NOTE
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1 Perciò, in un certo senso, torna a loro merito se molti spettatori morbosamente ingordi – solleticati dalla fama di «osatori» dei due registi, dai titoli dei film e dall’imbonimento-adescamento della pubblicità – a Venezia hanno fatto, sì, ore di fila, pagando fino a 50.000 lire un biglietto al bagarinaggio, e poi in altre città d’Italia si sono precipitati, sì, alle primissime visioni, ma sono restati regolarmente delusi.

2 «Per farmi capire devo ricorrere a Gramsci. Gramsci parlava in letteratura come d’un ideale di opere che lui chiamava nazional-popolari, idealmente dedicata a un popolo ideale, in un ambito puramente classista, come se il popolo si staccasse culturalmente dalla borghesia... Ora io, le mie opere, da Accattone a Mamma Roma al Vangelo, le ho composte con questa idea gramsciana in testa, volendo fare delle grandi opere nazionali e popolari... in un certo senso mitiche, epiche... capaci di entrare in consonanza ... con i grandi pubblici popolari. Naturalmente i tempi sono cambiati e questo famoso popolo che Gramsci aveva in mente, e che anch’io avevo conosciuto... è andato lentamente cambiando..., ed ora non si può più fare in Italia, dal momento che anche l’Italia è divenuta una nazione neocapitalistica, questa netta distinzione tra popolo e borghesia ... E allora, quando io faccio delle opere semplificate, epiche..., non ho più l’illusione che queste opere vengano lette o capite da un popolo nel senso gramsciano della parola, ma, purtroppo, oggettivamente... mistificate, alterate, alienate da una massa e dai mezzi di comunicazione di massa. E allora c’è stata in me una ribellione... per cui, anziché fare delle opere che mi illudessero di fare un’arte in qualche modo popolare... faccio delle opere ambigue, quasi per élites, estremamente difficili e rigorose, in maniera che siano il meno possibile consumabili dalla massa, e resistano il più possibile alle semplificazioni della massa» (Intervista di P.P. Pasolini con Piero Sanavìo, in Il dramma, 1969, n. 12, 81 ss.).

3 È noto che il latino satura (onde satira), prima di significare il genere letterario moralistico-derisorio di debolezze e di vizi umani, significò piatto farcito, guazzabuglio, miscellanea..., quindi anche componimento letterario comprendente prosa e versi, brani lirico-epici e comico-plebei, com’è appunto il Satyricon attribuito a Petronio.

4 Normalmente i film contano qualche centinaio d’inquadrature: sulle 200/300 i film «lenti» oltre le 500/600 quelli «veloci». La sceneggiatura di Satyricon (cfr il volume curato da D. ZANELLI citato più avanti) ne prevedeva più di 1200.

5 È quasi la chiusa della sua mattutina meditazione sul naufragio ed annegamento del terribile Lica: «... e allora riconobbi di avere quasi ai miei piedi quel Lica, che fino a poco prima era stato implacabile e terribile verso di me... ed esclamai: “Dov’è adesso la tua rabbia? dov’è la tua prepotenza? Ora sei proprio esposto al morso dei pesci e delle fiere marine; tu, che fino a poco fa eri tutto borioso della tua potenza, ora sei un misero naufrago e di tutta quella grande nave non possiedi neppure più una trave per attaccarviti naufrago”. Andate, adesso, o mortali e gonfiate pure i vostri petti di grandi progetti; andate avanti guardinghi e fate piani per mille anni su quelle ricchezze, che avete con la frode carpito ad altri. Per esempio costui non più tardi di ieri fece il bilancio dei suoi averi; aveva perfino fissato in cuor suo il giorno dd suo arrivo in patria... Eccolo qui quant’è lontano dal suo porto d’arrivo! Ma non sono soltanto gli oceani che mantengono in questo modo la parola data agli uomini... Se fai giusto conto della realtà delle cose, dovunque è naufragio!» (PETRONIO ARBITRO, Il satiricon, trad. di A. MARZULLO e M. BONARIA, Bologna 1962, 247).

6 Anzi, non si esclude che tutto il Satiricon sia la più intelligente beffa giocata a Nerone. Nota A. MARZULLO (op. cit., XXI: «Invece di adulare Nerone e i potenti, pose termine a scrivere una sua rassegna nella quale, sotto il falso nome di gente perduta e di malefemmine, narrava stranezze e nuove dissolutezze di Nerone “e tale racconto, col proprio nome, fece consegnare, infine, al principe” (TACITO, Annales XVI, 18 ss.). Non possiamo dire se la parte superstite del Satiricon corrisponda a quanto Petronio avrebbe in vita compilato e negli ultimi giorni terminato per farsi beffa dei costumi dei suoi tempi e dei potenti, ma certo, essa se non è proprio una beffa contro Nerone, riesce, però, a presentare un tipo di villano rifatto, Trimalchione, che la fa da tiranno, che con un edictum, da vero principe assoluto... conclude burlescamente difficili situazioni e..., fingendo prima di dare libertà di scelta ai commensali, finisce poi col deliberare da sé. Egli ha simboli del potere, una corte e persino una Gazzetta ufficiale, e sa affermare qua e là una accondiscendente morale che è quella imposta dal padrone: nec turpe est quod dominus iubet. Anche quando non vi sia parodia..., troppo facile e naturale è il richiamo colla figura di Nerone e con quella di Claudio, quale appare nel Ludus di Seneca.

