Articolo estratto dal volume IV del 1975 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Sul regista Alberto Lattuada – milanese, sessantun anno, con (salvo errori) ventotto film al suo attivo – disponevamo di tre monografie modeste e vecchiotte1; una voluminosa tesi di laurea, recentemente difesa da Angelo Zanellato presso l’Università di Padova2, è venuta ad aggiornarle.
L’elaborato accademico ha tutti i pregi ed i limiti del genere. L’Autore tratta la materia con chiarezza e metodo. Prima imposta l’argomento, e delinea il profilo biografico e culturale-professionale del Regista; poi presenta, in ordine cronologico, i suoi film: genesi, soggetto, critiche; e chiude con un bilancio (provvisorio). Accurate le note; forse – su piano propriamente culturale – fin troppo puntigliose le tre Appendici di rito: delle inquadrature dei film, la Filmografia e la Bibliografia; valide, tuttavia, a provare – e non è questo lo scopo delle tesi di laurea? – che il laureando sa bene documentarsi, e sa maneggiare e presentare, con diligenza anche formale, i dati raccolti. Meritati plausi, dunque, al neo laureato.
Ma anche riserve. Alcune, minori; ad esempio: per il dilatare e stemperare che egli fa il cosiddetto “neorealismo” italiano, includendovi film di Lattuada (p. 88 e passim) che – ci pare – con esso c’entrano poco o nulla; e per il suo accodarsi a una certa critica di sinistra, che dell’esaurirsi dello stesso neorealismo incolpò la “violenta involuzione politica” (p. 114); inoltre, per l’uso che egli fa di alcuni giudizi dei critici cinematografici, non si vede sempre bene se riportandoli come dati oggettivi: – “Ecco quale è stato il giudizio della critica” (ma, in questo caso, occorreva darne il quadro completo) –, oppure se come prove a favore: quando né a priori, il dirsi critico cinematografico, né, a posteriori il livello culturale medio della critica cinematografica (italiana), giustificano un avallo in bianco della loro autorevolezza.
Artigianato, o Weltanschauung?
La riserva maggiore è per la tendenza – anche questa non rara in lavori del genere – del suo saggio verso l’iperbole. La “tesi”, infatti, da semplice argomento, sembra gonfiarsi, se non proprio in panegirico, almeno in apologia del Regista e della sua produzione; quando Lattuada, in peso artistico-culturale e sociologico, nel cinema mondiale non è, certo, un Eisenstein o un Buñuel, un Dreyer, un Bergman o un Godard..., e, in quello italiano, non pareggia i maggiori, quali Rossellini o De Sica, Fellini o Antonioni... li più che di lui si può affermare – e l’Autore lo rileva! – è che i suoi film “sono contraddistinti da un decoro formale e da valori spettacolari che li rendono, quanto meno, prodotti di un superiore artigianato” (p. 1), così qualificandolo “come il più valido e continuo autore di un cinema ’medio’ di qualità” (p. 13), “su cui si regge l’industria cinematografica di un certo livello” (p. 239). li che permetteva, magari, di trattare “tutta una serie di grosse questioni, quali il rapporto cinema-letteratura3, cinema-società, cinema come industria e come arte” (p. 1), ma provvedeva materiali piuttosto scarsi per delineare – promettendola sin dal titolo: L’uomo (cattiva sorte) – una “visione dell’uomo” in Lattuada, paludandola addirittura in Weltanschauung (pp. 1 e 247).
A ben vedere, “i suoi non pochi titoli di merito”, che lo Zanellato va rilevando, non superano questo modesto livello4:
“Senza dubbio, un uomo di spettacolo come Lattuada, negli Stati Uniti, in un Paese cioè dove, almeno fino a ieri, il cinema era soprattutto industria, sarebbe diventato uno dei più rappresentativi Directors, e per quell’intuito nello scoprire nuovi attori che lo qualifica il Talent Scout per eccellenza del cinema italiano, avrebbe certamente saputo creare qualche ’divo’. Proprio a lui si deve, infatti, la scoperta o la valorizzazione di Carla del Poggio e Giulietta Masina, di Silvana Mangano e Renato Rascel, di Jacqueline Sassard e Catherine Spaak, per non parlare di Folco Lulli, Peppino De Filippo, Lando Buzzanca” (p. 13).
”... una spettacolarità di buona lega, che fa superare, per primi nella storia del cinema italiano, ad Anna e alla Tempesta, il traguardo di un miliardo di incasso, e conquistare i mercati americani” (p. 15).
