Articolo estratto dal volume I del 1957 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
La questione se il cinema sia o non sia arte è innegabilmente attuale e determinante; mentre, infatti, produttori, distributori, gestori e fisco, inequivocabilmente dimostrano che il cinema è un prodotto prevalentemente industriale, come le sigarette o i liquori, i politici, specialmente se marxisti o liberali, e gli artisti, specie se toccati nelle tasche, quante volte non li abbiamo visti brandire la crociata «libertà dell’arte» o i cosiddetti diritti costituzionali1 a difesa dagli assalti illiberali mossi dalle censure dello Stato e della Chiesa, ree di osteggiare i geni della stirpe o d’impedire, poniamo, ai geni di oltre cortina di proiettare sui nostri schermi i loro tutti-capolavori? C’è, sì, una massa sterminata di persone che non si pone il problema, o che, quando se lo pone, lo fa male e lo scioglie peggio, magari disprezzando come noiose “pizze”, perché rattristano, Brief Encounter (1945), di D. Lean, o il ]ournal d’un curé de campagne (1951), di R. Bresson, ed esaltando come capolavori Marcelino pan y vino (1955), di L. Vajda, o Don Camillo (1952), di J. Duvivier, che fanno ridere; ma allora, proprio affinché, o prima o dopo, questo grosso pubblico sappia come si pongono i termini della questione, e poi se la ponga, e finalmente si scuota di dosso l’accidia che lo fa sì facile preda da parte di affaristi senza scrupoli e sì difficile conquista di veri artisti, conviene cercare se, e a quali condizioni, il cinema possa essere arte.
Ma perché in argomento già molto scombuiato da equivoci non ci si accusi di apportare un sovrappiù di confusione, sia ben chiaro che per noi la questione dell’arte nel cinema è importantissima, sì, ma non l’unica né la principale. Infatti, «settima o non settima, sintesi o non sintesi, arte o non arte: il cinema c’è»2, e sta producendo sì profonde rivoluzioni nelle idee e nel costume di tutta l’umanità che può e deve interessare tutti quelli che possono influire sul suo uso.
Tra sentenze opposte
Come avviene, proprio perché la questione è piuttosto complicata, i sostenitori delle sentenze estreme dubitano pochissimo di se stessi, tanto da non capacitarsi come altri possano opinare diversamente; eppure, fior di pensatori militano da una parte e dall’altra, e nulla ci autorizza a pensare che l’uno o l’altro sia in mala fede.
Passare in rivista alcune delle loro asserzioni e magari anche i motivi che le suffragano, mentre c’introdurrà nell’argomento, forse ci persuaderà a trattarlo senza troppo spavalda sicurezza.
Primo tra gli assertori del cinema come arte fu l’italo francese Ricciotto Canudo (1879-1923), al quale, tra l’altro, spetta il merito di aver avviato un’estetica e un vocabolario cinematografici, di aver patrocinato per primo l’insegnamento del cinema nelle scuole e di aver fondato il primo cineclub: tutte imprese tentate verso il 1911, quando, data la produzione in cui il cinema per quindici anni si era prostituito, ci voleva una fede da pioniere e da profeta per trattarlo da arte! Orbene, per lui il cinema non solo è arte, ma la regina di tutte le arti, sintetizzando, come arte plastica in movimento, quanto parzialmente potevano e le arti dello spazio: architettura, scultura e pittura, e quelle del tempo: musica, poesia e danza. In questo senso egli la disse «settima arte», denominazione che ancora gli resta comunemente, dopo quella di «arte muta», tramontata col sonoro, e contro quella di «quinta arte», come la sentirono definire L. Delluc e M. L’Herbier, o di «sesta arte», come la fa dire a R. Canudo A. Gance, o di «ottava arte», come invano la propugnò R. Branca, o, finalmente, di decima musa, come la disse J. Cocteau3.
Questa idea, di arte-sintesi, più suggestiva che fondata, come ha motivato di recente R. May4, era destinata a rivivere sotto la penna di molti ammiratori della nuova forma espressiva; così Fr. Flora scrive: «...è certo che accanto alla poesia, la musica, la pittura, la scultura, l’architettura, è sorta una nuova arte, una specie di arte suprema wagneriana, che le fonde e le unifica tutte, prendendo ed assorbendo da ognuna e segnando tuttavia la sua originale impronta»5; e M. Seton, la confidente e biografa di S. M. Eisenstein, concludeva una sua specie di rivista delle arti affermando: «Il cinema è mezzo di espressione artistica che consente una sintesi delle altre arti ed un superamento di esse, senza la perdita del carattere né del senso della realtà»6; cd anche De Sica, qualche anno fa, diceva di apprezzare il cinema come arte-sintesi di tutte le altre, seguendo il criterio che faceva ritenere a Wagner il melodramma sintesi di poesia e di musica7.
