NOTE
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1 Non vorremmo essere fraintesi. Plaudiamo alla Globe quando divulga film belli e buoni, non quando si piega a divulgare anche film che belli e buoni non sono, per esempio Il sangue del vampiro o, peggio, Les amants; né la seguiamo quando risponde che sono i Vampiri che mandano avanti le Arpe birmane e che la distribuzione di Les amants è unicamente legata al premio che questo film ha ricevuto a Venezia. Per il primo ragionamento rispondiamo che, in buona morale, non sunt facienda mala ut veniant bona, vale a dire che il fine buono non giustifica i mezzi cattivi; per il secondo rispondiamo che, sempre sul terreno della buona morale, il film a Venezia non doveva esser proiettato, né tanto meno premiato, ma che, in ogni modo, la grave ferita inferta alla morale sulla Laguna non è un motivo per inferirne una più grave in tutta l’Italia.

2 Cfr Il mondo religioso di Dreyer, in Civ. Catt. 1957, I, 49-63.

3 Cfr La fede taumaturgica dell’ultimo Dreyer, in Civ. Catt. 1956, II, 373-383.

4 Non conobbe il padre, né la madre, morta poco dopo averlo dato alla luce; passò l’infanzia solitaria presso una famiglia affetta dal più chiuso protestantesimo; sposò molto giovane, a ventidue anni, una ragazza di ventitre, ed ebbe un solo figlio (cfr A. SOLMI, Tre maestri del cinema, 1956, pp. 12-16).

5 Sembra negarlo, perentoriamente, F. DI GIAMMATTEO (Profili di registi: Dreyer, in Comunità, 1956, giugno-luglio, p. 77 u.); invece lo afferma V. PANDOLFI, scrivendo: «Ecco Dies Irae di Dreyer farsi vessillo di ribellione contro l’intolleranza e il fanatismo dei nazisti» (Il cinema nella storia, 1957, p. 19). Della nostra tesi P. ROTHA (The Film till Now, 1951, p. 604-605).

6 «Uno spirito essenzialmente anticlericale costituisce il sottinteso di Dies Irae», così C. CASTELLO nel 1948 (Parabola creativa di Carl Th. Dreye,, in Bianco e Nero, n. 7, p. 31); pare che lo segua F. DI GIAMMATTEO, secondo il quale il film «condanna chi degrada la fede al rango di fanatismo» (art. cit., p. 80). Per V. PAN DOLPI è kierkegaardiano, ma in senso antireligioso (Saga e aurora boreale, in Cinema, 15 agosto 1950, riportato in Il cinema nella storia, cit. p. 88). Anche per M. MORANDINI, il Dreyer è anticlericale, ma pare che egli intenda per “clericalismo” una sua concezione più anticlericale che cattolica (Schermi, gennaio 1959, p. 14).

7 Cosl per G. SADOUL, Dies Jrae è «dramma di stregoneria medioevale, un racconto piuttosto lento e ridondante... che fu però sostenuto dal raro senso plastico del regista» (Storia del cinema, 195 I, p. 467); per P. ROTHA (op. cit.) il film «difetta anche di qualunque bellezza pittorica»!!! Per G. MOSCA il film «nel complesso è più tecnica che poesia, più bravura che arte... Molto lontano dal capolavoro (Il corriere d’informazione, 16 ottobre 1958); per U. BARBARO il film è semplicemente «stuipido» (Il cinema e l’uomo moderno, 1950, p. 24).

8 Questa almeno è la data che si legge in calce alla pergamena di condanna di Marta: 14 giugno 1623. Tuttavia, salvo sviste, su di un bancone che appare in un’inquadratura del film, ci pare di aver vista intagliata la data 1646.

9 Sotto questo tema più generale comprendiamo molti dei temi particolari vistivi dall’uno o l’altro critico; per esempio quello di BALDINI, secondo il quale «Dreyer vi pronuncia una parola di libertà e di condanna verso ogni fanatismo, ogni intolleranza» (Cinema, 15 gennaio 1949, p. 180); secondo LO DUCA, il Dreyer vi ha voluto chiarire quel mistero che potrebbe chiamarsi «la fede magica degli uomini» (ivi, 15 maggio 1949, p. 422). Più recentemente A. COVI ha indicato il tema nell’angoscioso dilemma in cui si dibatte la miope giustizia umana di fronte agli accusati di presunta stregoneria»; tuttavia lo stesso poi riconosce che «l’interpretazione tematica n’è realmente difficile e complessa» (Letture, febbraio 1959, p. 138). Una tematica più vicina ad Ordet viene proposta da A. PESCE: Itinerario spirituale di Dreyer, in Humanitas, febbraio 1959, p. 146 ss., ed anche: Dies Jrae, in Rivista del Cinematografo, febbraio 1959, n. 2, p. 62 ss.

10 Non sappiamo per quale ragione questa inquadratura sia stata soppressa nel doppiato italiano. – Le battute del dialogo da noi riportate sono prese dalla traduzione italiana pubblicata da Schermi, gennaio 1959, p. 15 ss., ma con qualche variante, da noi introdotta, per amore di maggiore fedeltà al testo francese.

11 DANTE, Infemo, V, 129. – La pietà che, pur riconoscendosi colpevole, nella veemenza della sua passione infelice, Anna chiede, richiama più volte quella della Francesca di Dante: «Io ti amo: questo è il mio delitto!». «lo ti amo tu mi ami. Abbiamo peccato insieme, insieme saremo nella disgrazia», «Siamo così legati che nessuno potrebbe scioglierci!».

12 «E vivremo in una casa sul mare. Mi desterei al mattino, accanto a te. Ti desterei con un bacio e resteremo così a lungo. E nostro figlio ci chiamerebbe dalla culla. Lo prenderei tra le braccia. E come io bevo la vita da te, egli la prenderà dal mio seno. La tenerezza che tu mi hai data, io la darei a lui. E canterei la nostra canzone per nostro figlio. Non è bello pensarlo?». Perciò avanziamo l’idea che questo particolare non sia estraneo, anzi sia rilevante, nella disperata scelta del rogo che Anna farà, quando si vedrà abbandonata da Martin.

13 Nel 1948 G. C. CASTELLO rilevava nel film un troppo esteso impiego del dialogo (art. cit., p. 32); più recentemente rettificava: «Le lievi riserve allora formulate sono da gran tempo del tutto cadute. Dies Irae mi pare... il suo capolavoro, una delle opere miliari nella storia del cinema» (Filmcritica, 1956, n. 60, p. 187).

14 Molto significativo è il parallelo-contrasto tra i versi di amore laico letti da Absalon, persona consacrata: «Una giovane era in un orto – E un giovane vi entrava; - Essa si stirava, si alzava - E discendeva nelle sue braccia...» e i versi di amore sacro letti laicamente da Anna a Martin: «Tu sei bella, perché sei cara alla mia anima - Come un melo tra gli alberi del bosco. - Voglio sedermi alla tua ombra» (Cant. 2, 3).

