NOTE
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1 A tale anno ai suole assegnare l’inizio della produzione industriale cinematografica italiana, quando appunto l’Ambrosio, di Torino, girò Le manovre degli alpini al Colle della Renzola, e La prima corsa automobilistica Susa-Moncenisio, operatore Roberto Omegna.

2 A questo primo periodo si riferisce, tra i moderni, solo l’interessantissima Storia del cinema muto italiano, di A. PROLO (Milano, Poligono, 1951, pp. 188, con 66 tavv. f. t.); miniera ricchissima di dati e di notizie, rastrellati da pubblicazioni spesso rare e irreperibili, nonché da confidenze personali di autori e di organizzatori. Purtroppo la certosina fatica della Prolo non è andata oltre il primo volume, che parte dai pionieri e raggiunge gli inizi della crisi del 1915-1916. Nuoce all’autrice un’eccessiva ricerca di particolari, dispersi tra il testo e le abbondantissime note, e non sufficientemente inquadrati in una sintesi ordinata. Ci troviamo perciò più avanti a una raccolta di materiali per una storia, che ad una vera e propria storia, sia pure non finita. Particolarmente utile ed unico nel suo genere il suo Elenco delle pellicole mute realizzate in Italia dal 1904 al 1915, che si sviluppa per ben sessantasette fittissime pagine su due colonne. Ricche, originali e di buona scelta le illustrazioni. Curiosa, però, l’idiosincrasia dell’autrice, avversa, pare, a qualunque censura cinematografica.

3 Il neorealismo italiano. Documentazioni, Venezia 1951, pp. 150. Dalle prime pagine sono tolte le frasi virgolate da noi riportate poco sopra.

4 Per bene impostarla occorrono disparate conoscenze storiche, religiose, estetiche e sociali, storiche e di fatti, la efficienza o la deformazione delle quali spiegano le molte polemiche sull’argomento, specialmente quando esse vengono guidate dal metro di determinate ideologie politiche, come se n’ebbero esempi nei recenti convegni di Parma e di Varese sul neorealismo.

5 Cinema italiano oggi, 2ª ed., Roma, Carlo Bestetti, Edizioni d’arte, 1952, in-4º, pp. 213. L. 3.500.

6 Ivi, p. 17.

7 CARLO LIZZANI, Il cinema italiano, 2ª ed., Firenze, Parenti, 1954, in-16°, pp. 442. Con 40 tavv. f. t. L. 2.000.

8 E. CONTINI, però, imparzialmente nota che il cinema «durante la dittatura fascista era stato in più casi il porto franco della cultura e dell’intellettualità» (Il neorealismo italiano, cit., p. 30); L. CHIARINI, poi, testimone irrefutabile, dato quello che allora era e che ora scrive: «Anche durante il fascismo vi furono lati positivi per il cinema italiano, che se sonnecchiava non dormiva del tutto, in quanto sorsero attrezzature industriali di prim’ordine e una serie di organismi tecnici importanti, mentre presero l’avvio quegli studi cinematografici che dovevano portare i problemi del film sul piano della cultura, nel circolo vivo del suo movimento, giacché questo settore, a cui non si prestò troppa attenzione, godette di una certa libertà. Molti, infatti, furono i giovani che poterono prepararsi seriamente e che di ciò dettero prova subito dopo la fine del fascismo. Di quel periodo, del resto, alcuni film sono da ricordare, come, ad esempio, quelli del regista Poggioli» (Cinquant’anni di cinema italiano, prefazione, p. 10). Scendendo ai particolari, E. MARGADONNA ricorda i G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti) «vivaio e palestra di giovanissimi cineasti», la Mostra internazionale veneziana, l’Istituto Luce, e scuola «palestra dei nostri migliori documentaristi», la Cineteca scolastica, nonché la rivista Bianco e nero, allora diretta dallo stesso Chiarini (ivi, p. 42).

9 Che la censura fascista sia stata uno scherzo rispetto a quella vigente tuttora in U.R.S.S. l’afferma E. M. MARGADONNA quando osserva che «come sempre succede nel nostro paese, il conformismo fascista, salvo pochi esagitati di scana autorità, fu applicato col più italiano granum salis: perciò, su oltre cinquecento film di spettacolo prodotti in questi tredici anni, i film fascisti al cento per cento si contano sulle dita di una mano sola» (p. 37). Ma basterebbero le dita delle cento mani di Briareo per contare i film comunisti al cento per cento liberamente prodotti dalla madre Russia?