Invece, alla francese Germaine Dulac (1882-1942) si deve una più ardita affermazione delle qualità artistiche del cinema, che, seguendo la via del «visualismo», già segnata dal suo connazionale L. Delluc (1890-1924), essa patrocinò come arte integrale, astratta, pura visibilità di forme in movimento, indipendente da nessi narrativi; tentò poi di ridurre a forme meno estreme questa sua poetica, ma la scapigliatura psicologica del freudismo e quella estetica del futurismo, imperversanti durante i primi decenni del secolo, l’accettarono e la portarono alle estreme conseguenze un po’ dappertutto in Europa8. Così, in Francia spezzò più di una lancia per esso il teorico e regista J. Epstein (1899-1950); in Italia, alla Foto dinamica futurista di A. G. Bragaglia, lanciata nel 1911, seguiva il Manifesto della cinematografia futurista, del 1916, con cui F. T. Marinetti e gli altri suoi cinque scapigliati confirmatari lanciavano il cinema come «strumento ideale di una nuova arte, immensamente più vasta e più agile di tutte quelle esistenti...», dicendosi «...tutti convinti che solo per mezzo di esso si potrà raggiungere quella poliespressività verso la quale tendono tutte le moderne ricerche artistiche»9. E alla teoria seguì la pratica del film futurista e di quello di avanguardia; al Dramma in un gabinetto futurista (1914), del russo V. P. Kasianov, segue Perfido incanto (1916), dello stesso A. G. Bragaglia; in Francia, oltre ai Dulac e Delluc, si fece un nome il grande R. Clair col notissimo Entr’Acte (1924), mentre, prima in Germania e poi in America, dove trasmigrò, H. Richter si sbrigliò nella serie di pezzi astratti di cui il più noto è il Giuoco di cappelli (1928).
Tornando alla teoria, la quale per il momento solo ci interessa, in Italia si può dire quasi plebiscitaria l’adesione degli scrittori al cinema come arte. Tra i pionieri ricordiamo G. Bellonci, con la sua Estetica del cinematografo, del 1916; S. A. Luciani, che nel 1928 dà alle stampe il Cinematografo come arte; E. Giovannetti, che due anni dopo stampa il suo Il cinema e le arti meccaniche; l’anno appresso, Adriano Tilgher trattò del cinema come arte a sé nella sua Estetica, in polemica con L. Borgese, per il quale esso era semplicemente «una tecnica di riproduzione applicata ad arti antichissime». Negli stessi anni M. Bontempelli prova con i fatti la sua fede al cinema come arte (ma non nel cinema «puro») fondando a Roma il primo cineclub italiano (1929), ed iniziando la sua collaborazione di critico cinematografico nella Nuova Antologia (1931). Negli ultimi trent’anni, se discussioni si fanno, sono sul senso da dare a «il cinema è arte», non sull’asserzione stessa: per C. L. Ragghianti, infatti, fin dal 1933 il cinema è arte figurativa, opinione condivisa da A. Consiglio (1936) e W. Nielsen (1937), e più recentemente, da G. Calogero (1947), che mette il cinema tra le arti asemantiche; per E. Cecchi (1936) è arte solo in senso mediato, come la coreografia e la danza; anche per L. Chiarini, U. Barbaro e G. Aristarco, che, associati o meno, sono tra quanti hanno lavorato di più per il cinema in Italia, non c’è alcun dubbio che il cinema sia arte: ma mentre il primo (1935) struttura la sua estetica su G. Gentile e S. M. Eisenstein, il secondo (1939) si rifà a B. Croce e a V. Pudovchin, e il terzo, mostrando per il marxismo una fedeltà più coerente di quella che ispiri il lavoro degli altri due, in attesa di un’estetica veramente valida, che ancora non esisterebbe, pone l’aut aut tra la filosofia idealistica e il materialismo dialettico, optando decisamente per quest’ultimo10.
Anche i due filosofi, che per un buon mezzo secolo pontificarono in Italia, vanno contati tra i partigiani del cinema come arte; partigiani, in verità, poco entusiasti, a giudicare dai loro interventi tardivi e cautelosi, provocati l’uno e l’altro da L. Chiarini; G. Gentile, infatti, nel 1935, lodando Cinematografo dello stesso Chiarini, ancor oggi «per tanti aspetti interessante», indirettamente ne afferma il carattere artistico, e B. Croce, nel 1948, intervenendo in una polemica tra il Chiarini e il Brandi su Bianco e nero, afferma che in arte «anche il film, se si sente e si giudica bello, ha il suo pieno diritto»11.