15 Per esempio la quasi mancanza dei primi piani, l’uso del sonoro (e soprattutto del silenzio...).

16 Fondamentalmente concordano P. ROTHA, secondo il quale «Manca qui ogni calore di speranza; vi domina il tema del male, e questo finisce col trionfare... Film crudele e pessimo» (loc. cit.), e N. M. LUGARO, il quale accetta esplicitamente la nostra opinione (L’Italia, 16 ottobre 1958). Sono per la tesi dell’ambiguità il marxista CASIRAGHI (l’Unità, 16 ottobre 1958) e i due cattolici H. AGEL - A. AYFFRE (Le cinéma et le sacré, 1954, p. 26 ss.). – La complessità, se non l’ambiguità, del tema spiega ad abundantiam la qualifica del C.C.C, che l’ha giudicato: «Adulti con riserva».

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Articolo estratto dal volume II del 1959 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Uscito in prima visione a Copenaghen nel 1943, presentato alla mostra veneziana del 1947, largamente programmato in Europa e negli Stati Uniti d’America nell’immediato dopoguerra, il film Vredens Dag, benché da quasi tutti i critici italiani fosse ritenuto, insieme con La passion de Jeanne d’Arc (1929) ed Ordet (1955), uno dei tre capolavori del Dreyer, ed anzi, da alcuni, addirittura il suo capolavoro, in Italia, per quindici anni, ha circolato, non doppiato, soltanto nei cineforum e in similari circoli di cultura cinematografica. Solo da alcune settimane, grazie alla Globe Films International, sotto il suo secondo titolo Dies lrae e doppiata in italiano, questa eccellente opera sta raggiungendo anche da noi il pubblico più vasto.

Mentre plaudiamo alla nuova brillante impresa della benemerita casa distributrice, e ci auguriamo che un altro lusinghiero successo economico, pari o superiore a quello che ha coronato l’Arpa birmana, e Un condannato a morte è fuggito, la confermi nel suo coraggioso programma di cultura e di arte1, noi approfittiamo del felice evento per intrattenere i nostri lettori sul film più distesamente di quanto non ci era lecito fare due anni or sono, quando, introducendoli nel mondo religioso del grande danese2, potevamo far assegnamento soltanto sui nostri ricordi e non anche sulla loro esperienza.

Tematica poetico-religiosa

Se l’opera del Dreyer, – affermavamo, dopo averne esaminati gli otto cortometraggi e i tredici lungometraggi in cui essa si articola, – nel suo assieme non può dirsi dichiaratamente religiosa, tuttavia essenzialmente religiosa è la concezione dell’esistenza umana nella quale essa si radica e respira; è necessario, dunque, conoscere questa per comprendere i suoi film, e più che mai per comprendere Dies Jrae ed Ordet, che sono i più religiosi tra essi. Addentratici, quindi, nel mondo religioso del Dreyer, ne abbiamo individuato gli elementi caratteristici, dei quali alcuni con caratteri di costanti: – il dramma della libertà interiore della persona umana; la presenza attiva nel mondo di esseri che sono al limite tra il terreno e l’ultraterreno, quali le streghe, i pastori, Satana; l’incombere del male sull’uomo: come peccato, come dolore, come morte, e, soprattutto, come angoscia di una natura corrotta, la quale, nella sua impotenza, non può non aggrapparsi alla fede fiduciale e alla preghiera, ma invano, o almeno alla cieca, rispetto ad un Dio, e alla sua grazia, inaccessibili, cui perciò non resta che o disperare d’ogni salvezza o abbandonarsi ad una sterile sofferenza passiva; – ed una, in Ordet, con carattere di variabile: il trionfo della vita sulla morte, conseguente alla presenza taumaturgica di Cristo nel mondo odierno. Chiestici, infine, da quali correnti storiche il Dreyer possa aver derivato le sue concezioni ed esperienze religiose, abbiamo ritenuto che manchino gli argomenti per provare una sua formale dipendenza dal suo compatriota Søren Kierkegaard, anzi che non ne difettano di quelli che la escluderebbero, mentre le sue costanti di angoscia psicologica e di pessimismo teologico derivano da una eredità luterana comune ai due, dalla quale, invece, l’allontanerebbe, avvicinandolo alla liberante ortodossia cattolica, la variante di Ordet3.

Rivedendo il film doppiato in italiano, non troviamo ragioni per mutare opinione. Ci confermiamo anzi nel credere che mai, come in Dies lrae, il Dreyer abbia espresso una visione tanto smarrita dell’esistenza umana, forse anche perché, ad incupire di più l’uggia dell’eredità luterana, gli sovvennero, mentre lo preparava e lo girava, i ricordi, facilmente in esso rilevabili, della sua infanzia squallida4 e, soprattutto, influì lo scoramento indotto nella piccola ed indifesa Danimarca dalla lunga e tracotante occupazione nazista5. Certo è che una cupa tristezza opprime lo spettatore incapace di leggere oltre i funerei eventi narrati ed il lugubre apparato scenografico che li accompagna. Egli è assalito da ogni parte dal male vittorioso. Il ritmo lentissimo tanto vi dilata nel tempo la sofferenza di situazioni senza esito quanto queste si condensano in spazi soffocati e proprio là dove gli uomini dovrebbero trovare l’appagamento delle attese più assolute dell’esistenza, vale a dire nel profondo della propria coscienza, nell’associarsi fraterno con i propri simili e nel colloquiare con Dio.

In queste condizioni si spiega come qualcuno l’abbia giudicata opera di un artistucolo sadico e decadente; come altri, equivocando tra argomento e tema, tema e tesi, vi abbiano visto una condanna, se non un attacco, contro la religione, o la superstizione, e le persone le cose e i tempi che s’identificarono con esse, giudicandolo, secondo le proprie rispettive dottrine, o laicamente meritorio o religiosamente pericoloso6; come altri, infine, sensibili al linguaggio pittorico, si siano arrestati allo splendore figurativo dei fotogrammi, solo in grazia di essi perdonando al Dreyer il suo disgustoso compiacersi del macabro7. A nostro giudizio, invece, in Dies lrae non c’è nulla da perdonare, bensì molto da ammirare; nessuna tesi da discutere, ma un tema umano-religioso da contemplare, essendo esso non opera di polemica ideologica, ma dramma poeticamente vissuto ed espresso; insomma: opera d’arte. Per comprenderla e gustarla appieno occorre, più che altro, rendersi disponibili al mondo ideale del suo autore; quindi, purificati da ogni altro interesse che non sia quello della visione contemplativa della bellezza, partecipare intellettualmente ed emotivamente allo stato di grazia poetica nel quale egli l’ha espresso.

Ci permettiamo, dunque, di esporre alcuni rilievi stilistici sul film, e quasi tentiamo di rifare, in fase ri-creativa, l’iter percorso dall’artista nel travaglio creativo, sperando che essi, mentre possano avviare a quello stato di grazia quanti ancora non l’hanno visto e si propongono di vederlo, facilitino, anche, a quanti l’hanno già visto una giustificazione critica, riflessa, del fascino che ne hanno subito, e quasi ne rinnovino l’ineffabile esperienza, pur rettificando la non cattolica visione di vita della quale esso risente.

