NOTE
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* Il film Roma – regista FEDERICO FELLINI, soggetto e sceneggiatura dello stesso e di BERNARDINO ZAPPON scenografia e costumi di DANILO DONATI, direttore della fotografia GIUSEPPE ROTUNNO, musiche di NINO ROTA, di co-produzione italo-francese – è uscito in Italia nell’aprile 1972. Su di esso, a cura dello stesso BERNARDINO ZAPPONI, è il volume Roma, di Federico Fellini (Bologna, Cappelli, 1972, 16, L. 3.800), che ne reca la sceneggiatura letteraria, tenuta in mano dal regista durante le riprese, e la sceneggiatura desunta dal film montato.

1 Salvo sviste, se ne contano almeno otto: quella dell’avvocato e dei giovani a Piazza di Siena, quella dell’ingegnere in decauville nella metropolitana, quella del commissario di polizia alla “Festa de noantri”, e le quattro con gli attori di cinema nella stessa “Festa”.

2 Questi stilemi sono portati all’estremo, oltre che nella sequenza del Raccordo Anulare (ove la tregenda e creata dall’accumulo di pullman-carri armati-incidente dei vitelli e incendio-pioggia-fumoni-scioperanti-autogru-cameracar, ecc.) e nella vecchia Stazione Termini (il cui squallore siamo ancora in molti a ricordare), soprattutto nelle due interminabili sequenze del casino, nelle due pletoriche mangiate stradaiole e nel caricaturale assortimento umano dell’appartamento borghese, mutuato dalle plebee vignette di Attalo sul Marc’Aurelio.

3 Esemplare anticipo figurativo è la diapositiva dello “scandaloso” posteriore femminile proiettata per sbaglio dal prete ai convittori, che anticipa la battuta del “reduce” da Roma nel caffe di provincia e la realtà visiva del balletto finale del Barafonda. Sequenze in parallelo-opposizione sono i due arrivi, di ieri e di oggi, a Roma; quella del teatrino e cinema di provincia, e quella del romano Barafonda; il défilé del casino e quello ecclesiastico...

4 Le rare volte che egli si è avventurato in soggetti non autobiografici, o – provvisto di una cultura psicanalitica da rotocalco – ha finito col duplicarsi in una improbabile Giulietta degli spiriti, o – del tutto estraneo al carico culturale della Sàtura di Petronio, arbiter elegantiae – è scaduto nell’onirico-pirotecnico autobiografico Fellini-Satyricon (cfr Pasolini-Porcile e Fellini-Satyricon, in Civ. Catt. 1969 IV 421 ss.).

5 Recentemente ha confessato: “Se mi pongono dei problemi di ordine sociale non posso che rimandare ai miei film, alle cose che ho fato. Non posso fare delle diagnosi sui miei film. lo non sono capace di dare una dimensione politica alle cose, mi sembra un punto di vista riduttivo. La ricerca delle cause, dei processi, delle conseguenze, degli sviluppi mi annoia. lo obbedisco sempre ad un punto di vista infantile, adolescenziale, ad una visione delle cose ingenua, maliziosa, sacrilega, stupefatta: le mie cose più felici sono quelle che ho fatto senza consapevolezza... Se le cose che faccio hanno un senso, il senso è quello di mostrare le cose stesse. Non mi è dato più di questo”.; ed ancora: “La nostra amicizia con Bergman è un po’ infantile, come di due tali che si siano incontrati nello stesso manicomio. È noto l’incidente di qualche tempo fa, quando dovevamo fare un film insieme. Era un’impresa impossibile, perché non si può mettere due bambini nella stessa stanza dei giocattoli: con la sua gelosia vagamente patologica per le proprie cose, Bergman voleva vedere il mio giocattolo e non mostrarmi il suo. Il rapporto, insomma, non era disinvolto. C’era fra noi il dato comune del gioco fantastico, eppure ci era impossibile comunicare veramente” (C. COSTANTINI, in Il Messaggero, 5 marzo 1972; L. AUTERA, in Corriere della Sera, 12 marzo 1972).

6 Ecco il dialogo integrale: “I STUDENTE: Volevamo parlare con lei, se è possibile domandarle se, in questo film, il ritratto che lei ha intenzione di fare di Roma, avrà un punto di vista obiettivo, riferito ai problemi drammatici eternamente irrisolti della società attuale... / II STUDENTE: Naturalmente non ci riferiamo soltanto ai problemi della scuola... / I STUDENTE: ... li mondo del lavoro, per esempio, con... con i problemi delle fabbriche, delle borgate... / I STUDENTESSA: ... Non vorremmo che venisse fuori la solita Roma sciatta e pacioccona, disordinata e materna... / FELLINI (ridendo): ...Sì, ho capito, ma... / II STUDENTESSA: ...Cioè la solita prospettiva qualunquistica... / I STUDENTE: ... perché Roma non è solo così... / FELLINI: Voglio dire, ragazzi, che ciascuno racconta quello che sa...” (Roma, cit., 271-272).

7 Confessa ancora Fellini (Corriere della sera, cit.): ..Milano, per me, non è molto di piu della facciata del Duomo come si vede nelle cartoline, e della Galleria con il Savini. Poi ricordo certi misteri di strade, portoni e atrii con una quiete un po’ cimiteriale; infine la periferia un po’ paurosa, con le sue balere e i suoi caffé della malavita”.

8 Roma, cit., 34 e 43.

9 Si direbbe che il film, nei suoi nove episodi, sviluppi la parata plebea, stile Attalo del Marc’Aurelio, della sequenza “appartamento-pensione’. Un lungo budello dà su nove camere, dove, guidati da una servotta unta vogliosa e vociante, incontriamo: 1) “signorino” tonto, bruciato dal sole; 2) cuoco cinese puzzolente; 3) ragazzini defecanti e strillanti; 4) nonna nana; 5) vecchio attore-trombone; 6) brunacciona discinta; 7) mangiatore solitario con gatto; 8) declamante sosia del Duce; 9) donna-balena “con l’infiammazione all’ovaie”.

10 Avrebbe avuto un illustre predecessore e modello nel Veggente dell’Apocalisse, che probabilmente si riferiva a Roma descrivendo (Capp. 17 e I8) la rovina della “donna seduta sopra una bestia [...], piena di nomi di bestemmia [...], sulla cui fronte era scritto [...]: Babilonia la grande, la madre delle fornicazioni e delle abbominazioni della terra”.

11 Si pensi, ad esempio, a quanto il suo modo di fare il cinema può avere inciso sul fenomeno-piaga dei paparazzi e su alcuni aspetti più avvilenti dell’ambiente cinematografico romano; al baccano notturno con cui l’infernale carosello motociclistico ha gratificato la cittadinanza romana; e soprattutto al nessuno scrupolo col quale Fellini – e non solo lui – piega attori e non attori a prestazioni spesso umilianti – povere donne oscenamente squadernate nel casino e relative “inchieste”, mangiate imposte al comparsame –; e ai raggiri per ottenere quel ch’egli vuole. Scrive ancora Zapponi: “Federico è curioso [...] e dovunque sa adattare la conversazione all’ambiente e sedurre chi gli interessa: tranne in certi casi. Allora, ricorre a mezzi estremi: invia certi suoi scagnozzi, dalle facce patibolari, a supplicare con finte lacrime la persona che dovrebbe concedere il permesso di girare in un museo o in una villa proibita: ’Se lei un me concede er permesso, Fellini me caccia via... Io ciò cinque figli... Lei non lo conosce, Fellini; quello non scherza! Me facci la carità: me dia er permesso! Pensi ai cinque figli miei!’ E la persona, inorridita e pietosa, generalmente concede” (Roma cit., 18-19; ed anche 27 ss., 40, 48, 52).

