Il processo artistico impegna tutto l’uomo: intelligenza e fantasia, ragione e sensibilità; e questo, sia nel momento in cui l’artista esperisce la sua prima intuizione in termini di fantasia, e poi via via la determina e la individua nella fase creativa, selezionando e dosando i mezzi espressivi che gli si offrono, sicché il suo esprimersi s’innalza a dignità di stile; sia nel momento in cui lo spettatore, messo avanti all’opera d’arte, dagli elementi stilistici di essa risale al mondo intimo dell’artista, ed entrando in sintonia con esso, ne gusta, contemplandoli e vivendoli, i valori di bellezza.
Ciò posto, la via più diretta per decidere se un’opera sia d’arte o no e, quindi, se la specifica attività umana che l’ha prodotta possa e debba dirsi essa stessa arte, sarebbe quella di porre spettatori, capaci di giudizio estetico, avanti a una o più opere candidate a questo giudizio, ed attendere; se le opere, per quanto rese presenti ed esaminate, risultano magari ricche di valori culturali e sociali, tecnici o storici, psicologici o religiosi, ma non suscitano mai una commozione di serena fruizione di bellezza, sia pure parziale: sospendere il giudizio ed attendere ulteriori prove positive; se, invece, da una o da più opere che adoperano un fondamentalmente identico linguaggio espressivo, – nel caso del cinema quello delle immagini schermiche in movimento, – finalmente una scintilla scocca ed inizia il processo di fusione illuminante tra il mondo espresso dall’artista e quello intuito dallo spettatore, allora, la risposta non potrebbe essere dubbia: si tratterebbe di un’opera d’arte e, se ab esse ad posse valet illatio, artistica sarebbe l’attività che l’avesse prodotta.
Potremmo, dunque, ricorrere a questo procedimento per dimostrare anche l’artisticità del cinema, analizzando, previa la loro ripetuta visione, alcuni film i quali, a detta degli intendenti, ritengono a buon diritto la qualifica di opere d’arte, come, per citare solo alcuni tra i titoli più noti ai frequentatori di cineclub, Bronenosetz Potiomkin (1925) di Eisenstein e La passion de ]eanne d’Arc (1929) di Dreyer, Le million (1931) e Le silence est d’or (1947) di Clair, The Gold Rush (1925) e The Circus (1928) di Chaplin, Le journal d’un Curé de campagne (1950) di Bresson e Hamlet (1945) di Olivier, Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) di Rossellini, Sciuscià (1946) di De Sica... Ma ci rinunciamo; e perché, di solito, queste opere sono note a solo chi non ha bisogno di siffatta dimostrazione e perché, quand’anche ci fossero le condizioni per darla, affinché riuscisse valida, occorrerebbe nello spettatore, oltre ad un minimo di gusto, un minimo d’iniziazione al linguaggio filmico, cioè proprio quei presupposti, la mancanza dei quali spiega l’atonia o i pregiudizi di molte persone davanti al cinema.
Càpita, infatti, rispetto a questo, quello che càpita pure rispetto alle altre forme di espressione artistica; quanti, che non abbiano affinato dallo studio e dall’esercizio il gusto innato della bellezza, e quanti che un sistematico tirocinio non ha introdotto alla piena comprensione delle opere d’arte, sono capaci di leggere, pienamente gustandole, se non proprio senza annoiarsi, poniamo, l’Edipo Re o le Bucoliche, di contemplare, ma non con la svagata curiosità del turista, le Porte del Ghiberti o le tele del Canaletto, di trovare il Palazzo Strozzi o l’intermezzo della Cavalleria “più interessanti” della Torre Eiffel o della fanfara dei bersaglieri?
Preferiamo, perciò, limitarci a ribattere ad alcune obiezioni opposte dai negatori del cinema-arte, per quanto, come vedremo, non ci sembrino tutte meritevoli di refutazioni in forma. Confutandole, avremo modo insieme e di rilevare la loro inconsistenza e, specialmente rispondendo a quelle che diremo “intrinseche”, di chiarire le premesse prime del linguaggio filmico.
Giacché le obiezioni solite a farsi sono di due specie: alcune si attaccano alla tecnica stessa della produzione cinematografica e del suo linguaggio, e sono: le pretese pluralità degli autori ed essenziale dipendenza dalla realtà fotografata; altre si rifanno a circostanze del tutto estrinseche al film come eventuale opera d’arte; cercheremo di sbrigarci di queste ultime, per poi approfondirci in una più utile discussione delle prime.