Il soggetto

Nel 16238, in un villaggio della Danimarca, la vecchia Marta Herlofs, accusata di stregoneria, viene trascinata avanti a un tribunale inquisitorio. Invano ella chiede pietà al suo notaio, il pastore luterano del luogo Absalon Pederssön, e lo minaccia di un ricatto per non aver egli denunciata la madre della sua seconda moglie, Anna Pedersdotter, rea dello stesso delitto: torturata e confessa, la vecchia viene condannata ed arsa, invocando vendetta su Absalon e su Anna. Trascina, questa, la sua irrequieta giovinezza nella tetra casa canonica, sdegnando il marito, che, freddo e cadente, l’ha sacrificata, ed odiando, riodiata, la suocera Merete, gelosa ed autoritaria; perciò, quando, dopo una lunga assenza, Martin, figlio del precedente matrimonio di Absalon, fa ritorno alla casa paterna, fin dal primo incontro essa si sente attratta da lui con un desiderio che presto, ricambiato, divampa in passione. Ne sospetta la vecchia Merete, ma non Absalon, sicché, quando una sera Anna, brutalmente, gli dichiara che essa lo tradisce col figlio, e che perciò gli ha augurato centinaia di volte la morte, egli, già sofferente, non regge all’orribile rivelazione e cade a terra esanime.

Ma invano i due colpevoli si ripromettono, durante la veglia funebre, di sostenersi a vicenda nel pericolo incombente e di assicurarsi l’avvenire di felicità che li attende: la maledizione della vecchia Marta e quella di Absalon maturano precocemente frutti di morte. Terminate le esequie, la vecchia Merete si vendica del figlio accusando di stregoneria la nuora, ed Anna, vistasi vilmente abbandonata da Martin, accetta la morte sul rogo riconoscendo vera l’accusa. – Questo il soggetto di Dies lrae, desunto dal Dreyer dal dramma Anne Pedersdotter, di Wiers Jenssen.

Interessandoci, oltre che ai valori di bellezza, anche a quelli di verità storica e religiosa del dramma, dobbiamo rilevare che, si condivida o meno il gusto per l’orrido e il macabro attribuito al Dreyer, tutto quello che vi viene immaginato corrisponde appieno alla situazione storica della Danimarca del 1600. Per quanto, infatti, qua e là in Europa, voci coraggiose ne venissero da tempo inficiando i presupposti dottrinali e biasimando i metodi inquisitori fondati sulla tortura, la stregoneria e i processi contro di essa infuriavano, forse più che altrove, in Danimarca, dove erano alimentati da un’esorbitante letteratura di spettri, di streghe, di diavoli e di molti residui pagani, già vigoreggianti nelle saghe nazionali, mal estirpati da un cristianesimo tardivo e rinforzati da un secolo di ossessionante onnipresenza del Maligno, predicata da Lutero e dai suoi epigoni.

Giustamente il Dreyer vi ha visto quasi un caso limite del vittorioso imperversare del male nel mondo. Si tratta, infatti, di una delle più durevoli ed imponenti manifestazioni della miseria umana che la storia di tutti i tempi registri; conato dell’ignoranza ed impotenza dell’uomo contro le ignote potenze della natura, deviazione in magia dell’istinto religioso, o prassi rituale di una religione vinta perseguitata come demoniaca da parte di una religione vincitrice, isteria collettiva, o vendetta perpetrata alla luce del sole in nome e con gli apparati della giustizia e del culto... Tuttavia, non storico né moralista, ma artista, egli non giudica né indaga sulle cause di tanto male; anzi, pur riferendosi alla Danimarca del secolo XVII, egli lo rivive quasi come fuori del tempo e dello spazio, ne fa l’elemento di un’atmosfera cupa ed irrespirabile, in cui si dibattono i sei personaggi del dramma, in essa tormentati e per essa tormentatori. In tal maniera Dies Irae, da dramma di stregoneria, passa ad essere il dramma della lotta tra il bene ed il male nelle loro espressioni più universali ed assolute; da un parte la grazia, la speranza, la vita, l’amore, la gioia, la libertà, la giovinezza, la luce, il calore..., dall’altra il peccato, la disperazione, la morte, l’odio, il rimorso e la paura, la violenza, la vecchiaia, l’ombra e le tenebre, il freddo...; ed il dramma, oltre che dei personaggi, diventa quello dell’artista, che sbigottito li contempla come trascinati da un potere che li supera e destinati, per quanto si dibattano, a finire vittime del male9.

I personaggi

Preda del male, ma miserevole più che malvagia, è Marta Herlofs. Non ha dubbi sul suo potere di strega: manipola erbe magiche, certa della loro potenza malefica; riconosce di aver sempre aiutato la madre di Anna. Se poi nega è perché ha una paura folle della morte, anzi del dolore fisico. Perciò! braccata, fugge e si rintana; scovata, sbarra gli occhi ed urla. Minaccia ricatti, ma non procede quando sa che una denuncia, se porterebbe al rogo un’altra donna, non ne scamperebbe lei. Torturata, confessa tutto: il vero, il falso, l’assurdo, purché la tortura cessi; condannata al rogo, lo paventa talmente da non importarle più nulla dell’anima, del cielo e dell’inferno; gettata alle fiamme, muore lanciando contro Laurentius, Absalon ed Anna l’ultimo suo maleficio. Il Dreyer manifesta la più grande pietà per la sua miseria rilevandone la greve mole della persona, la canizie disfatta, il volto flaccido, rugoso, sudato e lacrimoso, il tronco deforme denudato; e manifesta la sua riprovazione per chi, senza pietà, infierisce su di essa rilevando, con le eleganti lettere gotiche degli atti notarili, che «onesti e rispettabili» erano i suoi accusatori, che, «posta a tortura, spontaneamente confessò», e che, quindi «fu bruciata in maiorem gloriam Dei».

Esemplare, non meno miserevole, di quegli accusatori è il giudice Laurentius. Anche egli non ha dubbi sul suo potere di «giustizia», e l’usa torturando, insistendo implacabile con domande mortifere, formulate in modo che le seguano soltanto le risposte più semplici e più dannate che possa dare un convenuto fiaccato dalla tortura ed avviato al rogo: sì, no; e quando le ha ottenute, si rallegra con un «Ce n’è voluto!», non perché la verità ha trionfato, ma perché la sua fatica è terminata. Tuttavia per poco, perché anche lui, già tanto sicuro («Non temo le tue minacce»), presto paventerà la morte. Subendola, non si sentirà liberato, bensì atterrato («Marta Herlofs non mi ha dimenticato: mi maledisse prima di morire...»), e, nonostante l’estremo invito alla speranza recatogli sul letto di morte «dal vero Corpo e Sangue di Gesù Cristo»10, egli muore, com’è sempre vissuto, freddo di cuore, e non l’avverte; mentre sente, invece, il freddo che gli raggela le mani, invano aggrappate a quelle di Absalon...

