sdegno quanto più incongrui sono i loro trapassi logici, l’unicità dell’autore nell’opera d’arte e, in particolare, nel film. Ascoltiamone uno di casa nostra, U. Barbaro: «La novità del film rispetto alle altre arti, e la sua caratteristica più tipica, è data dal suo esser frutto di collaborazione... Alcuni esteti buontemponi commettono l’enorme e ormai inqualificabile errore di considerare il film alla stregua delle altre arti, si dilettano di arzigogolare sull’unico autore del film, che naturalmente è il regista. È una concezione grettamente individualistica quella che ci presenta, come ideale, la figura, fortunatamente piuttosto rara, del regista che insegue onanisticamente un suo solitario sogno di bellezza, trova un mecenate imbecille che glielo fa realizzare, e lo presenta infine a uno sparuto gruppo di esteti assetati dell’acqua pura del fonte lustrale, sacro e suggellato ai non iniziati»8. Ma prima del Barbaro, il grande teorico ungherese Béla Balázs, come il Nostro confondendo la cooperazione materiale con quella formale, affermava: «La tecnica del film, per se stessa, esclude l’individualismo assoluto. Un film non può mai essere l’espressione assoluta di una singola personalità, come avviene nelle altre opere. Si può scrivere, dipingere, e comporre musica da soli; ma un film è un’opera collettiva, del soggettista, del regista, dell’operatore, dello scenografo, dell’attore. Per non parlare del produttore, che suol mettere bocca in tutto. È una cosa, che può esistere solo come espressione collettiva di un gruppo umano, già, per la sua più profonda natura, esige un’unanimità, che è condizione, tra l’altro, della sua universale comprensibilità»9. Non sarebbe difficile raccogliere un florilegio di similari affermazioni, fatte da registi russi (S. Yutkevic, S. Gherassimov, M. Ciaureli ecc.), commoventi per la loro esemplare disciplina10.

Essi, tuttavia, quando sono sollecitati ad assegnare un principio che assicuri e spieghi quell’unità interna, che non possono negare essere necessaria all’opera d’arte, l’indicano non in un’individua ispirazione poetica, bensì in uno scopo esterno all’opera stessa: la tesi della esaltazione della rivoluzione socialista, e nell’unica ideologia che ne assicura il trionfo: il marxismo, principio unificatore di tutte le intelligenze e volontà concreatrici. «Raffigurare la realtà nel suo sviluppo rivoluzionario: a tale scopo la verità e la concretezza storica della raffigurazione artistica devono associarsi al compito di trasformare ed educare ideologicamente i lavoratori nello spirito del socialismo» insegnava il generale Zdanov al I Congresso degli scrittori sovietici; e il regista sovietico M. Ciaureli ossequiosamente gli faceva eco: «Il partito comunista definì con precisione il compito dell’arte: servire il popolo, portare fra le masse del pubblico le grandi idee d’avanguardia della nostra contemporaneità... È proprio perché gli artisti sovietici sono forniti della concezione marxista-leninista, proprio perché il loro rapporto con la vita sociale si conforma come una partecipazione cosciente e attiva alla costruzione del comunismo, è proprio per questo che il realismo socialista è diventato il metodo creativo dell’arte sovietica»11.

Non è necessario spendere molte parole per dimostrare l’inanità di tale ripiego. Sì, il convergere di più intelligenze e di più volontà può assicurare una certa unità al lavoro di più uomini, ma non l’unità che fa l’opera d’arte, la quale non si può assimilare affatto né al moto unitario di un mobile sollecitato da più forze unidirezionali, né ad un piatto complicato portato a termine col concorso di più cuochi, e neanche alle molte opere d’ingegno che si conoscono, pregevoli per valori storici, culturali, sociali, religiosi, tecnici, linguistici... ma prive di unità stilistica. Questa è data solo dall’idea poetica e dall’adeguato conformarsi ad essa dei mezzi espressivi dell’artista; dall’idea poetica, che è doppiamente personale, perché, mentre stabilisce una relazione vitale tra l’artista e la sua opera, sicché tutto il mondo di questa è il mondo di quello, e lo stile dell’opera è l’uomo stesso che l’ha espressa, tuttavia è essenzialmente individua, e perciò incomunicabile ad altro individuo, sicché, se due artisti riescono a fondere il loro sentire in un’opera d’arte, ciò avviene tramite questa, come da causa a causato, e non perché siano concausa nella creazione di essa; dall’idea poetica, l’unica che rende, appunto, “creazione” il fare artistico. Come, infatti, il creare dell’Artista divino dà l’unità sostanziale alle cose, o col tirarne dal nulla i costituenti, o conferendo un essere essenzialmente nuovo ad elementi preesistenti col farli sussistere in una nuova forma sostanziale, che è imitazione e partecipazione del suo infinito modo di essere, così l’operare dell’artista umano stringe elementi molteplici ed eterogenei in un’opera una, imprimendo in essi qualche cosa del suo modo di essere personale, e tanto più vitalmente personale quanto maggiormente molteplici ed eterogenei ne erano i costitutivi materiali. Nell’ipotesi, dunque, che un’opera d’arte richieda di fatto il concorso operativo di più artisti, essendo non la coordinazione cooperativistica dei pari ma la subordinazione dell’ubbidienza gerarchica l’unico modo di stabilire una volontà unitaria tra più cause libere, occorre che nell’operare artistico tutte si dispongano come strumento di una di esse, prima e superiore, la quale, sia pure mediante esse, informi di sé l’opera, e perciò ne sia e si dica l’unico autore12.