7 Ci limitiamo all’avvilimento della dignità umana attuato sullo schermo. Altro discorso, anche più severo, meriterebbe quello perpetrato a danno degli attori e comparse sul set, quando la libertà dell’artista sconfini nella licenza dell’esibizionista. Chiedendo venia ai lettori, stralciamo questi appunti dell’attrice Betsy Langman dal volume Fellini Satyricon, curato da DARIO ZANELLI (Bologna, Cappelli, 1969, 94 ss.): «Notai che il trucco veniva usato per ingrandire o per accentuare le fattezze degli attori. I grassi erano resi più grassi, i magri più magri, i caIvi più caIvi, i nasi più lunghi risultavano più allungati e le bocche larghe più allargate. I visi erano tinti di rosso, blu, verde giallo... La piscina era riscaldata e con l’acqua che arrivava alla cintura. Gli extra, giovani e vecchi, grassi e magri, alti e bassi, caIvi e coi capelli, belli e brutti, uomini e donne, indossavano tutti il bikini, le donne col seno coperto da un fazzoletto colorato. Ad un ordine entrarono tutti in fila nella piscina, come il bestiame in un recinto, gli uomini dietro e le donne avanti, e lì restarono ritti, massa umana compatta, nell’acqua e nella foschia... Non appena gli extra furono a posto nella piscina, Fellini annunciò col megafono: “Toglietevi il reggiseno! ". Le donne sussultarono e gli uomini si misero a ridacchiare, poi le donne cominciarono lentamente a liberarsi dei fazzoletti. Notai che le più riluttanti erano le giovani. La maggior parte di loro tentava di coprirsi il seno con le mani o le braccia, alcune si abbassarono per stare sott’acqua... Gli uomini si sforzavano di vedere qualcosa di dietro... “Non copritevi! " muggì Fellini... Parecchie ragazze fra le più giovani e le più graziose dopo il primo giorno non tornarono più. Fellini chiamò uno degli invitati, un ometto grasso con il doppio mento... Gli disse di avviarsi verso la piscina, di sedere sul bordo e poi di scendere in acqua. Mentre l’uomo si preparava a farlo ci fu un cambiamento nelle istruzioni: “Nudo!”. Quello arrossi, guardò in basso e appariva evidente che non era soltanto imbarazzato, ma veramente offeso. Aveva un corpo di struttura non comune: grasso e tozzo e con le gambe corte. Fellini gli si avvicinò, gli diede un colpetto amichevole... come dirgli: “Che importanza ha, fra noi due... ". L’uomo fece quello che gli veniva chiesto. Rimase ritto, completamente nudo, di fronte alle centinaia di uomini e donne nella piscina. In un primo momento le donne indietreggiarono accalcandosi, ma poi cominciarono a ridere dimentiche della loro umiliazione. Io ero seduta lì vicino, ma evitavo di guardarlo, non solo perché mi spiaceva per lui, ma anche perché avevo paura di scoppiare e ridere e di allentare i nastri che mi tiravano gli occhi».

8 E, dato che la corruzione delle due città aveva lo stesso volto immondo, gli ammonimenti dell’apostolo Paolo ai Romani non dovettero differire molto da quelli rivolti agli abitanti di Corinto: «Attenti a non illudervi: né fornicatori, né idolatri, né effeminati, né quelli che giacciono con maschi, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapinatori saranno eredi del regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi: ma siete stati lavati, santificati, giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo, e mediante lo Spirito del nostro Dio» (I Cor 6,9-11).

9 È sempre pericoloso giudicare i film dalle interviste e dichiarazioni dei loro registi. Tuttavia, per conoscere quale sia il fondo morale-religioso-cattolico di Fellini conviene leggere quanto egli ha risposto ad alcuni intervistatori sull’Espresso del 23 febbr. 1969 (riportato in PIO BALDELLI, Cinema dell’ambiguità, Roma 1969, 373 ss.), in Panorama del 25 sett. 1969, e in Vogue del giugno 1969 (riportato nel vol. cit. di Zanelli, 67 ss.).

10 L’immagine, prima di Pasolini, è del Salmista (48, 12): Homo... comparatus est iumentis insipientibus... ». In una sequenza medievale, attribuita a san Bernardo, a proposito di monaci rilassati, viene ripresa così: Consors quondam angelorum – Leges tenes iumentorum – Ipsis factus similis; ed a proposito dei laici peccatori: Sic est vita laicorum – Parum differt a porcorum – Consuetudinibus (MIGNE, PL 184, 1327).

11 S. LEONE MAGNO, Sermo I de Nativ. (MIGNE, PL 54, 192).

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Articolo estratto dal volume IV del 1969 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Porcile, di P.P. Pasolini, e Satyricon, di F. Fellini – programmati nell’ultima edizione della Mostra veneziana –, sollecitano, sotto più di un aspetto, un discorso comune.