Tra gli stranieri esaltatori del cinema come arte vanno ricordati principalmente l’ungherese B. Balazs (1884-1949), i russi V. Pudovchin (1893-1953): «Il cinema è l’arte per eccellenza», e S. M. Eisenstein (1898-1948); i tedeschi R. Arnheim (seguito dal nostro R. May), e il già ricordato H. Richter, gli inglesi P. Rotha e R. J. Spottiswoode, l’austriaco W. Pabst, e i francesi R. Clair, M. L’Herbier e A. Gance, dei quali, alcuni come teorizzatori o divulgatori di teorie estetiche cinematografiche, ed altri accompagnando la loro opera di regia con studi sporadici, pongono come presupposto indiscutibile l’artisticità del cinema. Tra essi M. L’Herbier e A. Gance sono degni di ricordo per aver iniziato la serie dei ditirambi più alati, continuata poi da J. Epstein, E. Faure ecc.; il primo, infatti, fin dal 1917, concludeva con un: Gloire donc à l’art de l’image, language universel des foules quotidiennes! una sua difesa del cinema come simbolo della novella civiltà dell’anti-parola; l’altro, dieci anni dopo, ritmandole col ritornello: «L’epoca dell’immagine è arrivata!», cantava le glorie della «nuova arte: duttile, precisa, forte, sorridente». «Che cos’è un gran film se non musica: per il timbro delle anime che vi si comunicano e vi si ritrovano, per l’armonia dei ritmi visuali e per le pause dei silenzi? Con i suoi valori compositivi è scultura e pittura; per i suoi rapporti costruttivi è architettura; è poesia per il fantastico respiro strappato all’anima delle cose; è danza per il ritmo interiore che viene partecipato allo spirito e fa come uscire da se stesso lo spettatore per identificarlo con le anime degli attori... Il cinema è l’arte della suprema alchimia, il capolavoro per gli occhi. L’epoca dell’immagine è arrivata!»12.
Con minore impeto lirico ma con eguale entusiasmo L. Moussinac due anni prima aveva profetizzato: «Il cinema è la prima delle arti cinematiche, ma in avvenire non sarà più sola, perché le arti cinematiche sostituiranno piano piano le arti statiche... Le civiltà passate hanno espresso le comuni aspirazioni fissando il loro ideale in un’arte: i greci nella tragedia, il nostro medioevo nelle cattedrali. Orbene: le nostre masse moderne esprimeranno nel cinema il misticismo necessario ad ogni epoca per liberare la sua bellezza»13. Profezia per profezia, recentemente E. Lindgren, con un ottimismo che non ci aspetteremmo da un inglese; e men che meno quando si tratta di toccare la gloria di Shakespeare, si chiedeva: «Potrà il cinema raggiungere le vette alle quali Shakespeare ha portato il teatro?». E rispondeva: «Senza dubbio! Il cinema potrà raggiungerle e superarle»14.
Perdoniamo al Lindgren la sua euforia perché questo, di confrontare il cinema col teatro, tra i critici delle due espressioni artistiche da un pezzo è diventato un luogo comune, dal quale il cinema esce spesso malconcio. Per esempio, già fin dal 1914, R. Fauchois assegnava al cinema la funzione di filtro purificatore rispetto al teatro, riservando questo a un pubblico restreint et choisi, e al grosso pubblico, aduso ai sapori forti e ai gusti pesanti, riservava la barbarie del cinema; e non sappiamo se il drammaturgo sia restato della stessa opinione dopo che J. Renoir e Ch. Stengel, rispettivamente nel 1932 e nel 1946, portarono sullo schermo due sue opere15.
Senza arrivare a tanto, M. Pagnol assegna al cinema, rispetto al teatro, la funzione che ha il disco rispetto alla musica; nel 1930, quando gli schermi cominciarono a parlare, affermò che come «il cinema muto era l’arte di stampare e di fissare la pantomima», così «il cinema parlato era l’arte di stampare e di fissare il teatro»16. M. L’Herbier, nel 1946, riprende la distinzione, ma per esaltare, alla sovversiva, la nuova arte di massa, vaticinata dal Michelet, dal Tolstoi, dal Renan e dal Whitman, per la quale «l’abbassarsi e il disperdersi è nobilitarsi... contro ogni arte individuale e di diritto divino»17. Ma la sua opinione non è condivisa da altri letterati ed artisti, per i quali, l’essere un fenomeno di massa significa chiaro e tondo condannare il cinema come non arte; la quale condanna, da parte di artisti non eccessivamente padroni dei loro sacri furori, è immaginabile di quali pittoresche espressioni si rivesta. Ripromettendoci di utilizzarne qualcun’altra quando si tratterà di enumerare le prove addotte a sostener che il cinema non potrebbe essere arte, ci limitiamo qui a riportarne solo poche a titolo esemplificativo. Tre ce ne forniscono scrittori francesi. Per il critico cinematografico A. Arnoux: «Il cinema non è un’arte... è un mestiere. Si fabbrica un film come un paio di scarpe, scegliendo, se si è onesti, buoni materiali, se si è abili tagliandoli secondo la loro natura... e, se si è intelligenti, cucendoli nell’ordine più acconcio». Per A. Thibaudet il cinema «è la degradazione della letteratura», nel senso in cui i fisici parlano della degradazione dell’energia, e per G. Duhamel «il cinema è il contentino degli iloti, il passatempo degli ignoranti e dei diseredati fiaccati dalla fatica... insomma una macchina per rincretinire e per imbarbarire»18. Se l’esprit de finesse francese calca tanto la mano, figurarsi come se la cava la Kultur tedesca! Udiamone due rappresentanti: per K. Lange: «La fotografia in movimento è meno artistica di quella comune.