12 L’unico che si saIvi è il giovane Lando, il provinciale inurbato in cui Fellini rivede se stesso, narcisisticamente ingentilito, innocente e bene educato tra i plebei. È il solito solipsismo che nei film precedenti lo portava a vedere con occhio benevolmente trasfigurato tutto quanto riguardasse la sua famiglia e la sua infanzia.

13 Dalla sceneggiatura: “VIDAL: Sempre più il mondo si avvicina alla fine perché troppo popolato... troppe macchine! ... E quale posto migliore di questa città, morta tante volte e tante volte rinata... Quale posto più tranquillo, per aspettare la fine da inquinamento, sovrappopolazione... Il posto ideale per vedere se tutto finisce o no!”.
“Un oste si avvicina ad una tavolata dove una biondona sta protestando. BIONDONA: Checco! Ma qua c’è una puzza! Proprio il tavolo vicino al tombino ce dovevi dà stasera? / OSTE: [...] Questa è una puzza storica, a biondona! È l’odore dei secoli! " (Roma, cit., 362 e 357).

14 Ho ampiamente discusso questo argomento in Civ. Catt. 1960 III 69 ss.

15 Così, M. ARGENTIERI (in Rinascita, 24 marzo) parla di un suo “cattolicesimo in crisi”; A. TROMBADORI (in Giorni, 29 marzo) scrive di “impronta fortemente cattolica reazionaria della sua più giovanile educazione e formazione”; S. ZAMBETTl (in Sette giorni, 2 aprile) rileva “le ossessioni dell’educazione cattolica”; per L. CANALI (Roma, cit., 81 ss.) “Fellini è un cattolico e un borghese che lotta disperatamente contro i tabù dell’educazione cattolica e borghese: Cristo riesce a far scaturire lampi di pietà e di solidarietà nel suo cattolicesimo incupito da vani esorcismi, Jung e Husserl sovrappongono la sospensione del surer-io e del giudizio al concetto cattolico della assoluzione, senza riuscire a sostituire l’archetipo della Grande Madre alla Santa Romana Chiesa. Marx mette definitivamente in crisi la sua ’fede’, nella borghesia, ma facendola arroccare sulle più alte e aristocratiche stratificazioni sociali guardate con una sorta di rimpianto senza illusioni”.

16 GERALD MORIN, svizzero, trentenne, ancora non sacerdote, il quale – segno dei tempi – ha assistito a tutte le riprese del film. Di lui così Zapponi (Roma, cit., 33): “Gran barba, gesuita. Ma come tutti i preti giovani e un po’ ribelli [...] veste in borghese ed è spregiudicato al massimo [...] Vuol fare il regista [...]. È molto simpatico e vien voglia di chiacchierarci [...] Dice: ’Oh, Fellini è cattolico [...] Diciamo che è cristiano [...] Però Buñuel è cattolico’”; e Zapponi commenta: “Mi sembra che i preti di oggi vedono tutti cattolici, perché sono loro a non esserlo più”.
Il Morin compare, nel film, alla “Festa de noantri”, e dice una battuta. Dalla sceneggiatura (p. 356): “In una saletta interna del locale, una lunga tavolata di Gesuiti. Il bicchiere in mano, un giovane gesuita dalla gran barba invita i confratelli a brindare con queste parole: ’Ce Restaurant est l’endroit ideai pour féter le succès de nos sessions, maii, ce n’est certes pas le lieu opportun pour parler de revolution’. Tutti applaudono e brindano”.
L’esegesi del Morin qui riportata è tratta da L’autopsia di un eterno spettacolo, da lui pubblicata in Roma, cit., 87 ss. Dello stesso cfr ROMA, ou La descente aux Enfers de Fellini, in Choisir, apr. 1972, 28 ss.

17 Concorda la massima parte dei critici cattolici. Se ciò non bastasse, molto illuminante è quanto, sulla genesi del film, riporta Zapponi nel cit. Roma, 44 e 83.

18 Un esempio del recente pensiero “cattolico” di Fellini è nella citata intervista a C. Costantini: “L’italiano, per l’influenza della Chiesa, e rimasto bambino, ed e fra tutti quello che si conosce di meno, proietta sulla donna un’immensa oscurità [...]. È il matrimonio che bisogna abolire. La legge dovrebbe dire testualmente: ’Non sposatevi’. – il matrimonio dovrebbe essere rinnovato ogni anno, come la patente [...]. La Psicanalisi bisognerebbe insegnarla nelle scuole, a cominciare dall’asilo [...]. Anche gli uomini politici dovrebbero giovarsene. L’italiano è molto ignorante [...]. La Chiesa cattolica ha mantenuto da noi una specie di notte protratta oltre ogni possibile attualità. Una scienza destinata a far conoscere l’uomo a se stesso è indispensabile in una società vissuta nell’ignoranza e nel conformismo”.

19 Un poeta del sec. IX, che realisticamente cantava:
Non si te Petri meritum Paulique foveret
Tempore iam longo, Roma, misella fores.
Ovviamente, soprattutto per noi cattolici e romani, occorre unire all’ammirazione un efficace esame di coscienza. Notava, infatti, sant’Agostino dopo il rovinoso sacco di Roma perpetrato da Alarico: "Forte Roma non perit, si Romani non pereant. Non enim peribunt, si Deum laudabunt: peribunt, si blasfemabunt. Roma enim quid est, nisi Romani?” (Sermo 81,9: MIGNE, P.L. 38, 505).

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Articolo estratto dal volume II del 1972 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Alla fine dell’autobiografico I vitelloni (1953), il più giovane di essi, lasciava la natia Rimini; e al piccolo ferroviere, che gli chiedeva dove andasse, rispondeva: “Non so, parto”. Di fatto, i fumetti e le caricature del 420, dell’Avventuroso e del Marc’Aurelio portarono il men che ventenne Moraldo-Fellini a Roma.

Quali, allora e poi, le sue impressioni ed esperienze romane? – Il regista progettò a lungo di raccontarle in Moraldo in città: ma non ne fece nulla. E forse non ne farà mai nulla, anche perché quel che Roma, allora e poi, fu per lui – la Mecca dei fumetti, delle prostitute, dei paparazzi, dei giornalisti e dei cinematografari, dei preti, della café-society, dei cafoni e degli invertiti, del traffico caotico e delle larve notturne, delle processioni e della suburra – egli l’è venuto via via disvelando nello Sceicco bianco (1952), nelle Notti di Cabiria (1957), nelle Tentazioni del dottor Antonio (1962) e soprattutto nella Dolce vita (1959), in ; (1963) e in Fellini-Satyricon (1969).

Tuttavia, dopo un trentennio – il provinciale inurbato ha ormai doppiato la cinquantina –, Roma continua ad affascinarlo più forte che mai. Eccolo, dunque, nel tentativo di scaricare il sortilegio in un film in cui Roma non sia più sfondo e teatro, ma protagonista.