Cominciamo dagli argomenti (o «soggetti»): tra i più sgradevoli, anche se meno compiaciuti, di quanti ne ricordi la storia del cinema.

Materia ingrata

Porcile si struttura in due racconti paralleli. Il primo, metastorico, cioè privo di coordinate tempo-spaziali, possiamo vagamente localizzarlo nel quattro-cinquecento cristiano. Uno strano eremita-troglodita (Pierre Clementi) vaga affamato in un deserto vulcanico, divorando erba, farfalle, serpenti. Passa per un campo di battaglia, si veste dell’armatura di un morto, affronta una specie di lanzichenecco, l’uccide, lo squarta, lo mangia. A lui si unisce un altro cannibale, più rozzo (Franco Citti); poi altri, una piccola tribù: violentano, trucidano e mangiano viandanti, uomini e donne, e ne gettano le teste nei crateri del vulcano. Allertata, l’autorità religiosa attira gli antropofaghi esponendo nudi, alle falde del vulcano, un ragazzo ed una ragazza. La trappola funziona. La banda, infatti, si precipita sulla preda, ma viene accerchiata e catturata dai soldati-inquisitori. Processo sommario e condanna a morte. Prima di essere legati a terra presso i crateri dei loro misfatti ed essere sbranati dalle fiere, tutti si piegano a baciare il crocifisso; meno l’asociale troglodita, che, pronunciando le sue prime ed ultime parole, proclama: «Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana e tremo di gioia».

L’altro racconto si situa nella Germania di Bonn. Klotz (Alberto Lionello) è un paleo-industriale (voglio dire: un capitalista classico, una specie di Krupp), che vive – si fa per dire, perché si trascina paralitico ed impotente in una carrozzella – nella sontuosa villa (Stra), frutto dei suoi «affari» postbellici. Gli è rivale e concorrente il neo-capitalista Herr Ditze (Ugo Tognazzi). I due cercano di distruggersi l’un l’altro col ricatto. In uno scontro frontale si rinfacciano le infamie che i rispettivi detectives privati hanno scoperto. Herr Ditze, in realtà, è un ex criminale nazista, che faceva collezione di teschi di comunisti-ebrei per l’Università di Strasburgo, mentre Klotz ha per unico figlio ed erede un giovanotto, Julian (Jean-Pierre Leaud), che, insensibile alle ragazze, se la fa soltanto con i maiali. E il ricatto funziona, perché i due, invece di distruggersi rendendo pubbliche le rispettive infamie, decidono di fondere le loro ditte in una. Ma nel bel mezzo del fastoso brindisi della concordia, i contadini di Klotz recano ai padroni associati la notizia che il signorino Julian, recatosi al consueto incontro con i suoi porci, ne è stato divorato fino ai capelli ed ai bottoni. Sull’ordine di Herr Ditze di far silenzio sull’accaduto il film si chiude.

Satyricon, invece, si rifà all’omonimo romanzo attribuito a Petronio Arbitro, ambientato nella Roma corrotta dei tempi di Nerone. Personaggi principali ne sono i capelloni Encolpio (Martin Potter) ed Ascilto (Hiram Keller), che si contendono i turpi favori dell’effeminato Gitone (Max Born); nonché il vecchio poetastro e lurido imbroglione Eumolpo (Salvo Randone). I quattro lazzaroni vivono di espedienti: rubano, trescano, litigano, tradiscono, scroccano – e qui la famosa Cena di Trimalcione (Mario Romagnoli) –, fornicano attivi e passivi, passando per tutte le immaginabili combinazioni ed anomalie erotiche: nei postriboli della suburra, nei circhi di provincia, nelle terme, negli incontri casuali, in pubblica piazza, nella naveserraglio dei pervertiti Lica e Trifena e finalmente, naufraghi, sulla costa di Crotone, dove il frammento del romanzo petroniano li lascia.

È pacifico che nei film, come in ogni altra espressione umana, materia ignobile e personaggi ripugnanti non autorizzano automatici giudizi di disvalore e di condanna. Tutto sta a vedere da chi, con quale intento e come, siffatta materia viene trattata. La tratta lo storico, il sociologo, lo scienziato: ed essa cristallizza in dati di verità logica, emotivamente puri, campo di problematiche teoriche ed applicative. L’assume l’artista: e la trasfigura in termini di bellezza, sublimando ed illuminando la materia più pesante ed opaca. La tratta l’uomo amico e fratello: e la miseria più deforme diventa occasione di bontà, invito ed esercizio di misericordiosa compassione e di soccorso fraterno. La manipola l’incolto, il rozzo, l’affarista, che più o meno consapevolmente ne sia partecipe: e, specialmente nel cinema, il volgare diventa più volgare, il turpe più turpe, fatto oggetto di spettacolo compiaciuto e corruttore.