Dove sono i film artistici?
Alla prima, che perentoriamente chiede: «Dove sono le opere d’arte prodotte dal cinema?», sostanzialmente abbiamo già risposto con i titoli sopra riportati. Tuttavia, anche se non fosse riuscito a toccare quelle eccelse vette che F. Crommelynck assicura già raggiunte («Tale evoluzione tecnica ha valso di recente, in questa espressione artistica, delle opere paragonabili per perfezione ai grandi capolavori della pittura, della scultura e della letteratura»)1, ed avesse ragione L. Bartolini nel lamentare che «mai sino ad oggi il cinema è assurto alle altezze a cui giunsero le antiche belle arti»2, dopo aver doverosamente ribattuto che poche arti si salverebbero se per conservare il loro diploma di maturità le obbligassimo a sfornare, ogni mezzo secolo, colossi di capolavori come quelli di Omero e di Dante, di Prassitele e di Leonardo, di Michelangelo e di Wagner, faremmo osservare che ogni attività artistica andrebbe orgogliosa di enumerare, in appena pochi decenni, quanti ne conta il cinema, tante opere stilisticamente valide quante esso già oggi vanta; e ciò osservando, ci sovverrebbero i nomi di D. W. Griffith, K. Vidor, J. Ford ed E. Kazan, A. Kurosawa e K. Mizoguchi, A. Korda e D. Lean, J. Renoir, R. Clément, M. Carné e J. Feyder, M. Stiller, V. Sjostrom e V. von Sternberg, W. Murnau, A. Dupont e W. Pabst, Blasetti, Germi e Castellani, e di altri ancora, che in America e in Giappone, in Inghilterra, in Francia, Svezia, Germania, Italia e altrove hanno reso in immagini schermiche il loro estro poetico; nonostante i pericoli insiti nella tecnica del cinema, i quali, se, come vedremo, non necessariamente riescono a soffocare l’espressione artistica, tuttavia la vincolano e ne rendono stentata la nascita.
Cinema effimero?
Una seconda obiezione si attacca alla caducità del cinema; non tanto per il suo supposto materiale, la pellicola, che passando nelle macchine di proiezione si riga, si macchia e si rompe, in breve diventa irriconoscibile ed inservibile, e che, anche se non viene adoperata, cristallizza e screpola, a differenza delle tele e delle tavole, che resistono secoli, e degli affreschi, della pietra e del bronzo, che durano millenni, e soprattutto della parola, che, scritta o tramandata di viva voce, pare che partecipi dell’eternità di quella di Dio, la quale fu al principio, è e sarà3, quanto nel suo consistere in immagini troppo legate al rapido fluire del costume, del gesto e della lingua parlata; sicché mentre le stilizzazioni dei primitivi italiani o dei bizantini, dell’arte etrusca o greca, come pure quelle delle arti egiziana e babilonese, nonostante anche i millenni che le separano da noi, riescono ancora a commuoverci esteticamente, o almeno non ci mettono a disagio, film che ci hanno esaltato o commosso appena qualche decennio fa, rivisti oggi, è miracolo se non ci fanno scoppiare in clamorose risate. E non sono solo le “divissime ", come Pina Menichelli o Francesca Bertini, a produrci questo effetto con il loro convulso attaccarsi agli stipiti delle porte e alle tende delle finestre, ma artiste celebri come Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse; e non solo i film d’ante prima guerra mondiale, ma quelli di appena una ventina di anni fa... Gli stessi idoli, che fecero cadere in deliquio molti di noi, come la «fidanzata d’America» Mary Pickford e il «fantastico» Douglas Fairbanks, l’«immortale» Rodolfo Valentino e la «divina» Greta Garbo, caro e grazia è se appena non sembrano ridicoli ai nostri figli, i quali trovano antidiluviani ed assurdi: e scenografie, e vestiti, ed acconciature, e gesti, e movimenti, ed espressioni mimiche, ed inflessioni di quel loro mondo, mentre poi accettano, e magari apprezzano, gli ingenui orridi della scultura romanica e gotica, le figurazioni senza prospettiva dei nostri primitivi, la fantasiosa costumistica e l’anatomia approssimativa dell’Angelico e le orgiastiche composizioni di Brueghel e di Bosch, e il teatro di Calderón o di Shakespeare4. Ora, questo precoce invecchiare e svuotarsi delle immagini sullo schermo non dimostra la impotenza del cinema ad esprimere quei valori universali e soprattemporali che ogni linguaggio artistico deve poter esprimere?
