NOTE
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1 P. STRAND - C. ZAVATTINI, Un paese, Torino, Einaudi, 1955, in-16º, pp. 106. L. 3.000.

2 Tra l’altro vi si mette sotto accusa il governo, reo «di voler liquidare con la sua politica cinematografica una delle espressioni più importanti della nostra cultura »; denuncia «le intimidazioni, le discriminazioni» e le manovre «perché l’artista tradisca il proprio mondo morale, evada sempre più da qualsiasi tema di natura sociale, o, se lo affronta, questo avvenga da un lato solo, quello più conformista»; dichiara la più energica opposizione «a una politica cinematografica che rinnega sentimenti ed idee fissate nella Costituzione, nella quale il nostro popolo ha concluso anni di sacrifici e di eroismi»; finisce in bellezza proclamando alto e forte che «il cinema senza libertà soltanto una macchina di speculazione e di paternalismo oscurantista. Lottiamo perché tutti abbiano il diritto di fare del cinema libero». Epifonemi, questi ultimi, che meriterebbero una medaglia al valore civile a chi osa sbandierarli in un paese notoriamente schiavista come l’Italia, se poi non risultasse che i loro firmatari sono Sergio Amidei, Michelangelo Antonioni, Luigi Chiarini, Lino Del Fra, Giuseppe De Santis, Alberto Lattuada, Garlo Lizzani, Antonello Trombadori, Cesare Zavattini ed altri, i quali, vedi caso, poi fanno l’occhio di triglia ai paesi come l’U.R.S.S., la Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia e la Bulgaria, dove il cinema è tanto libero che è un’azienda di Stato.

3 Manifesto cit.

4 Cfr Alcune idee sul cinema, dello stesso ZAVATTINI, in Umberto D (Fratelli Bocca, 1953), p. 5 ss. Qui appunto il Nostro osa avvalersi del pensiero di Gesù Cristo: «Se non temessi di sembrare irriverente, direi che Cristo con una macchina da presa in mano non fabbricherebbe apologhi, per quanto meravigliosi, ma ci farebbe vedere chi sono i buoni e i cattivi attualmente, e ci metterebbe avanti i primi piani di quelli che rendono troppo amaro il pane al prossimo e le vittime di costoro. censura permettendolo» (p. 12), dove manifestamente Zavattini equivoca; perché Gesù non si comporterebbe differentemente che nel Vangelo, dove, dopo aver minacciato quattro volte il suo Vae! ai ricchi, ha poi detto beati i poveri e i sofferenti... E per aver detto questo, dopo la censura del suo tempo, quella di oggi nei paesi comunisti continua a mandarlo in croce!

5 Il Paese Sera, cit.

6 «Spero che il turista quando si metterà in viaggio per il nostro bel paese dia un’occhiata ai libri della collana “Italia mia”. Vi troverà pochi monumenti ma parecchi uomini, donne, bambini, e sarà un buon risultato se il turista di passaggio per un luogo illustrato dalla collana guarderà più attentamente la gente che lo aiuta... Spero insomma che si cominci una biblioteca dove ogni villaggio, ogni città sia presente con la sua raccolta il più numerosa possibile di voci e di facce» (C. Zavattini in copertina al volume).

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Articolo estratto dal volume I del 1956 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Qualche anno fa l’editore Einaudi tentò una delle imprese meno nobili dell’editoria italiana lanciando una Piccola Biblioteca Scientifico Letteraria, gli acquirenti della quale, ordinando un libro, si ritrovavano per le mani un pacco di fogli tenuti insieme solo da un po’ di colla, a mo’ dei blocchi da calendari, impossibile da rilegarsi, e che a mala pena resisteva ad una prima lettura senza dividersi in pezzi. Forse per riparare a quel misfatto, lo stesso editore lancia in questi giorni un’altra collana, in cui le più alte tradizioni del bel libro italiano sono invece onorevolmente rispettate; per formato, infatti, carta, stampa, illustrazioni e rilegatura, i volumi dell’«Italia mia» competono con le più belle edizioni di arte. Ma, ahimè, questa volta, almeno a giudicarne dal volume che recensiamo1, primo e modello della serie, non ci siamo per il contenuto e per lo spirito che lo informa.