Onestamente, non è proprio quest’ultimo il caso di Pasolini e di Fellini. Come per altri loro film, oggetto di recenti e non recenti polemiche anche tra cattolici, per quanto sgradevoli possano essere i loro soggetti e dissacratori i loro personaggi, siamo ben lontani dalla volgarità gratuita e dall’oscenità compiaciuta, dall’erotismo teoretico e dalla pornografia gastronomica (com’è stata detta), in cui sguazza troppa produzione italiana, specialmente recente1. Tuttavia ci si chiede se nei due film la sgradevole materia venga in qualche modo depurata; in particolare – esclusa, ovviamente, l’ipotesi dell’indagine scientifica – se riesca a pienamente trasfigurarla il magistero dell’arte, oppure – se non proprio la caritas cristiana - almeno la pietas umana.

Arte decadente

Diremmo che in Porcile questa catarsi artistica si verifica in misura molto modesta. Intanto, pur nell’eccentricità dell’invenzione narrativa, quel che vediamo sullo schermo sa di stanco, di risaputo, rispetto ai precedenti cinematografici, nell’insieme non eccelsi, del regista. Deserti percorsi da folate profetiche, armature barbariche, paludamenti orrido-barocchi, messaggeri ricciuti, borghesi in catalessi, assalto e strage di carri con viandanti; compiaciuti imprestiti pittorici e musicali, preziosismi figurativi, movenze e fissità quasi rituali-liturgiche di personaggi e di masse...: rimandano, volta a volta, a Teorema, a Edipo Re, a Uccellacci, al Vangelo... E non si tratta di costanti di un mondo poetico, stilemi che si ricreino per rinnovata esigenza lirica, ma, si direbbe, di manierismi intellettuali decadenti. Ma soprattutto sembra impacciare Pasolini in ogni slancio di creatività fantastica il genere ermetico-parabolico anche qui da lui adottato dopo Uccellacci e Teorema. Sono note le ragioni che l’hanno indotto a questa scelta2, né è il caso di discuterne la scarsa fondatezza sociologico-didattica. Rileviamo, tuttavia, il pericolo di un cinema spurio, quando le immagini, come qui avviene, comunichino poco o nulla nella loro trasparenza d’immagini, ma quasi soltanto propongono emblemi e simboli da decifrare. Una volta afferrata la «morale», ovvia, dei due apologhi: – la società capitalista-borghese («il porcile», cfr i disegni di Grosz) divora i suoi membri; la società tout court punisce, eliminandolo, chi la contesta –, ecco che comincia il giuoco dei ritrovamenti. Marx, Freud e Brecht alla mano – come la napoletana «smorfia» per i numeri del lotto –, bravo è chi spiega che cosa significano la farfalla e il serpente, il vulcano e i suoi crateri, la coppia nuda esposta alle falde del monte... Notare diligentemente che il contestatore antropofago è sempre «nella natura», mentre «i porci-borghesi» si muovono (fare attenzione alla lunga carrellata di Klotz-Ferreri) nella sontuosità scenografica della società del benessere. Non vi sfuggano, per carità, i profondi significati dell’arpa toccata da Hitler-Klotz, e della birra di Tognazzi (da non confondere con la réclame di Carosello!). Non vi sfugga che i cannibali agiscono e non parlano, mentre i borghesi parlano parlano e parlano nell’immobilità (Krupp-Klotz paralitico in carrozzella, e il suo degno rampollo in catalessi nel suo letto-baldacchino). Soprattutto fare attenzione al ragazzo-messaggero (Ninetto Davoli), rispolverando quel che in liceo avete studiato sul coro nella tragedia greca; egli, infatti, è il solo esplicito trait-d’union tra i due apologhi: ha assistito alla scena dei cannibali divorati dalle fiere, ma racconta ai capitalisti, senza averla vista, la scena analoga di Julian divorato dai porci... Così continua il giuoco a incastri meccanici di analogie allusioni rimandi, tutto sommato, cerebrali. Puzzle fine a se stesso, ove la rabbia e la violenza della materia simulano l’ispirazione, tanto convenzionali risultandovi i simboli quanto perentori e gratuiti i miti ideologici del loro autore e regista.

Parte coincidenti e parte contrarie sono le riserve che su piano artistico sollecita Satyricon. Anche qui, infatti, ricorrono motivi piuttosto logori: solitari cavalli metafisici, pesci-mostri, navi fantasma, santoni asessuati immersi in lucori e umidori da cellophane, uomini o donne sospesi in aerei panieri, forme e atmosfere cubiste-fantascientifiche, l’immancabile sequenza del circo, fumoni e fiammate, donne cannone, processioni di nere silhouettes monacali, maschere e mascheroni... Ma, anche a prescindere da questa stanca summa, siamo lontani dal migliore Fellini, quello, per esemplificare, dei Vitelloni e di . Abbandonato, per naturale esaurimento, il filone della scapigliata e provinciale autobiografia, si direbbe che tèmi più vasti – ricordare qualche episodio della Dolce vita, ma soprattutto l’enfiagione e sfocatura psicologica di Giulietta degli spiriti -, oltre che impaniarlo in cascami di culture da rotocalco, ne scatenino fuori misura la fantasia visionaria, a supplire l’ispirazione più autentica.