Senza ingolfarci, per il momento, nella questione fondamentale del cinema come linguaggio, ci limitiamo a notare che il fenomeno rilevato dipende dalla circostanza che il cinema, a differenza del teatro, pur presentando visivamente, come quello, una vicenda che si svolge nel tempo, la fissa una volta per sempre sulla pellicola rinunciando ad ogni possibilità di adeguarsi alle convenzioni mimiche e al mutato costume del pubblico; con quest’aggravante, che, mentre al teatro, un pubblico che abbia un minimo d’iniziazione al suo linguaggio e alle sue convenzioni normalmente ha l’impressione di assistere ad una vicenda rappresentata, o alla interpretazione di un testo che può prescindere del tutto dalla sua contemporaneità, nel cinema il pubblico normale tende a partecipare all’azione come presente, e perciò si sente a disagio quando appunto viene sollecitato ad accogliere come attuali, atteggiamenti, scenografie, mimiche e convenzioni di costume, che invece egli sente passatissimi, una volta che sono tramontati il labile gusto e la moda passeggera che li ispirarono; e questo indipendentemente da che le immagini organizzate in racconto e in spettacolo abbiano o non abbiano raggiunto validità di espressione artistica.
Ne consegue che la spiccata invadenza autonoma che nel cinema possono avere i segni significanti (le immagini) sul significato inteso dall’artista, non depone contro il cinema come arte, bensì per la necessità che c’è d’iniziare il pubblico alla sua lettura e comprensione, come già si fa a proposito di altri linguaggi artistici; solo per questa via il pubblico potrà scoprire gli eventuali valori universali e soprattemporali espressi dall’artista, senza formalizzarsi per il costume o la mimica desueti, come già fa per il teatro, dove, se debitamente iniziato, non viene distratto dalle “assurde” (oggi) convenzioni dell’araldo e del coro della tragedia greca, o dai “luoghi deputati” dei misteri medievali, o dalle tabelle locali del teatro shakespeariano; e si commuove sulle sorti di Antigone, della Traviata o di Mimì senza trovarle ridicole, se la prima veste il peplo greco, l’altra la crinolina, e la terza il kimono giapponese.
Intanto, però, mentre si aspetta che siffatta iniziazione si faccia e dia i suoi frutti, i registi migliori, consapevoli o meno dell’obiezione, si sono incaricati di dimostrare che essa è per lo meno parziale, ed hanno creato opere che nulla hanno di caduco. Basti ricordare i due capolavori di Chaplin e di Dreyer; rivedendo oggi The Gold Rush (1925) e La passion de Jeanne d’Arc (1929), anche mal ridotti come sono dai successivi controtipi passati e ripassati nella trentina di anni che già contano, la nostra emozione estetica, lungi dal decrescere, si esalta di una nota nostalgica, come quando contemplammo quel poco di fulgente bellezza che è sfuggita al salnitro della Cena di Leonardo.
Originale e copie
Questa faccenda dei controtipi, cioè il procedimento mediante il quale si ricavano nuove copie di film da altri positivi, dà ansa ad una terza obiezione estrinseca, tanto speciosa che non varrebbe la pena di confutarla, neanche in uno scritto di divulgazione come il nostro, se non offrisse il destro per esporre una delle verità più ignorate in materia di cinema. Essa muove dal principio che le copie di un’opera d’arte non sono opera d’arte, e prosegue deducendo che, siccome tutte le pellicole che si proiettano sono copie, supposto anche che l’originale fosse opera d’arte...