10 Stupefacente la duttilità del giudizio dei nostri critici rossi. Si veda, per esempio, in Il film del dopoguerra: 1945-1949 (Venezia 1949), U. BARBARO inneggiare all’industria cinematografica polacca, la quale – beata lei! – «coordinata e condotta da un organismo statale dipendente dal Ministero della cultura e dell’arte» (p. 92); L. QUAGLIOTTl fare lo stesso per l’Ungheria (p. 163) e per la Cecosìovacchia, dove, vedi caso, «la nazionalizzazione della cinematografia non pone esclusive di sorta all’ispirazione dei singoli registi», tanto che OTAKAR VAVRA può dire: «Godiamo di una totale libertà di creazione. Nessuno cerca d’imporci una determinata forma artistica. Sta a noi trovarla e crearla, con la coscienza che i nostri soggetti non vengono più giudicati da commercianti, ma da artisti» (p. 133); infine G. VIAZZI notare sodisfatto che il cinema sovietico è sempre legato intimamente alla più epica «contemporaneità, che è storia in divenire» (p. 101); e che il 4 settembre 1946 una risoluzione speciale del C.C. del partito comunista dell’U.R.S.S. «condannava l’atteggiamento poco riflessivo dei registi e dei soggettisti» (p. 110), non supponendo, l’ingenuo, che qualche lettore non ammaestrato possa trovare nelle sue parole materia per divertenti paragoni tra la retorica e la censura fascista e la retorica e la censura comunista...

11 Rileviamo, tra gli altri, che I promessi sposi (1941), di Camerini, più volte ricordati nel testo, non compare nella filmografia; sempre nella filmografia, ad Alessandrini manca Anita Garibaldi (1950), a Caserini manca Madame Tallien (1916), con L. Borelli e A. Novelli, a Mattoli manca Totò sceicco (1950), al Righelli mancano Come le foglie (1916) e Camere separate (1918); mancano infine molti film usciti nel 1953.

12 M. GROMO, Cinema italiano 1903-1953, Verona, Mondadori, 1954, in-16°, 188. Con 32 tavv. f. t. L. 500.

13 Tanto più che una vigilanza massiccia del regime sul cinema si ebbe solo col 1935, quando, a imitazione di quel che praticavano i regimi sovietico e nazista, fu istituita la Direzione Generale per la Cinematografia, col compito di vigilare e guidare qualsiasi attività del nostro cinema (Cfr M. GROMO, op. cit., pp. 66-67).

14 Cinquant’anni di cinema italiano, 2ª ed., Roma, Carlo Bestetti, Edizioni d’arte, 1954, in-4°, pp. 92. Con 206 tavv. f. t.

15 «li primo nostro vasto tentativo di riordinamento di dati e di materiati in un profilo storico, con notazioni sui valori spaziali e temporali del film» (M. GR0MO, op. cit., p. 68).

16 In tanta moltitudine di notizie e di dati non abbiamo notato incorrettezze di rilievo, se se ne eccettui a pag. 13 un Leone XII invece di Leone XIII.

17 Abbiamo tenute presenti solamente quelle pubblicazioni che sono tutte consacrate al cinema italiano, e non quelle che spaziano oltre; come, per esempio: L. ROGNONI, Cinema muto (Roma, Bianco e nero, 1952), che ha un diligente e chiaro, ma molto breve, capitolo sul Vecchio cinema italiano (pp. 63-75), e G. SADOUL, che in Storia del cinema (Torino, Einaudi, 1951, torna tre volte sul cinema italiano (pp. 119 ss., 468 ss., 479 ss.), dando sulla nostra produzione giudizi deformati dagli stessi pregiudizi marxisti che, come abbiamo visto, rendono inaccettabile il libro del Lizzani.

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Articolo estratto dal volume II del 1955 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Se si volesse indicare con un diagramma l’andamento dell’industria cinematografica dell’Italia nel suo mezzo secolo di vita, segnando sulle ascisse gli anni e sulle coordinate i successi riportati dai suoi film nel mercato internazionale, si otterrebbe una curva, che partendo dall’anno 1904, inizio del nostro cinema1, raggiunge un massimo negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, rapidamente decresce fino a toccare un minimo durante la seconda, indi risale di colpo nel 1945, per raggiungere e superare le quote segnate nel 1910-1916.

Ambedue le punte interessano gli studiosi di cose cinematografiche. La prima specialmente gli economisti, i tecnici e i letterati: fu infatti quella della prosperità economica della nazione, quando i nostri film, sulla scia dei fragorosi Quo vadis (1912), Gli ultimi giorni di Pompei (1913) e Cabiria (1912) – più che degli artistici Sperduti nel buio (1914) e Assunta Spina (1915) – si vendevano a scatola chiusa, aureolati dalla fama del D’Annunzio e del D’Ambra, nonché dei Ghione, Maciste e Novelli, delle Menichelli, Barelli, Bertini e altre stelle dell’incipiente «divismo» nostrano; e fu, inoltre, il tempo in cui il nostro cinema trovava i primi elementi di un linguaggio espressivo, perfezionato poi da Porter e da Griffith e sistemato dai teorizzatori odierni2. La seconda punta, oltre agli economisti, ai tecnici e ai letterati, interessa in specie i critici d’arte, gli uomini della cultura e della politica; essa infatti è segnata da film come Roma città aperta (1945) e Paisà; (1946), Un giorno nella vita (1946) e Caccia tragica (1947), La terra trema (1948) e In nome della legge (1949), Sciuscià; (1946), Ladri di biciclette (1948) e Il cammino della speranza (1950), Umberto D (195 I), Europa ’51 (1952), Due soldi di speranza (1951) e La strada (1954), e da registi come Rossellini e Blasetti, De Sica (Zavattini) e Lattuada, Visconti e Castellani, De Santis e Germi, Zampa e Vergano, i quali non si sentirebbero affatto lusingati di esser comprati a scatola chiusa, come oggetti di solo valore economico, sapendosi portatori di idee e di cultura, e, inoltre, animatori di una società di cui spietatamente rilevano miserie e scontenti, possibilità ed aspirazioni.