“Con Giacomo l’idealista, egli porta a perfezione l’esperienza formalista; [...] accanto al documentarismo, utilizza gli stilèmi del cinema d’azione americano, che solo molti anni dopo i registi del ’giallo’ e del ’western all’italiana’ riscopriranno; nel Mulino del Po tenta per primo il film ’storico’, con Anna contribuisce a lanciare il cinema divistico; nella Spiaggia [...] offre uno dei primi esempi di ’commedia all’italiana’; nella stessa pellicola ricerca, un decennio esatto prima dell’Antonioni di Deserto rosso, un impiego non semplicemente esornativo del colore, mentre negli Italiani si voltano anticipa la maniera del ’cinéma-vérité’; con La tempesta, in gara per il ’décor’ con i supercolossi hollywoodiani, apre nuove prospettive alla nostra cinematografia nel filone spettacolare...” (p. 240).
Quale morale?
“Morale” e “moralità” sono i due termini-valori che più frequentemente ricorrono in questo saggio; non c’è, infatti, si può dire, pagina che ne corra priva; a dimostrare che, arte o non arte, almeno ad essi è sempre attenta la “visione dell’uomo” di Lattuada e dalla sua opera. Peccato, però, che il nostro diligentissimo Autore dimentichi di dirci in quale accezione, lui e il Regista, intendano questi termini, sicché tocca a noi lettori imbroccarla, inferendola dalle “prove” che gli stessi ne offrirebbero; prima e somma tra esse: le ininterrotte denunce che Lattuada nei suoi film farebbe delle “immoralità” della società odierna (italiana).
Seguendo lo Zanellato, si direbbe che non c’è luogo, classe o persona che si salvi da esse. Lattuada denuncerebbe la Chiesa, il suo cattolicesimo distorto (p. 11), il suo bigottismo religioso (p. 82), il conformismo clerico-borghese (p. 228) e la sua – finalmente debellata! – controriforma sessuale (p. 248). Denuncerebbe la classe nobiliare: moralmente ambigua e decadente; la borghesia: ipocrita, carica di tabù, e amorale; gli uomini politici ed i loro partiti: una massa d’incoscienti, non degni dell’Italia; la burocrazia: servile e autoritaria; le ideologie: astratte... Punterebbe il dito contro lo Stato in generale: carente; contro le grandi città: Milano, corrotta; contro la provincia: Luino, ipocrita; contro la società isolana: la Sicilia della mafia... Ce l’avrebbe contro la famiglia e la scuola: assenti dai problemi dei giovani; con lo scandaloso establishment ospedaliero, con la crisi industriale, col disordine delle strade... Indi la sua denuncia si allargherebbe alle “immoralità” collettive più generali: alla guerra, naturalmente; e poi ai “falsi miti della società contemporanea” (p. 245): le nevrosi del danaro, del successo sociale e finanziario, del pansessualismo..., nonché ai conseguenti traumi dell’alienazione e della solitudine... Per come vanno oggi le cose in Italia e nel mondo, crediamo che questo Cahier des doléances, purtroppo, potrebbe continuare ancora per un bel pezzo. Ma: a parte la diffidenza nostra – e, crediamo, anche del pubblico – di supporre, di rilevare e di accettare denunce d’immoralità da un pulpito “morale” come il mondo del Cinema, che non brilla certo di asceti di eroi e di martiri, e che – soprattutto oggi in Italia – dell’immoralità più sporca, non solo va praticando un lucrosissimo commercio, ma – critica aiutando – va facendone l’apologia e va reclamandone la tutela, anche giuridica; a parte, diciamo, tutto ciò, questa moralità cinematografica di Lattuada ci sembra, per più di un motivo, dubbia ed equivoca.
Intanto perché alcune di quelle denunce moralistiche, per leggerle – sia pure “tra le righe”5 – nei suoi film, occorre, ci sembra, una lente d’ingrandimento eccezionale. Poi perché, sempre che si tratti di denunce, la sua “moralità” sembra limitarsi, appunto, ad esse: senza proporre, contro il male dilagante, né esempi del bene – che, pure, in questo tristo nostro mondo non mancano –, né, almeno, qualche ideale morale, per il quale convenga battersi e pagare di persona6. Denuncia per denuncia, al limite, preferiamo quelle, più coerenti, di un Buñuel e, magari, di alcuni guastatori della Nouvelle vague, ed anche nostrani, che denunciano ed irridono, tutto in un fascio, tabù storture e “virtù” della società borghese, in nome di una “morale” anarchica in cui credono. Infine, diffidiamo della moralità del cinema di Lattuada per gli ingredienti, culturalmente e moralmente spuri ma economicamente redditizi, con i quali egli ne pimenta le pretese denunce.