* * *

Dall’unità dell’effetto a quella della causa

Ci pare che, al punto in cui siamo arrivati con la nostra indagine, con alcune distinzioni si possa ormai decidere quanti e quali siano gli autori di un’opera filmica.

Una prima distinzione precisa l’aspetto giuridico della questione da quello morale ed estetico. Siccome quel che importa al legislatore non è tanto a chi si devono attribuire gli eventuali valori intrinseci di un’opera d’ingegno portata a termine col concorso di più persone, quanto determinare la portata e i limiti della concreta e materialmente controllabile collaborazione avvenuta, ai fini della tutela del diritto d’autore, la legge, ponendo in essere una presunzione juris et de jure, elenca quali «coautori: l’autore del soggetto, l’autore della sceneggiatura, l’autore della musica e il direttore artistico», vale a dire il regista; e siccome il film – a differenza di un’enciclopedia, dove il contributo dei collaboratori sarebbe materialmente definibile in tante pagine e righe – «è opera creata con il contributo inestinguibile ed inscindibile di più persone», in mancanza di una espressa pattuizione scritta, la legge applica un regime di comunione e stabilisce che «il diritto d’autore appartiene in comune a tutti i coautori»13. Ma, evidentemente, queste considerazioni e disposizioni giuridiche lasciano del tutto impregiudicata la questione, se il cinema, a motivo della pluralità dei suoi autori, possa o non possa raggiungere le alte soglie dell’arte.

Una seconda distinzione, invece, ci avvierà decisamente al traguardo, ed è quella che rileviamo tra film e film. Ci pare, infatti, che proprio la confusione che si fa nell’accettazione di questo termine, quasi esso fosse, per natura o per convenzione, univoco, quando invece è equivoco, sia a complicare il problema. Chiaro è, infatti, come, se esso viene preso quasi sinonimo di opera cinematografica stilisticamente compiuta, arte (cfr il «Cinema è industria, e film è l’opera artistica», di L. Chiarini), si possano coniare formule semplici apparentemente risolutive, quale, per esempio, quella di R. May: «Il cinema è arte di collaborazione, il film è opera di regista»14 Ma per noi, come abbiamo più precisato, film è termine neutro, come quadro, libro, i quali, in quanto tali, non implicano un giudizio di valore del loro contenuto, potendo essere quadro un Velasquez e una pia oleografia, libro le Pensées di Pascal e gli atti di un congresso. E se film designa qualunque prodotto del cinema in quanto complesso ordinato di immagini visivo-sonore schermiche, qualunque siano i suoi valori spettacolari, scientifici, didattici, culturali o estetici, quelli di Totò sono film e lo sono quelli di Rossellini, e sono film quelli di propaganda ideologica e quelli di pubblicità commerciale. E di questi film diciamo: se sono vere opere d’arte non possono non ubbidire all’essenziale esigenza d’unità interna, e quindi hanno un solo autore; e se non lo sono, allora di autori ne possono avere tanto uno quanto due, dieci, centomila, e, in fondo, il loro numero, ai fini della questione che trattiamo, non ci riguarda.

Sembrerà strano questo nostro negare la pluralità degli autori partendo dall’artisticità del film, proprio per rispondere a chi partiva dalla pluralità di essi per mettere in dubbio che il cinema potesse produrre opere d’arte. Eppure, questo ci pare l’unico modo valido di procedere. Pensiamo, infatti, che la questione, così come di solito viene posta: – Chi è l’autore del film? – non abbia senso, non esistendo “il film”" ma tanti singoli film, ciascuno dei quali pone un suo particolare problema critico; sicché, nell’esaminare esteticamente un film, la strada da battere non è quella che parte dall’autore, unico o plurimo, e da questo vuole arrivare alla validità o meno dell’opera, ma quella che parte dall’esame interno di essa, e dalla consistenza dei suoi valori stilistici, conclude o meno all’unicità dell’autore. Nella maggior parte dei film normali sfornati dall’industria basta un minimo di esame critico per rilevarvi le caratteristiche dei prodotti artigianali. Felicemente il critico G.L. Rondi li paragona a certi cavallucci di legno prodotti in serie, ai quali un operaio scolpisce il tronco, un altro appicca la testa ed apposta la criniera, un terzo attacca le gambe, un quarto innesta la coda e un ultimo dà il colore e la rifinitura...: un po’ di pazienza e di pratica ed ecco individuato in questi film, non amalgamato col resto ma rappreso in se stesso, l’apporto del soggettista e del gagman, quello dello sceneggiatore e quello del costumista, la maniera dello scenografo, quella del musicista, quella del montatore e, perché no?, anche quella del regista... Tuttavia, per quanto raramente, qualche volta, fin dalle prime inquadrature, anche senza leggere i titoli di testa, e la certezza ne dura fino alle ultime, un nome s’impone, inequivocabile: È Clair! È Eisenstein! È Ford! È Dreyer; né più né meno di quanto ci avviene in altre esperienze artistiche, dove alcuni periodi, pochi versi, una decina di battute, un effetto di contrasto luministico, un incarnato... ci fanno dire: Questo è Carducci, questo è Leopardi, questa è musica di Rossini, questo è un Caravaggio, questo è un Rubens...15.