Essa, pertanto, non deve essere paragonata alle arti della pittura e della scultura, in quanto arti genuine, ma ai vari generi di attrattive da fiera»; per R. Harms: «Il cinema, come tutte le cose meccaniche, è per sua natura più nemico che amico della cultura. Al suo confronto, anche il più grossolano dei circhi equestri diventa una istituzione artistica»19. Per l’Inghilterra abbiamo una testimonianza che ne vale dieci, degna, per cattiveria e per humour, di chi la disse: Bemard Shaw; il quale a chi gli domandò, ai tempi del muto, se il cinema potesse essere un’arte, rispose che sì, a patto di sopprimere le figure e di proiettare solo le didascalie...
Vano sarebbe scandalizzarsi nel sorprendere sì animosi contrasti tra esaltatori e spregiatori del cinema. Quale campo del pensiero umano n’è andato esente? Pensiamo che in essi influisca molto la deformazione professionale, che, nella migliore buona fede, fa vedere le cose polarizzandole secondo le proprie abitudini mentali. Non a caso i registi e gli uomini del cinema si trovano quasi tutti dalla parte dei suoi esaltatori, mentre la milizia dei detrattori si recluta in prevalenza tra letterati, drammaturghi, esteti, filosofi, gente tutta familiare con i problemi di cultura, che si trova a suo agio nell’esprimere pensieri e sentimenti mediante il linguaggio verbale, docile a tutte le astrazioni e le sfumature alle quali l’ha raffinato il lavoro di secoli di letteratura, e non ci si ritrova col nuovo linguaggio – se pure riesce a capirlo – discolo e rivoluzionario, il quale pretenderebbe di buttare all’aria tutti gli schemi delle vecchie estetiche, collaudate da millenni di civiltà “logica”.
Questa visione troppo personale dei termini cinema e arte causa due inconvenienti: l’uno nell’impostare il problema dei loro rapporti, suggerendo accezioni non univoche di essi, l’altro nello svolgersi dello stesso procedimento deduttivo, suggerendo o una certa incompletezza nelle premesse o un eccesso di fretta nelle conclusioni. Ragion per cui, prima di entrare nel vivo della questione, converrà, secondo il buon metodo scolastico, precisarne i termini, esaminare la verità dei fatti affermati nelle premesse e la validità del vincolo conseguenziale che porta all’una o all’altra affermazione conclusiva.
Un po’ di lessico cinematografico
Nonostante i tentativi fatti qua e là per conferire una certa precisione e stabilità semantica ai termini che riguardano il cinema, vi si lamenta ancora molto dell’anarchia che ne accompagnò lo sviluppo storico, piuttosto avventuroso.
Cinematografo (oggi per lo più abbreviato in cinema, e in Piemonte, alla francese, anche in cinè), per L. Lumière designò principalmente l’apparecchio ottico-meccanico da lui inventato, nonché la stessa invenzione come processo scientifico di ripresa e di proiezione di immagini fotografiche in movimento; ma la prima accezione presto fu desueta, sicché oggi si adoperano i termini macchina da presa, o semplicemente macchina (quando non il latino-italiano francesizzato camera) per designare l’apparecchio da presa, e proiettore, o anche macchina (da proiezione) per designare quello che proietta la pellicola impressionata. La seconda accezione, invece, è restata; ma fin dalle origini si accompagnò ad altre, sicché oggi cinema(tografo) significa tanto il locale dove si proietta lo spettacolo cinematografico («L’Italia conta 16.000 cinema»), quanto l’insieme delle attività tecniche, economiche, politiche, culturali che intervengono nella produzione, vendita e consumo del prodotto cinematografico («fare del cinema, leggi sul cinema, i pericoli o l’influsso del cinema...»); e non manca chi l’adopera anche per indicare il prodotto stesso, ma in questo caso sono da preferire il termine film, che più correttamente designa la singola opera prodotta dall’industria, qualunque ne sia la destinazione: spettacolare, didattica, scientifica ecc., e qualunque ne sia la natura: documentaria, narrativa, lirica ecc.; e il termine pellicola per designare il supporto materiale, di celluloide, o di acetato di cellulosa, che rende possibile la sua proiezione. Diremo perciò che l’industria (o l’arte) del cinema produce film consumando pellicola, come l’industria (o l’arte) della stampa produce libri, (siano essi La divina commedia, Il Guerrin meschino, un trattato di ragioneria o l’elenco dei telefoni) consumando carta.
Conseguente ai sostantivi concreti sarà il significato dei relativi derivati, intendendosi per cinematografia e cinematografico tutto quello che riguarda l’attività stessa che ha per oggetto e scopo immediato il film, e per filmologia e filmico tutto quello che riguarda il film come opera compiuta e in atto, specialmente nei suoi rapporti di linguaggio con lo spettatore; sicché si diranno cinematografiche la critica, la stampa o una mostra di cinema, filmica la suggestione prodotta dal film, filmologia la scienza dei fatti filmici20.
Ma, anche cosi distinti, i termini “cinema” e “film” sono tutt’altro che univoci ai fini della questione che ci interessa; occorre, dunque, passare a ulteriori distinzioni e precisazioni.