 

In questo senso il romanzo petroniano – nel suo stato frammentario, nel suo genere di sàtura 3 e con la sua smisurata invenzione di eventi –, sembra che sia stato come un invito a nozze, ma anche un trabocchetto, per Fellini. Il racconto «aperto», episodico, iniziato nella Dolce vita e portato avanti in ; e in Giulietta, qui tocca il massimo della disarticolazione. Senza un principio e senza una fine, gli imprevisti narrativi e figurativi si susseguono in un montaggio da spettacolo pirotecnico4. Solo che Petronio resta il letterato lucido – il tacitiano arbiter elegantiae - che domina la materia fantastica. Partecipa, personificandosi in Encolpio, a quanto va narrando, ma in uno stile realistico, distaccato, ironico, lasciando alla stessa volgarità dei suoi personaggi ed alle loro prosaiche avventure il compito di ridimensionare qua e là la manifesta epicità del tono. In Fellini, invece, raramente questo controllo interviene a dare armonia: – e solo allora si gustano le sequenze migliori: la lotta di Encolpio col Minotauro, la trafugazione e morte dell’Ermafrodito, il testamento di Eumolpo, il congedo e la serena morte dei due patrizi... – Invece, la cena-funerale di Trimalcione, che forse voleva essere il pezzo forte del film, diventa il più stracco e decadente, e dappertutto altrove regna il sovraccarico dei particolari mostruosi, l’espressionismo gridato, il giuoco compiaciuto di apparizioni caleidoscopiche, l’incubo di scenografie infernali, l’orgia di trucchi spropositati, di costumi e di acconciature barocche, l’allucinazione insomma di una fantasia psichedelica, parossistica, esibizionistica, fatta mito di se stessa; nell’insieme: un interminabile spettacolo onirico, che stordisce e frastorna, ma raramente si placa in forme di bellezza, sia pure orrida.

Umanità disperata

Ma, anche più che in valori artistici, i due film sembrano carenti in valori morali, l’uno e l’altro segnando nei loro autori un regresso nella comprensione e fiducia umana.

Nei primi suoi film, infatti, Pasolini si mostrava mosso da simpatia almeno verso una porzione di umanità: certo suo mitico sottoproletariato, di cui prospettava possibile una «redenzione», sia pure in termini marxisti. Col Vangelo, sostanzialmente la posizione non cambia; tuttavia la mitologia di Pasolini si fa più semplificatoria e manichea: buoni sono, soltanto e tutti, i proletari; reprobi e scellerati, soltanto e tutti, i borghesi (fascisti). Il suo Gesù è l’inefficace fustigatore di questi e il velleitario redentore di quelli; il suo grido sulla croce: un urlo disperato per un’impresa fallita. Con Uccellacci e uccellini siamo alla crisi ideologica: marxismo o cristianesimo? Perdura, tuttavia, una certa sua tenerezza verso i semplici, siano essi i proletari, indifesi nella loro incoscienza di classe, oppure i «francescani», confidenti in una predicazione poetica ma socialmente inutile. In Teorema resta ben poco di quella sua pietas populistica, i «semplici» agendovi quasi soltanto come controprova della irredimibile putrefazione della società borghese, per traumatizzare la quale egli escogita un «possesso» anomalo, tanto più per essa ignominioso quanto apparentemente simbolico ed anodino. Con Porcile - già il titolo è un programma – siamo allo svilimento più odioso dell’uomo. Nel mostruoso trio Klotz-Ditze-Julian, Pasolini compendia tutti i titoli della sua rabbia contro la classe borghese: paleo-capitalismo, ceffo hitleriano, impotenza e decadentismo in Klotz; neo-capitalismo, razzismo antiebraico, volgarità e lurida disponibilità collaborazionista in Ditze; non contestazione contro le storture prodotte dal suo mondo borghese, in Julian. Cosi non può essere che esemplare la rivincita dei maiali, che divorano il delfino di una società più maialesca della loro. Né Pasolini ha la mano più leggera nel primo apologo. Protagonista-eroe è l’asociale-parricida-stupratore-antropofago-ateo; antagonista la società tout court: leggi-istituzioni-famiglia-religione-soldati. Questa lo punisce, come già il paganesimo con i cristiani, dandolo in pasto alle fiere. E le simpatie del regista vanno per il nuovo «martire» rousseau-freudiano (leggere Totem e tabù), il quale, morendo, non si smentisce: trema di gioia perché ha ucciso suo padre ed ha mangiato carne umana. Professione di fede, tutto sommato, risibile nel suo anarchismo cerebrale ed estetizzante. Tuttavia, rapportata al «martirio» cui la società borghese fatalmente conduce il suo maialesco rampollo, dà la misura dello scetticismo demolitore col quale Pasolini ormai vede l’uomo e la sua esistenza civile.