Ricordi e realtà

Un po’ come La dolce vita, Roma si struttura in nove episodi, raccordati dalla voce fuori campo di Fellini, ed anche dalla sua presenza in campo come attore: ragazzo, giovanotto, regista. Eccoli in compendio.

  1. Roma nei ricordi di provincia: 1930 – Il Rubicone, dell’Alea iacta est, attraversato a piedi nudi dai collegiali. Bruto e Casca che ammazzano Cesare nel teatrino scespiriano. Le oche del Campidoglio rievocate nella scuola elementare. Le vedute della Roma sacra e profana nelle proiezioni dei preti. La benedizione di Pio XII per radio. Pompeo Poppea gladiatori e cristiani al cinema di provincia. Messalina farmacista e vampira. Balilla, e gerarchi al cerchio di fuoco, nel Giornale Luce del 28 ottobre. Treno per Roma, fermo per due minuti alla stazione.
  2. Primo arrivo a Roma: 1939 – Stazione Termini dell’epoca: baraonda di facchini, coloniali, carabinieri e corazzieri, monache e preti, divi del cinema incombenti dalle réclames. Attraversamento della città nella congestione sudata e vociante del tram. Presentazioni dell’anomalo campionario umano nell’appartamento-pensione di Via Albalonga, con la sua monumentale affittacamere. Becera e pantagruelica cena all’aperto. Il Laterano, con le pecore, di notte.
  3. Secondo arrivo a Roma: oggi – Fellini, con la sua troupe, armeggiante sul cameracar, ai caselli del Raccordo Anulare, di notte, sotto la pioggia battente. Camion e autogru, trattori, betoniere, carri armati, auto con cardinali e cinesi, pullman di tifosi urlanti e gesticolanti, hippies e battone, dimostranti e poliziotti, cavalli solitari e carogne di vitelli sull’asfalto e insanguinato...
  4. Villa Borghese: oggi – A Piazza di Siena, dallo skyworker, la troupe panoramica su Roma, poi su un pullman di turiste americane. Un avvocato romanesco perora la causa di “Rometta nostra”; cinque studenti chiedono a Fellini una Roma socialmente autentica.
  5. Teatrino della Baraonda: 1940 – Altro campionario di umanità anomala: guitti, cantanti e ballerine in palcoscenico; spettatori-attori: maleolenti, imprecatori e maneschi, in platea. Trionfalistico bollettino di guerra, seguito da Maramao, perché sei morto. Allarme, e fuggi fuggi generale nel rifugio. Fine dell’allarme – “Tanto, Roma, nun la bombardeno: ce sta er Papa!” – e bombe che cadono su San Lorenzo.
  6. La metropolitana: oggi – Zanna di mammuth. In decauville l’ingegnere guida la troupe nella galleria. Commenti intorno alla montagna delle pratiche burocratiche riguardanti la metropolitana. La “talpa” è, ancora una volta, ferma avanti ad un vuoto archeologico. La fresa sfonda in un’antica villa romana: l’aria che vi irrompe polverizza gli affreschi millenari.
  7. Le case chiuse: 1940 – Oggi, l’amore libero degli hippies; allora, era un problema! Il casino popolare: affollato, lercio; facce grevi, corpi sfatti, battute da trivio. Il casino di lusso: specchi, marmi, ascensori, ragazze vistose. Fermi tutti: arriva un Gerarca! Incontro del giovanotto (Fellini) con l’odalisca-madre Dolores.
  8. Défilé nel palazzo aristocratico – Incontro di Sua Eminenza con la vecchia principessa: bei tempi, quando Chiesa e Nobiltà andavano a braccetto! Il cardinale in alto, nella tribuna d’onore; negli stalli, in basso e ai lati: prelati ed aristocratici, nobildonne e suore; al buffet: decrepiti camerieri in polpa. La vecchia principessa, assorta, piange. Due suore, al centro della sala, a ritmo jazz, suonano l’organo: sul lungo tavolo ad U si svolge il défilé; di moda ecclesiastica. L’apre un ricordo preconciliare: suorina con sudario grigio e candela. Modello n. 1: di raso nero, per novizie, adatto per tutte le stagioni. Modello n. 2: "Tourterelles immaculées”, con ali ventilanti. Modello 3: "Soeurs du Purgatoire”, in crinolina nera e soggolo bianco. Modello 4: tropicale, antimacchia, con veletta: per suore missionarie. Ora è la volta di due preti rossi, che volteggiano su pattini a rotelle: modello sportivo "Au Paradis plus vite!” (Applausi); poi, di altri due, in bicicletta: vesti antivento, per parroci di campagna (di nuovo applausi!); poi ancora di tre chierici, in cotte pieghettate e turibolo: “Variazioni sacrestanesche per funzioni di prima classe”. Ora, in un’atmosfera resa liturgica dall’incenso, dalle luci e dalla musica, incedono vescovi e cardinali in pianete, ermellini, piviali e mitre spropositate; poi soltanto sagome, vuote, di paramenti rutilanti, da Luna Park; quindi, in trasparenze di cristalli di veli e di cellophane e nel volteggiare di petali di rose: reliquie e scheletri umani. Infine, in una luce abbagliante, affossato in un trono enorme, sullo sfondo di un ostensorio immenso, la figura ieratica e decrepita del Papa. Dissolvenza in nero sulle mani dei prelati e dei nobili protese verso il vegliardo-mummia.
  9. La Festa de noantri: oggi – Nelle vie e nella Piazza S. Maria in Trastevere: venditori e camerieri, turisti, capelloni, sonatori e cinematografari, che vociano, altercano, trangugiano e si sbracano, tra bancarelle e trattorie, porchettari e pallonari. La segretaria di Fellini intervista Mastroianni, Sordi, Gore Vidal e la Magnani, mentre i celerini, in un carosello di jeep, manganellano gli hippies, e mentre due boxeurs paesani se le danno in mezzo ad una piazza. Spente le ultime luminarie sui relitti ed i rifiuti della gozzoviglia-baccanale, nella notte fonda una cinquantina di motociclisti, in casco e giubbotto, attraversano spericolatamente Roma, rombando e sciabolando con i fari i monumenti, i palazzi, le fontane, le chiese. Sulle scie dei loro fanali rossi, che lungo la Cristoforo Colombo dileguano verso il mare, la parola FINE.

Cinema, sì, ma stanco

Nei suoi pregi, vistosi, e nei suoi limiti, non meno vistosi, questo Roma offre come una Summa – si direbbe, conclusa – del “genere-Fellini”.

Intanto, è vero cinema. Salvo, infatti, qualche invadenza dell’espressione verbale – le cerebrali interviste1 –, non solo tutto vi è autentico “spettacolo”, bensì anche tutto si avverte come sgorgato – più che tradotto – in immagini: scenografie e costumi materiale umano e materiale plastico, colore e luci, campi e piani, ritmi compositivi e narrativi, alternanze sonore... Vi è palese, ancora una volta, l’eccezionale talento fantastico di Fellini, soccorso, per giunta, da mezzi finanziari che gli hanno permesso di osare l’osabile, financo di costruire ex novo, a Cinecittà, un’intera strada con tanto di palazzi botteghe trattorie e linea tranviaria, mezzo chilometro di Raccordo Anulare e, addirittura, di Metropolitana.