La ricchezza del loro mondo interiore e la loro vena poetica hanno fatto del film italiano «il fenomeno più importante della produzione mondiale del dopoguerra», la «scoperta più significativa e più alta della cultura contemporanea», ed hanno richiamato, su quella che Gabriel Marcel ha definito «la rivoluzione della verità», l’attenzione di tutto il mondo, un’espressione della quale è stato anche, sotto certi aspetti, il trionfale successo della recente settimana londinese del film italiano. Non è dunque da far le meraviglie se, nell’incremento generale delle pubblicazioni sul cinema come fatto sociale e di cultura, prendono un posto di rilievo in questi ultimi anni quelle sul cinema italiano, non solo nella stampa periodica, ma anche con storie, saggi e studi a sé stanti, sui più recenti dei quali intendiamo informare i nostri lettori.

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Il neorealismo italiano3, secondo dei Quaderni della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, benché ormai vecchiotto, si può considerare ancora fondamentale in materia, sia per lo studio limpido e sostanzioso curatovi da Gian Luigi Rondi «su quel movimento estetico cd umano che, impropriamente, taluni teorizzatori hanno voluto chiamare neorealismo», sia per la filmografia del cinema italiano, curata da Gaetano Carancini, sia infine per la ricchissima bibliografia presentata da Mario Verdone. Se questi due ultimi capitoli riusciranno particolarmente utili agli studiosi, il primo, benché ormai divenuto lacunoso, resta ancora una delle migliori indagini sull’argomento. Diremmo che non mancano al Rondi spiccate simpatie, le quali talvolta – ci sembra – colorano di un certo lirismo soggettivo i suoi giudizi su soggetti e persone, ma nell’insieme gli riconosciamo invidiabile sicurezza di critica su piano estetico, sociale ed etico, sicché tra i tanti che ne hanno dissertato, al suo studio dovrà ricorrere chi vorrà veder chiaro nella discussa questione del neorealismo italiano4. La stessa traccia il Rondi segue in Cinema italiano oggi5, ma in modo meno organico, piegandosi alle esigenze divulgative ed illustrative della pubblicazione, indirizzata al gran pubblico e non a studiosi di cinema; i quali ultimi però vi troveranno un pezzo inedito di Alessandro Blasetti: Cinema italiano ieri, di essenziale importanza; il noto regista, infatti, che del cinema italiano, dal 1929 a tutt’oggi, oltre che attento testimone è stato uno degli artefici principali, ritrova nel filone dei suoi ricordi quei dati che hanno preparato il buon successo odierno, in pagine che, senza costituire un’analisi storica, dato il loro autore, è un po’ come se fossero le «memorie del cinema italiano»6. L’abbondantissima illustrazione che accompagna il volume lo fa un prezioso album di ricordi storici ed estetici, un libro che insieme insegna e ricrea.

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In seconda edizione, ai primi del 1954, abbiamo avuto Il cinema italiano7, di Carlo Lizzani. Questo, per l’intento che mostra di completezza e di cultura, merita qualche cosa più di due parole di presentazione. Carlo Lizzani non è uno sconosciuto nel mondo del cinema. Scrittore in varie riviste cinematografiche, attore, sceneggiatore, soggettista e, dal 1950, anche regista di tre o quattro buoni film, ha modo di saggiare la teoria sul banco di prova della pratica, vantaggio non comune ai critici suoi colleghi. Scrive anche chiaro e liscio, e circa l’arte cinematografica non ragiona tanto malaccio:

Il cinema diventa arte dal momento in cui quello che conta, nel film, non è tanto il muoversi, davanti agli occhi degli spettatori, di determinati gruppi di masse, o il disegno di determinate scenografie, o la mimica di certi attori, o l’intreccio letterario che guida l’azione, o la didascalia scritta da un gran poeta. Ma è, piuttosto, la capacità di muovere reazioni e sentimenti attraverso idee e sequenze di idee sostanziate con la forma cinematografica: cioè con un determinato taglio dell’inquadratura (che si fa espressiva trovando particolari rapporti tra l’uomo e l’ambiente, limitando la figura umana in un certo mondo, equilibrando luci ed ombre) o attraverso il montaggio delle inquadrature (che diventa efficace e creativo in quanto mette in rilievo funzionale i contrasti tra le varie immagini, crea ritmi e svolgimenti dinamici) (p. 57).

Avrebbe, dunque, molti numeri per riuscire. Peccato che sia marxista! Direte che le idee politiche non hanno niente che fare con l’arte e col cinema in particolare! Niente, se restassero al loro posto, come i capelli rossi e l’essere mancino, che non nuocciono né giovano alla saggistica. Ma se uno scrittore, critico o storico che sia, vedesse tutto, e lo scrivesse, in funzione dei suoi capelli rossi e della sua perizia sinistrorsa? Farebbe comizi, e non storia o critica. E questo fa il Lizzani. Il cinema, che è anche linguaggio, arte, cultura, spettacolo, industria, per lui è solo politica, lotta di classe, diritto al lavoro, occasione di benèfici scambi culturali coi «paesi democratici».