Bastano pochi di questi casi per provare che nei film, almeno qualche volta, la condizione dell’autore unico può verificarsi e, dunque, che la presunta necessaria presenza di più volontà creative è un’obiezione priva di fondamento oggettivo. Con ciò potremmo senz’altro passare ad esaminare l’ultima obiezione contro la possibilità del cinema come arte. Tuttavia, per non defraudare una legittima attesa dei lettori, ci permettiamo un supplemento di indagine per rispondere a due domande: Chi di fatto sia questo unico autore delle opere filmiche, e come sia mai possibile che egli, in un intrecciarsi tanto complesso di cooperatori liberi qual è quello che sopra abbiamo descritto, conservi quel minimo di libero dominio che ogni opera di creazione richiede.

Alla ricerca d’una paternità

Comunemente si ritiene che l’autore di un film sia il suo regista. Concorda con questa opinione l’uso corrente d’individuare i film appunto col nome di esso, specialmente in caso di omonimia di titoli o di comunanza di soggetto (per esempio, La Giovanna d’Arco: di Dreyer, di Flemming e di Preminger, e non della Falconetti, della Bergman o della Seberg), nonché la tendenza a chiamarlo unico responsabile quando il film fa fiasco, (ché, quando incassa, il pubblico, e specialmente i suoi collaboratori, l’ultimo a cui ne riconoscano il merito è il regista...)16. Tuttavia, per quanto ciò possa parere strano, le cose non sono andate sempre così. Per esempio, ai primi tempi del cinema, i film venivano attribuiti piuttosto alle case produttrici (Pathé, Gaumont, Ambrosio...), qualche volta all’operatore (Promio...), ed altre, specialmente nei “film d’arte”, all’interprete famosa (La Dame aux Camélias (1912), di Sarah Bernhardt).

Quando dalle attribuzioni empiriche si passò alle motivazioni teoriche, altre opinioni disparate non si fecero attendere; così per il commediografo M. Pagnol, per il quale il cinema è solo teatro fotografato – Le film parlant est l’art d’imprimer, de fixer et de diffuser le théatre! – il suo vero autore è quello del testo scritto17; per l’attore St. Passeur «nei film sonori l’attore è tutto»; il costumista G. Annenkov, per conto suo, modestamente riporta l’opinione di J. Delannoy, secondo la quale «il costumista è il più importante collaboratore di un film: è una specie di regista in seconda»... sulla via dei coautori in coppie gli sono compagni G. M. Coissac, A. Blasetti, padre Morlion, A. Ruszkowski ed altri, per i quali il soggettista, se non la vince sul regista, almeno gli sta alla pari, (onde il luogo comune della crisi del cinema = crisi di soggetti), nonché S. Gherassimov, per il quale a contendersi la paternità col regista ci sarebbe lo sceneggiatore: opinione che sembrerebbe convalidata dai frequenti casi di gemellaggio – Prévert-Carné, Nichols-Ford, Zavattini-De Sica, Amidei-Rossellini ecc. – venuti a tentare nel cinema quanto con buon successo tentarono, al loro tempo, i fratelli Goncourt e i fratelli Grim nel romanzo e nella favolistica18. Insomma un bel rompicapo, per sciogliere il quale proponiamo, a nostra volta, una nostra soluzione, confortati dal trovarne gli elementi nella dottrina di molti tra i nostri migliori teorici e critici cinematografici19.

Prima di tutto pensiamo, insieme con R. Clair, che la ricerca anagrafica dell’autore vada condotta film per film, ogni opera cinematografica comportando, come si è detto, una soluzione propria: A la sempiternelle question: – Qui est le véritable auteur d’un film? – on ne peut donner aucune réponse définitive. Il n’y a dans ce domaine que des cas particuliers20. Per cominciare, ad un estremo, vale a dire in certa produzione artigianale deteriore, pensiamo che con lo stesso titolo si possono dire autori tutti (e nessuno) quanti materialmente vi collaborano: produttore, direttore di produzione, regista, musicista, montatore, scenografo, dialoghista, sceneggiatore, attore, macchinisti, soggettisti...: si tratta, infatti, di film che sono conglomerati caotici, occasionati dal fortuito incontro di forze fisiche più che da elezioni personali di forze libere. Vale di essi quanto lo stesso R. Clair nota dei film americani: «Salvo qualche eccezione la firma dei loro “autori” non vale molto di più di quelle che figurano nei biglietti di banca, nei quali si può sostituire il nome di un cassiere con quello di un altro senza che per questo si alteri il valore del biglietto»21. Mano mano, invece, che si passa a lavori di qualche impegno morale, culturale, scientifico, espressivo, su su fino ad opere di una qualche eccellenza, non è escluso, anzi frequentemente avviene che l’uno o l’altro tra i collaboratori riescano ad imprimervi una decisa orma personale, la quale può diventare sì prevalente sulle altre interferenti da dare al film una sua fisonomia, una sua carica persuasiva ed espressiva, una sua atmosfera, sia pure non totale e del tutto omogenea...