E Fellini? Non uomo da ideologie, ha tuttavia anche lui un suo tumultuoso mondo interiore, una sua – sia pure inconsapevole e cangiante – visione dell’esistenza umana, che puntuale affiora nei suoi film, siano essi autentiche opere d’arte oppure conati fantastici. Quale questo suo mondo? Una certa critica – di cattolici (soprattutto d’oltralpe), ma specialmente laicista e marxista (nostrana) – in alcuni suoi film ha intravisto misteriosi afflati, nostalgie ed attese religiose, e addirittura una “costante” cattolica. Diremmo che il pigro luogo comune, specialmente rispetto a questo suo ultimo film, non regge; siamo, infatti, allo svilimento più impietoso di ogni valore umano. L’umanità che Fellini ci presenta è l’orgia dell’orrido, il campionario inesauribile delle deformità umane. Deformità fisiche: gobbi, sciancati, guerci, obesi, disseccati, androgini, vecchie laide, donne sfatte, ceffi stregoneschi...: s’ammassano in una specie di mostruosa corte dei miracoli, di museo teratologico. E deformità morali, che superano, se possibile, il campionario di quelle fisiche: mimi e buffoni sconci, scrocconi triviali, ladroni e fattucchiere, lenoni, prostitute, lesbiche ed invertiti, ninfomani, cinedi, pederasti...: quanto già abbondantemente popolava la filmografia felliniana ed il racconto petroniano, qui diventa greve massa compatta.

Vero è che il regista, come già s’è rilevato, non insiste nei particolari più osceni e depravati, anzi introduce elementi che riducono a nauseabonda la sua fastosa farragine di sesso e di violenza. Tali il fumo e le nebbie; e il colore, quasi sempre spettrale, delle scenografie, per lo più notturne; il sudiciume e gli stracci di una Roma polemicamente opposta alla convenzionale rettorica imperiale dei romanzi e del cinema; il senso sempre incombente della morte, che culmina nel testamento cannibalico di Eumolpo; la musica dilacerata in stridori e dissonanze... Resta, tuttavia, il suo, un mondo senza speranza, privo di una sia pur minima aspirazione di luce e di aria pura. Non c’è un Zampanò che si redima dalla sua Strada animalesca, volgendo per la prima volta gli occhi al cielo stellato; non una ragazza pulita che inviti, magari oltre il fiume invalicabile, ad una esistenza meno sciagurata i tristi eroi della Dolce vita; non una danza leggera di ragazzi che doni il sorriso a Cabiria scampata dalle sue tragiche notti, e neanche il poetico rondò dei personaggi di ; intorno alla rampa di lancio verso un viaggio fantastico...

In questa radicale nescienza di valori umani si direbbe che il «cristiano» Fellini arretri anche rispetto a quel poco di valido che c’era nel pagano Petronio: scettico epicureo, sì, ma schernitore della cafonesca boria dei nuovi parvenus, della cortigianeria di poetastri pitocchi, dei soprusi di tiranni e tirannelli; ed, a suo modo, moralista, che echeggia il vanitas vanitatum dell’Ecclesiaste col noto epifonema: «Se consideri la realtà delle cose, dappertutto è naufragio»5 e che, caduto in disgrazia di Nerone, si tagliò le vene dopo aver inviato al suo volgare alunno ed ex compagno di vizi il libello di tutte le sue nefandezze pubbliche e private6. Fellini gli rende omaggio nell’episodio figurativamente più semplice e liricamente più alto: il suicidio dei due patrizi nella villa di Cuma; ma omaggio esclusivamente estetico, privo del pur minimo cenno all’implicito germinale biasimo delle perversioni morali vissute e descritte dal suicida. Una considerazione, ci sembra, mostra più deplorevole questo svilimento della situazione umana nell’ultimo film di Fellini7; ed è questa. Prima che Petronio si desse la morte (66 d.C.), Roma aveva già ascoltato la predicazione degli apostoli Pietro e Paolo8 e, forse, lui stesso era stato testimone del martirio di quegli strani «contestatori» – schiavi, liberti e cittadini – che dal colle vaticano, fiaccole ardenti, avevano illuminato la Roma neroniana. Ora, si può spiegare come la cosa – almeno stando ai frammenti che ne restano – sia passata inosservata all’aristocratico scrittore romano. Meno spiegabile, invece, è il silenzio del magico regista romagnolo.

Ma si tratta, poi, di silenzio, o anche di rinnegamento? – Pure a prescindere da certe dichiarazioni di Fellini9, lo spettatore che ne conosca l’iter creativo propende piuttosto verso questa seconda ipotesi. Non può, infatti, dimenticare la Dolce vita, di una decina di anni fa, e considerarla un po’ come l’omologo di Satyricon. I due film potrebbero agevolmente, con un montaggio alternato, come quello dei due apologhi di Porcile, ridursi in uno solo e spiegare l’uno i significati dell’altro, chiarire – con rimandi ben più trasparenti di quelli di Pasolini – il mondo insieme poetico-fantastico ed umano-amorale di Fellini.

Un mondo, appunto, dove la redenzione cristiana non è avvenuta, e l’annuncio della salvezza è ignorato, se non anche irriso; dove perciò l’uomo, rinnegatosi «figlio di Dio», scade da umano ad animale, ed il suo mondo diventa Porcile10. Un mondo in cui invano risonerebbe – come tanti secoli fa, in tempi, anche allora, di civiltà in declino –, la voce del romanissimo san Leone Magno: «Abbi coscienza, o cristiano, della tua dignità: sei stato elevato al consorzio della divina natura, non voler decadere nella bassezza della vecchia condotta. Ricordati di quale Capo e di quale mistico corpo tu sia membro. Ripensa che sei stato liberato dalla potenza delle tenebre e che sei stato trasferito nella luce e nel regno di Dio»11.