Naturalmente, non abbiamo difficoltà a concedere l’ovvia minore, e neanche, in linea di massima, la maggiore, confortati, tra l’altro, dall’autorità di un tecnico ed artista come il Friedländer, che acutamente osserva: «Non è necessario che il copista sia incapace di originalità. Ci si può perfino immaginare che le sue doti superino quelle del modello. L’importante è che l’esigenza di una copia coscienziosa imprime al suo lavoro il sigillo di una subordinazione; che l’animo, qualunque esso sia, è fondamentalmente diverso da quello del creatore. Copiando, il pittore rinuncia alla propria visione personale. Il maestro creatore impegna tutte le sue forze intellettuali e sentimentali, il copista impegna soltanto la memoria, l’occhio e la mano. Chi sente la differenza fra ciò che nasce e ciò che viene fatto non si lascerà ingannare facilmente. L’originale è come un organismo, la copia come un meccanismo»5. Individuiamo, però, il tarlo che svuota l’obiezione nell’identificare il film con le “pizze” di celluloide che lo supportano, come se si trattasse di opere d’arte pittoriche o scultorie, che consistono e terminano nel quadro o nella statua consegnati dall’artista al committente; quando invece, come ha ben detto R. Clair, il film esiste soltanto sullo schermo6. A differenza del libro, infatti, che, come opera d’ingegno o di arte, è già tutto fatto quando lo scrittore lo consegna all’industria perché lo stampi e tanto più lo è quando questa lo passa al commercio perché lo venda, il film si realizza solo nel momento in cui, messo in macchina e proiettato, i suoi fotogrammi diventano immagini schermiche; tutto quello che precede questo momento ne condiziona la forma e l’esistenza, dinamica e non statica, e non lo fa, tanto se si tratta dei momenti letterari della produzione: soggetto, scaletta, trattamento, presceneggiatura e sceneggiatura, quanto di quelli tecnici: ripresa, montaggio, missaggio, stampa, sviluppo e proiezione. La stampa delle copie, dunque, è solo uno dei momenti del processo tecnico che precedono l’opera compiuta, o, meglio, che pongono le condizioni materiali sufficienti per ricreare nello spettatore l’intuizione dell’artista, e non il passaggio dal prototipo (eventualmente) artistico alle sue copie.
Stando alle precisazioni terminologiche da noi adottate7, propriamente parlando, «copia» si dice della pellicola, e non del film, se non per traslato. L’ultimo anello che chiude e perfeziona il processo tecnico proprio del cinema è la proiezione; ma non c’è, si può dire, un solo elemento di essa che non possa influire, secondo che venga adoperato o no nelle condizioni previste dall’artista, sui valori espressivi del film e, dunque, sulla sua validità estetica in atto: dall’intensità della sorgente luminosa al mascherino che limita il fotogramma, dalla lunghezza focale dell’obiettivo al suo indice di anamorfosi e alla sua distanza dallo schermo, da cui dipende la grandezza del quadro e della grana, fino alla velocità di trazione della pellicola e alla messa in fase della colonna sonora, condizioni tutte dalle quali dipendono l’integrità dell’inquadratura e la grandezza dei piani originali, la luminosità, il contrasto e la definizione delle immagini, l’intensità e il contrasto dei colori, il tono del sonoro, il ritmo generale e relativo, che sono appunto gli elementi nei quali, come vedremo, l’artista concretizza stilisticamente le sue intuizioni8.
Arte di massa?
Un’ultima obiezione estrinseca (ma non tanto) al processo produttivo del cinema gli rimprovera il suo marchio di arte di masse, e conclude che non è arte. Su piano di ipotesi, così, per esempio, da buon crociano, ragiona R. Angotti: «È opinione diffusa che chi fa del cinema debba perciò saper conquistare le immense ed eterogenee folle che giornalmente frequentano le sale di tutto il mondo. Se dovessimo riconoscere come vera ed essenziale una tale caratteristica dovremmo per ciò solo negare al cinema la possibilità di giungere mai a quella soggettività pura, universale che è propria dell’opera d’arte, la quale non ha e non può avere altri fini che se stessa»9.