Nella massima parte di questi casi, l’autore principale, per le ragioni che apporteremo di qui a poco, non può essere che il regista. Questi, però, può venire emulato, e qualche volta scavalcato da altri coautori; per esempio, in film che sono mera ripresa di opere liriche o fedeli interpretazioni di testi teatrali. chi non riconoscerebbe volta a volta autori Puccini o Bizet, Shakespeare o Shaw, Pirandello, Pagnol o Guitry?. E in altri, costruiti su misura per certi attori preferiti dal pubblico, come gli stessi non ne resterebbero gli «autori» principali, si chiamino essi Greta Garbo o Anna Magnani, Rodolfo Valentino o Humphrey Bogart, Jean Gabin, Sordi o Totò? Forse in vena di paradossi, A. Arnoux decreta autore di The power and the Glory (1933) non il regista W. K. Howard, ma il suo... montatore22.

Anche senza arrivare a questi estremi, quasi sempre nei film ci sarà motivo di applicare la teoria del drammaturgo J. Giradoux, secondo la quale in ogni film sono da ricercarsi due autori, l’uno «nel tempo» (= lo scrittore) e l’altro «nello spazio» (= il regista), i quali rarissimamente si identificano del tutto, il più delle volte l’assimilazione e la ri-creazione dell’uno nell’altro non avvenendo affatto, o non senza qualche coagulo e qualche frattura; basti, per restare in casa nostra, pensare ai film del fortunato e glorioso tandem Zavattini-De Sica, in molti dei quali il bozzettismo e le cariche sociali del primo non sempre si dissolvono nel lirismo del secondo...23. Ma fratture e valenze non risolte possono verificarsi anche tra “autori” diversi; chi, per esempio, non riconosce come operatori, nei film in cui essi intervengono, il Figueroa e il Tissè? E nelle scenografie dei film di Feyder chi non individua la mano di L. Meerson? A proposito di scenografi, giustamente M. Verdone, accettando la teoria del Giradoux, rileva che in alcuni film dei registi M. Powel e E. Pressburger, non il soggettista ma l’architetto-costumista Hein Heckroth deve riconoscersi coautore, o parziale, come in Stairway to Heaven (1946) e The Red Shoes (1947), o addirittura principale, come in Hoffman’s Tales (1952)24.

Le stesse osservazioni potrebbero ripetersi a proposito dei pittori espressionisti che prepararono i fondali del Caligari (1919) e di altri film dell’espressionismo tedesco, nei quali i valori scenografici sono cosi rilevanti che gli stessi attori, si può dire, fanno parte di essi.

Il regista autore

Tutta questa casistica, ed altra che potremmo produrre, prova ad abundantiam che nessun ragionamento a priori potrebbe definire chi sia l’autore di un film, e che solo lo può, a posteriori, il segno lasciato dalla sua personalità nell’opera, e rilevato dallo esame interno di essa; tuttavia, ciò non c’impedisce di pensare che nella maggior parte dei film si possa e si debba individuare nel regista il loro autore principale, e qualche volta unico, e ciò perché l’esperienza corrente avalla quanto la comune convinzione dà per certo, e soprattutto perché nell’uso dei mezzi tecnici del cinema, solo il regista, per sé, cioè prescindendo dalle imposizioni e gli intralci che le ambizioni altrui possono creargli, più che ogni altro collaboratore è chiamato ad assolvere quella funzione direttiva ed unificante che deve assicurare l’unità interna, desiderabile in ogni film, strettamente necessaria in un’opera d’arte.

È umano che il soggettista ci tenga al suo intreccio originalissimo, che il gagman desideri che soprattutto vengano apprezzati i suoi gags, e che il dialoghista esiga che gli spettatori gustino l’eleganza e la forza del suo testo letterario, e che gli attori, generici e comparse compresi, sognino di restare sullo schermo il più a lungo possibile, e in primo piano: lo dicano o non lo dicano, ognuno è portato a considerare la sua parte come centrale nel film; anche l’architetto con le sue scenografie, i macchinisti con i loro effetti luministici, i tecnici del suono, i rumoristi con i loro speciali effetti, l’operatore con le sue angolazioni e inquadrature originali, il montatore, il doppiatore... A lasciar fare tutti secondo il loro proprio estro, la troupe diverrebbe un’orchestra nella quale i musicanti facessero a chi suona più forte e più a lungo... Narra J. Ibert, autore della musica nel Don Chisciotte (1933) di Pabst, che il celebre Chaliaplin, invitato a stare allo spartito e a moderare il suo estro eccessivo, rispose: «Io canto come sento», al che il compositore ribatté: «E io scrivo come sento»... Fortuna che all’atto pratico si misero d’accordo...25.