D’altra natura malvagia è impastata la vecchia Merete. Essa odia; e tanto quanto ama: a morte («Lo difenderò fino alla morte. Chiedo sangue per sangue»). Odio orribile, perché alberga in un cuore di donna e di madre, e le fa detestare un’altra donna solo perché amata da Absalon; ma odio intelligente: che non le fa sfuggire nulla di quanto avviene in Anna o in Martin, che possa nuocere a suo figlio, anzi glielo fa prevedere infallibilmente («Le chiavi le tengo io...», «Promettimi che non gli farai del male», «Vuoi finirla, dunque, svergognata?», «Aspetteremo tutti e tre...»); ed odio lucido, consapevole, che non trapassa nell’ingiustizia formale («Non le ho mai fatto del male!») per non addolorare suo figlio, quando invece potrebbe svelare un suo tremendo segreto; in attesa di poter denunciare apertamente la nuora, si limita a lanciare sospetti sul suo conto («Hai mai guardato gli occhi di Anna?... Bruciano, come quelli di sua madre»), a parlarle sprezzantemente, a rimbeccarla sarcasticamente; ma quando il figlio le viene ucciso, implacabile si vendica («La denuncio come strega... Chiedo vita per vita»). La sua figura massiccia, lo sguardo fermo, la bocca sempre atteggiata ad una smorfia di sprezzo autoritario, ne denunciano tutta la natura elementare e coerente.

Absalon ed Anna sono i personaggi più determinanti del dramma; quindi più complessa, variabile e profonda è tra essi, ed in essi, la lotta tra il bene ed il male, più tormentati sono i loro sentimenti e più sentita n’è la partecipazione dell’artista.

Nel vecchio pastore i drammi della coscienza religiosa si alimentano a quelli del capo di famiglia, e viceversa. Di quale amore deve egli aver amato Anna, tanto da tradire un suo dovere di stato non denunciandone la madre, tanto da dare a Merete l’unico dispiacere della sua vita, e da sacrificare, lui anziano, la giovinezza di lei, senza neanche chiederle, anzi, senza neanche darsi pensiero se lei lo amasse? Certo è che Anna è la sua letizia, ma anche il rimorso sempre presente; ed il suo amore-peccato-rimorso è tanto sterile di figli quanto fertile di altre colpe e di altri rimorsi. Solo per Anna, infatti, egli non soccorre Marta Herlofs, e così si aggrava di un peccato e di un rimorso maggiore. Egli lo avverte senza incertezza («Ho peccato, ho mentito contro Dio»), come senza incertezza glielo dice la madre: «Devi scegliere tra Dio ed Anna». Efficacemente il Dreyer ne affina la figura e ne scava il volto come di uomo roso da un cancro; egli, infatti, deve assaporare da solo il suo tormento. Non lo consolano i familiari, non lo consola il Cielo. Non Anna, che non lo degna di un sorriso e lo sfugge; non il figlio Martin, che Anna allontana da lui e che egli stesso inconsapevolmente spinge a darsi in braccio alla matrigna; non la madre, che invano ne sollecita le confidenze («Questa lotta dovrò sostenerla da solo»), quando egli, più tormentato che prima, torna dall’aver chiesto luce da Dio. Ma, intanto, i suoi peccati generano anche per lui frutti di morte. Infatti, questa sensibilmente lo fa trasalire non appena Anna ne formula il pensiero nefando, e poi lo colpisce fulminea, nella disperazione, quando e glielo manifesta.

Si direbbe che, fino alla sequenza della sua morte, Absalon sia il protagonista del dramma, ma di fatto, alla luce dell’ultima sequenza, la protagonista sembra piuttosto Anna. A lei va tutta la simpatia umana e la sbigottita commiserazione nostra, oltre che del Dreyer, il quale accumula su di essa i contrasti più drammatici. Anna, infatti, giovane, ma intristisce tra due vecchi: l’uno che l’ama di un amore sterile, l’altra che l’odia efficacemente. È bella e, si direbbe, semplice, buona. Absalon, che non la conosce, è affascinato dai suoi «occhi meravigliosi..., innocenti, puri e sereni»: e noi ancora lo siamo, anche dopo tutto il male che veniamo a conoscere di lei. Ma tutti quelli che li penetrano a fondo vi vedono bruciare la passione più cupa. Per Martin sono «profondi ed enigmatici: una fiamma vi vibra e vi tremola»; per Merete «bruciano... come quelli di sua madre»; se anche Anna li dice «innocenti, puri e sereni», è solo per sarcasmo contro il marito, perché ben sa che «bruciano della fiamma che Martin vi ha acceso» e ben ricorda il fremito di piacere omicida che l’ha tutta percorsa quando ha pensato che, forse, anch’essa, strega come sua madre, possedeva il potere d’invocare i vivi e i morti! In lei l’amore e l’odio, e tutta la serie dei valori di bene e di male toccano le punte più alte, assolute: anche più che in Merete, non foss’altro perché ribollono di tutta l’irruenza passionale di una giovinezza soffocata. Martin, vicino a lei è un trascinato: debole ed incostante. Al primo incontro con la giovane matrigna egli, ingenuo, ne ammira solo la fresca bellezza; al secondo, è ancora un ingenuo, che si commuove alle lacrime di una giovane donna; se poi la segue nel pericoloso giuoco, agli inizi lo fa «senza alcun sospetto»11; quando cede, la sua colpa è sempre amareggiata da rimorsi e da oscure previsioni. Pensa al padre oltraggiato, all’avvenire vergognoso; medita una separazione, pensa anche a morire insieme con Anna per riscattare il peccato insieme commesso; alla fine, dimenticando ogni passione e la promessa giurata sulla bara patema, timoroso ed incostante finisce con l’abbandonare Anna al suo destino ed al demonio, con l’aiuto del quale essa l’ha stregato e reso orfano. Ma Anna è tutta passione, e non conosce incertezze nel tendere al suo scopo. Se al primo incontro è soltanto donnescamente ambigua, presto dichiara la sua passione, ed allora le profferte di incontenibili desideri sono insistenti, continue, senza ritegno anche davanti alla suocera, che la rampogna, ed al marito, che non sospetta; il realismo dei suoi inviti e la trasparenza dei suoi gesti simbolici (la sorgente, l’albero sul fiume) sono senza equivoci. Ella, ad ogni incertezza di Martin oppone la certezza del suo amore presente, ed ad ogni triste presentimento di lui oppone la più assoluta certezza di una loro comune felicità futura, per assicurarsi la quale non dubita di augurare la morte al marito, e di causargliela, quando ormai la sua passione senza ritegni eguaglia il suo odio senza misura.