Il processo chimico-ottico-meccanico con cui si fotografano e poi si proiettano forme in movimento – o, per meglio dire, si fissano sulla pellicola successivi momenti statici in cui viene analizzato un moto continuo e poi si proiettano in tali condizioni da simulare il moto continuo originario – può rispondere a tre esigenze sociali, le quali, per quanto nella pratica non sempre si distinguano tra di loro adeguatamente, concettualmente si differenziano del tutto, e sono: la documentazione di fatti avvenuti, la diffusione di notizie, l’espressione del mondo interiore di chi lo adopera come linguaggio. Analizziamole alquanto: la pazienza che vi sopporteremo, chiarendoci e sistemandoci concetti e termini, taglierà alla radice molte discussioni, alimentate prevalentemente da quel vizio logico che gli scolastici chiamavano ignoratio elenchi.
È evidente l’uso documentario che si può fare del cinema21. Se alle origini esso servi solo per questo – che cosa furono i diciassette metri dell’Uscita degli operai dalle officine Lumière o La colazione di Bébé, del 1895, se non un esperimento di documentazione? – a tutt’oggi, per quanto perfezionata e complicata, la macchina da presa non si differenzia essenzialmente da altri apparecchi registratori di fenomeni fisici; la pellicola da essa impressionata può far fede, testimoniare, di un fatto fisico avvenuto, né più né meno di quanto possa fare uno schermografo nel radiografare un torace umano, o un grammofono rispetto ai suoni, o un sismografo rispetto agli scotimenti tellurici. Vero è che l’uso più noto del cinema induce il grosso pubblico a credere che esso sia solo spettacolo, ma chi ha un minimo di entratura nel mondo della cultura tecnico scientifica sa la larghezza di applicazioni che il cinema ha anche come puro strumento di ricerca e di documentazione; basti ricordare l’uso che se ne fa in astronomia, nei rilievi topografici, in chirurgia, in etnografia o nel réportage giornalistico e televisivo.
Ora, in questo genere di cinema, la questione dell’arte è del tutto fuori posto; anzi, il cinema documento, in quanto tale, non può e non deve assolutamente essere arte; infatti l’unica sua preoccupazione deve essere l’aderenza più fedele possibile al dato fisico, alla realtà esistente. Ogni interpretazione soggettiva gli nuoce22. Né vale fare i titoli, obbligati in questo caso, dei film, poniamo, Man of Aran (1934) e Drifters (1929), nei quali R. Flaherty e J. Grierson, partiti dal documentario, approdarono a livelli di alta arte, o d’invocare la zavattiniana teoria della «quotidianeità», secondo la quale, in fondo, la stessa realtà come tale sarebbe poesia; riservandoci, infatti, di impegnarci in altra sede sui rapporti tra realtà e arte, ci sembra di poter affermare fin d’ora, consenzienti quanti non si attardano nel porre nella mimesi più materiale l’essenza dell’arte, che se è vero che metafisicamente la realtà è tutta bella, altrettanto è vero che essa, artisticamente, in sé non è né bella né brutta. Perché diventi bella o brutta è necessario che l’uomo la “ricrei”, producendola come egli la vede, con la sua fantasia e col suo sentimento; la interpreti, insomma, secondo un suo mondo interiore, sia pure secondo le essenziali esigenze di verità che normano la bellezza artistica come quella metafisica.
Ne viene di conseguenza che, mentre per il documentario il pregio che assolutamente non deve mancare è quello della fedele sua corrispondenza alla realtà esistente, nell’opera creativa quello che assolutamente non deve mancare, se non vuol decadere a opera mancata, è la fedeltà alla realtà interiore del suo creatore. Il primo potrà essere scienza, cultura, ma non perciò sarà specificamente arte; la sua perfezione potrà esigere magari prodigi di tecnica, nonché altissimi valori umani di ardimento e di costanza, ma non, per sé, genio artistico; l’altro, invece, potrà essere relativamente indipendente dalla tecnica, ma non potrà mai fare a meno di un’intuizione creatrice. Sicché si potrebbe osservare che i due «documentari» di cui sopra, o altri, se sono opera d’arte, lo sono non in quanto documentari, ma in quanto visione personale degli artisti che in essi si sono espressi, e che non è escluso che, se essi fossero stati più tecnici e meno artisti, il valore strettamente documentario dei due film sarebbe stato maggiore di quanto di fatto non sia.
Può anche darsi che l’oggetto fotografato sia un’opera d’arte; ma non per questo, se il processo tecnico si limita a riprodurre sulla pellicola l’opera d’arte in sé conclusa, – poniamo l’Hamlet shakespeariano, magari interpretato da Olivier, o lo Schiaccianoci di Ciaikowsky, diretto da Toscanini e ballato dalla Ulanova, – il cinema diventa esso stesso arte, appunto come un cliché; non è arte anche se riproduce la Trasfigurazione di Raffaello, e un disco non è arte anche se riproduce l’intermezzo della Traviata.