Egli fa suoi gli schemi semplicisti della propaganda marxista, che divide tutto l’esistente in due parti: fascista e socialista; fa coincidere tutto il male col primo e tutto il bene col secondo, e su questo schema, non senza scomodare le ombre di Antonio Labriola (ortodossamente invocato) e di Francesco De Sanctis (citato a sproposito), spiega la storia d’Italia e del suo cinema. Chi è la causa prima delle sue sventure? La censura! Chi lo salverà dalla precaria situazione attuale? I circoli del cinema (comunisti). Che cos’è che fa la forza del neorealismo? «La coscienza che i suoi autori hanno della drammatica situazione del nostro Paese; e perciò valido è il realismo stracciaiolo e sconsolato di De Sica e Zavattini, Lattuada, Zampa, Visconti e De Santis, a preferenza di quello fiducioso e costruttivo che si ritrova nelle migliori sequenze di Germi, di Castellani e di Rossellini.

Con stupefacente disinvoltura egli spiega alcune coserelle che un lettore non iniziato all’alchimia marxista troverebbe difficilette a capire; per esempio, come mai in un’Italia non ancora illuminata dal sol dell’avvenire, uscirono film e registi che fecero scuola all’America e alla Russia; perché poi il film 1860, girato nel fosco ventennio, non sia riuscito tanto malaccio, e come mai il cinema italiano, già prima del fatidico 25 luglio, abbia dato i segni di una vita nuova, con Quattro passi tra le nuvole, I bambini ci guardano, Ossessione ecc. (p. 128)8.

Non saremo certamente noi a negare quanto di male il cinema italiano, passato e odierno, abbia risentito dalle tristi vicende politiche e sociali sofferte dalla nazione, ma ci sorprende la sicurezza con la quale esse vengano rilevate da uno che poi non ha ritegno d’inneggiare all’U.R.S.S., felice contrada dove nessuna mancanza di libertà impedisce la nascita dei primi maestri della cinematografia e dei primi creatori del linguaggio cinematografico (p. 53). Ce la saprebbe indicare lui in Russia una rivista, come la Ronda, che dichiara guerra all’«arte impegnata»? (p. 51)9. Egli, che difende Ladri di biciclette, per aver indicato il problema del diritto al lavoro, «che decine di governi in Italia non hanno saputo sciogliere», ci potrebbe indicare un film russo che indichi un solo problema non sciolto dal paterno regime comunista? Egli, che bolla il fascismo perché considerò sacrilego ogni contatto con la cultura dei «paesi democratici», e specialmente con l’U.R.S.S., perché non ci dice quali contatti internazionali, culturali e non culturali, i suoi paesi democratici e l’U.R.S.S. tolleravano-allora e tollerano oggi? Egli, che critica il finale del noto film di Germi (p. 169), supposto che in Russia sia possibile un neorealista Cammino della speranza, saprebbe indicarci quanti la polizia confinaria rossa ne avrebbe fatti fuori, tra i clandestini che la disperazione avesse spinti a forzare i tripli fili spinati, che chiudono il paese della libertà comunista? Egli, infine, che ironizza sugli appena Due soldi di speranza restati ai registi italiani, i quali «vogliono un’aria più libera e pura» (p. 170), perché non ci dice quanti copeki di speranza siano restati ai registi d’oltre cortina?10.

Considerato che non era disposto a sonare su un’altra corda, noi ringraziamo il Lizzani di aver interrotto il suo epicedio-peana sul cinema nostrano a circa un terzo del volume. I due terzi che restano sono occupati da un’appendice di indicazioni metodologiche, filmografie, documenti, tavole fuori testo, indici dei nomi e indice delle opere, a cura di Leopoldo Paciscopi e Giorgio Signorini: utili repertori per chi andasse in cerca di dati precisi sulla cinematografia italiana, i quali riusciranno ancora più utili qualora, in altre edizioni, vi si ridurranno le lacune e le scorrezioni11. A parte questi sussidi, il volume apporta scarsi utili alla cultura cinematografica italiana; contro tutte le innegabili buone doti del suo autore resta solo un libro di testo ad uso dei membri dei sopra lodati Circoli del cinema, bisognosi d’imparare a parlare di film come si conviene a ortodossi moscoviti nostrani.

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Con migliori pregi stilistici e senza i preconcetti del Lizzani si presenta il volumetto Cinema italiano12, di Mario Gromo, collaboratore da quasi un quarto di secolo alla Stampa di Torino. Egli adotta una divisione corrente tra gli storici del cinema italiano, trattando prima del film muto (1903-1924), poi del film del regime (1925-1942) e, in ultimo, del nuovo cinema (1945-1953): divisione più comoda che adeguata; difatti, il film muto in Italia va fino al 1930, quello «del regime» in verità non coincise affatto col ventennio13; e circa il «neorealismo» di fatto non mancano film anteriori al 1945, i quali sono palesemente contraddistinti da alcune note proprie di quelli che, per unanime consenso dei critici, appartengono alla «nuova scuola».