È direttore della collana, e redattore di questo suo primo numero, Cesare Zavattini, il quale, non bastandogli la fama mondiale che si è fatta di soggettista e di sceneggiatore tra i più importanti nella storia del cinema, pare che voglia passare alla riconoscenza dei posteri memori, come padre e difensore di quell’insidiata ed indifesa sua creatura equivocamente battezzata col nome di neorealismo italiano.

Che egli abbia tutte le carte in regola per pretendere tali attribuzioni, c’è chi crede di aver motivi per dubitarne. Innanzi tutto perché le sue teorie metodologiche sul cinema come «documento» sono piuttosto tardive rispetto alla migliore produzione che va appunto sotto quella denominazione, poi perché in molti dei migliori film di quell’etichetta egli è del tutto estraneo, inoltre perché il massimo suo contributo a quella corrente si è attuato in collaborazione con De Sica, e solo gli dèi superi potrebbero spartire tra i due, secondo giustizia, i rispettivi meriti; e infine perché, ammesso pure, e preminente, il suo influsso genetico, resterebbe poi sempre da appurare se nel corredo dell’insidiata creatura siano in prevalenza quelli buoni o piuttosto quelli tarati i cromosoni derivatile dalla paternità zavattiniana.

Il fatto è che là dove scovi il bieco governo in agguato contro il cinema italiano, ivi trovi Zavattini, penna in resta, farsi scudo col suo corpo in difesa dell’aggredito: dalle colonne dei giornali all’eroico comizio di Piazza del Popolo, dal convegno di Forlì, dove egli sedeva al tavolo della presidenza, al recente tonitruante Manifesto del cinema italiano, sparato dal Circolo romano del cinema, sedicente apartitico, che porta ultima delle firme (per motivi alfabetici) quella del Nostro2. Ma questa, purtroppo, è l’ora delle tenebre: vincono «le forze che rappresentano una concezione retriva della società»...3. Ed allora che ti fa il Nostro? «Poiché non è possibile fare dei film con la piena libertà che è necessaria all’artista, ebbene — ha pensato Zavattini (il rilievo è del Paese Sera: 18-19 giugno 1955) — facciamo dei libri. I registi italiani... non possono usare a loro piacimento la macchina da presa? Ebbene — dice sempre Zavattini — essi possono aver ancora una freccia al loro arco: la macchina fotografica. Mandiamoli in giro per l’Italia, accompagnati: da un fotografo di grido: alla scoperta degli italiani. Il frutto del loro lavoro questa volta non sarà un film, ma un libro di immagini, una serie di fotografie accompagnate da un testo esplicativo...»: ed ecco la collana «Italia mia», e, primo della serie: Un paese.

Noi lo raccomandiamo vivamente ai nostri lettori. Essi potranno ammirarvi in sette paginoni – tanti e non più sono quelli di testo continuato – le ultime conquiste della prosa di Zavattini, volutamente dimessa, allungata in interminabili notazioni di oggetti minuti e di particolari coloriti, manierosamente anacolutistica e parasintattica; e nelle circa cento pagine che seguono i sette paginoni, potranno vedere la nuova facile maniera di fare i libri con molte figure e poche parole.

Manifestamente sono passati i tempi che occorreva avere delle idee in testa, un po’ di estro e molta pazienza per ordinare, stendere, limare: oggi, per l’arte ci pensa, come s’è detto, la macchina fotografica, e per la cultura il magnetofono, che raccolga una ventina di confidenze dei luzzaresi (gli “infelici” compaesani di Zavattini), e qualche diario degli scolaretti, poniamo, di Borgomelacotta di Sopra, quanto basti per mettere dalle quattro alle dieci righe di didascalie sotto i clichès (quelli che lo permettono, perché circa un terzo sono a piena pagina...), previa traduzione dal dialetto originale, per l’occasione agghindato con qualche vezzuccio e qualche sgrammaticatura bambinesca. Conclusione consolante per l’acquirente: questa volta egli si trova ad avere non un blocco da calendario ma, in omaggio alla Cultura con la maiuscola, di cui i marxisti hanno il monopolio, un fumetto di lusso, un iperfumetto...