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Una volta fissata sulla pellicola la realtà esterna all’obiettivo, la tecnica cinematografica, mediante la successiva o la simultanea proiezione di una o più copie dello stesso film avanti a pubblici numerosissimi, ed oggi entrando addirittura nelle case private mediante la televisione, rende possibile comunicare e diffondere il contenuto di un film a numeri praticamente incalcolabili di spettatori. Questa sua caratteristica, che fa annoverare il cinema tra i massimi mezzi cosiddetti di diffusione che caratterizzano la civiltà odierna, quali la stampa e la radio, per sé è del tutto indipendente tanto dalle sue possibilità di documento, di cui abbiamo parlato, quanto dall’espressività, di cui parleremo; tant’è vero che il rapporto pubblicistico attraverso la proiezione di immagini luminose può sussistere anche quanto la “realtà " proiettata non è affatto riprodotta dal vero, per esempio quando si proiettano disegni tracciati direttamente sulla pellicola, come pure può sussistere quando il film contenesse una documentazione puramente obiettiva, per esempio, il ciclo di produzione di un celebre panettone.
Sotto questo aspetto si potrà chiedere se il cinema sia utile per far conoscere l’arte, ma non se esso stesso possa essere arte, perché, non diversamente dalla radio o dalla stampa, il cinema è indifferente a comunicare e diffondere tutto quello che gli si affida: l’artistico e lo sgorbiato, come, del resto, il colto e il selvatico, il raffinato e il volgare, il bello e l’orrido, il buono e santo come il viziato e blasfemo.
Tra parentesi – particolare che forse sfugge a molti polemisti, certo in buona fede – proprio e solo questo aspetto del cinema, mezzo pubblicistico potentissimo, preoccupa quanti, per vocazione o per mandato, sono solleciti del bene pubblico, e dunque principalmente la Chiesa e lo Stato, tanto da interessarli alla produzione e al consumo dei film, ed a cercare di regolare l’una e l’altro con norme preventive e con sanzioni. Proibire la proiezione pubblica di un enucleamento dell’occhio, o di Diable au corps (1946), posto che il primo scientificamente e il secondo esteticamente siano validi, non sarà un conculcare i diritti della scienza o la libertà dell’arte, ma semplicemente tutelare la salute pubblica; se infatti compete alla scienza e alla critica scientifica giudicare della verità; di un film come documento, e se spetta al critico d’arte giudicare della validità espressiva e stilistica dello stesso, compete al moralista e all’autorità, solleciti della virtù della prudenza, e spesso anche della giustizia, stabilire in quale misura esso possa essere offerto al pubblico in modo che, per quanto è possibile, resti tutelato il bene comune. Proprio sul filo di queste distinzioni la polizia giustamente interverrebbe ad impedire l’uso di un amplificatore qualora un bravuomo, con la scusa della scienza e dell’arte, si mettesse a declamare, alle due di notte, in piazza, con l’altoparlante, la tavola pitagorica o i Sepolcri del Foscolo.
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Finalmente il cinema può essere adoperato, utilizzando o meno la realtà esterna, con o senza scopo di proiettarlo in pubblico, a fine di esprimere i propri pensieri e i propri sentimenti. Per il momento diamo per pacifico che esso lo possa, cioè che possa essere un linguaggio espressivo; affermiamo però che solo in questa accezione si può porre la questione se esso possa anche essere arte. A questo punto tutto sta a intendersi su questo termine. È chiaro che quando un fantastico empirista come Méliès, dopo aver descritto le mirabolanti invenzioni a cui egli piegava il cinema, nel 1907, dopo aver proclamato intéressant le cinéma, parce que il est avant tout un métier manuel, non esita de bonne foi, à; le proclamer le plus attrayant et le plus intéressant des arts, car il les utilise à; peu près tous23, e che se, nel 1954, un padre domenicano può cominciare una lezione sul cinema affermando perentoriamente: «Il cinema è arte. Lo è perché in esso si trovano i linguaggi di tutte le arti, e lo è soprattutto perché tali linguaggi assumono nell’opera cinematografica aspetti cosi nuovi ed una unità così compatta e tipica da costituire un’arte nuova: l’arte cinematografica», il termine arte non viene preso con accezione univoca24. Occorre precisarlo. Tuttavia, non saremo tanto ingenui da avventurarci ora nel pelago senza sponde dell’arte e dell’estetica, sul quale hanno scarrocciato le barche di tutti i filosofi, da Platone ed Aristotele a sant’Agostino e san Tommaso, da G. B. Vico a Kant e Hegel, da Benedetto Croce ai moderni marxisti armeggianti a di incagliare dalle contraddizioni il loro zatterone materialista; del resto pensiamo che l’artisticità del cinema, prima di essere una questione di alta filosofia, per sciogliere la quale occorrono doti di specialissima cultura, sia un problema corrente, quotidiano, per il quale sia sufficiente precisare il termine “arte” nelle due accezioni storiche più ovvie. Cominceremo, dunque, con l’osservare che per circa duemila anni, da Aristotele ai cinquecentisti italiani, e specialmente