In Dies Irae, Anna è l’unico personaggio che raggiunga una gioia totale, assoluta. Una volta sfuggita, per opera di Martin, al chiuso della canonica, vive come ubriaca di libertà e di amore. Dimentica tutto il grigiore che la circonda, diventa leggera, corre, finalmente ride e canta, trascende a vere impertinenze: si ricordi la lettura del Cantico dei cantici, fremente dichiarazione amorosa, da lei fatta sotto gli occhi del marito, quando questi ha appena finito di chiedere a Dio la liberazione «da ogni male e pericolo», e all’occhiata insieme appassionata e maliziosa rivolta a Martin sotto gli occhi di Merete, il colpo dato all’arcolaio e lo sbattere intenzionale della porta... Vive ed arde soprattutto di un incontenibile desiderio di dare la vita, di stringere tra le braccia un figlio suo. «Abbracciami e rendimi felice» supplica ad Absalon, ed affiora in lei il primo pensiero di morte quando egli non l’accontenta; «Abbracciami e rendimi felice», invoca e ripete a Martin, e gli è riconoscente di averla soddisfatta, quando lo traguarda attraverso il telaio da ricamo mentre vi inizia, vicino ad una figura di giovane donna, il ricamo di un bambino, quando, riferendosi al trasparente passo del Cantico dei cantici che aveva letto, gli mostra un suo disegno di un melo «con un solo fiore», quando, infine, forse presentendo qualcosa di terribile e di inebriante che potrebbe essersi compiuto in lei, ella sogna ad occhi aperti un loro figlio...12

Questa sua fremente e giovanile brama di vivere finisce di colmarci di pietà per essa. Per quanto si sforzi di apparire spregiudicata fronteggiando gli scrupoli di Martin («È peccato amare?... Comunque, egli ci avrebbe perdonato!»), noi sentiamo che il peso della colpa ne lacera l’anima («Egli prega per noi perché ci vede soffrire»), e che lo stesso suo voler stringere i tempi rivela l’ansia di chi teme l’inopinato tracollo d’una felicità insperata e a caro prezzo raggiunta. Eppure, proprio e solo quel suo disperato voler vivere la sua vita la condurrà a morte, sicché di tutto il suo peccaminoso sperare non le resterà che la più chiusa disperazione, e le lagrime silenziose che, ormai, nessuno più asciugherà. Ci pare, così, che quel suo volto di pura ed ambigua bellezza, insieme chiuso ed aperto sul groviglio dei drammatici sentimenti che ne squassano il fondo dell’anima, il fascino della sua giovinezza travolta dalla sofferenza e dal male, ne facciano una delle più pietose donne, create, come l’Antigone sofoclea e la Francesca di Dante, dalle più alte fantasie poetiche. Dobbiamo esserne grati al Dreyer. Se nella Giovanna, della Passione, e nell’Inger, di Ordet, egli ci ha fatto doni ideali di eroine, di madri e di spose moralmente superiori, in Anna, di Dies Irae, egli ci ha mosso a pietà di una creatura poeticamente molto vicina alla più vulnerata umanità.

Montaggio per contrasto

È restata, in Dies Irae, appena qualche traccia della sua derivazione teatrale; per esempio, certe entrate ed uscite di comodo dei personaggi. Il Dreyer se n’è svincolato affidandosi, secondo il suo solito, unicamente ai mezzi espressivi cinematografici13, tra i quali, già in fase di sceneggiatura, il montaggio del racconto. Da capo a fondo, nei due grandi blocchi che lo strutturano, egli adotta il montaggio alternato delle sequenze e delle inquadrature; con ciò moltiplica ed esalta, variandone gli incontri, le drammatiche situazioni dei pochi personaggi, e traduce narrativamente il loro vicendevole torturarsi e l’alternarsi dei valori di bene e di male secondo rapporti di causa ed effetto quasi regolati da una fatalità inesorabile.

Nella prima parte, le scene che avviano Marta alla morte si alternano con quelle che avviano Anna all’amore di Martin, e le due serie confluiscono nella maledizione lanciata dalla morente contro Anna: – «Soffrirà come soffro io. Se finirò sul rogo, dovrete bruciare anche lei», – che determina il suo tragico avvenire; nella seconda parte, gli sviluppi della passione amorosa dei due giovani si alternano con altre due progressioni di morte, causate anch’esse dalla maledizione di Marta: quella del giudice Laurentius e quella, preparata, presentita e sofferta da Absalon, causa a sua volta della morte morale e fisica di Anna. Ma tra le maglie di questo montaggio maggiore si intersecano quelle di un altro minuto montaggio alternato, di corrispondenze testuali, di situazioni e di ambienti, ora per contrasto ora per analogia. Abbiamo già rilevato quello degli «occhi innocenti e puri» e l’«Abbracciami e rendimi felice!» di Anna, prima detti rispetto al marito e poi rispetto al figliastro; potremmo ricordare l’equivoco interesse del pastore per la salvezza dell’anima di Marta immediatamente seguito da uno suo più verace: «Ho peccato contro Dio!»; il bagliore delle fiamme che accompagnano la morte di quella e l’oscurità dalla quale il vivo che l’ha uccisa prega invano di essere liberato; il passaggio per stacco dal primo peccare dei due giovani al «liberaci dal male e da ogni pericolo» pregato dal loro padre e marito; il suo desiderare di sentirsi «giovane tra i giovani» ed il suo dovere, invece, accorrere, vecchio, presso il morente Laurentius; le mani fredde di questi strette tra quelle di Absalon, e le mani calde di Anna strette tra quelle di Martin; l’alternarsi di esterni mobili, in cui i due vivono la loro ebbrezza, e gli interni immobili dove Absalon attende il tradimento e Laurentius la morte; l’angoscioso «Martin! Martin!» urlato dal padre tradito e morente, e l’accorato «Martin! Martin!» invocato e sussurrato da Anna che teme di essere tradita; il suo «Ho freddo, riscaldami, Martin!», seguito poco dopo da un inorridito «Vuoi mandarmi al rogo, Martin!»; il suo sognare una maternità felice: «Vedo giorni splendidi venire... Saranno giorni di felicità», immediatamente seguito da uno sfilare di bambini, sì, ma funebre, a preannunciare la catastrofe dell’ultima sequenza; il «Ti vedo attraverso le lacrime», radiosamente confidato al giovane che gliele asciuga, quando la loro passione si accende, e il «Ti vedo attraverso le lacrime, ma nessuno, ora, le asciuga», con cui il dramma si chiude...14.

Ma è tutto un alternarsi ed un richiamarsi letterario di sentimenti, esaltato dal corrispondente montaggio per contrasto figurativo e d’illummazione.

Tra luci e tenebre

Figurativamente i personaggi di Dies lrae sembrano scendere dalle tele dei grandi ritrattisti olandesi del primo ’600, tempo in cui si svolge il dramma: van Dyck, Rembrandt, soprattutto Franz Hals. Singole o in gruppo, le figure risaltano sui fondi neutri, rilevate da violenti contrasti di luce; spiccano sui robboni e sui mantelli neri i bianchi manichini e i candidi collari e, da questi, i volti: realistici, eppur carichi di mistero, immoti, ma densi di stupenda vitalità. Evidentemente il Dreyer le evoca anche per scrupolo di verità storica, però soprattutto perché in se stesse esprimono visivamente i contrasti interiori dei suoi personaggi e la greve atmosfera in cui essi trascinano la loro esistenza.