Orbene, il paragone che fa del regista un direttore di orchestra, se zoppica un po’ è perché diminuisce la figura del regista piuttosto che darne la giusta misura; questi, infatti, se appena è poeta, e riesce a liberarsi dalle sollecitazioni esterne che tendono a mortificare il suo libero esprimersi, trova nei mezzi tecnici ed umani del cinema ben più che un sussidio per interpretare la creazione da un altro fissata in uno spartito. Non c’è fase nella creazione e comunicazione filmica in cui egli non possa, per sé, intervenire creativamente, dato che nulla, per lui, è vincolante; tutto ha un valore di proposta, che egli può accettare, modificare o rifiutare: dal soggetto originario al montaggio definitivo. Anche con una sceneggiatura di ferro, come abbiamo detto, una volta nel Set, ricorra o meno al pensatoio clairiano, nessuno gli vieta di ripiegare su soluzioni del tutto impreviste. Egli può scegliere gli attori, noti o ignoti che siano, e chiedere loro tutte le prestazioni che crede: chi ha visto Jeux interdits (1952), Le Salair de la peur (1953), Gervaise (1956) ed altri, in cui il regista dimostra coi fatti che «quello che l’attore fa dinanzi all’obiettivo non è per lui che materiale grezzo»26, potrà forse porsi il problema della liceità morale di quel disumanizzare la persona umana a materia, non certo quello dei limiti che i suoi collaboratori, fisicamente liberi, apporrebbero all’esprimersi del regista. Più che direttore di orchestra, al dire di V. Sjostrom, che se ne intendeva, un regista cinematografico deve essere un dittatore. «Deve comandare, e da solo. Un Lubitsch, un Capra [e poteva aggiungere: un Chaplin, un Clair, un Dreyer...] non sopportano nessuna intromissione»27. Già G. Méliès nel 1907 scriveva: «L’autore deve saper prevedere tutto nella carta, ed essere perciò soggettista e regista, scenografo e spesso anche attore, se vuole ottenere un tutto unitario. Deve dirigere l’azione come egli stesso l’ha immaginata, essendo del tutto impossibile venire a termine di qualche cosa se dieci persone vogliono dire la loro. Prima di tutto egli deve sapere con precisione che cosa vuole e predisporre fino agli ultimi particolari le parti degli attori»28. Che questo possa verificarsi frequentemente è poco probabile; tuttavia che qualche volta il miracolo si compia, in linea di diritto non si può negare, e anzi, in linea di fatto, grazie a Dio, si può dimostrare più volte avverato. Ciò è sufficiente se non per assicurare in ogni caso l’opera d’arte, almeno per rigettare come non valida l’obiezione contro le possibilità artistiche del cinema, desunta dalla pretesa necessaria pluralità degli autori.

1 Cfr Obiezioni facili contro il cinema come arte, in Civ. Catt. 1957, I, 610-619. La questione che trattiamo in questo articolo, diretto evidentemente a non specialisti, è una delle più trite nella stampa cinematografica. Tra gli altri ne hanno trattato nel 1932 B. BALÁZS, SELIGNAN, F. MORLION ecc. in Filmkunst; nel 1936 piuttosto confusamente nelle premesse ed ortodossamente nelle conclusioni, A. CONSIGLIO, in Cinema arte e linguaggio, Roma 1946, pp. 71 ss., 86 ss.; nel 1943 A. ARNOUX, in Du muet au parlant, Parigi 1945, p. 161 ss. (secondo il quale sarebbe stato R. Clair a suscitare la questione); nel 1949 L. CHIARINI, in Il film nei problemi dell’arte, Roma, p. 47 ss. Più recentemente ne hanno trattato, tra gli altri, M. VERDONE, a proposito di Hein Heckroth, in Bianco e nero, 1952, n. 12, 40-42; N. GHELLI, in Il problema dell’autore del film nel quadro della filosofia dell’esistenza (ivi, 1953, n. 3, p. 66 ss.). Nello stesso anno il Circolo romano del cinema ne faceva argomento di un dibattito. Anche A. FRATEILI ne ha trattato in Da nessun padre a troppi, in Filmcritica, 1956, n. 56, p. 45 ss.

2 Per una più ampia trattazione di questo argomento cfr R. CLAIR, Réflexion faite, Parigi 1951, pp. 245-256; G. L. Rondi, Analisi del film, Roma 1955; R. MAY, La tecnica del film, 1951; L. SOLAROLI, Com si organizza un film, Roma 1951; U. BARBARO, Soggetto e sceneggiatura, Roma 1947.

3 Cinema dell’intelligenza, Roma s. a., p. 14.

4 RONDI, op. cit., p. 18.

5 È noto il caso di un film italiano, al quale poche battute di dialogo nel finale hanno del tutto mutato la portata del tema, sicché la protagonista, che in un primo tempo si ribellava alla sua condizione, finisce con l’accettarla e con convertirsi, con quale verisimiglianza psicologica e validità estetica ce lo dice A. BAZIN: Son dénouement mystique, auquel l’auteur tien beaucoup, est artificiel. Nous ne croyons pas une minute à la conversion d’Ingrid (L’amour du cinéma, 1954, p. 110).

6 Valga, per le cento che si potrebbero portare, la testimonianza di L. BARSACQ, scenografo, tra gli altri film, del clairiano Les silence est d’or (1946). «Tutti i collaboratori di un film hanno un piccolo peccato: si tratta di dimostrare, ogni volta che viene loro offerta l’occasione, che l’apporto della loro specialità è preponderante nella realizzazione di un dato film. Questo è vero per lo sceneggiatore come per il montatore, per il direttore di produzione, senza dimenticare le vedette. In un film di R. Clair non si sono mai verificati simili controversie» (in La scenografia nel film, Roma 1956, p. 145). Nello stesso volume si riporta (p, 15) questo passo di A. Cavalcanti: «Gli operatori diventavano dei piccoli dittatori ogni qual volta si trattava di illuminare una scena, riuscendo in tal modo ad immischiarsi nel nostro lavoro. Può sembrare paradossale, ma succedeva effettivamente che, per ingraziarsi questi fotografi, gli architetti erano costretti a montare le costruzioni senza riguardi per l’illuminazione, cosa che non aiutava davvero a migliorare la scenografia».