Anche questa obiezione ha la sua parte di vero, però equivoca doppiamente: e nel termine cinema e in quello di massa. Infatti, la possibilità di venir visto da complessi sterminati di pubblico il cinema l’ha come mezzo di diffusione, strumento pubblicistico principe, e non come mezzo espressivo o meno, cioè prescindendo dal contenuto dei suoi film e dai loro valori formali; la quasi necessità poi in cui esso si trova di venire incontro alle masse dipende, come vedremo, dalla sua organizzazione industriale e commerciale, che deve poter contare su enormi numeri di spettatori, se non vuole rimetterci i costosissimi capitali esposti, e non dalla natura stessa del linguaggio e della tecnica cinematografici. Va bene: l’«esagerata, impraticabile e romantica» profezia di M. Bontempelli: «Se la cinematografia decadrà tanto da disgustare il pubblico, e che a fare dei film si guadagnerà poco o niente, e che l’inventore dei film correrà il rischio della fame, allora finalmente si potrà avere qualche gran poeta del cinematografo»10, difficilmente si avvererà, almeno prossimamente, ma ha pure un suo fondo di verità in favore delle possibilità intrinsecamente artistiche del cinema! Riguardo alla massa, poi, bisogna distinguere. Se con questo termine si designa l’agglomerato eterogeneo di elementi umani raccolto solo per fare numero, come pecore di un gregge, o perché i singoli individui risultano scarsamente provvisti di valori umani, come avviene nei grossi pubblici delle platee, poco colti e molto suggestionabili, composti in gran parte di spettatori dai quattordici ai venti anni di età, e in prevalenza donne, o perché scientemente ridotti, da persone liberamente raziocinanti che erano, a pezzi amorfi, da organizzazioni di regime disumanizzante come quello comunista, allora opere espresse per piacere alla massa davvero non possono raggiungere le soglie dell’arte, se questa suppone finezza di gusto, libertà di spirito svincolato dalle sollecitazioni più epidermiche della materia e dell’utile, distinzione e personalità: qualità, insomma, e stile, e non quantità e apparenza. Ci voleva giusto un’ideologia primitiva e barbara come quella marxista per rierigere oggi la massa più grigia a termine e giudice dell’opera d’arte, dopo l’infelice esperimento dei rivoluzionari francesi, che composero di soldati, di operai e di contadini le giurie dei concorsi d’arte, applicando la peregrina dottrina di Diderot, secondo la quale tutti gli uomini avevano la stessa sensibilità e perciò tutti erano capaci di giudicare di un’opera d’arte, con la conclusione, non sappiamo quanto logica, che, dunque, l’opera d’arte deve sodisfare la maggioranza... Se, invece, ingentilendone l’accezione, per massa s’intende una moltitudine di individui, non necessariamente colti, ma provvisti di buon gusto ed educati all’intendere artistico, i quali, posti avanti ad un’opera, possano liberamente scoprirne e gustarne i valori espressivi, allora l’andare incontro e il sodisfare a siffatta «massa» non vediamo perché dovrebbe deporre contro l’artisticità di un’opera e del linguaggio e della tecnica usati per farla passare dallo stato intenzionale dell’artista al suo essere concreto e compiuto.
Ci conforta in questa opinione il ricordo di quando l’arte non era, come molti oggi pretendono di ridurla, disumanizzandola, una riserva di caccia di pochi iniziati, una cabala astrusa e rarefatta a uso e consumo di alquanti snob patiti e scontrosi; allora, l’essere intelligibile al popolo non impediva alle facciate dei palazzi e dei castelli dai ritmi di bugnati, di archi e di timpani che scandivano armoniosamente lo spazio, alle chiese dalle vaste navate e folte di colonne, ai portali popolati di santi, alle vetrate splendide di colori, alle melodie gregoriane fatte voce unisona della plebs Dei ai «misteri» sacri rappresentati sui sagrati avanti a popoli più attori che spettatori... di essere arte; e per il ritrovato Laocoonte si facevano feste più che per una vittoria militare, e la Madonna di Cimabue veniva accolta con più commossa ovazione di quanta oggi le masse non ne tributino, ahimè, ai falsi dèi del pedale, del calcio, dei pugni e dello schermo.