Mai, tuttavia, egli scade nel pittorico fine a se stesso. Basterebbe osservare le variazioni espressive alle quali egli piega quelle sue splendide figurazioni nel fluire del racconto drammatico. La strega Marta, che nel dramma rappresenta il male operante, è vestita sempre e tutta di scuro. La vecchia Merete, durante tutto il dramma, ha di bianco soltanto un esile colletto; ma è tutta in chiaro quando, solo madre sollecita, accorre presso il figlio morente, ed è tutta avvolta nel nero quando, presso la sua bara, solo accusatrice, si vendica. Absalon è sempre tutto in nero, tranne durante il processo inquisitorio, quando la sua testa scavata spicca, come quella di un decapitato o di un appeso, sulla larga e bianca gorgiera a cannoncini. Anna si presenta variata in bianco (il colletto e il grembiule) e in nero (il corpetto e la veste): una cuffia nera orlata di bianco ne incornicia il viso enimmatico; ma i bianchi, con in più quelli dei manichini, si allargano e si illegiadriscono di trine durante la sua parentesi di felicità; infine, è tutta in nero presso la bara nella veglia funebre, poi, della sua persona scura, traspare appena un’ombreggiatura dal bianco madreperlaceo che l’avvolge tutta, quando, di nuovo presso la bara, ella consuma, rinunciando a vivere, la sua catastrofe.

A siffatto fluttuare di bianchi e di neri sui personaggi si accompagna il fluido variare ed il contrastato alternarsi delle luci e delle ombre scenografiche intorno ad essi. Cinque volte, per stacco, ai cupi interni delle case di Absalon e di Laurentius seguono gli esterni dell’aperta campagna e del fiume e, nel contrasto, la mite luce dell’estate danese quasi abbaglia; ma le ultime due volte sulla campagna non si apre più il cielo libero: lo oscura una fitta nebbia, che il vento solleva, torpida e grigia, dalla terra, a ricordare ai due amanti il fumo che, con l’efficace sua maledizione, si alzava dal rogo di Marta. Durante la tortura, Anna si muove sollecita tra le arcate della chiesa su di una progressione di bianchi e di grigi, per arrestarsi alla confluenza di neri e di bianchi delimitati dai battenti di una porta semiaperta, tra i quali essa sosta a lungo: curiosa, timorosa, ambigua... Nella terz’ultima sequenza il volto di Anna è in luce quand’essa dissuade Absalon dal pensare alla morte; ma affonda nell’ombra quando, alla risposta: «So che la mia morte è decisa», ribatte: «Chi potrebbe augurarsi la tua morte?»; ne riemerge quando, all’insistere di Absalon: «Tu non desideri mai che io sia morto?», risponde: «Io? E perché lo dovrei?»; ma balza in piena luce allorché, contro il vecchio che riconosce di averla sacrificata, col furore che già fu di Marta, e quasi sua portavoce, impreca: «Sì, l’ho desiderata centinaia di volte... Voglio la tua morte!». Invece, non c’è variare di ombre e di luci, sono abolite quasi del tutto anche le ombre portate dei personaggi bianco-neri sui fondi neutri o generici, quando il male e il bene si coagulano, per così dire, in essi in tensioni statiche: come nei gruppi dei giudici raccolti nella camera di tortura o sul palco dell’esecuzione, e nell’inquadratura finale, ove la tragedia si conclude.

Dalla «Passione di Giovanna d’Arco» a «Ordet»

Alla luce di questi elementi stilistici, e di altri che si potrebbero rilevare15, ci pare indubbio che il tema poetico espresso dal Dreyer in Dies lrae sia l’angosciato smarrimento dell’uomo e dell’artista avanti all’urto vittorioso del male nell’esistenza umana, e perciò che questo film segni un preciso stadio nell’evoluzione morale-artistica del regista tra i suoi due altri capolavori.

Con la Passione di Giovanna d’Arco (1929), che l’ha preceduto di quattordici anni, Dies lrae ha in comune molti elementi, quali l’accusa, il processo, la condanna e la morte sul rogo di una «strega», i particolari scenografici di fondi neutri e di strumenti di tortura, l’inquadratura di richiamo alla serena libertà della campagna; se ne differenzia, invece, oltre che per l’uso di più ricchi mezzi espressivi, per la tematica: più religiosa, come abbiamo detto, ma meno rasserenante. Nella Passione, infatti, il male ed il bene morale sono nettamente distinti; dalla parte dei persecutori c’è la malizia, l’ingiustizia, la violenza, il falso, il rimorso; dalla parte della vittima c’è la bontà, l’innocenza, la dolcezza, la verità e la certezza delle «voci» e nella fede teologica: questa, se per un istante la paura della morte sembra fiaccare la Pulzella, subito torna a confortarla. Apparentemente la malvagità, sostenuta dalla violenza, trionfa; ma, in realtà trionfa l’innocenza inerme. La morte, che per i persecutori è una sconfitta, per Giovanna è liberazione. Lo dice liricamente il volo di colombe che l’accompagna leggero verso il ciclo. Sicché, per i cattolici, che la venerano santa, la sua morte è la seconda e più vera nascita alla Vita, per gli altri essa segna almeno la vittoria della più sacra libertà dello spirito contro ogni violenza fisica. Il tono generale della fotografia, bianco-grigio, s’accorda bene col fondamentale ottimismo del tema. In Dies Irae, invece, come abbiamo visto, il male: filosofico e teologico, fisico e morale, invade tutti i personaggi, suoi agenti e sue vittime; perciò tutti vi vivono nel rimorso di quello fatto e nell’incubo di quello avvenire; e tutti si dànno l’un l’altro la morte. Questa, poi, è tutt’altro che gioiosa liberazione. Il Dreyer fa affermare, sì, ad Absalon che «Con la morte comincia la vita», ma nessuno dei «condannati a morte» di Dies lrae n’è convinto. Lo stesso Absalon la prevede atterrito, Marta la subisce disperata, Anna le si consegna distrutta, Laurentius la patisce come una vendetta. Del resto, vendetta vi è la morte per tutti, ma più di tutti per Anna, che più degli altri vi «muore». Quando, infatti, Merete si vendica di lei, ella, fissando lo sguardo come quando mirava atterrita il supplizio di Marta, ne ricorda l’efficace maledizione, ed intanto, rivolto ad Absalon, riconosce amaramente che anche lui, con la sua, l’ha raggiunta: «Hai la tua vendetta, ora!». Non per nulla Martin le aveva assicurato: «Egli è di fronte a Dio, ora, per accusarci!».