Non è che ignori che, nel cinema, autentico impegno morale-sociale, applausi di pubblico e relativi successi di cassetta vanno raramente d’accordo; ed, anzi, che il pedaggio dell’impegno è spesso “la noia”. Infatti, a proposito di film di contestazione e di rivoluzione – ma il discorso vale in generale – recentemente riconosceva:
“Mi pare che il cinema, nelle espressioni migliori, risponda adesso abbastanza vivacemente ai fermenti e alla complessa problematica dei nostri giorni; in parte però risponde con una vivacità soltanto apparente, in realtà con un’astuzia che nasconde, per conto mio, i veri problemi. Adesso non vorrei fare il critico, perché non è questa la mia professione; però, quando il salotto applaude dei film rivoluzionari, io comincio a dubitare che questi siano effettivamente rivoluzionari. In altre parole, bisogna essere disapprovati per essere rivoluzionari. Quando un film comunica un godimento rivoluzionario anziché lo sdegno rivoluzionario, senza dubbio esso contiene un nocciolo di malafede, quindi bisogna saper riconoscere i film che dànno veramente noia. Come Viridiana, per citarne uno, oppure Orizzonti di gloria di Kubrick [...]. Voglio dire che in ogni tempo ci sono, fortunatamente, dei film che turbano e disturbano” (p. 249).
Tuttavia, nella prassi, il Nostro – sempre stando a quanto, ad abundantiam, ne documenta lo Zanellato – rifugge dall’ascetismo stilistico e dal disinteresse economico, poniamo, di un Dreyer, di un Bresson, ed anche di un Bergman; i quali, tra parentesi, a costo, appunto, di alienarsi il pubblico grosso, più che denunciare immoralità e storture dell’uomo e della società, ne indagano e ne scavano le pene e le tensioni, le angosce e le attese. Egli, dell’immoralità umana fa spettacolo-divertimento; non tragedia o dramma, ma, per lo più, commedia e satira. Eccolo, perciò, denunciare-divertire il pubblico: o alternando film dichiaratamente commerciali – ovviamente, “per poter successivamente realizzare film più suoi: Anna per Il cappotto, La lupa per La spiaggia, L’imprevisto per La steppa” (p. 14) –; oppure, anche in questi “film più suoi”, non disdegnando soluzioni ad effetto, né il ricorso ad una letteratura d’appendice; e condendo il tutto con la salsa sempre redditizia dell’erotismo (pp. 6, 113, 230, 232), di preferenza rendendola più pruriginosa con “una commistione ambigua, e compiaciuta, di religione e sensualità”7.
Pessimismo “cattolico”?
Integrando la “moralità” dei film con quella di alcune dichiarazioni verbali di Lattuada, ed anche di alcuni suoi scritti letterari, lo Zanellato ne individua la nota caratteristica in un radicale pessimismo circa la condizione umana: nota che – come abbiamo già rilevato – egli enuncia nello stesso titolo del volume: L’uomo (cattiva sorte), e tenta di suffragare riportando, nella guardia dello stesso, una omonima pessimistica poesia del Regista8. Ma, dopo quanto siamo andati rilevando, francamente non riusciamo a vedere come siffatto pessimismo risalti nei film; contraddistinti, invece, come s’è visto, da compiacimenti calligrafici e da spettacolarità satirico-commerciali. In ogni caso, dubitiamo forte che alla detta concezione pessimistica abbia contribuito – come si dice e si ripete pure per Fellini – anche la sua “educazione cattolica”.
Lo Zanellato l’afferma (p. 2), ma non ci dice da chi quando e dove Lattuada l’abbia ricevuta. A meno che egli alluda a quella appresa dallo zio, del quale lo stesso Regista ricorda:
“Ogni poche parole, l’appoggio di una bestemmia rinforzava i concetti direttivi: queste bestemmie non avevano più nulla del significato di un’imprecazione, erano delle sottolineature che chiamavano semplicemente in aiuto le forze dell’al di là e, anzi, talvolta, nei momenti più felici, erano dei tenerissimi complimenti [...]... Mio zio beveva tre bottiglioni di vino al giorno [...]; incominciava la mattina alle cinque e finiva con la pipata delle nove e mezzo di sera, allorquando [...] crollava il capo, filosofeggiava a mezze parole rutti e sospiri sulla vanità e pochezza degli uomini...” (p. 24).