nella scolastica, arte si disse la virtù normativa del fare umano (Facere, ποιείν), che termina nell’opera compiuta, esterna al suo fattore, e si definiva: recta ratio factibilium; distinta dalla prudenza, recta ratio agibilium, virtù normativa dell’agire umano (agere, πράττειν). Mutatosi il contenuto semantico dalla virtù all’attività da essa normata, e poi agli oggetti da essa prodotti, arte, come termine del fare umano, venne a contrapporsi a natura, termine del fare divino; di qui, tra l’altro, la poetica aristotelica della mimesi, che dava l’arte come imitatrice della natura, ed alcuni termini lessicali tutt’oggi in uso, come artificio, artefatto, artificioso, artificiale ecc., connotanti appunto quella distinzione-opposizione con i fatti “naturali”. Col tempo, però, nel fare umano si venne a distinguere tra l’elemento manuale e fisico e quello intellettuale e d’ingegno, che, se presente, causava nell’opera d’arte uno splendore speciale di ordine e di bellezza; di qui la distinzione tra arti meccaniche, o servili, e arti liberali; ulteriormente, quando nell’opera d’arte si dette il massimo risalto alla bellezza, più che alla sua utilità pratica o d’ingegno, e venne organizzandosi l’estetica come scienza a sé, le attività che avevano per scopo l’uso pratico dell’oggetto prodotto si dissero arti utili (e, rispetto al prevalente lavoro materiale che richiedevano, mestiere): artefici, artieri e artigiani quelli che vi si dedicavano; quelle, invece, che ebbero per fine prevalente l’uso per contemplazione dell’oggetto prodotto furono dette arti belle, e artisti quelli che vi si impegnavano. Ma la “purificazione” del contenuto semantico del termine progredì ulteriormente; si osservò infatti che in tutte quelle che si dicevano arti belle o, alla francese, belle arti (beaux arts), un elemento comune era suscettibile di prender forma in diverse materie e mediante diverse tecniche, e si osservò che la tecnica, se era premessa necessaria all’opera d’arte, non entrava necessariamente nell’essenza di essa, potendosi aver attività artistiche dalla tecnica quasi inesistente, come la musica e la poesia, ed altre con tecnica molto vincolante, come la pittura e l’architettura; non solo, ma anche che la tecnica poteva prendere tale sopravvento sull’ispirazione da mortificare, o addirittura invalidare, l’opera d’arte. Così si giunse all’accezione oggi più comune e più corrente dell’arte, come attività mediante la quale l’artista esprime in un’opera a sé esterna una sua intuizione fantastica dotata di uno speciale splendore di verità, e, per traslato, l’opera stessa in cui il sentimento dell’artista pienamente si esprima.
Agli estremi, dunque, dell’evoluzione del termine ci sono due negazioni: «L’arte non è natura» e «L’arte non è tecnica», e due affermazioni: «L’arte è fare umano» e «L’arte è intuizione espressa di bellezza»; orbene, tutte e due le accezioni ci serviranno nella questione che ci interessa, manifestamente non potendo il cinema essere arte se non potesse fare altro che riprodurre la natura o se puramente si riducesse ad un’attività tecnica; tanto più che, come vedremo, le due condizioni di fatto coincidono.
Occorrerebbe a questo punto scendere ad altre distinzioni e precisazioni; ma preferiamo rimandarle a quando la discussione le richiederà; la quale, dopo tante premesse, vorremmo ormai cominciare. Ciò, tra l’altro, c’impedirà di complicare ulteriormente, con non necessari excursus culturali, il problema cinema-arte, già sufficientemente complesso per conto suo.
1 Gli artt. 21 e 23 della Costituzione italiana recitano: «Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione». «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento».
2 L. MOUSSINAC, in M. L’HERBIER, Intelligence du cinéma, Parigi 1946, p. 177.
3 Per Canudo, cfr G. ARISTARCO, L’arte del film, Milano 1950, p. 13 ss.; ID., Storia delle teoriche del film, Torino 1951, p. 19 ss., 257 ss.; per L. DELLUC, cfr L’HERBIER, op. cit., p. 116; per M. L’HERBIER, ivi, p. 202; per A. Canee, cfr L’HERBIER, ivi, p. 90; per R. Branca, cfr il nostro All’avanguardia del cinema scolastico, Civ. Catt. 1956, II, 65; per J. Cocteau, cfr L’HERBIER, ivi, p. 208.
4 Cfr R. MAY, Cinema del colore, in Bianco e Nero, 1954, n. 2, p. 113.
5 In La civiltà del novecento, riportato in G. ARISTARCO, L’arte ..., cit., p. X.
6 M. SETON, S. M. Eisenstein. Milano 1954, p. 475.
7 Cfr Rivista del cinematografo, 1953, n. 3, p. 18.
8 Per la Dulac cfr G. ARISTARCO, L’arte ..., cit., p. 21; Storia..., cit., pp. 30 e 259; per il Delluc: ivi, pp. 24 e 258; L’arte..., cit., p. 153. Lo stesso Delluc, in una semisatira del 1919, dopo aver affermato il suo odio passato, la sua ammirazione presente e il suo amore futuro per il cinema, proclama: «Assistiamo alla nascita di un’arte straordinaria, forse la sola arte moderna che si è assicurato già il suo posto speciale e, per il futuro, una gloria strabiliante...»: cfr in L’HERBIER, op. cit., p. 236 Ancora nel 1943-XXI si attardava su posizioni simili a queste R. ANGOTTI, foggiando, in Osservazioni sul cinema, il concetto e ii termine di visionia, e difendendovi il cinema come suo mezzo di estrinsecazione.