Almeno la morte, in qualunque modo subìta, arrecasse qualche risposta all’ansia di chi cerca! Ma neanche questo avviene; onde il senso di sconforto lasciato dal film. Si noti, a questo proposito, oltre al predominante tono scuro della fotografia, l’uso quanto mai significativo che il Dreyer vi fa dei movimenti di macchina. Rari, infatti, vi sono quelli verticali; di questi, due che sono in funzione soggettiva degli amanti, raggiunta appena l’altezza degli alberi tornano pesantemente a terra; gli altri due scoprono prima l’orribile rizzarsi della scala, dall’alto della quale la strega viene fatta stramazzare sulle fascine in fiamme, e subito dopo, una facciata di chiesa fluttuante tra la vampa fumosa che sale da esse. Quasi sentisse il cielo chiuso ad ogni ricerca, egli preferisce, lentissime, le panoramiche orizzontali, a livello degli uomini che soffrono, quasi abbandonati a se stessi. Qualche volta pendolari, o quasi interamente circolari, spesso indugiano su cose e persone ingrate per terminare in scoperte più ingrate. Così una lunga panoramica si arresta sul misterioso volto di Anna al confluire delle luci e delle ombre della porta socchiusa; in un’altra l’obiettivo scorre lungo il mirabile gruppo dei giudici e pare che voglia scoprire se al loro stupefacente ordine figurativo corrisponda un qualunque ordine reale di giustizia e di carità, ma, scoperto il gesto significativo del sordo che porta la mano all’orecchio, fa il cammino a ritroso e si arresta sulla strega loro vittima spaurita; in un’altra lo sguardo ansioso di Absalon scorre lentamente lungo le pareti della stanza desolatamente deserta di Laurentius, per scoprire, finalmente, in un angolo remoto, il letto ove il morente l’attende... Solo nell’ultima inquadratura le panoramiche, sempre orizzontali, sciabolano rapide da Anna a Merete, da Merete ad Anna, seguendo le battute del loro dialogo concitato. Vibrano esse di tutta l’ansia di chi spera di poter finalmente uscire da un’angosciosa attesa. Ma all’ansia segue solo la certezza che tutto quaggiù resta, se non assurdo, almeno confuso ed incomprensibile.

Martin si stacca da Anna, che invano tende il braccio a trattenerlo, e si affianca a Merete. Una candela accesa, vicino ad Anna, con un rilievo quasi di personaggio, ne illumina tutto il bianco vaporoso che la riveste, ed insieme la separa dalla massa dei neri, formata dalla bara, da Martin, da Merete e dal pastore: tutti suoi accusatori. Con la sua luce ferma sembra promettere, anzi di aver già raggiunto, la chiarificazione tra i valori di bene e i valori di male, tra i valori di vita e i valori di morte. Ma ecco che Anna si muove e, biancovestita, come innocente, come sposa preparata all’amore, come giovane nella primavera della vita, si appressa alla bara, vi si appoggia e si consegna: preda del peccato e del maligno, dell’odio e della morte. Allora, cessato qualsiasi movimento di ricerca, l’obiettivo ne fissa definitivamente il volto bello ma disperato, luminoso ma già incorniciato di ombra, la bocca tremante, gli occhi che lacrimano senza conforto. All’oppressa dal male non resta che la rinuncia passiva. A questo punto, se siamo artisticamente commossi di quanto ci è stato raccontato, siamo anche amareggiati da una catastrofe che non ha chiarito nulla. Quando le vendette sono compiute, ben cinque giuramenti sono stati pronunciati sulla bara di Absalon per garanzia di verità, e non uno di essi risulta attendibile: non quello di Merete, indiziale e malevolo; non i due di Martin, debole ed incostante; né i due di Anna, che si contraddicono in termini: «Non sono io la causa della sua morte» - «lo giuro: t’ho ucciso».

Questo smarrimento sfiduciato si risolve solo parzialmente nell’appello che implicitamente il Dreyer fa al Giudice divino, aprendo intramezzando e chiudendo Dies Irae, visivamente e sonoramente, mediante le strofe dell’omonima sequenza liturgica. Nell’angoscia prodotta dalla sconfitta e dall’occupazione militare, la sua fede, alimentata dall’arido humus luterano, è fiacca, e quasi inesistente è la speranza cristiana. Sì, quelle strofe, provenienti dalla liturgia cattolica, contengono fiduciose invocazioni all’lustus ludex e rasserenanti abbandoni al Fons pietatis; tuttavia, martellate come sono, anche visivamente dal minaccioso battere della bacchetta sul liber scriptus, rilevano più l’orrore spirante dalla prima parte della sequenza che la fiducia nel Redentore vibrante nella seconda; sì, le voci bianche dei bambini che le cantano – felice trasposizione sonora del contrasto visivo bianco-nero, – e le candele accese che, da essi portate, scandiscono nello spazio il loro canto, possono anche suggerire un gioioso senso di speranza e di fiducia nella vita, ma più amareggiano l’animo dello spettatore mostrando l’incanto dell’infanzia piegata, e quasi profanata, in un rito di morte; sì, per tre volte l’immagine di Gesù crocifisso appare significativamente nel film, e quella della croce lo chiude; ma è un Gesù, in nome del quale degli uomini torturano altri uomini, che lascia nell’oscurità Absalon assetato di luce, e che, Lui stesso fatto luce ed ombra, assiste impotente allo scatenarsi del male intorno alla bara del pastore; ed è una croce senza Gesù, che potrebbe significare anche che «Tutto è grazia», come quella che chiude il capolavoro del Bresson, ma più probabilmente significa che l’esistenza umana è tutta peccato, e perciò tutta sofferenza e morte. Siamo, insomma, circa il problema del peccato e del dolore nel mondo e rispetto a Dio, lontani anche dalla fede e dalla speranza, che pur sostentavano, all’imperfetta luce dell’Antico Testamento, il giusto Giobbe, prostrato dal dolore ed assalito dai suoi amici increduli; lontanissimi dal fondamentale ottimismo della Buona Novella, portataci da Colui che, in un mondo totus in maligno positus, è la Luce illuminante, la Verità liberante, la Vita vivificante; lontanissimi dalla visione cattolica drammaticamente espressa in un’altra sequenza, la pasquale Victimae Paschali, di secoli anteriore a quella dei defunti. In essa si configura sì la lotta tra i valori di morte e i valori di vita: Mors et vita duello conflixere mirando, ma non un dubbio s’insinua circa l’esito felicissimo di essa. Per Cristo, il peccato su questo mondo è già sconfitto e riparato: Christus innocens Patri reconciliavit peccatores, e, per Cristo, sulla morte già trionfa la vita: Dux vitae, mortuus, regnai vivus16. Bisogna aspettare dodici anni per avere dal Dreyer un altro capolavoro che si avvicini notevolmente a questa beatificante nostra visione cattolica: Ordet (1955). In esso la morte di Inger non sarà più una sconfitta, come quella di Anna, né solo un inno alla più sacra libertà umana, come quella di Giovanna, ma un atto di fede nella risurrezione, per opera della presenza operante di Gesù Cristo nel mondo odierno.

 

1 Non vorremmo essere fraintesi. Plaudiamo alla Globe quando divulga film belli e buoni, non quando si piega a divulgare anche film che belli e buoni non sono, per esempio Il sangue del vampiro o, peggio, Les amants; né la seguiamo quando risponde che sono i Vampiri che mandano avanti le Arpe birmane e che la distribuzione di Les amants è unicamente legata al premio che questo film ha ricevuto a Venezia. Per il primo ragionamento rispondiamo che, in buona morale, non sunt facienda mala ut veniant bona, vale a dire che il fine buono non giustifica i mezzi cattivi; per il secondo rispondiamo che, sempre sul terreno della buona morale, il film a Venezia non doveva esser proiettato, né tanto meno premiato, ma che, in ogni modo, la grave ferita inferta alla morale sulla Laguna non è un motivo per inferirne una più grave in tutta l’Italia.