7 G. FLORES D’ARCAIS, Il problema dell’arte, Napoli 1936, p. 19.

8 Ciò U. Barbaro scriveva nel 1936. Il brano è riportato in C. LIZZANI, Il cinema italiano, Firenze 1954, p. 326. Lo stesso concetto egli ribatte in L’attore creatore (in L. CHIARINI – U. BARBARO, L’arte dell’attore, Roma 1949, p. 323 ss.), ed è un mistero come poi egli possa affermare col Croce che e l’arte è passaggio... dal patico desiderare, bramare, volere allo estetico conoscere» (ivi, p. 325).

9 B. BALÁZS, Estetica del film, presentata e tradotta in italiano dallo stesso BARBARO nel 1954 (p. 184): l’originale tedesco, De Geist des films, è del 1931.

10 Per esempio, S. YUTKEVIC, in una conferenza del 1934, esalta la teoria del lavoro collettivo e ne descrive l’applicazione fattane al suo Montagne d’oro (1931); mentre, però, afferma che il metodo ha contribuito, e chi ne dubita?, a far conoscere a lui l’ambiente operaio e a dare agli operai una conoscenza del cinema che non avevano, non parla dei risultati artistici raggiunti dal suo film (cfr M. LAPIERRE, Anthologie du cinéma, 1946, pp. 210-214. Nello stesso volume, p. 275 ss. A. CAVALCANTI riferisce di un tentativo simile fatto da J. Grierson in Inghilterra). Per S. GHERASSIMOV «il cinema è senz’altro un’arte collettiva». Quando però dall’affermazione apodittica passa alla prova, sembra indeciso tra la tesi impostagli dal partito e la verità dimostratagli dalla sua esperienza di regista: «Soltanto la creazione collettiva di molte persone animate da una comune concezione del proprio compito artistico, trascinate e guidate dal pensiero, dal sentimento e dalla volontà del regista, può portare ad un pieno sucesso. Ed è vano il tentativo del regista di sostituirsi ai membri del suo collettivo, assumersi il compito di risolvere individualmente i compiti figurativi e drammatici. Esattamente allo stesso modo porta ad un insuccesso la tendenza opposta: rinunciare alla propria funzione direttiva, lasciando a ciascuno dei collaboratori del film la possibilità di ricerche personali che non derivano dalla trattazione dell’opera» (cfr ll mestiere del regista, Roma 1954, pp. 40-41). La stessa ambiguità di pensiero si sorprende in M. CIAURELI, il regista, per chi non lo sapesse, di quel Giuramento e di quel La caduta di Berlino, che tutta la stampa marxista di tutto il mondo esaltò come capolavori quando ancora era sacro il grande Stalin, il quale in essi veniva esaltato, e che la stessa stampa scopri che, in fondo, erano film mediocri quando il rapporto Kruscev decretò che l’idolo era falso. Mentre, infatti, il Ciaureli, esige che il regista «veda il futuro film come se fosse già creato, ne veda i personaggi in carne ed ossa, veda l’ambiente dell’azione, esterni ed interni, senta già il ritmo del montaggio, senta i suoni e la musica ancor prima dell’inizio delle riprese», poi afferma che «allora gli attori, lo scenografo e il compositore, i truccatori, i costumisti e, innanzi tutto, l’operatore – primo aiutante del regista, suo coautore per la soluzione figurativa del film – potranno indirizzare la loro creazione su un’unica linea partendo da quell’unico compito creativo che è stato trovato ed elaborato insieme a loro ed è divenuto il compito comune di tutto il collettivo. E ciascuno di loro saprà dare il massimo di cui è capace, manifesterà un’ampia iniziativa creativa, sapendo che ogni proposta preziosa. ogni trovata creativa saranno accolte con gratitudine anche dal regista» (ivi, p. 90)
A questo proposito, con la solita acutezza, R. Clair nota: «Quando Eisenstein, qualche anno dopo, affermerà che autore dei suoi film non era stato lui ma il popolo, egli non farà che colorire demagogicamente una teoria delle più contestabili. Non giochiamo sulle parole. Se La corazzata Potiomkin è fatta dal popolo, anche Gli ultimi giorni di San Pietroburgo sarebbe del popolo; ma, intanto, nel primo film c’è tutto lo stile di Eisenstein, e nel secondo c’è tutto quello di Pudovkin, differentissimi l’uno dall’altro, cosa inspiegabile se uno stesso popolo fosse l’autore dei due film» (op. cit., p. 97).