Quanto possa sperare di avvantaggiarsi la Cultura in siffatto scadere del discorso logico a vantaggio delle immagini lo giudichino i competenti; noi ci limitiamo a rilevare alcune caratteristiche del pensiero e della sensibilità dell’autore.

* * *

È nota nel mondo letterario e cinematografico italiano la sua teoria del «pedinamento, esame ed esplorazione della realtà». Noi non la rigettiamo in blocco: anzi vi riconosciamo molte verità e la teoria di quel clima poetico in cui si muovono le opere zavattiniane. Ma quanta limitatezza di visione non l’inficia! Quanta penosa impotenza a guardare oltre la scorza delle cose, ed in lui, che osa avvalersi dell’autorità di Gesù Cristo, quale pietosa sordità ad intenderne l’essenziale messaggio! Qui egli ci descrive la sua Luzzara, e che cosa ci mostra? Da capo a fondo gente scontenta, rancori, disperazione e prevalentemente miseria, o almeno povertà: e sì che siamo in una delle zone più fertili e ricche d’Italia! Sappiamo benissimo che Zavattini, contro chi gli rimprovera il suo realismo «nero», si difende con un: Ma questa è la realtà!4; e noi gli contestiamo la validità della sua difesa, perché questa non è la realtà, ma solo una parte della realtà. Ne sia o no consapevole, egli sceglie. Padronissimo di farlo: anzi, deve farlo su piano d’arte; però non può permetterselo senza esporsi all’accusa di falso quando i suoi elaborati vuol far passare, in letteratura come in cinema, per spassionata indagine sociale, e poi trame motivo di categoriche denunce. Né gli vale sussumere, come egli ha fatto, che finché nel mondo c’è la miseria, rifiutarsi di denunciarla sarebbe evasione e paura; perché denunciare le ingiustizie dei singoli e della società bisogna, ma non è tutto; se qualche cosa di bene si fa, più poi se molto di bene si fa, anche questo va detto, proprio per rispetto alla “realtà” valorizzata dal neorealismo, ed anche perché l’esempio dei buoni e del bene (i metodi della propaganda sovietica insegnino!) è fattore principalissimo e pungolo a realizzare l’invocato ordine della giustizia sociale.

Per fermarsi alla sua Luzzara, perché, per esempio, fotografo e scrittore non hanno “scoperto” una di quelle donne eroiche, “realtà” anch’esse, che hanno il solo torto di essere una confutazione vivente dei dommi marxisti inquadrati da certi obiettivi e riferiti da certe penne? Forse hanno passato anch’esse le loro ore tristi e non si sono buttate nel Po, come la ragazza di p. 18; forse erano ricche e, non per farsi amare, ma per dare l’amore più disinteressato, hanno regalato non due o tre mila lire l’anno, come l’oculato signore di p. 19, ma tutta la loro vita, e per sempre, e in più hanno rinunciato per sempre a quel coronamento dell’amore umano che fa sognare le floride ragazze delle pp. 73 e 89; a parte poi il rossetto, la cipria e il ballo, ideali della signora di p. 71, anch’esse avrebbero gradito i cappelletti delle pp. 23 e 28, nonché un po’ di cinematografo, nonché un po’ di riposo la domenica, come il simpatico arrotino di p. 43; ma ci hanno rinunciato, e non se ne vantano né se ne dolgono, per consacrarsi tutte ai poveri vecchi di Luzzara. I vecchi impicciano, i vecchi puzzano e sono noiosi, e tra i bravi luzzaresi, anche se certi eroismi non li confidano al duo Strand-Zavattini, c’è chi, appena può, se li toglie di tomo, e non certo per mandarli all’accogliente Casa del popolo. Ma quelle donne, invece, non richieste e non pagate, li accolgono, ed in mezzo ad essi sorridono e cantano, e nel dare la gioia agli altri non pensano alla vecchiaia che si avvicina anche per esse, senza pensione e senza indennità di malattie...