Nella prima e nella seconda parte il Gromo segue uno schema piuttosto cronologico; non si perde in indigesti elenchi di film e di registi, ma si sofferma solo sui più rappresentativi per arte, o almeno per tecnica ed influsso, ambientandoli nelle circostanze politiche, letterarie e culturali che prepararono e accompagnarono il loro tempo e le loro opere, e riesce in tal modo a tracciare chiare e nette le linee maestre del nostro cinema, oggettivamente espresse, belle o brutte che siano, senza ingenue esaltazioni e sapienziali trenodie. Per il terzo periodo, invece, indottovi dalla stessa materia, abbandona il criterio cronologico e presenta l’uno dopo l’altro i nostri più noti registi odierni, cominciando dallo stato maggiore della «nuova scuola»: Rossellini, De Sica, Visconti, Blasetti e Genina, indi passando a Germi e Lattuada, Castellani e De Santis, Antonioni e Fellini, ed altri minori; in tutti, per i film più importanti fornisce, oltre al soggetto, le più essenziali notazioni tematiche ed estetiche, il tutto inquadrando tra sintetiche note introduttive e conclusive sulle caratteristiche del neorealismo e sullo stato odierno del cinema in Italia. Egli non simpatizza con

certa critica che, a furia di volersi informare sul come, quando, dove e perché sia nato un film (qualche volta altrettante congetture o illazioni), finisce per esibire note e noterelle, parentesi e citazioni, piuttosto ingombranti quando non siano inutili, e semplicemente dannose quando non lascino più scorgere il film, velandone o addirittura impedendone un chiaro motivato giudizio. Altrettanto si potrebbe dire di un’altra critica più pretenziosa, la quale si compiace di scorribande e divagazioni sottili, suggerite da pretesti di vicenda, di personaggi, d’ambiente, o sociali, o di correlazione, o di genere. Acute variazioni, pregevoli dissertazioni, ma sempre in margine al film da esaminare, il quale troppe volte rimane... impregiudicato... (pp. 165-166)

e, di norma, con la pratica fa ossequio alla teoria; i suoi giudizi, per lo più brevi e recisi, su autori e su opere, sono oggettivi e sostanziali; qualche volta discutibili, ma fondati.

Alcune sue opinioni ci sembrano particolarmente felici; tali, per esempio, quelle sull’influsso non sempre felice dello Zavattini sul De Sica, la critica che egli fa di alcuni inconvenienti della vigente legge sul cinematografo, e quella sulla peregrina idea del Blasetti, il quale sosterrebbe che non il regista, bensì il soggettista, è l’autore del film.

Qui la generosità di Blasetti sembra ammantarsi di molta modestia; vorrebbe invece rispolverare l’annosa disputa su chi sia il vero autore del film, e se l’opera cinematografica sia collettiva o individuale. Con risapute argomentazioni, valide per film che vogliano essere soltanto «spettacoli», ma caduche di fronte all’analisi delle non molte opere d’arte che il cinema ci ha dato, e per le quali si vorrebbero insomma rinnovare le vecchie diatribe sulla «forma» e sul «contenuto». Principi o criteri piuttosto rivelatori, come ars poetica di un regista; ma sembra volerci insistere, con una foga degna di miglior causa; e converrà lasciarlo sfogare. Se quelle teorie gli serviranno a darci qualche buon film, gli saranno evidentemente state benefiche; ognuno ha diritto di cercare il suo bene dove crede di poterlo trovare (p. 139).

Equilibrate espressioni che condividiamo in pieno; ma non vorremmo che l’autore ne abusasse per giustificare una lacuna che abbiamo riscontrato nel suo libro. Posta, infatti, la distinzione tra arte e spettacolo, resta vero che il cinema, anche in Italia, è più spesso spettacolo che arte; di conseguenza, in un libro che s’intitola Cinema italiano, avremmo voluto trovare accennato, se non trattato, non solo quanto riguarda i migliori registi e i loro stili, ma anche molti altri elementi essenziali in uno dei fenomeni sociali più imponenti del nostro tempo. Orbene, il Gromo nulla dice dell’organizzazione industriale e commerciale, nulla della distribuzione e del noleggio, quasi nulla degli attori (fatta eccezione della Bergman e della Magnani, ricordate in fugaci battute, e della Duse, commemorata in modo sproporzionato all’unica prestazione da essa data al cinema), nulla delle interferenze, attive e passive, coi mercati stranieri, né del posto che il cinema occupa nell’evoluzione (o nell’involuzione?) culturale e morale in atto tra la nostra gente, nulla infine di alcuni settori della produzione, quali il documentario e lo scientifico, nei quali l’Italia rappresenta pure qualche cosa. Ma se siffatto scompenso tra titolo e contenuto, in fondo, si potrebbe ridurre a una semplice improprietà di titolo, alcune inflessioni mentali dall’autore ci trovano dissenzienti su un fondo di idee; tali, per esempio, un sistematico assenteismo del fattore religioso morale, accentuato dall’improprietà dei termini usati quando qualche volta egli vi accenna; il ridurre l’intimo vigore del cosiddetto «neorealismo» a un «credere (dell’italiano) soltanto in se stesso» (p. 168), intercludendogli qualunque anelito oltre il contingente: interpretazione, a nostro umile parere, combattibile non solo dal falso socialismo del Lizzani e dalla interpretazione spiritualistica del Rondi, ma dagli stessi film in questione, se oggettivamente visti e compresi; e finalmente un incauto accenno alla libertà di espressione, come se i nostri artisti oggi ne difettassero, e il difettarne dipendesse dai governanti, quando, come il Gromo stesso onestamente riconosce nella stessa pagina,