Alla sua “tematica della crudeltà del destino umano” e “della sorte beffarda dell’uomo”, per di più impossibilitato a realizzare qualsiasi ideale altruistico, sia esso di Cristo o di Marx (pp. 345 ss.), con molta più ragione lo stesso Lattuada riconosce ben altra origine, scrivendo:
“Credo che nel mio lavoro si confenni sempre l’origine leopardiana della mia visione della condizione umana; proprio adesso, anzi, diventa più forte una sensazione, non dico di scetticismo totale, ma di giudizio crudele della vita: il pastore errante per l’Asia, il vecchio bianco e infermo che corre verso l’abisso con un gravissimo peso sulle spalle, rimane per me l’immagine della vita più rispondente al vero. La speranza, la salvezza per l’uomo sta nel suo coraggio, nella volontà di affrontare il destino; soltanto nella misura di questa presa di coscienza della propria dimensione e della rivolta a un destino cieco egli può raggiungere la vittoria nella sconfitta” (p. 247).
Quanto di cristiano e di cattolico ci sia in questo volontarismo senza speranza, giudichi il lettore. Ma certo è che non con esso Lattuada potrà ridare all’uomo, con i suoi futuri film, “la ricchezza tolta, il calore dei sentimenti e degli affetti, la solidarietà cristiana” (p. 241), ed attuare l’augurio col quale Io Zanellato chiude il suo diligente studio. Che, cioè, il suo cinema non solo “superi i pericoli del professionismo anonimo, dell’artigianato, sia pure ad alto livello; e che non si limiti a sfornare prodotti ben retribuiti e inoffensivi”; ma che “tenda il più possibile [...] ad essere l’espressione di un autore che ci aiuta a capire i problemi del nostro tempo, e a districarci nella vita con consapevolezza del ’vero’ e con maggior senso dell’ ’umano’” (p. 242).
1 Cioè: F.M. DE SANCTIS, Alberto Lattuada, Parma 1961: tradotto in francese (Lyon 1965) da B. AMENGUAL, al quale lo Zanellato, erroneamente, lo attribuisce; G. GEROSA, Alberto Lattuada, cultura e spettacolo, Monza 1963; E. BRUNO, Lattuada, o la proposta ambigua, Roma 1968.
2 A. ZANELLATO, L’uomo (cattiva sorte): il cinema di Lattuada, Padova, Liviana, 1973, 299.
3 Dato che circa la metà dei suoi film ha derivato il soggetto da opere letterarie, di autori italiani e stranieri; quali – per ricordare i più illustri–: Machiavelli (La Mandragola, 1965), Verga (La lupa, 1953) D’Annunzio (ll delitto di Giovanni Episcopo, 1947), Bacchelli (Il mulino del Po, 1949), Gogol (ll Cappotto, 1952), Puskin (La tempesta, 1958), Cechov (La steppa, 1962)...
4 Beninteso, quale regista, e non quale critico, o fotografo, o scrittore (cfr p. 241), o come “uno dei primi in Italia a mettersi a raccogliere le pellicole dei ’maestri’ dello schermo, e a porre così le basi della futura Cineteca Italiana” (p. 239).
5 Scrive il Nostro: "’Si può leggere tra le righe del Mafioso un messaggio che auspica una evoluzione di costume e una maturazione spirituale, senza la quale non è possibile una autentica liberazione da arretratezze secolari, da colpe che, oltre ad essere moralmente condannabili in sé, appaiono oggi come non mai anacronistiche e incompatibili, in una società che aspiri ad essere fondata sul più ampio riconoscimento della libertà e della dignità dell’uomo” (p. 195).
En passant, maldestro diremmo pure il tentativo dello Zanellato di riscattare in qualche modo la “corrente formalistica, o calligrafica” – alla quale, insieme con Soldati., Chiarini e Castellani anche Lattuada aderì, per poi sempre restarvi fedele –, rilevandone “l’aspetto positivo, in quanto nata come ribellione, probabilmente inconscia [...], alla politica del regime [fascista]...”: “manifestazione allusiva di un atteggiamento morale di rifiuto, e non come amore della forma per la forma” (pp. 37 ss.). Se, infatti, poco probante ci sembra l’autorità del Calendoli, ultrasospetta ci sembra quella del Chiarini, che risale al 1964, quando il fascismo ed il suo cinema – di cui egli era stato gerarca e apologista – era tramontato da dieci anni (cfr E. BARAGLI, Un maestro dialettico, in Civ. Catt. 1958 II 382 ss.; IV 508 ss.).