9 Cfr il testo in CHIARINI, Problemi del film, Roma 1939, p. 21; gli altri firmatari furono B. Corra, E. Settimelli, A. Ginna, G. Balla e R. Chiti.
10 La formulazione esplicita della sua tesi e un tentativo di prova sono dati in G. ARISTARCO, Storia..., cit., p. 224 ss. Contro Ragghianti cfr A. GANCE, per il quale le cinéma est plus proche de la poésie et de la musique que de tous les arts plastiques (L’HERBIER, Intelligence..., cit., p. 323); S. GHERASSINOV, per quale è più vicino alla prosa narrativa che alla drammaturgia teatrale (cfr Il mestier di regista, Roma 1954, p. 26); cfr anche F. LUSERI, Cinema arte narrativa, Roma 1954.
11 Cfr G. ARISTARCO, L’arte..., cit., pp. 235 e 237. Il pensiero di Croce a questo proposito è chiarito dal Ragghianti, suo discepolo e difensore, in Cinema arte figurativa, Torino 1952, p. 211 ss. Cfr anche Cinema nuovo, 1952, n. I, p. 6.
12 Cfr tutto il testo in M. L’HERBIER, op. cit., p. 211, e in M. LAPIERRE, Anthologie du cinéma, Parigi 1946, p. 144.
13 Cfr M. L’HERBIER, op. cit., pp. 117-118.
14 In The Art of the Film, che abbiamo letto nella versione spagnuola: El arte del cine, Madrid 1954, p. 206.
15 Cfr M. LAPIERRB, op. cit., p. 280. Recentemente DE CAMPO ALANO&, senza né appovare né condannare, precisava: «Il cinema è l’arte delle masse, che attraverso la fotografia si appropria dell’elemento figurativo ed aneddotico. pedagogico... Es precisamente el arte de que estaba necesitada la masa ciudadana sin sentido estético propio. Liberata la plastica dal compito di raffigurare, si abbandona con eccessiva libertà all’esercizio dell’“espressivo”: arte astratta, senza più mimesi», (De Altamira a Hollywood, Madrid 1953, pp. 148-150).
16 Cfr M. LEPIERRE, Anthologie ..., cit., p. 293.
17 M. L’HERBIER, Intelligence..., cit., pp. 208 e 30, dove egli tenta una giustificazione storico sociale, peraltro maldestra. Però per lo stesso L’HERBIER, nel 1918, il cinema era le contraire d’un art, à peine susceptible d’art, et ne brillant, quand il brille, que d’une beauté empreuntée aux arts! (ivi, p. 385).
18 Ivi, pp. 27 e 28; L. CHIARINI, Problemi..., cit. p. 159.
19 In Das Kino im Gegenwart und Zukunft, 1920, e Philosophie des films, 1926, riportati in G. ARISTARCO, Storia..., cit., p. 174. In quegli anni (1927) G. FERRATA scriveva: «Ormai è tranquillo che il cinema è un’arte, e per di più l’arte tipica del secolo» (riportato in Ferrania, 1956, n. 12, p. 59).
20 Opportunamente, dunque, il Ragghianti ha coniato il termine critofilm, per «film di critica cinematografica»; meno felice ci pare il termine invalso di cineteca, per designare una raccolta di film, al posto di filmoteca, che, almeno in Italia, stato riservato alla raccolta di «filmine» e simili; per il Chiarini cinema è l’industria e film è l’opera artistica.
21 Tende a negare la documentarietà delle prime riprese cinematografiche lo storico e critico d’arte C. A. RACCHIANTI, nel cit. Cinema arte figurativa, pp. 50 ss., 194 ss.
22 A meno che, al caso limite, proprio la soggettività dell’interpretazione con cui il fotografo riprende la realtà sia l’oggetto che egli vuole documentare: ma in questo caso, ci si perdoni il bisticcio, la stessa soggettività di visione deve essere rispettata con la massima oggettività, pena lo scadere del documento in fantasia.
23 Cfr M. L’HERBIER, Intelligence..., cit., p. 364.
24 M. L’HERBIER, op. cit., p. 180. G. SINALDI O. P., Presentazione del problema morale del cinema, in La parrocchia. Milano 1955, p. 293. Più prudente, nel suo aureo libretto Cinéma, foi et morale (Parigi 1956; cfr il presente quad., p. 309), R. LUDHANN stempera il suo categorico Le cinèma étant un art con l’osservazione pertinentissima: «C’est que le cinéma, tout en étant le 7ª art, n’est peutêtre pas d’abord cela du moins dans nos perspectives: camme l’écrit n’est pas d’abord littérature, mais expression de la pensé» (p. 105).