11 Cfr Il mestiere di regista, cit., pp. 195, 73 e 86. Sarebbe interessante un confronto tra questi atti di fede nell’arte contenutistica e quelli similari proclamati dagli “esteti” del fascismo e del nazismo. Cfr, tra l’altro, il discorso del presidente della Reichskulturkammer GIUSEPPE GOEBBELS, nel «Saggio di antologia estetica» Problemi del film, Roma 1939-XVII, raccolta da L. CHIARINI e U. BARBARO; il primo dei quali, presentandolo, lo dice «meritevole di particolare attenzione per la sua chiarezza, specifica conoscenza dei problemi e il suo coraggio», e perciò lo riporta per intero; ed affermato che «il cinema fatalmente deve avviarsi verso quella missione di civiltà e di cultura cui è destinato», dice di «credere fermamente che a rendere più rapido questo suo perfezionamento contribuiranno i paesi autoritari, che hanno più degli altri la forza per agire, ma soprattutto più degli altri la fede in una missione di civiltà». Di U. Barbaro abbiamo sott’occhio due brani di estetica contenutistica che, tuttavia, per essere stati scritti nell’Italia del 1935 e 1936 non sappiamo se vadano interpretati in senso fascista, secondo il tempo, o in senso marxista, conforme alla lettera. Eccoli: «Alla creazione di un film concorrono varie personalità collaboranti, che, per quanto affiatate, possono essere contraddittorie, su qualche punto almeno; è quindi necessario che il mondo morale che dovrà essere espresso in un film sia criticamente cosciente, delimitato, ed espresso in una forma sintetica, che possiamo chiamare tesi o tema; questa tesi costituirà l’asse morale del film e gli darà l’organicità necessaria ad ogni opera d’arte». «Il compito e il dovere (del film) è quello di interpretare i bisogni e le aspirazioni delle collettività. Da queste considerazioni si può dedurre e tenere per fermo che ogni film deve avere una tesi che ne costituisce l’asse ideologico, che ne determini tutti i particolari, e che sia il punto di convergenza degli sforzi di tutti i collaboratori. Tesi che non può essere un mediocre precetto, ma un’ampia e universale visione del mondo». Il bello si è che queste affermazioni seguono una che non si direbbe della stessa mano: «Pudovkin è autore di film a tesi realistici: secondo i canoni estetici ufficiali del bolscevismo. Che l’arte a tesi sia oratoria, e cioè pratica e non arte, è cosa che la sanno ormai cisposi e barbieri...» (cfr V. PUDOVKIN, Film e fonofilm, Roma 1935, Introduzione; C. LIZZANI, op. cit., p. 326).

12 Non prendiamo in considerazione la teoria di quanti sembrano ammettere il film come opera composita, mera compresenza nel tempo e nello spazio di espressioni artistiche compiute e a se stanti, come una statua in una cattedrale o un quadro in un salone di buona architettura. Sembra accedere a questa ipotesi G. CALOGERO, il quale nota: «... nell’ipotesi ideale... che a musica eccellente si accompagni un film non meno eccellente, chiaro resta che si avrà... la mera concomitanza di due capolavori, ciascuno dei quali sarà perfettamente separabile dall’altro» (Estetica, Semantica, Istorica, Torino 1947, p. 157); così pure, ma meno chiaramente, C. MOLLINO, in Le belle arti e il film (Roma 1950), il quale si rifà appunto all’esempio delle cattedrali gotiche (p. 73). Tuttavia, prevenendo le conclusioni verso le quali ci moviamo, non troviamo difficoltà ad ammettere che, di fatto, molto spesso dagli artisti (scrittori, compositori, attori, coreografi, pittori, scultori ecc....) la collaborazione è data al cinema non come arte a sé, bensì come miscuglio di varie arti (letteratura + musica + dramma + danza + pittura + scultura ecc.).

13 Legge 22 aprile 1941 Sulla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi col suo esercizio, artt. 10 e 44, in M. MONTANARI-G. RICCIOTTI, Disciplina giuridica della cinematografia,  Firenze 1953. vol. II, p. 97 ss. Per questo argomento cfr ivi, vol. I, p. 9, e M. RISTUCCIA, L’autore del film, in Rivista del cinematografo, 1956, n. 8, p. 13.

14 L’avventura del film, Roma 1952, p. 38, nota.

15 Può darsi il caso che, avvertita l’unità stilistica di un film, lo spettatore non ne sappia poi indicare la paternità in un nome preciso; ma questo capita anche in altre attività artistiche; basti ricordare le incertezze che ancora alimentano la questione omerica, e le contese tuttora non estinte circa la paternità delle tragedie di Shakespeare, dello Stabat Mater, del Concerto del Giorgione... e depone solo per un difetto o di dati obiettivi di cultura soggettiva.

16 Il rilievo è di un regista: A. BERTHOMIEU, il quale nel suo pratico Essai de grammaire cinématographique (Paris 1945, p. 65) scriveva: En cas d’insuccès disons-nous, car s’il est vrai qu’un film réussi se trouve des quantités d’auteurs et de collaborateurs, le film raté, lui, n’a qu’un responsable unique, le réalisateur.

17 Cfr M. LAPIERRE, Anthologie du cinéma, Parigi 1946, p. 293. Si avvicina all’idea di Pagnol l’americano J. MANKIEVICZ, il quale nel 1954 dichiarava: «Caratteri e tipi dominano nei miei film, e tutta la mia cura va al dialogo, perdendo ogni interesse per i valori scenici e formali. Ho voluto dimostrare in questi ultimi anni, in particolare in All about Eva (1949) e con A letter to three Wives (1949), che un film basato sul dialogo può reggersi perfettamente» (Rivista del cinematografo, 1954, n. 2, p. 16).