I risultati fantastico-spettacolari sono quasi sempre stupefacenti, soprattutto dopo gli exploits psichedelici – si sarebbe detto, non superabili – di Fellini-Satyricon. Per fasto, colore e vigore descrittivo, il lunare appartamento di Via Albalonga, l’apocalittico Raccordo, la bolgia plebea del Barafonda, il balletto tragicomico del défilé, sono pagine da antologia. Né difettano le sequenze dove la fantasia lievita in poesia. Ed ecco l’allucinante Malebolge del Raccordo; il senso quasi magico-sacrale della “talpa”, dinosauro arenatosi nella Metropolitana, che nebbie luminose trasfigurano in aerea cattedrale; gli sguardi inquieti dei patrizi romani, sorpresi nei millenari affreschi, subito e per sempre dissolti; una Roma notturna, insieme spettrale e regale, passata ed eterna, offesa e sdegnosa dei fragorosi centauri che l’attraversano senza scalfirla, ingoiati, come tanti altri barbari, nel buio della notte...

Ma non sempre all’artista è dato operare in siffatto stato di grazia. Abbandonata a se stessa, più spesso la sua potenza immaginifica strafà verso l’iperbole e la scompostezza barocca, nello spettacolo virtuosistico, fine a se stesso, dove l’eccesso di colore, l’accumulo dei particolari, i contrasti surrealisti2 male colmano l’inconsistenza psicologica di situazioni e di personaggi. Altre volte, invece, l’artista difetta di fantasia creatrice, e ripete moduli espressivi in sé validi, ma ormai consunti dall’uso che egli precedentemente ne ha fatto. Tali, per esempio, l’improvviso sorgere, in primo piano, dal basso e di spalle, di personaggi, che si volgono al pubblico, e spariscono; l’emergere fugace di altri, dal buio, sorpresi da fasci di luce; i passaggi per stacco da luci meridiane e da baraonde festaiole ad attoniti silenzi notturni; gli anticipi figurativi e narrativi, le sequenze parallelo-contrapposizione3...

 

Più spesso, poi, il regista riesuma personaggi ed elementi figurativi o narrativi scaduti ormai, nei suoi film, a luoghi comuni. A parte, infatti, le prostitute e le suore, i cardinali decrepiti e le principesse risecchite e bigotte, i preti e i convittori, i guitti, e tutto un campionario teratologico (di cui subito): sfilate, centauri e caroselli, balli mascherati, teatrini e luminarie, sudari monacali e prèsidi fegatosi, cavalli metafisici e coppie di grossi cani, cene trimalcioniane, fumoni e fiamme solitarie, affreschi romani, tunnel, abitacoli aerei e cellophane, dopo essere rimbalzati dallo Sceicco in Cabiria, dai Vitelloni nella Strada, dalla Dolce vita e da Giulietta in , in Satyricon e nei Clowns, pare che si siano dati convegno generale in questo Roma, spesso in vere e proprie citazioni. Di qui nello spettatore il tedio del già visto e sfruttato, e la delusione di un’arte stracca, se non proprio esausta; tedio e delusione che il critico tenta di spiegare riandando la personalità, tutta particolare, di Fellini.

È stato con ragione rilevato che ogni regista autentico – ma la cosa vale per ogni artista – fa, in fondo, sempre lo stesso film, proiettando non altri che se stesso e ricreando sullo schermo un suo mondo, cioè una realtà quale fantasticamente egli la vede, ed emotivamente egli la esperisce. Fellini, regista autentico, non fa eccezione, anzi. Ma proprio in questo dover attingere sempre ed unicamente in se stesso trova il suo maggior limite. Infatti, non uomo di cultura, gli difetta l’opportunità – concessa a registi, poniamo, come Bergman e Bresson, Visconti e Bunel – di dilatare e di approfondire il proprio mondo intellettuale e fantastico portandolo a contatto con le creazioni catalizzatrici e con le esperienze diverse di altri autori e sommi del pensiero della scienza e dell’arte. Ma la miniera dei suoi ricordi e dei suoi incubi, per quanto dilatata dalla immaginazione più esuberante, presto si esaurisce, soprattutto quando i suoi filoni autobiografici sono quelli, culturalmente ed umanamente non ricchi, dei fumetti e delle caricature, delle peripatetiche e dei postriboli, dei circhi e dei paparazzi4.

Questa la Roma di oggi?

Ma Roma è pur sempre Roma. Non c’è bisogno di chiudersi in biblioteca, e neanche di rispolverare i testi scolastici, per trovarvi materia di meditazioni e di elevazioni, poetiche o meno. Basta guardarne con intelletto d’amore le vestigia dell’antica grandezza, che già commossero – e c’è da vergognarsene? – il Petrarca e Dante, Shelley, Goethe, Stendhal, Chateaubriand, Veuillot (e mettiamoci pure Gioberti, Mazzini, Cavour); basta vedere – anche dopo gli scempi, non soltanto urbanistici, recentemente sofferti, ed il tragico carnevale con cui il fascismo scimmiottò la romanità – quanto ancora fa di Roma, infra ed oltre ogni gonfiatura retorica, un luogo nodale della storia e della civiltà, la Communis Patria di tanta parte dell’umanità.

Eppure, anche questo terreno è ignorato dal regista. Estraneo ad ogni interesse intellettualistico, egli si chiude anche alla storia; e, quel che è peggio, si chiude a tutti i problemi umani che Roma ha in comune con altre città. A Rossellini e a De Sica il commuoversi sulla Roma tragica della guerra e della resistenza; a Pasolini l’indignarsi sul sottoproletariato di Accattone e di Mamma Roma; magari a Zavattini ed a Lizzani l’indagine e la denuncia sociale, tra l’elzeviro e il rotocalco, dei Misteri di Roma e di Roma bene. Per Fellini qualsiasi impegno è impensabile5: il cinema, per lui, è solo un giuoco, cui abbandonarsi con la spensieratezza dei bambini. Di conseguenza, il fascismo, provinciale e romano, per lui non è sopraffazione liberticida, ma argomento da barzellette; parimente la guerra è ridotta alle macchiette dell’invalido, del bollettino trionfalistico, della soubrette emergente dalla corazzata (il Potemkin?), del cessato allarme seguìto dalle bombe. Gli odierni problemi del lavoro e della gioventù, acuti forse a Roma più che altrove in Italia, non lo toccano: spettacolo sono per lui gli scioperanti, spettacolo gli hippies caricati dalla polizia, e spettacolo è anche Sordi che ci ride sopra. Neanche la prostituzione gli pone problemi che non siano spettacolari, tanto che, risolta tutta nell’abnorme visivo, finisce pure col perdere ogni carica e connotazione erotica. Spettacolo sono anche il cristianesimo ed il paganesimo che a Roma convivono si mescolano e si scambiano, e solo pretesto a spettacolo satiricamente grottesco è la grave crisi della Chiesa postconciliare.