2 Cfr Il mondo religioso di Dreyer, in Civ. Catt. 1957, I, 49-63.

3 Cfr La fede taumaturgica dell’ultimo Dreyer, in Civ. Catt. 1956, II, 373-383.

4 Non conobbe il padre, né la madre, morta poco dopo averlo dato alla luce; passò l’infanzia solitaria presso una famiglia affetta dal più chiuso protestantesimo; sposò molto giovane, a ventidue anni, una ragazza di ventitre, ed ebbe un solo figlio (cfr A. SOLMI, Tre maestri del cinema, 1956, pp. 12-16).

5 Sembra negarlo, perentoriamente, F. DI GIAMMATTEO (Profili di registi: Dreyer, in Comunità, 1956, giugno-luglio, p. 77 u.); invece lo afferma V. PANDOLFI, scrivendo: «Ecco Dies Irae di Dreyer farsi vessillo di ribellione contro l’intolleranza e il fanatismo dei nazisti» (Il cinema nella storia, 1957, p. 19). Della nostra tesi P. ROTHA (The Film till Now, 1951, p. 604-605).

6 «Uno spirito essenzialmente anticlericale costituisce il sottinteso di Dies Irae», così C. CASTELLO nel 1948 (Parabola creativa di Carl Th. Dreye,, in Bianco e Nero, n. 7, p. 31); pare che lo segua F. DI GIAMMATTEO, secondo il quale il film «condanna chi degrada la fede al rango di fanatismo» (art. cit., p. 80). Per V. PAN DOLPI è kierkegaardiano, ma in senso antireligioso (Saga e aurora boreale, in Cinema, 15 agosto 1950, riportato in Il cinema nella storia, cit. p. 88). Anche per M. MORANDINI, il Dreyer è anticlericale, ma pare che egli intenda per “clericalismo” una sua concezione più anticlericale che cattolica (Schermi, gennaio 1959, p. 14).

7 Cosl per G. SADOUL, Dies Jrae è «dramma di stregoneria medioevale, un racconto piuttosto lento e ridondante... che fu però sostenuto dal raro senso plastico del regista» (Storia del cinema, 195 I, p. 467); per P. ROTHA (op. cit.) il film «difetta anche di qualunque bellezza pittorica»!!! Per G. MOSCA il film «nel complesso è più tecnica che poesia, più bravura che arte... Molto lontano dal capolavoro (Il corriere d’informazione, 16 ottobre 1958); per U. BARBARO il film è semplicemente «stuipido» (Il cinema e l’uomo moderno, 1950, p. 24).

8 Questa almeno è la data che si legge in calce alla pergamena di condanna di Marta: 14 giugno 1623. Tuttavia, salvo sviste, su di un bancone che appare in un’inquadratura del film, ci pare di aver vista intagliata la data 1646.

9 Sotto questo tema più generale comprendiamo molti dei temi particolari vistivi dall’uno o l’altro critico; per esempio quello di BALDINI, secondo il quale «Dreyer vi pronuncia una parola di libertà e di condanna verso ogni fanatismo, ogni intolleranza» (Cinema, 15 gennaio 1949, p. 180); secondo LO DUCA, il Dreyer vi ha voluto chiarire quel mistero che potrebbe chiamarsi «la fede magica degli uomini» (ivi, 15 maggio 1949, p. 422). Più recentemente A. COVI ha indicato il tema nell’angoscioso dilemma in cui si dibatte la miope giustizia umana di fronte agli accusati di presunta stregoneria»; tuttavia lo stesso poi riconosce che «l’interpretazione tematica n’è realmente difficile e complessa» (Letture, febbraio 1959, p. 138). Una tematica più vicina ad Ordet viene proposta da A. PESCE: Itinerario spirituale di Dreyer, in Humanitas, febbraio 1959, p. 146 ss., ed anche: Dies Jrae, in Rivista del Cinematografo, febbraio 1959, n. 2, p. 62 ss.

10 Non sappiamo per quale ragione questa inquadratura sia stata soppressa nel doppiato italiano. – Le battute del dialogo da noi riportate sono prese dalla traduzione italiana pubblicata da Schermi, gennaio 1959, p. 15 ss., ma con qualche variante, da noi introdotta, per amore di maggiore fedeltà al testo francese.

11 DANTE, Infemo, V, 129. – La pietà che, pur riconoscendosi colpevole, nella veemenza della sua passione infelice, Anna chiede, richiama più volte quella della Francesca di Dante: «Io ti amo: questo è il mio delitto!». «lo ti amo tu mi ami. Abbiamo peccato insieme, insieme saremo nella disgrazia», «Siamo così legati che nessuno potrebbe scioglierci!».

12 «E vivremo in una casa sul mare. Mi desterei al mattino, accanto a te. Ti desterei con un bacio e resteremo così a lungo. E nostro figlio ci chiamerebbe dalla culla. Lo prenderei tra le braccia. E come io bevo la vita da te, egli la prenderà dal mio seno. La tenerezza che tu mi hai data, io la darei a lui. E canterei la nostra canzone per nostro figlio. Non è bello pensarlo?». Perciò avanziamo l’idea che questo particolare non sia estraneo, anzi sia rilevante, nella disperata scelta del rogo che Anna farà, quando si vedrà abbandonata da Martin.

13 Nel 1948 G. C. CASTELLO rilevava nel film un troppo esteso impiego del dialogo (art. cit., p. 32); più recentemente rettificava: «Le lievi riserve allora formulate sono da gran tempo del tutto cadute. Dies Irae mi pare... il suo capolavoro, una delle opere miliari nella storia del cinema» (Filmcritica, 1956, n. 60, p. 187).

14 Molto significativo è il parallelo-contrasto tra i versi di amore laico letti da Absalon, persona consacrata: «Una giovane era in un orto – E un giovane vi entrava; - Essa si stirava, si alzava - E discendeva nelle sue braccia...» e i versi di amore sacro letti laicamente da Anna a Martin: «Tu sei bella, perché sei cara alla mia anima - Come un melo tra gli alberi del bosco. - Voglio sedermi alla tua ombra» (Cant. 2, 3).

15 Per esempio la quasi mancanza dei primi piani, l’uso del sonoro (e soprattutto del silenzio...).

16 Fondamentalmente concordano P. ROTHA, secondo il quale «Manca qui ogni calore di speranza; vi domina il tema del male, e questo finisce col trionfare... Film crudele e pessimo» (loc. cit.), e N. M. LUGARO, il quale accetta esplicitamente la nostra opinione (L’Italia, 16 ottobre 1958). Sono per la tesi dell’ambiguità il marxista CASIRAGHI (l’Unità, 16 ottobre 1958) e i due cattolici H. AGEL - A. AYFFRE (Le cinéma et le sacré, 1954, p. 26 ss.). – La complessità, se non l’ambiguità, del tema spiega ad abundantiam la qualifica del C.C.C, che l’ha giudicato: «Adulti con riserva».

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151