se oggi esistono involuzioni o regressi, sono soprattutto dovuti a una evidente stanchezza di alcuni nostri registi. Da Roma città aperta Rossellini è giunto a Europa ’51, da Ladri di biciclette De Sica è giunto a Stazione Termini. D’altra parte, nella breve storia del cinema, tutto un rigoglioso e felice decennio costituisce un periodo assai lungo, non lo si potrebbe finora trovare in nessun altro paese da quando cinema esiste; e non basteranno mai teoriche o saggistiche, leggi o “provvidenze”, a fare di un non artista un artista, o di un artista stanco un creatore fecondo. Limitazioni più o meno contingenti possono essere deprecabili, ma chi ha da dire qualche cosa, lotta e s’impone pur di riuscire a esprimersi, basta che creda in sé e nella sua arte (p. 171).

Ma queste mende non incidono sostanzialmente nel lavoro del Gromo, il quale, nei limiti di opera di divulgazione, resta uno dei più validi ed accessibili saggi prodotti dalla critica cinematografica italiana.

* * *

In seconda edizione, ad appena un anno dalla prima, esce Cinquant’anni di cinema italiano14, lussuosa pubblicazione, al testo della quale hanno contribuito, oltre a Luigi Chiarini, che gli ha premesso la prefazione, tre tra i più validi saggisti e critici cinematografici d’Italia. Si è cimentato nel primo capitolo: Vecchio cinema italiano (1904-1930) E. Ferdinando Palmieri, critico teatrale di vari periodici, noto specialmente per aver pubblicato, tra gli altri di teatro e di cinema, un volume che ha per titolo quello di questo capitolo, prima storia del nostro cinema muto. Nonostante la fitta sassaiola di nomi d’impresari, soggetti, film, attori e direttori artistici (così allora si chiamavano i registi), che vi grandina, i venti paginoni in quarto riescono quanto mai interessanti, e per la quantità di notizie che riportano e per il modo con cui vi vengono riportate: agile e frizzante, a mezzo tra appunti telegrafici e spunti lirico satirici. Un neofita vi trova un buon panorama orientativo, o almeno gli elementi oggettivi necessari per formarselo; i competenti, che avessero doppiato la sessantina, vi potranno far rivivere i ricordi più o meno nostalgici degli anni pionieristici e dell’epoca d’oro del nostro cinema, quando i film italiani: sacri, eroici o truculenti, romantici e veristi, che oggi ci fanno ridere, divulgavano per tutto il mondo le possibilità di comunicativa e di espressione dell’arte novissima. Particolarmente felici vi sono le note sul costume, a cui quei film si ispirarono, o che, a loro volta, crearono e divulgarono.

Meno grato è stato il compito assegnato a Ettore M. Margadonna, chiamato a descrivere il periodo di declino e di transizione, che va dal 1930 al 1942; ma anche questi si è fatto onore, echeggiando quanto ebbe già a scrivere nel suo Cinema, ieri e oggi15, del 1932, e sfruttando la sua lunga pratica di critico, autore e sceneggiatore cinematografico. Portato dalla materia stessa a criticare uomini e istituzioni, lo fa senza trascorrere in gratuiti settarismi, lumeggia a modo i fermenti di bene che uomini ed opere trovarono e conservarono nel mondo del cinema anche durante il fascismo, la guerra e la disfatta, individuando in registi come Blasetti e Camerini, e nella dai più ignorata produzione dialettale, le prime luci di quel periodo storico del nostro cinema, che doveva sbalordire il mondo sotto l’etichetta di «neorealismo italiano»; sul quale, e siamo al terzo ed ultimo capitolo del volume, c’intrattiene di nuovo Mario Gromo. Egli, com’è naturale, non ci dice cose nuove oltre quanto ci ha esposto nel suo volume. Identico n’è lo schema di trattazione, spesso identici, anche verbalmente, i periodi; ma più distese sono le trame dei film esaminati e meno compendiosa la presentazione di alcuni registi; sempre brillante, sapido ed incisivo il suo dettato, netti ed oggettivi i giudizi, equanimi ed illuminate le osservazioni e gli appunti, eccezion fatta quando si sofferma nella tematica dei film neorealisti, in cui sembra compiacersi in un certo pessimismo zavattiniano.

Se, passando dai tre autori, diamo uno sguardo panoramico su tutto il volume, vi notiamo i difetti comuni a siffatto genere di lavori in collaborazione: diversità di stili, e qualche volta, di giudizi; lacune e sovrabbondanze. Non si può negare però che, di fatto, come promette la prefazione, «il libro si presenta sufficientemente unitario e completo, tanto da fornire un’idea precisa della storia del film italiano nei suoi “generi” e nelle sue “tendenze”». Un apporto validissimo lo recano le duecento otto grandi tavole dell’atlante, che accompagnano sistematicamente i tre capitoli, felicissime per ricchezza e bellezza di fotografie, per precisione di dati filmografici e per pertinenza di didascalie. Il percorrerle sollecita non solo un pensoso riandare tra gli anni della nostra più recente storia, ma anche un riassaporare i più contrastanti gusti estetici, e un meditare, al fluire di caducissimi fenomeni ed avvenimenti, su di un tenue ma prezioso filone di bello, di buono e di vero16.