* * *
Siamo persuasi che i tempi passati sono passati per sempre, e non ce ne duole; tuttavia ci sia lecito sperare, e far voti che le nostre speranze si avverino presto, che alle amorfe masse di molte platee succedano grandi accolite di uomini pienamente tali: persone e figli di Dio. Allora il cinema potrà essere, anche di fatto – se prima lo potrà di diritto – arte universale. Ma in attesa che si ripeta il miracolo di un’arte largamente popolare, oggi, tra le aride strutture del tecnicismo utilitaristico moderno, come già avvenne nell’evo medio, quando di tra i rovi della barbarie, fiorì l’arte romanica e gotica, e nell’evo antico, che vide il prodigio dell’arte greca, per ora, essendo quello che sono i 3.000.000 di spettatori italiani e i 40.000.000 di spettatori mondiali; che ogni giorno passano avanti agli schermi due buone ore, ed essendo quello che sono i duemila film che ogni anno l’industria cinematografica sforna, concludiamo la risposta all’obiezione: «Cinema arte di massa?» e, insieme, alle altre tre obiezioni estrinseche mosse contro il cinema come arte, con le equilibrate osservazioni del già ricordato Luigi Bartolini (l’autore del soggetto, per chi non lo sapesse, del film Ladri di biciclette: 1948): «Cinema arte di massa: per cui ha i suoi limiti... Ammetto che il pubblico non sia più il bruco della terra, di cui parlava Fénelon... Però dubito che le comuni creature possano mai assurgere all’intera comprensione di un disegno di Michelangelo o d’una acquaforte di Rembrandt. Certamente ammetto che il cinema può operare molto a pro del dissodamento umano»11.
1 Cfr M. VERDONE, Gli intellettuali e il cinema, Roma 1952, p. 141.
2 Dopo di che ha ben motivo di qualificare il cinema «arte, figlia ed ancella delle arti maggiori». Cfr Cinema dell’intelligenza, Roma s.a., pp. 11 e 13.
3 Si riferisce solo a questa labilità materiale A. CONSIGLIO, nella paginetta che dedica all’argomento in Cinema arte e linguaggio, Roma 1936, pp. 80-82.
4 Già nel 1935 faceva la facile profezia Fr Flora, nella rivista Pan: «Tra dieci anni le dive e i divoni d’ogni paese che oggi più si atteggiano dinanzi ai nostri occhi, saranno altrettanto indifesi contro il ridicolo di quel che siano state le povere signore donde ebbe inizio il divismo, e che l’altr’anno ci furono poco cavalierescamente offerte come oggetto di riso» (cfr M. VERDONE, op. cit., p. 145). Su questo fenomeno si fonda il mediocre film di Camerini: La valigia dei sogni (1952),
5 MAX J. FRIEDLÄNDER, Il conoscitore d’arte, Torino 1955, p. 142.
6 Un film n’existe pas sur le papier... Un film n’existe que sur l’écran (R. CLAIR, Réflexion faite, Parigi 1951, p. 103, riportando un suo brano del 1925).
7 Civ. Catt. 1957, I, 296 ss.
8 Perciò la proiezione non è una semplice pubblicazione del film, come sembra sostenere il FERRARA in Sceneggiatura di film e prova di plagio, in Il diritto d’autore, 1949, p. 306.
9 R. ANGOTTI, Osservazioni sul cinema, Roma 1943, p. 92.
10 Cfr M. VERDONE, op. cit., p. 13,6,
11 Cinema dell’intelligenza, cit., pp. 9-10. A conferma riportiamo quanto, a parte le sue recidive crociane, giustamente osserva l’ANGOTTI: «Sulla risposta (a chi è diretta l’opera d’arte) non vi ha il minimo dubbio. Essa si rivolge all’individuo o, anche, ad un pubblico, ma in quanto formato da individui – coesistenti nello spazio e nel tempo – e non ad una folla, cioè all’uomo massa. Cosa potrebbe infatti importare l’uomo considerato come cellula, parte di un tutto che chiamiamo folla, se l’opera d’arte per poter essere compresa e gustata ha bisogno di essere ricreata e se ciò è solo possibile nello spirito dell’individuo? L’opera d’arte non è una partita di calcio o l’arringa di un avvocato che deve suscitare emozioni o consensi. Essa è solo suscettibile di contemplazione e questa non può aver luogo che nell’isolamento, cioè in quella particolare condizione in cui lo spirito assurge alla piena coscienza di sé nel momentaneo oblio di quanto lo lega alla materia. L’arte come è difficile a farsi così è difficile a comprendersi e sarebbe un assurdo pretendere che un’opera trovi il plauso ed il consenso delle folle. Ciò non è mai avvenuto. Anche, infatti, quando pare che ciò si verifichi si tratta in realtà soltanto di un consenso che ha luogo o per l’autorità o la fama di cui gode l’opera o perché motivi d’ordine diverso hanno influito sul pubblico» (op. cit., pp. 93-94).