Specialmente dalla Dolce vita in poi certa critica non ha mancato di rinfacciargli quest’apatia sociale. Da allora la sua spensieratezza di artista zuzzurellone s’è andata venando di stizza e s’è incattivita, schernendo i censori bigotti (nel libellistico Le tentazioni del dottor Antonio) ed immaginando (in ) d’impiccare i Carini-coscienza critica. In questo Roma egli non arriva a tanto; tuttavia mette le mani avanti, facendosi chiedere dagli studenti, nel bel mezzo del film, di evitare “la solita prospettiva qualunquistica...: perché Roma, non è solo così”, e poi difendendosi col dire che “ciascuno racconta quello che sa”6. Non aggiunge, però, che, anche a Roma come dappertutto altrove – magari a Firenze e a Venezia, a Gerusalemme e a Benares –, uno sa quello che vi cerca7. Ora che cosa cerca Fellini a Roma? Riferisce – e ne chiediamo venia, ma è nello stile del film – il suo collaboratore Bernardino Zapponi:

“Da anni Fellini tiene nel suo studio molte grosse buste, piene di foto di attori, generici e gente qualunque che utilizza, o utilizzerà nei suoi film. Ogni volta che cambia ufficio [...] il trasloco consiste quasi unicamente nel trasportare le buste da uno scaffale ad un altro; sono i suoi amici che non lo abbandonano mai. Le buste hanno curiose scritte: BELLONE – VANNO BENE COMUNQUE – LADRI – FACCE ANTICHE – MIGNOTTE DEL RACCORDO – RUFFIANE E PAPPA – FUMERIA (ossia tipi drogati) – MOSTRI NANI E CLOWNS – BELLE TARDONE – FACCE ECCEZIONALI – FROCI E TRAVESTITI – UOMINI DI COLORE – DONNE DI COLORE - CLERO e cosi via.
“Dentro le buste, ragazzi, uomini e mostri, sorridono o fissano seri l’obiettivo o si atteggiano in espressioni briose. Italiani, stranieri, gente che ormai è invecchiata: una popolazione, quasi: una città – la Città Fellini – che ha anche il suo cimitero, giacché molti di quei personaggi sono ormai morti, ma continuano ad atteggiarsi scherzosi, con le mani in tasca e un sorrisetto malizioso. Non possono più cambiare, fissati in quella espressione per sempre, e rivivono ogni volta che Federico li tira fuori, li ammucchia sul tavolo, li sparpaglia e li guarda.
”[...] La popolazione di Fellini varia dalle 2500 unità alle 500, nei momenti in cui Federico, preso da un raptus periodico, straccia e distrugge come Medea una parte delle sue creature. È sempre comunque un bel paesotto, e si potrebbero combinare intere famiglie con nonni figli e nipoti: che del resto è ciò che Fellini fa quando li mette insieme in certe riprese corali.
”[...] I cardinali sono giganteschi quadri che serviranno a decorare la sequenza del défilé ecclesiastico. Facce minacciose ed aggressive, sembra che stiano per buttarsi su chi guarda, come i giudici del Processo; ogni vizio è stampato su quei lineamenti volgari e macabri: ecco la Lussuria, l’Avidità, la Crudeltà, il Furto, la Falsità; il tutto reso più sinistro dalla costante Decrepitezza, e dalla vana pomposità degli abiti di porpora. Colpito da quella strana pinacoteca, da quel Museo Anti-Vaticano, domando chi sono stati i modelli.
”’Generici di Cinecittà’ spiega Fellini soddisfatto; li abbiamo scelti uno a uno; con cura: tutti estratti dalla mia busta FACCIACCE ORRENDE.
“Per la legge dei contrasti, alla quale è sempre fedele, Fellini sceglie un macellaio per fargli fare il senatore, un oste per la parte dell’imperatore, delle facce da ladri per i cardinali. Ed è questa la via più breve per arrivare alla verità”8.

Ed ecco la solita Roma, larvale e sbracata, di Fellini: raccolta di guitti, di prostitute, d’invertiti e di nobili degradati, di ghigni e di corpi in sfacelo; zibaldone di umanità suonata, squallida, becera e turpe: che mangia, che rutta, che fornica, che bercia ed irride; una Roma quasi sempre notturna e sotterranea, livida e caotica: tra il cimitero, il campo di concentramento e il Luna Park, il sabba e il manicomio9. Sintesi visiva ne è la Saraghina di ; che notturna meretrice riemerge dalle rovine della Via Appia, affittacamere sfatta e bigotta straripa dal letto di Via Albalonga, si ripete in copie conformi nelle donne-balene dei casini e delle strade, e che, dal manifesto del film, devastatrice e proterva, invita il pubblico allo spettacolo.

Borghese e senza speranza

Ma una Roma siffatta, ancora una volta, Fellini non la denuncia né la riprova10. Come trent’anni fa, quando vi calò dalla provincia, essa resta per lui, fantasia aiutando, spettacolo sempre nuovo. Ci sguazza compiaciuto, mentre egli per primo, forse senz’avvedersene, contribuisce a peggiorarne gli aspetti più plebei11. In ogni modo, ne fa pubblicità: nazionale e mondiale. Così, con l’aria di smitizzare la Roma retorica cattolica e fascista – insomma: dei mussoliniani navigatori conquistatori scienziati santi e poeti –, alimenta il contro-mito, meno ostico al turismo borghese, di una Roma (e di un’Italia) da rotocalco: godereccia e sboccata, fitta di romani (e d’italiani) fannulloni e voraci, ignoranti chiassoni e ruffiani.

Retorica per retorica, non si sa quanto la Città ci guadagni. Certo è che lo spettatore ci perde; anche perché, in definitiva, lo spettacolo non è neanche allegro; inoltre, rispetto agli altri film di Fellini, questo, in prospettive umane, è anche più tetro e chiuso. Moraldo riusciva ad evadere dalla miserabile esistenza dei Vitelloni. Nella Strada, scomparsa Gelsomina, per la prima volta Zampanò volgeva gli occhi alle stelle. Poetiche danze chiudevano le atroci storie del Bidone e di Cabiria, e risolvevano la crisi creativa di Guido in . Nella Dolce vita, almeno come possibile alternativa del flaccido mostro marino, appariva, oltre l’invalicabile rivo, la pulita Paolina, e vele aperte verso lidi meno orridi chiudevano il Satyricon12. Ma qui non ci sono aperture. C’è soltanto la desolazione di un mondo in disfacimento, senza che nulla renda meno tetro il ricorrente richiamo della morte: dalla nera silhouette con falce, e dalla scritta Roma 340, più lapide funeraria che pietra miliare, con cui il film inizia, alle carogne sanguinolente del Raccordo; dagli scheletri umani della Metropolitana e del défilé, alle parole dell’attore americano, alla “puzza storica” del tombino13, ai monumenti spettrali che guardano allontanarsi nella notte l’inutile fragore dei centauri.

Contro una certa Chiesa?

Chi dice Roma dice anche Chiesa cattolica; ed alla Chiesa cattolica, oltre le molte allusioni (satiriche), il film riserva intero l’episodio della sfilata ecclesiastica: quello, probabilmente, per cui esso verrà più ricordato, non foss’altro che per il rilievo che gli va dando la critica.