6 Teoria e prassi di Lattuada, di “non voler essere un politico” (p. 18), possono senz’altro passare come titoli di merito se per “libertà politica” s’intende il suo rifiuto d’ossequio ai feudatari marxisti, sborsato invece da quasi tutti i registi italiani (p. 137); non, invece, se, come sembra, comporta anche un qualunquistico limitarsi “ai difetti e vizi degli individui” ignorando “le loro ideologie” (p. 19). Anche il pacifismo, che egli proclama (p. 215), e discutibile. Non tanto perché un pacifismo a tutti i costi finisce anch’esso nel qualunquismo; quanto perché, un bel giorno, anche Lattuada si lasciò tentare da un film – Angeli neri – sulla resistenza. Riferisce lo Zanellato:
“Raccontava la ribellione di un gesuita, padre Fabietti, che di fronte ai tragici avvenimenti della guerra si convinceva che bisognava prendere le armi a fianco dei partigiani per riconquistare la libertà e la dignità negate, anche a costo di provocare, con la sua decisione, delle stragi dall’una e dall’altra parte e una crisi di coscienza nei confratelli [...]. Il momento più teso del racconto era quello in cui il padre Fabietti, scoperto di aver organizzato con i partigiani un’azione di sabotaggio contro i nazifascisti, veniva allontanato dall’Ordine e privato dell’abito ecclesiastico. Dopo un attimo di smarrimento, il sacerdote [...] diventa un terribile accusatore dei confratelli: ’la sua coscienza è sicura di aver, forse, disobbedito agli uomini, ma non a Dio [...]; c’è un fiume che li divide: da una parte sono loro con la lettera dei pensieri di Dio, e di là lui con lo spirito di quella lettera, e con lui sono decine di migliaia, milioni di esseri che combattono tutti i giorni, ora per ora, una loro battaglia perché il mondo sia mondo dal male. Dio ha usato le verghe per cacciare i pubblicani dal tempio: bisogna impedire con qualunque mezzo ai nuovi pubblicani di devastare il mondo [...]. Non basta soccorrere, ma bisogna prevenire [...]. Basta con i precetti predicati dal pulpito [...]. Bisogna, non solo soccorrere le vittime, ma impedire soprattutto che esse si moltiplichino [...]. Vivete chiusi dentro queste mura come in una tomba. Voi mi rimproverate di aver creato degli orfani, e dimenticate che quelle lunghe serie di cannoni, di ordigni guerreschi, di macchine mostruose ne avrebbero creati cento e cento volte più’. E il padre Fabietti deponeva la veste ’per continuare, ancora più libero e deciso, la sua opera, a qualunque costo, con il rischio minuto per minuto della vita’” (p. 62).
A parte la sua disinvolta esegesi evangelica, e l’implicita giustificazione delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki, questo pensava e predicava il Regista nel 1944; quando – riferendosi all’anno 1943 – così di lui, non sacerdote ne gesuita, scrive ancora lo Zanellato: “Frattanto l’Italia stava vivendo gli anni più duri della guerra. Nelle file del partigiani si trovavano a militare quasi tutti i giovani intellettuali del gruppo milanese di Corrente, e molti di essi, come Giaime Pintor e Giorgio Labò tra i più impegnati collaboratori della rivista, persero la vita. Lattuada non partecipò attivamente alla Resistenza. Disertore, restò a lungo nascosto a Roma; fu però in contatto con alcuni capi partigiani, che riforniva di viveri e di informazioni” (p. 59).
7 Edifichiamoci con un esempio. Dal soggetto di Venga a prendere il caffè... da noi (1970): “Gli appuntamenti degli amanti negli stanzoni di un convento abbandonato sono all’insegna di un intenzionale impasto di sensualità e di religiosità: gli amplessi, appena visualizzati dal fremere delle gambe di Tarsilla [brutta zitella, tutta casa e chiesa], vengono consumati entro un confessionale, coi sacri arredi che traballano, e le immagini estatiche di angeli e santi, che assistono dall’alto al rito inconsueto” (p. 226).
8 L’uomo (cattiva sorte)
Lo vedi che bianco cammina / e nudo cammina?
Col duro bastone / assestagli un colpo.
Lo vedi che bianco sorride / e solleva il ginocchio? / tu battilo!
Bianco sorride, / di sangue macchiato/ ti guarda alzando la mano. / Tu, battilo!
Tenta parlare... / Non dargli respiro! Si muove!
Del bastone / cerca il nodo più irto / e batti con tutta la forza.
Trema il suo labbro / e l’aria sospinge alla fronte / lievemente i capelli...
Tu mena il bastone, / per terra stendilo morto / del tutto
(senza occhi, senza respiro).