1 Perciò, in un certo senso, torna a loro merito se molti spettatori morbosamente ingordi – solleticati dalla fama di «osatori» dei due registi, dai titoli dei film e dall’imbonimento-adescamento della pubblicità – a Venezia hanno fatto, sì, ore di fila, pagando fino a 50.000 lire un biglietto al bagarinaggio, e poi in altre città d’Italia si sono precipitati, sì, alle primissime visioni, ma sono restati regolarmente delusi.

2 «Per farmi capire devo ricorrere a Gramsci. Gramsci parlava in letteratura come d’un ideale di opere che lui chiamava nazional-popolari, idealmente dedicata a un popolo ideale, in un ambito puramente classista, come se il popolo si staccasse culturalmente dalla borghesia... Ora io, le mie opere, da Accattone a Mamma Roma al Vangelo, le ho composte con questa idea gramsciana in testa, volendo fare delle grandi opere nazionali e popolari... in un certo senso mitiche, epiche... capaci di entrare in consonanza ... con i grandi pubblici popolari. Naturalmente i tempi sono cambiati e questo famoso popolo che Gramsci aveva in mente, e che anch’io avevo conosciuto... è andato lentamente cambiando..., ed ora non si può più fare in Italia, dal momento che anche l’Italia è divenuta una nazione neocapitalistica, questa netta distinzione tra popolo e borghesia ... E allora, quando io faccio delle opere semplificate, epiche..., non ho più l’illusione che queste opere vengano lette o capite da un popolo nel senso gramsciano della parola, ma, purtroppo, oggettivamente... mistificate, alterate, alienate da una massa e dai mezzi di comunicazione di massa. E allora c’è stata in me una ribellione... per cui, anziché fare delle opere che mi illudessero di fare un’arte in qualche modo popolare... faccio delle opere ambigue, quasi per élites, estremamente difficili e rigorose, in maniera che siano il meno possibile consumabili dalla massa, e resistano il più possibile alle semplificazioni della massa» (Intervista di P.P. Pasolini con Piero Sanavìo, in Il dramma, 1969, n. 12, 81 ss.).

3 È noto che il latino satura (onde satira), prima di significare il genere letterario moralistico-derisorio di debolezze e di vizi umani, significò piatto farcito, guazzabuglio, miscellanea..., quindi anche componimento letterario comprendente prosa e versi, brani lirico-epici e comico-plebei, com’è appunto il Satyricon attribuito a Petronio.

4 Normalmente i film contano qualche centinaio d’inquadrature: sulle 200/300 i film «lenti» oltre le 500/600 quelli «veloci». La sceneggiatura di Satyricon (cfr il volume curato da D. ZANELLI citato più avanti) ne prevedeva più di 1200.

5 È quasi la chiusa della sua mattutina meditazione sul naufragio ed annegamento del terribile Lica: «... e allora riconobbi di avere quasi ai miei piedi quel Lica, che fino a poco prima era stato implacabile e terribile verso di me... ed esclamai: “Dov’è adesso la tua rabbia? dov’è la tua prepotenza? Ora sei proprio esposto al morso dei pesci e delle fiere marine; tu, che fino a poco fa eri tutto borioso della tua potenza, ora sei un misero naufrago e di tutta quella grande nave non possiedi neppure più una trave per attaccarviti naufrago”. Andate, adesso, o mortali e gonfiate pure i vostri petti di grandi progetti; andate avanti guardinghi e fate piani per mille anni su quelle ricchezze, che avete con la frode carpito ad altri. Per esempio costui non più tardi di ieri fece il bilancio dei suoi averi; aveva perfino fissato in cuor suo il giorno dd suo arrivo in patria... Eccolo qui quant’è lontano dal suo porto d’arrivo! Ma non sono soltanto gli oceani che mantengono in questo modo la parola data agli uomini... Se fai giusto conto della realtà delle cose, dovunque è naufragio!» (PETRONIO ARBITRO, Il satiricon, trad. di A. MARZULLO e M. BONARIA, Bologna 1962, 247).

6 Anzi, non si esclude che tutto il Satiricon sia la più intelligente beffa giocata a Nerone. Nota A. MARZULLO (op. cit., XXI: «Invece di adulare Nerone e i potenti, pose termine a scrivere una sua rassegna nella quale, sotto il falso nome di gente perduta e di malefemmine, narrava stranezze e nuove dissolutezze di Nerone “e tale racconto, col proprio nome, fece consegnare, infine, al principe” (TACITO, Annales XVI, 18 ss.). Non possiamo dire se la parte superstite del Satiricon corrisponda a quanto Petronio avrebbe in vita compilato e negli ultimi giorni terminato per farsi beffa dei costumi dei suoi tempi e dei potenti, ma certo, essa se non è proprio una beffa contro Nerone, riesce, però, a presentare un tipo di villano rifatto, Trimalchione, che la fa da tiranno, che con un edictum, da vero principe assoluto... conclude burlescamente difficili situazioni e..., fingendo prima di dare libertà di scelta ai commensali, finisce poi col deliberare da sé. Egli ha simboli del potere, una corte e persino una Gazzetta ufficiale, e sa affermare qua e là una accondiscendente morale che è quella imposta dal padrone: nec turpe est quod dominus iubet. Anche quando non vi sia parodia..., troppo facile e naturale è il richiamo colla figura di Nerone e con quella di Claudio, quale appare nel Ludus di Seneca.