Per l’occasione, come ai tempi della Dolce vita14, molti esegeti, per lo più laici e laicisti, hanno riesumato il logoro refrain di un Fellini cattolico o, almeno, cristiano. Ciò fatto, alcuni hanno rilevato come egli vada (vanamente) lottando contro i tabù cattolici15; altri, invece, l’hanno accomunato agli odierni coraggiosi contestatori di una Chiesa trionfalistica, corruttrice del Vangelo autentico. Tra questi si è distinto un religioso16: il quale, premesso che “la sfilata di moda ecclesiastica non mancherà di far versare molto inchiostro”, e che “essa rischia di restare incompresa’’, affinché tanta sciagura non avvenga ne avanza una sua analisi, intercalandola e coronandola con questa esegesi:

“Il regista mostra i rappresentanti di due classi di una società. Da una parte, una certa aristocrazia, che non ha come fondamento di se stessa che il sogno o i ricordi, e non più un’attitudine e un’azione personale; dall’altra, una certa chiesa il cui comportamento sembra estraneo allo Spirito del Vangelo, e la cui realtà è all’opposto delle ’Beatitudini’. Siamo in presenza di due caste che sognano un’antica collaborazione. Questa scena[...] è la critica, alcuni diranno la satira, della maniera di essere di queste due classi, che sono a mille miglia da ciò che le ha costituite. Criticando il loro atteggiamento, il regista rimprovera all’una e all’altra di aver tradito i valori di cui avevano la responsabilità. Egli rivalorizza così ciò che è stato abbandonato e trascurato da loro. È nella sfilata, propriamente detta, che si trova la critica più dura, l’autopsia di una certa chiesa che, avendo dimenticato e qualche volta soffocato la realtà fondamentale e creatrice di Cristo, non è divenuta che un rito, una ’liturgia’, uno spettacolo... romano.
”[...] Alcuni non mancheranno di scandalizzarsi vedendo questa scena. Ma dove è lo scandalo se non nell’atteggiamento di certi credenti e di una certa chiesa che tutto ha mummificato per poter meglio controllare, meglio frenare, meglio conservare, meglio ammirare. E riducendo il volo e la libertà di una farfalla al suo corpo trafitto, sotto vetro, sotto lo sguardo di tutti, si perde e il volo e la libertà. E tutta la festa ne è falsata.
”[...] La sequenza della sfilata di moda ecclesiastica può essere considerata come un puro gioco estetico da parte del suo autore. Ma conoscendo Fellini e il suo cinema, non si può negare questo humour nero, che ispira talvolta la disperazione di vedere una situazione che non cambia. Una certa chiesa romana tradita dai suoi stessi membri, non offre ormai allo straniero che uno spettacolo in più nella città di Roma. Ed è spettacolo che essa viene ad inserirsi nella Roma di Fellini, nell’autopsia di un eterno spettacolo”.

Ma questa esegesi criticamente non regge. Proprio conoscendo tutto il cinema di Fellini bisogna – salvo prova contraria – escludere in lui ogni volontà di rimproverare o di valorizzare qualcosa di oggettivo, soprattutto se “sociale”. Più spesso artista, altre volte visionario, lo interessa, come s’è visto, la realtà solo in quanto da lui ricreabile quale divertimento-spettacolo. Così – vale a dire: senza voler convertire nessuno – egli si è interessato nei suoi film al fasullo mondo dei fumetti e al dissoluto mondo dei cinematografari, al vano mondo dell’occultismo, a quello tragicomico dei clowns ed a quello corrotto di Petronio. La Chiesa cattolica, che per un verso o per un altro è sempre presente nel suo cinema, non ha fatto eccezione. Mai che egli ne abbia considerato – e tanto meno che ne abbia patrocinato – la realtà più vera, essenziale ed interiore; ma sempre e soltanto ne ha rappresentato – deformandoli, se non schernendoli – gli aspetti più esteriori: architetture (barocche), luminarie (pacchiane), processioni (d’invasati); e poi: cardinali (decrepiti), vescovi (infiocchettati), preti (tarchiani o femminei), frati (svaniti), suore (larve), e magari collegiali (marionette): insomma, tutta gente “in divisa”, facilmente caricaturabile.

Ora, in nessuna sequenza o inquadratura di Roma il regista mostra di voler cambiare registro, mentre proprio nel défilé ecclesiastico egli supera ogni sua precedente irriverenza caricaturale. Se, come in cerca di una (maldestra) giustificazione psicologica, la sequenza inizia quasi sogno-delirio della vecchia principessa, subito trabocca in sfrenata e gratuita fantasia di Fellini. Egli non vi rimprovera nessuno né vi valorizza nulla; come non rimprovera nessuno né valorizza nulla nelle altre sfrenate e gratuite “sfilate” del film: della pensione, del Barafonda, del Raccordo, del postribolo e dei due bagordi piazzaiuoli17.

E l’esegesi sembra anche ingenerosa e deviante nel merito. A parte, infatti, l’incongruenza teologica di trattare della Chiesa e della nobiltà più o meno sullo stesso piano, e prescindendo pure dalla deficiente prospettiva storica in cui si giudica del “lusso” (liturgico) e dei rapporti tra Chiesa e nobiltà nei tempi passati: tanto la (supposta) denuncia del défilé quanto, e più, la giustificazione che se ne tenta, sono anacronistiche alquanto rispetto alla Chiesa di questo post-Concilio. Il benservito con cui Paolo VI si è accommiatato dalla nobiltà romana risale al 1964; in Vaticano il cerimoniale cinquecentesco è quasi del tutto sparito e, in quanto a smantellamento e democratizzazione anche liturgica, paramenti compresi, non sono pochi a lamentarsi che si è stati piuttosto avventati che cauti.

Certamente: moltissimo ancora resta e resterà sempre da fare, perché la Chiesa si dimostri quale Cristo l’ha voluta. L’ha detto il Concilio; non si stanca di ripeterlo il Papa; urge che l’intero Popolo di Dio, allo scopo, si converta. Ma “disperarsi perché le cose non cambiano” significa ignorare quel che pur si è fatto, significa ignorare le resistenze individuali e sociali che occorre superare; e significa ignorare l’azione della Grazia, che opera in modi e tempi diversi da quelli del “mondo”.

 

Oltre tutto, poi, se veramente di denuncia si tratta, quale, secondo il disperato esegeta, il cristianesimo pieno e vitale che il regista proporrebbe come alternativa al degenerato e vacuo cristianesimo “romano”? Pare che sia quello, tutto felliniano, della libertà delle farfalle18. Ma le Beatitudini, Cristo, le ha predicate “per il Regno dei cieli”; né è detto che esse si risolvano in un più o meno poetico volo di farfalle.

Anche questa è Roma

Ma è tempo di uscire da questo cinema-circo e di rientrare nella Roma reale di oggi. Ecco: non è vero che tutto vi è soltanto spettacolo; come non è vero che tutto vi sia bagordi e marciume. Al centro storico, nei casoni-alveare e tra i baraccati incontro uomini miei fratelli. Scioperati, forse, ma anche laboriosi; guasti, ma anche onesti e generosi: che, come me, sperano e temono, lottano e soffrono; uomini, in ogni modo, più da compatire ed amare che da braccare ed irridere.