Non se l’abbia a male Zavattini: ma noi, pur ammettendo che la carità non basta, e che su questo tristo mondo ci vuole molta più giustizia, alla troppo facile denuncia di fotografi, di cineasti e di scrittori, che fanno dell’arte sul povero viandante, sui ladroni che l’hanno accoppato e sui personaggi che tirano diritti alla vista delle miserie fisiche del primo e di quelle morali dei secondi, preferiamo l’opera silenziosa dei buoni samaritani, che alleviano, come possono, le sofferenze dei loro fratelli col proprio sacrificio.

Ma l’ombra più forte nella visione zavattiniana del mondo non in quel che egli vede, ma nel modo in cui vede anche la miseria. Il suo è un mondo chiuso a qualunque valore che non sia «terrestrità». È noto che egli, ossequente ai canoni della dommatica marxista, e neanche immaginando che ci possa essere un’altra visione più aderente alla realtà oggettiva, se ne fa un vanto; e noi glielo riconosceremmo per motivato se la sua terrestrità non escludesse ogni altra realtà, ipotetica o storica, supraterrestre. I suoi omini macinano solo lavoro, paga, tasse; temono solo i carabinieri, il governo e l’I.G.E.; i loro valori sono computabili solo in biolche, case, botteghe; i loro desideri non vanno oltre il mezzolitro, la pesca, il cinema, il fucile, i tartufi, le donne; le quali donne, per conto loro, non si spingono oltre un pollaio, il rossetto e il ballo; tutti figliano, o meglio figliavano, senza poesia e invecchiano sotto l’incubo di una fine desolata. Non un pensiero che superi il piatto, il letto, il tetto; non uno scarto verso quelli che santi e poeti, poveri ingenui, chiamavano ideali di vita; non un oggetto, una casa, una persona che si trovino a disagio entro le strettoie del tempo e dello spazio, le quali fanno la più profonda ed innaturale infelicità dell’uomo storico. Solo una volta i luzzaresi si sentono avvolti in un vento di gesta: «... e tutti noi operai abbiamo preso un’azione da mille lire ciascuno e, fatto il rogito, subito si dette inizio alla costruzione delle fondamenta, c’erano in media 50 operai al giorno che lavoravano con tutte le loro forze gratis, camion che portavano gratis il pietrame raccolto vicino al Po, la sabbia del Po scavata gratis e tante altre cose, fino a quando l’anno scorso l’abbiamo aperta e vale 14 milioni e molta gente dice: ma come avete fatto?». Nel medio evo a questa maniera i mastri d’arte costruivano le cattedrali; oggi a Luzzara si costruisce, giù il cappello!, la Casa del popolo!

Nel licenziare alle stampe questo suo esemplare di rettorica della miseria, «Zavattini ha rivelato che i progetti allo studio per la collana “Italia mia” erano molti ed amplissimi. Si volevano illustrare non soltanto i paesi e città, ma condizioni umane di vita, quella dei ferrovieri, dei contadini, delle servette, dei bambini napoletani: erano i temi proposti a registi come Lattuada e Soldati, a letterati come Rea, Floria Volpini s’incaricava delle servette di tutt’Italia; De Filippo riservava per sé la città di Genova; Blasetti affrontava Roma; Visconti metteva in cantiere un tema straordinariamente suggestivo: la Via Emilia; Carlo Levi si dirigeva verso il mondo arcaico della Sicilia. Qualcuno tra il pubblico ha raccomandato caldamente di non dimenticare i pescatori e i pastori. Ed è stato accontentato»5.