18 Per ST. PASSEUR, cfr M. L’HERBIER, Intelligence du cinématographe, Parigi 1946, p. 163; per G. ANNENK0V, cfr il suo volume Vestendo le dive. Roma 1955, pp. 19 e 25; per G. M. COISSAC, cfr M. L’HERBIER, cit., p. 319; per il padre MORLION e A. RUSZKOWSKI, cfr Revue international du cinéma, 1949, n. 4, p. 8; per S. GHERASSIMOV, dr Il mestiere del regista, cit., p. 17 ss. Anche A. FRATEILI sembra optare per la coppia soggettista-regista (cfr Da nessun padre a troppi, in Filmcritica 1956, n. 56, p. 45 ss.).

19 Tra i quali M. L’Herbier (in M. LAPIERRE, Anthologie du cinéma, cit., p. 303); L. CHIARINI, Il film nei problemi dell’arte, cit., p. 74 53.; G. L. RONDI, op. cit.; V. PUDOVXlN, Film e fonofilm, cit., pp. 174 e 149; 153 e 154, e passim; S. A. LUCIANI, Il cinema e le arti, 1942, p. 74.
A. Boaissov, attore russo, guidato da G. Roscial, difensore della collaborazione del collettivo anche in cinema, scrive: «A causa della natura stessa del cinema, assai spesso l’attore non può immaginarsi autonomamente i risultati del suo lavoro, e ciò a causa degli scorci di ripresa scelti dal regista, a causa del montaggio, dell’accompagnamento musicale. Già solo per questo l’attore cinematografico deve avere un’estrema fiducia nel metteur en scène e seguirlo fino in fondo» (Il mestiere del regista, cit., p. 360). A conferma A BERTHOMJEU (op. cit., p. 63) scrive: «Per illustrare in termini precisi le ragioni che ci fanno ritenere che un attore, per quanto intelligente sia e pratico nella tecnica cinematografica, non può interpretare normalmente un film senza le indicazioni e gli ordini del regista, ricordiamo l’esperienza seguente: avendo pronta una sceneggiatura, convocammo uno appresso l’altro il protagonista, la protagonista, il padre nobile ecc. pregandoli di leggerla e qualche giorno appresso domandammo loro il sunto del racconto. Il primo disse: “È la storia di un giovane che vuole bene a una ragazza, ma i suoi genitori si oppongono al suo matrimonio, allora egli fa questo e fa quello... ”. La seconda racconta: “È la storia di una ragazza molto fine e povera che si innamorata di un giovane figlio di un grosso industriale; ma siccome i parenti del giovane non approvano, la giovane fa questo e quello...”. L’autore scelto per il ruolo di padre senza un’ombra di incertezza spiegò: “È la storia di un grosso industriale il figlio del quale si vorrebbe sposare con una ragazza, e allora lui, l’industriale, fa questo fa quello...”: insomma, ogni personaggio aveva visto la storia in funzione del suo personaggio».

20 Op. cit. p. 168.

21 Op. cit. p. 208.

22 «Je décrète père de Thomas Garner... le monteur de l’ouvrage insignificant, dit-on, et assez platement conduit avant que ce démiurge de la pellicule en eût tiré la plus merveilleuse méditation sur les caprices de la durée et son kaléidoacope» (opcit. pp. 178-179).

23 A questo proposito cfr il nostro Il tetto, in Ferrania, 1956, pp. 6-7.

24 Per J. Giradoux, cfr M. LAPIERRE, op. cit., pp. 301-302; per M. VERDONE, cit., pp. 41-42.

25 Il musicista lo riporta in Cinema dell’intelligenza, cit., p. 50.

26 V. PUDVKIN, op. cit., p. 147.

27 B. IDESTAM ALMQUIST, Dramma e rinascita del cinema svedese, Roma 1954, p. 231.

28 In M. L’HERBIER, op. cit., p. 182.

In argomento

Cinema

n. 3193, vol. III (1983), pp. 64-71
n. 3134, vol. I (1981), pp. 116-137
n. 3125, vol. III (1980), pp. 375-393
n. 3119, vol. II (1980), pp. 433-451
n. 3068, vol. II (1978), pp. 154-158
n. 3027-3028, vol. III (1976), pp. 262-267
n. 3017, vol. I (1976), pp. 474-481
n. 3012, vol. IV (1975), pp. 568-573
n. 2964, vol. IV (1973), pp. 564-569
n. 2925, vol. II (1972), pp. 214-227
n. 2916, vol. IV (1971), pp. 569-580
n. 2909, vol. III (1971), pp. 381-390
n. 2907-2908, vol. III (1971), pp. 247-257
n. 2891, vol. IV (1970), pp. 464-474
n. 2878, vol. II (1970), pp. 354-361
n. 2874, vol. I (1970), pp. 583-587
n. 2871, vol. I (1970), pp. 269-723
n. 2872, vol. I (1970), pp. 372-76
n. 2867, vol. IV (1969), pp. 21-29
n. 2809, vol. III (1967), pp. 60-62
n. 2755, vol. II (1965), pp. 21-34
n. 2675, vol. IV (1961), pp. 449-463
n. 2674, vol. IV (1961), pp. 383-395
n. 2669, vol. III (1961), pp. 514-516
n. 2668, vol. III (1961), pp. 403-407
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n. 2662-2664, vol. II (1961), pp. 372-386, 598-612
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n. 2656-2658, vol. I (1961), pp. 382-390, 592-604
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