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E questo, per concludere la nostra panoramica, è il merito delle più recenti pubblicazioni nostrane sul cinema italiano17. Non siamo ancora, purtroppo, all’opera definitiva, ma solo a parziali divulgazioni, insieme segno e mezzo validissimo di quel rapido passaggio del cinema nel mondo della cultura che oggi tutti avvertiamo, e motivo a bene sperare che il meraviglioso espediente tecnico, il quale per un quarantennio è stato piegato quasi esclusivamente a spettacolo da baraccone e a divertimento volgare, per convinzione di pubblico e di produttori, una buona volta iniziati alle sue immense possibilità culturali e morali, venga decisamente adoperato ad attuarle.

1 A tale anno ai suole assegnare l’inizio della produzione industriale cinematografica italiana, quando appunto l’Ambrosio, di Torino, girò Le manovre degli alpini al Colle della Renzola, e La prima corsa automobilistica Susa-Moncenisio, operatore Roberto Omegna.

2 A questo primo periodo si riferisce, tra i moderni, solo l’interessantissima Storia del cinema muto italiano, di A. PROLO (Milano, Poligono, 1951, pp. 188, con 66 tavv. f. t.); miniera ricchissima di dati e di notizie, rastrellati da pubblicazioni spesso rare e irreperibili, nonché da confidenze personali di autori e di organizzatori. Purtroppo la certosina fatica della Prolo non è andata oltre il primo volume, che parte dai pionieri e raggiunge gli inizi della crisi del 1915-1916. Nuoce all’autrice un’eccessiva ricerca di particolari, dispersi tra il testo e le abbondantissime note, e non sufficientemente inquadrati in una sintesi ordinata. Ci troviamo perciò più avanti a una raccolta di materiali per una storia, che ad una vera e propria storia, sia pure non finita. Particolarmente utile ed unico nel suo genere il suo Elenco delle pellicole mute realizzate in Italia dal 1904 al 1915, che si sviluppa per ben sessantasette fittissime pagine su due colonne. Ricche, originali e di buona scelta le illustrazioni. Curiosa, però, l’idiosincrasia dell’autrice, avversa, pare, a qualunque censura cinematografica.

3 Il neorealismo italiano. Documentazioni, Venezia 1951, pp. 150. Dalle prime pagine sono tolte le frasi virgolate da noi riportate poco sopra.

4 Per bene impostarla occorrono disparate conoscenze storiche, religiose, estetiche e sociali, storiche e di fatti, la efficienza o la deformazione delle quali spiegano le molte polemiche sull’argomento, specialmente quando esse vengono guidate dal metro di determinate ideologie politiche, come se n’ebbero esempi nei recenti convegni di Parma e di Varese sul neorealismo.

5 Cinema italiano oggi, 2ª ed., Roma, Carlo Bestetti, Edizioni d’arte, 1952, in-4º, pp. 213. L. 3.500.

6 Ivi, p. 17.

7 CARLO LIZZANI, Il cinema italiano, 2ª ed., Firenze, Parenti, 1954, in-16°, pp. 442. Con 40 tavv. f. t. L. 2.000.

8 E. CONTINI, però, imparzialmente nota che il cinema «durante la dittatura fascista era stato in più casi il porto franco della cultura e dell’intellettualità» (Il neorealismo italiano, cit., p. 30); L. CHIARINI, poi, testimone irrefutabile, dato quello che allora era e che ora scrive: «Anche durante il fascismo vi furono lati positivi per il cinema italiano, che se sonnecchiava non dormiva del tutto, in quanto sorsero attrezzature industriali di prim’ordine e una serie di organismi tecnici importanti, mentre presero l’avvio quegli studi cinematografici che dovevano portare i problemi del film sul piano della cultura, nel circolo vivo del suo movimento, giacché questo settore, a cui non si prestò troppa attenzione, godette di una certa libertà. Molti, infatti, furono i giovani che poterono prepararsi seriamente e che di ciò dettero prova subito dopo la fine del fascismo. Di quel periodo, del resto, alcuni film sono da ricordare, come, ad esempio, quelli del regista Poggioli» (Cinquant’anni di cinema italiano, prefazione, p. 10). Scendendo ai particolari, E. MARGADONNA ricorda i G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti) «vivaio e palestra di giovanissimi cineasti», la Mostra internazionale veneziana, l’Istituto Luce, e scuola «palestra dei nostri migliori documentaristi», la Cineteca scolastica, nonché la rivista Bianco e nero, allora diretta dallo stesso Chiarini (ivi, p. 42).