E dappertutto, in questa Roma umana, affiorano ancora, e sovrastano grandiose, le vestigia dell’antica. Certo: non saremo tanto sciocchi da lasciarci prendere dal furore imperialistico di Arnaldo da Brescia e di Cola di Rienzo, o dalla retorica bolsa di altri anacronistici duci; ma neanche saremo tanto rozzi (o pusilli) da guardarle (o da dichiararcene) insensibili; e tanto meno così cinici da deridere chi ne rivada, ammirato, le vicende millenarie. Ma soprattutto non ci vergogniamo di ammirare commossi le onnipresenti vestigia e realtà cristiane e cattoliche che, nonostante tutte le miserie, anche dei clercs, fanno ancora unica al mondo la città di Roma. Per esse i pii romei, peregrinando tra le basiliche e le “stazioni” romane, hanno cantato lungo i secoli:

O Roma nobilis, orbis et domina
Cunctarum urbium excellentissima,
Roseo martyrum sanguine rubea,
Albis et virginum liliis candida:
Salutem dicimus tibi per omnia,
Te benedicimus: Salve per saecula!

Per esse, rincarando sulla riconoscente costatazione dell’antico anonimo19, nella solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, ancora oggi la liturgia romana canta:

O Roma felix, quae duorum Principum
Es consecrata glorioso sanguine!
Horum cruore purpurata ceteras
Excellis orbis una pulchritudines.

Dite quel che volete, ma – trionfalismo o no, fantasia per fantasia – alla Roma di Fellini preferiamo questa.

* Il film Roma – regista FEDERICO FELLINI, soggetto e sceneggiatura dello stesso e di BERNARDINO ZAPPON scenografia e costumi di DANILO DONATI, direttore della fotografia GIUSEPPE ROTUNNO, musiche di NINO ROTA, di co-produzione italo-francese – è uscito in Italia nell’aprile 1972. Su di esso, a cura dello stesso BERNARDINO ZAPPONI, è il volume Roma, di Federico Fellini (Bologna, Cappelli, 1972, 16, L. 3.800), che ne reca la sceneggiatura letteraria, tenuta in mano dal regista durante le riprese, e la sceneggiatura desunta dal film montato.

1 Salvo sviste, se ne contano almeno otto: quella dell’avvocato e dei giovani a Piazza di Siena, quella dell’ingegnere in decauville nella metropolitana, quella del commissario di polizia alla “Festa de noantri”, e le quattro con gli attori di cinema nella stessa “Festa”.

2 Questi stilemi sono portati all’estremo, oltre che nella sequenza del Raccordo Anulare (ove la tregenda e creata dall’accumulo di pullman-carri armati-incidente dei vitelli e incendio-pioggia-fumoni-scioperanti-autogru-cameracar, ecc.) e nella vecchia Stazione Termini (il cui squallore siamo ancora in molti a ricordare), soprattutto nelle due interminabili sequenze del casino, nelle due pletoriche mangiate stradaiole e nel caricaturale assortimento umano dell’appartamento borghese, mutuato dalle plebee vignette di Attalo sul Marc’Aurelio.

3 Esemplare anticipo figurativo è la diapositiva dello “scandaloso” posteriore femminile proiettata per sbaglio dal prete ai convittori, che anticipa la battuta del “reduce” da Roma nel caffe di provincia e la realtà visiva del balletto finale del Barafonda. Sequenze in parallelo-opposizione sono i due arrivi, di ieri e di oggi, a Roma; quella del teatrino e cinema di provincia, e quella del romano Barafonda; il défilé del casino e quello ecclesiastico...

4 Le rare volte che egli si è avventurato in soggetti non autobiografici, o – provvisto di una cultura psicanalitica da rotocalco – ha finito col duplicarsi in una improbabile Giulietta degli spiriti, o – del tutto estraneo al carico culturale della Sàtura di Petronio, arbiter elegantiae – è scaduto nell’onirico-pirotecnico autobiografico Fellini-Satyricon (cfr Pasolini-Porcile e Fellini-Satyricon, in Civ. Catt. 1969 IV 421 ss.).

5 Recentemente ha confessato: “Se mi pongono dei problemi di ordine sociale non posso che rimandare ai miei film, alle cose che ho fato. Non posso fare delle diagnosi sui miei film. lo non sono capace di dare una dimensione politica alle cose, mi sembra un punto di vista riduttivo. La ricerca delle cause, dei processi, delle conseguenze, degli sviluppi mi annoia. lo obbedisco sempre ad un punto di vista infantile, adolescenziale, ad una visione delle cose ingenua, maliziosa, sacrilega, stupefatta: le mie cose più felici sono quelle che ho fatto senza consapevolezza... Se le cose che faccio hanno un senso, il senso è quello di mostrare le cose stesse. Non mi è dato più di questo”.; ed ancora: “La nostra amicizia con Bergman è un po’ infantile, come di due tali che si siano incontrati nello stesso manicomio. È noto l’incidente di qualche tempo fa, quando dovevamo fare un film insieme. Era un’impresa impossibile, perché non si può mettere due bambini nella stessa stanza dei giocattoli: con la sua gelosia vagamente patologica per le proprie cose, Bergman voleva vedere il mio giocattolo e non mostrarmi il suo. Il rapporto, insomma, non era disinvolto. C’era fra noi il dato comune del gioco fantastico, eppure ci era impossibile comunicare veramente” (C. COSTANTINI, in Il Messaggero, 5 marzo 1972; L. AUTERA, in Corriere della Sera, 12 marzo 1972).

6 Ecco il dialogo integrale: “I STUDENTE: Volevamo parlare con lei, se è possibile domandarle se, in questo film, il ritratto che lei ha intenzione di fare di Roma, avrà un punto di vista obiettivo, riferito ai problemi drammatici eternamente irrisolti della società attuale... / II STUDENTE: Naturalmente non ci riferiamo soltanto ai problemi della scuola... / I STUDENTE: ... li mondo del lavoro, per esempio, con... con i problemi delle fabbriche, delle borgate... / I STUDENTESSA: ... Non vorremmo che venisse fuori la solita Roma sciatta e pacioccona, disordinata e materna... / FELLINI (ridendo): ...Sì, ho capito, ma... / II STUDENTESSA: ...Cioè la solita prospettiva qualunquistica... / I STUDENTE: ... perché Roma non è solo così... / FELLINI: Voglio dire, ragazzi, che ciascuno racconta quello che sa...” (Roma, cit., 271-272).

7 Confessa ancora Fellini (Corriere della sera, cit.): ..Milano, per me, non è molto di piu della facciata del Duomo come si vede nelle cartoline, e della Galleria con il Savini. Poi ricordo certi misteri di strade, portoni e atrii con una quiete un po’ cimiteriale; infine la periferia un po’ paurosa, con le sue balere e i suoi caffé della malavita”.

8 Roma, cit., 34 e 43.

9 Si direbbe che il film, nei suoi nove episodi, sviluppi la parata plebea, stile Attalo del Marc’Aurelio, della sequenza “appartamento-pensione’. Un lungo budello dà su nove camere, dove, guidati da una servotta unta vogliosa e vociante, incontriamo: 1) “signorino” tonto, bruciato dal sole; 2) cuoco cinese puzzolente; 3) ragazzini defecanti e strillanti; 4) nonna nana; 5) vecchio attore-trombone; 6) brunacciona discinta; 7) mangiatore solitario con gatto; 8) declamante sosia del Duce; 9) donna-balena “con l’infiammazione all’ovaie”.