Dispiacenti di non averlo potuto fare di presenza, ci permettiamo suggerire anche noi all’editore Einaudi, e al suo direttore di collana, qualche argomento che ci pare non disutile per un’oggettiva ed imparziale «scoperta degli italiani». Per esempio, raccomandiamo caldamente di non dimenticare le cellule, le commissioni interne e certe organizzazioni sindacali rosse, indagando sui metodi persuasivi dei loro dirigenti e raccogliendo le impressioni spontanee dei liberi compagni; d’inviare fotografi, registi e letterati in gamba in certe amministrazioni comuniste e nei circoli A.P.I., prolungando un po’ l’indagine a Pozzonovo, che da solo potrebbe fornire un numero molto interessante nella collana; d’iniziare un’attività di pedinamento sui retroscena di molti scioperi e sullo stato d’animo di chi, sempre spontaneamente, vi sottostà; su chi, come e perché occulta certi depositi di armi nelle fabbriche rosse e in poetici cascinali, organizza lo spionaggio per i paesi d’oltre cortina e v’invia i nostri non onorandi onorevoli incappati nel codice penale come delinquenti comuni; e già che il discorso ci ha portato oltre cortina, dato che il «pedinamento», se è valido qui da noi non c’è motivo che non possa giovare agli interessi dell’arte e della giustizia sociale anche nelle Repubbliche Socialiste, raccomandiamo vivamente d’inviare anche colassù fotografi e registi. E si facciano coraggio quegli inviati! Ché, se il loro compito sarà difficilissimo, essendo colassù rare come mosche bianche le persone scontente, e sconosciuta del tutto la miseria, in compenso non avranno da superare ostacolo alcuno di censura governativa. Forse per questo in quei felici paesi, a decine, fotografi americani come Paul Strand, scorrazzano per lungo e per largo, e le collane come «Italia mia» abbondano, con gioia immensa dei numerosissimi turisti che si recano oltre cortina, i quali hanno ciò che i pochi e poveri turisti che vengono in Italia, sempre per colpa del governo, ancora devono attendere per un bel pezzo!6.

Dubitiamo molto che qualcuno di questi nostri suggerimenti venga accolto dall’editore e dal direttore; anzi siamo certi che verranno tutti sdegnosamente scartati. Avvezzi agli sgambetti della dialettica marxista, non ce ne meravigliamo; ma ci sorge un dubbio, che, in fondo in fondo, il verismo del pedinamento spesso sia solo letteratura, e della peggiore specie: rettorica dell’antirettorica, pretesto demagogico e, quando occorre, in editoria e in cinema, redditizia industria, alla faccia degli stracci e di chi li porta. E un altro dubbio ci punge. Il lussuoso volume, di un centinaio di pagine, costa ben tremila lirette. La stessa alta cifra presumibilmente costeranno anche gli altri che lo seguiranno. Ora, chi li comprerà? I poveri luzzaresi? Certo che no! Forse i ferrovieri, i contadini, le servette, i bambini napoletani, nonché i proletari della Via Emilia, i pescatori e i pastori? Mai più! Dunque, se l’editore non li regala gratis et amore populi, se lo regaleranno solo i borghesi e ricchi, a maggior gloria dell’editore e dei suoi oculati consiglieri. Ai quali non saremo noi a rimproverare d’intascare buon danaro legalmente guadagnato. Ci sia però lecito sorridere alquanto sull’inopinata avventura di certi zelanti denunciatori di sfruttatori e più zelanti difensori di sfruttati, inconsapevolmente diventati a loro volta sollecitatori degli sfruttatori e profittatori essi stessi della miseria altrui.