7 Ci limitiamo all’avvilimento della dignità umana attuato sullo schermo. Altro discorso, anche più severo, meriterebbe quello perpetrato a danno degli attori e comparse sul set, quando la libertà dell’artista sconfini nella licenza dell’esibizionista. Chiedendo venia ai lettori, stralciamo questi appunti dell’attrice Betsy Langman dal volume Fellini Satyricon, curato da DARIO ZANELLI (Bologna, Cappelli, 1969, 94 ss.): «Notai che il trucco veniva usato per ingrandire o per accentuare le fattezze degli attori. I grassi erano resi più grassi, i magri più magri, i caIvi più caIvi, i nasi più lunghi risultavano più allungati e le bocche larghe più allargate. I visi erano tinti di rosso, blu, verde giallo... La piscina era riscaldata e con l’acqua che arrivava alla cintura. Gli extra, giovani e vecchi, grassi e magri, alti e bassi, caIvi e coi capelli, belli e brutti, uomini e donne, indossavano tutti il bikini, le donne col seno coperto da un fazzoletto colorato. Ad un ordine entrarono tutti in fila nella piscina, come il bestiame in un recinto, gli uomini dietro e le donne avanti, e lì restarono ritti, massa umana compatta, nell’acqua e nella foschia... Non appena gli extra furono a posto nella piscina, Fellini annunciò col megafono: “Toglietevi il reggiseno! ". Le donne sussultarono e gli uomini si misero a ridacchiare, poi le donne cominciarono lentamente a liberarsi dei fazzoletti. Notai che le più riluttanti erano le giovani. La maggior parte di loro tentava di coprirsi il seno con le mani o le braccia, alcune si abbassarono per stare sott’acqua... Gli uomini si sforzavano di vedere qualcosa di dietro... “Non copritevi! " muggì Fellini... Parecchie ragazze fra le più giovani e le più graziose dopo il primo giorno non tornarono più. Fellini chiamò uno degli invitati, un ometto grasso con il doppio mento... Gli disse di avviarsi verso la piscina, di sedere sul bordo e poi di scendere in acqua. Mentre l’uomo si preparava a farlo ci fu un cambiamento nelle istruzioni: “Nudo!”. Quello arrossi, guardò in basso e appariva evidente che non era soltanto imbarazzato, ma veramente offeso. Aveva un corpo di struttura non comune: grasso e tozzo e con le gambe corte. Fellini gli si avvicinò, gli diede un colpetto amichevole... come dirgli: “Che importanza ha, fra noi due... ". L’uomo fece quello che gli veniva chiesto. Rimase ritto, completamente nudo, di fronte alle centinaia di uomini e donne nella piscina. In un primo momento le donne indietreggiarono accalcandosi, ma poi cominciarono a ridere dimentiche della loro umiliazione. Io ero seduta lì vicino, ma evitavo di guardarlo, non solo perché mi spiaceva per lui, ma anche perché avevo paura di scoppiare e ridere e di allentare i nastri che mi tiravano gli occhi».

8 E, dato che la corruzione delle due città aveva lo stesso volto immondo, gli ammonimenti dell’apostolo Paolo ai Romani non dovettero differire molto da quelli rivolti agli abitanti di Corinto: «Attenti a non illudervi: né fornicatori, né idolatri, né effeminati, né quelli che giacciono con maschi, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapinatori saranno eredi del regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi: ma siete stati lavati, santificati, giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo, e mediante lo Spirito del nostro Dio» (I Cor 6,9-11).

9 È sempre pericoloso giudicare i film dalle interviste e dichiarazioni dei loro registi. Tuttavia, per conoscere quale sia il fondo morale-religioso-cattolico di Fellini conviene leggere quanto egli ha risposto ad alcuni intervistatori sull’Espresso del 23 febbr. 1969 (riportato in PIO BALDELLI, Cinema dell’ambiguità, Roma 1969, 373 ss.), in Panorama del 25 sett. 1969, e in Vogue del giugno 1969 (riportato nel vol. cit. di Zanelli, 67 ss.).

10 L’immagine, prima di Pasolini, è del Salmista (48, 12): Homo... comparatus est iumentis insipientibus... ». In una sequenza medievale, attribuita a san Bernardo, a proposito di monaci rilassati, viene ripresa così: Consors quondam angelorum – Leges tenes iumentorum – Ipsis factus similis; ed a proposito dei laici peccatori: Sic est vita laicorum – Parum differt a porcorum – Consuetudinibus (MIGNE, PL 184, 1327).

11 S. LEONE MAGNO, Sermo I de Nativ. (MIGNE, PL 54, 192).

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151