10 Avrebbe avuto un illustre predecessore e modello nel Veggente dell’Apocalisse, che probabilmente si riferiva a Roma descrivendo (Capp. 17 e I8) la rovina della “donna seduta sopra una bestia [...], piena di nomi di bestemmia [...], sulla cui fronte era scritto [...]: Babilonia la grande, la madre delle fornicazioni e delle abbominazioni della terra”.

11 Si pensi, ad esempio, a quanto il suo modo di fare il cinema può avere inciso sul fenomeno-piaga dei paparazzi e su alcuni aspetti più avvilenti dell’ambiente cinematografico romano; al baccano notturno con cui l’infernale carosello motociclistico ha gratificato la cittadinanza romana; e soprattutto al nessuno scrupolo col quale Fellini – e non solo lui – piega attori e non attori a prestazioni spesso umilianti – povere donne oscenamente squadernate nel casino e relative “inchieste”, mangiate imposte al comparsame –; e ai raggiri per ottenere quel ch’egli vuole. Scrive ancora Zapponi: “Federico è curioso [...] e dovunque sa adattare la conversazione all’ambiente e sedurre chi gli interessa: tranne in certi casi. Allora, ricorre a mezzi estremi: invia certi suoi scagnozzi, dalle facce patibolari, a supplicare con finte lacrime la persona che dovrebbe concedere il permesso di girare in un museo o in una villa proibita: ’Se lei un me concede er permesso, Fellini me caccia via... Io ciò cinque figli... Lei non lo conosce, Fellini; quello non scherza! Me facci la carità: me dia er permesso! Pensi ai cinque figli miei!’ E la persona, inorridita e pietosa, generalmente concede” (Roma cit., 18-19; ed anche 27 ss., 40, 48, 52).

12 L’unico che si saIvi è il giovane Lando, il provinciale inurbato in cui Fellini rivede se stesso, narcisisticamente ingentilito, innocente e bene educato tra i plebei. È il solito solipsismo che nei film precedenti lo portava a vedere con occhio benevolmente trasfigurato tutto quanto riguardasse la sua famiglia e la sua infanzia.

13 Dalla sceneggiatura: “VIDAL: Sempre più il mondo si avvicina alla fine perché troppo popolato... troppe macchine! ... E quale posto migliore di questa città, morta tante volte e tante volte rinata... Quale posto più tranquillo, per aspettare la fine da inquinamento, sovrappopolazione... Il posto ideale per vedere se tutto finisce o no!”.
“Un oste si avvicina ad una tavolata dove una biondona sta protestando. BIONDONA: Checco! Ma qua c’è una puzza! Proprio il tavolo vicino al tombino ce dovevi dà stasera? / OSTE: [...] Questa è una puzza storica, a biondona! È l’odore dei secoli! " (Roma, cit., 362 e 357).

14 Ho ampiamente discusso questo argomento in Civ. Catt. 1960 III 69 ss.

15 Così, M. ARGENTIERI (in Rinascita, 24 marzo) parla di un suo “cattolicesimo in crisi”; A. TROMBADORI (in Giorni, 29 marzo) scrive di “impronta fortemente cattolica reazionaria della sua più giovanile educazione e formazione”; S. ZAMBETTl (in Sette giorni, 2 aprile) rileva “le ossessioni dell’educazione cattolica”; per L. CANALI (Roma, cit., 81 ss.) “Fellini è un cattolico e un borghese che lotta disperatamente contro i tabù dell’educazione cattolica e borghese: Cristo riesce a far scaturire lampi di pietà e di solidarietà nel suo cattolicesimo incupito da vani esorcismi, Jung e Husserl sovrappongono la sospensione del surer-io e del giudizio al concetto cattolico della assoluzione, senza riuscire a sostituire l’archetipo della Grande Madre alla Santa Romana Chiesa. Marx mette definitivamente in crisi la sua ’fede’, nella borghesia, ma facendola arroccare sulle più alte e aristocratiche stratificazioni sociali guardate con una sorta di rimpianto senza illusioni”.

16 GERALD MORIN, svizzero, trentenne, ancora non sacerdote, il quale – segno dei tempi – ha assistito a tutte le riprese del film. Di lui così Zapponi (Roma, cit., 33): “Gran barba, gesuita. Ma come tutti i preti giovani e un po’ ribelli [...] veste in borghese ed è spregiudicato al massimo [...] Vuol fare il regista [...]. È molto simpatico e vien voglia di chiacchierarci [...] Dice: ’Oh, Fellini è cattolico [...] Diciamo che è cristiano [...] Però Buñuel è cattolico’”; e Zapponi commenta: “Mi sembra che i preti di oggi vedono tutti cattolici, perché sono loro a non esserlo più”.
Il Morin compare, nel film, alla “Festa de noantri”, e dice una battuta. Dalla sceneggiatura (p. 356): “In una saletta interna del locale, una lunga tavolata di Gesuiti. Il bicchiere in mano, un giovane gesuita dalla gran barba invita i confratelli a brindare con queste parole: ’Ce Restaurant est l’endroit ideai pour féter le succès de nos sessions, maii, ce n’est certes pas le lieu opportun pour parler de revolution’. Tutti applaudono e brindano”.
L’esegesi del Morin qui riportata è tratta da L’autopsia di un eterno spettacolo, da lui pubblicata in Roma, cit., 87 ss. Dello stesso cfr ROMA, ou La descente aux Enfers de Fellini, in Choisir, apr. 1972, 28 ss.

17 Concorda la massima parte dei critici cattolici. Se ciò non bastasse, molto illuminante è quanto, sulla genesi del film, riporta Zapponi nel cit. Roma, 44 e 83.

18 Un esempio del recente pensiero “cattolico” di Fellini è nella citata intervista a C. Costantini: “L’italiano, per l’influenza della Chiesa, e rimasto bambino, ed e fra tutti quello che si conosce di meno, proietta sulla donna un’immensa oscurità [...]. È il matrimonio che bisogna abolire. La legge dovrebbe dire testualmente: ’Non sposatevi’. – il matrimonio dovrebbe essere rinnovato ogni anno, come la patente [...]. La Psicanalisi bisognerebbe insegnarla nelle scuole, a cominciare dall’asilo [...]. Anche gli uomini politici dovrebbero giovarsene. L’italiano è molto ignorante [...]. La Chiesa cattolica ha mantenuto da noi una specie di notte protratta oltre ogni possibile attualità. Una scienza destinata a far conoscere l’uomo a se stesso è indispensabile in una società vissuta nell’ignoranza e nel conformismo”.

19 Un poeta del sec. IX, che realisticamente cantava:
Non si te Petri meritum Paulique foveret
Tempore iam longo, Roma, misella fores.
Ovviamente, soprattutto per noi cattolici e romani, occorre unire all’ammirazione un efficace esame di coscienza. Notava, infatti, sant’Agostino dopo il rovinoso sacco di Roma perpetrato da Alarico: "Forte Roma non perit, si Romani non pereant. Non enim peribunt, si Deum laudabunt: peribunt, si blasfemabunt. Roma enim quid est, nisi Romani?” (Sermo 81,9: MIGNE, P.L. 38, 505).

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151