1 P. STRAND - C. ZAVATTINI, Un paese, Torino, Einaudi, 1955, in-16º, pp. 106. L. 3.000.

2 Tra l’altro vi si mette sotto accusa il governo, reo «di voler liquidare con la sua politica cinematografica una delle espressioni più importanti della nostra cultura »; denuncia «le intimidazioni, le discriminazioni» e le manovre «perché l’artista tradisca il proprio mondo morale, evada sempre più da qualsiasi tema di natura sociale, o, se lo affronta, questo avvenga da un lato solo, quello più conformista»; dichiara la più energica opposizione «a una politica cinematografica che rinnega sentimenti ed idee fissate nella Costituzione, nella quale il nostro popolo ha concluso anni di sacrifici e di eroismi»; finisce in bellezza proclamando alto e forte che «il cinema senza libertà soltanto una macchina di speculazione e di paternalismo oscurantista. Lottiamo perché tutti abbiano il diritto di fare del cinema libero». Epifonemi, questi ultimi, che meriterebbero una medaglia al valore civile a chi osa sbandierarli in un paese notoriamente schiavista come l’Italia, se poi non risultasse che i loro firmatari sono Sergio Amidei, Michelangelo Antonioni, Luigi Chiarini, Lino Del Fra, Giuseppe De Santis, Alberto Lattuada, Garlo Lizzani, Antonello Trombadori, Cesare Zavattini ed altri, i quali, vedi caso, poi fanno l’occhio di triglia ai paesi come l’U.R.S.S., la Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia e la Bulgaria, dove il cinema è tanto libero che è un’azienda di Stato.

3 Manifesto cit.

4 Cfr Alcune idee sul cinema, dello stesso ZAVATTINI, in Umberto D (Fratelli Bocca, 1953), p. 5 ss. Qui appunto il Nostro osa avvalersi del pensiero di Gesù Cristo: «Se non temessi di sembrare irriverente, direi che Cristo con una macchina da presa in mano non fabbricherebbe apologhi, per quanto meravigliosi, ma ci farebbe vedere chi sono i buoni e i cattivi attualmente, e ci metterebbe avanti i primi piani di quelli che rendono troppo amaro il pane al prossimo e le vittime di costoro. censura permettendolo» (p. 12), dove manifestamente Zavattini equivoca; perché Gesù non si comporterebbe differentemente che nel Vangelo, dove, dopo aver minacciato quattro volte il suo Vae! ai ricchi, ha poi detto beati i poveri e i sofferenti... E per aver detto questo, dopo la censura del suo tempo, quella di oggi nei paesi comunisti continua a mandarlo in croce!

5 Il Paese Sera, cit.

6 «Spero che il turista quando si metterà in viaggio per il nostro bel paese dia un’occhiata ai libri della collana “Italia mia”. Vi troverà pochi monumenti ma parecchi uomini, donne, bambini, e sarà un buon risultato se il turista di passaggio per un luogo illustrato dalla collana guarderà più attentamente la gente che lo aiuta... Spero insomma che si cominci una biblioteca dove ogni villaggio, ogni città sia presente con la sua raccolta il più numerosa possibile di voci e di facce» (C. Zavattini in copertina al volume).

In argomento

Editoria

n. 3397, vol. I (1992), pp. 45-49
n. 3363-3364, vol. III (1990), pp. 258-263
n. 3327, vol. I (1989), pp. 259-265
n. 3093, vol. II (1979), pp. 257-268
n. 3062, vol. I (1978), pp. 151-159
n. 2995, vol. II (1975), pp. 95
n. 2882, vol. III (1970), pp. 154-160
n. 2809, vol. III (1967), pp. 60-62
n. 2807, vol. II (1967), pp. 484-485
n. 2766, vol. III (1965), pp. 552-557
n. 2695, vol. IV (1962), pp. 53-55
n. 2672, vol. IV (1961), pp. 165-169
n. 2667, vol. III (1961), pp. 306-311
n. 2644, vol. III (1960), pp. 384-392
n. 2645, vol. III (1960), pp. 504-512,
n. 2639, vol. II (1960), pp. 511-521
vol. II (1958), pp. 284-288
n. 2583, vol. I (1958), pp. 287-294
n. 2490, vol. I (1954), pp. 622-636
n. 2465, vol. I (1953), pp. 558-563
n. 2455, vol. IV (1952), pp. 57-60
n. 2436, vol. IV (1951)
n. 2197, vol. I (1942), pp. 68