9 Che la censura fascista sia stata uno scherzo rispetto a quella vigente tuttora in U.R.S.S. l’afferma E. M. MARGADONNA quando osserva che «come sempre succede nel nostro paese, il conformismo fascista, salvo pochi esagitati di scana autorità, fu applicato col più italiano granum salis: perciò, su oltre cinquecento film di spettacolo prodotti in questi tredici anni, i film fascisti al cento per cento si contano sulle dita di una mano sola» (p. 37). Ma basterebbero le dita delle cento mani di Briareo per contare i film comunisti al cento per cento liberamente prodotti dalla madre Russia?

10 Stupefacente la duttilità del giudizio dei nostri critici rossi. Si veda, per esempio, in Il film del dopoguerra: 1945-1949 (Venezia 1949), U. BARBARO inneggiare all’industria cinematografica polacca, la quale – beata lei! – «coordinata e condotta da un organismo statale dipendente dal Ministero della cultura e dell’arte» (p. 92); L. QUAGLIOTTl fare lo stesso per l’Ungheria (p. 163) e per la Cecosìovacchia, dove, vedi caso, «la nazionalizzazione della cinematografia non pone esclusive di sorta all’ispirazione dei singoli registi», tanto che OTAKAR VAVRA può dire: «Godiamo di una totale libertà di creazione. Nessuno cerca d’imporci una determinata forma artistica. Sta a noi trovarla e crearla, con la coscienza che i nostri soggetti non vengono più giudicati da commercianti, ma da artisti» (p. 133); infine G. VIAZZI notare sodisfatto che il cinema sovietico è sempre legato intimamente alla più epica «contemporaneità, che è storia in divenire» (p. 101); e che il 4 settembre 1946 una risoluzione speciale del C.C. del partito comunista dell’U.R.S.S. «condannava l’atteggiamento poco riflessivo dei registi e dei soggettisti» (p. 110), non supponendo, l’ingenuo, che qualche lettore non ammaestrato possa trovare nelle sue parole materia per divertenti paragoni tra la retorica e la censura fascista e la retorica e la censura comunista...

11 Rileviamo, tra gli altri, che I promessi sposi (1941), di Camerini, più volte ricordati nel testo, non compare nella filmografia; sempre nella filmografia, ad Alessandrini manca Anita Garibaldi (1950), a Caserini manca Madame Tallien (1916), con L. Borelli e A. Novelli, a Mattoli manca Totò sceicco (1950), al Righelli mancano Come le foglie (1916) e Camere separate (1918); mancano infine molti film usciti nel 1953.

12 M. GROMO, Cinema italiano 1903-1953, Verona, Mondadori, 1954, in-16°, 188. Con 32 tavv. f. t. L. 500.

13 Tanto più che una vigilanza massiccia del regime sul cinema si ebbe solo col 1935, quando, a imitazione di quel che praticavano i regimi sovietico e nazista, fu istituita la Direzione Generale per la Cinematografia, col compito di vigilare e guidare qualsiasi attività del nostro cinema (Cfr M. GROMO, op. cit., pp. 66-67).

14 Cinquant’anni di cinema italiano, 2ª ed., Roma, Carlo Bestetti, Edizioni d’arte, 1954, in-4°, pp. 92. Con 206 tavv. f. t.

15 «li primo nostro vasto tentativo di riordinamento di dati e di materiati in un profilo storico, con notazioni sui valori spaziali e temporali del film» (M. GR0MO, op. cit., p. 68).

16 In tanta moltitudine di notizie e di dati non abbiamo notato incorrettezze di rilievo, se se ne eccettui a pag. 13 un Leone XII invece di Leone XIII.

17 Abbiamo tenute presenti solamente quelle pubblicazioni che sono tutte consacrate al cinema italiano, e non quelle che spaziano oltre; come, per esempio: L. ROGNONI, Cinema muto (Roma, Bianco e nero, 1952), che ha un diligente e chiaro, ma molto breve, capitolo sul Vecchio cinema italiano (pp. 63-75), e G. SADOUL, che in Storia del cinema (Torino, Einaudi, 1951, torna tre volte sul cinema italiano (pp. 119 ss., 468 ss., 479 ss.), dando sulla nostra produzione giudizi deformati dagli stessi pregiudizi marxisti che, come abbiamo visto, rendono inaccettabile il libro del Lizzani.

In argomento

Cultura - Scuola

n. 3363-3364, vol. III (1990), pp. 258-263
n. 3258, vol. I (1986), pp. 549-563
n. 3231, vol. I (1985), pp. 262-269
n. 3202, vol. IV (1983), pp. 362-368
n. 2917, vol. I (1972), pp. 30-39
n. 2856, vol. II (1969), pp. 576-580
n. 2827, vol. II (1968), pp. 58-66
n. 2824, vol. I (1968), pp. 376-378
n. 2744, vol. IV (1964), pp. 151-156
n. 2738, vol. III (1964), pp. 148-50
n. 2539, vol. II (1956), pp. 58-66
n. 2484, vol. IV (1953), pp. 694-697

In argomento

Cinema-arte

n. 2808, vol. II (1967), pp. 573-576
n. 2672, vol. IV (1961), pp. 165-169
n. 2667, vol. III (1961), pp. 306-311
n. 2567, vol. II (1957), pp. 504-515, 619-627
n. 2559, vol. I (1957), pp. 288-302
n. 2562, vol. I (1957), pp. 610-619
n. 2524, vol. III (1955), pp. 396-407