NOTE
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1 Cfr Equivoci e certeze alla XVI Mostra cinematografica di Venezia, in Civ. Catt. 1955, IV, 148-162.

2 Egli era stato preceduto nel 1943 dal regista svedese Gustav Molander. Cfr Boerge TROLLE: Il mondo di Carl Theodor Dreyer, in Bianco e nero, 1955, n. 6, 43 ss.; e BJORN RASMUSSEN: Conversazione con C. Th. Dreyer, in Rivista del cinematografo, 1955, n. 9-10, p. 48 ss., dai quali attingiamo qualche notizia.

3 Per esempio: per M. Gromo è «ineguale, non facile, un po’ prolisso, qua e là compiaciuto... Sarà certo molto discusso»; anche U. Casiraghi lo trova «discutibilissimo»; d’accordo con L. Chiarini che lo dice «ambiguo e problematico... Un film che fa pensare»; G. Moscon rincara: «Difficile, ardua, non credibile persino la vicenda, ove complessi problemi teologici... s’intrecciano con un’esaltazione assoluta della forza della fede... Un film che solleva dubbi, imposta problemi, impone discussioni». A. Bazin invece vi riconosce «perfezione stilistica inscindibile dall’altezza morale del soggetto» e lo giudica tale che «per livello di maestria e di perfezione... s’impone come punto di riferimento assoluto nella storia del cinema». P. Gadda Conti lo definisce «veramente religioso»; per G. Visentini si tratta di «un dramma elementare, spiritualmente povero, fatto di piccole, ingenue e tal volta meschine questioni, che nel loro bigottismo puritano lo rendono spesso tedioso», contro E. D’Alessandro e E. G. Laura, che lo trovano «meraviglioso messaggio di fede cristiana» e «visione autenticamente cristiana»; invece per A. Scagnetti si tratta di «un atto di fede di sapore protestante»; lo contraddicono P. Valmarana, per il quale «la religiosità del film è viva, contemporanea, tale da poter essere di buon grado condivisa dal cattolico di oggi» e G. L. Rondi, che vi trova «un punto di vista sui problemi di fede che si avvicina, sia pure da lontano, a quei problemi di grazia e di salvezza che sono propri del cattolicesimo»; P. Virgintino poi lo conferma «atto di profonda fede cristiana», contraddetto da M. Liverani, che lo definisce «film di sostanza troppo volutamente artistica e strepitosa...» – E. Lonero lo dice «lavoro di autentica poesia»; N. Ghelli lo giudica «di straordinario risalto nella poetica di Dreyer» per la sua «omogeneità senza fratture in un clima altissimo di straordinaria intemità drammatica e di sofferta macerazione mistica»; G. Carancini lo trova «irto di difficoltà... di sceneggiatura che può definirsi perfetta... unità sorprendente di uno stile che non conosce attimi di incertezza, debolezza...». – Più avanti avremo modo di ricordare gli stupefacenti “salti dialettici” di due eminenti marxisti.

4 Non è del nostro parere Smith, la quale, definita «incredibile» la vicenda del film e «assurdo il suo tema», con la sufficienza che distingue i marxisti, sentenzia che «solo l’ignoranza crede nella possibilità di far tornare in vita chi è morto» ed enuclea ai proni suoi lettori che «è una posizione quasi oscurantista: è la lotta alla intelligenza, al raziocinio...». E conclude: «pensiamo che i cattolici autentici non possono accettare questo film per buono...» (Il Paese, 28 agosto 1955). Saremo troppo ingenui, ma ci pare che proprio i marxisti dovrebbero avere meno difficoltà ad ammettere la possibilità della risurrezione, essi che ammettono quei miracoli permanenti che sono i “salti dialettici”, capaci, fra l’altro, di far passare la materia da non vivente a vivente, e da non pensante a pensante. Tuttavia, abbia pazienza la Smith, ma i «cattolici autentici» alla risurrezione ci credono, e come!, e la loro fede la fondano su di un’autorità certo più rispettosa della ragione umana che non sia la “rivelazione” di Carlo Marx e di Stalin suo profeta. Basti ricordare le forti parole di san Paolo: «Se Cristo non è risorto, è vana la nostra fede... Se per questa vita solamente speriamo in Cristo, siamo i più miserabili di tutti gli uomini. Ora però Cristo è risuscitato da morte» (1Cor 15,17 ss.), e i passi degli Atti degli apostoli, in cui san Luca identifica la missione degli stessi apostoli con la loro testimonianza dell’avvenuta risurrezione di Cristo: Att 1,8.22; 2,32; 4,10 ecc. Per le tre risurrezioni operate da Gesù e riferite dai vangeli cfr Lc 7,11 ss. (per il figlio della vedova di Naim), Lc 8,41 ss. e Mc 5, 22 (per il figlio di Giairo), Gv 11,1 ss. (per Lazzaro). A questi ultimi testi rimandiamo il forse distratto E. D’Alessandro, secondo il quale la risurrezione è «miracolo che si è verificato una sola volta nella storia dei secoli» (L’Italia, 28 agosto 1955).
Di miracoli fatti dai santi nei tempi passati sono pieni gli stessi Atti degli apostoli e poi le vite dei santi; per i miracoli dei tempi moderni basti ricordare quanto da circa un secolo avviene a Lourdes, e i miracoli richiesti ordinariamente per la beatificazione (due, tre o quattro) e per la canonizzazione (due o tre) dei nuovi santi, per i quali cfr Codex iuris canonici, cann. 2117, 2138.

5 Sono appunto le parole di Gesù agli apostoli: «In verità vi dico: Se avrete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: Passa da questo a quel luogo, e passerà, e nessuna cosa sarà a voi impossibile» (Mt 17,19), completate dalle altre rivolte a tutti i suoi seguaci: «Chi crede in me, farà anch’egli le opere che faccio io: e ne farà di maggiori» (Gv 14). L’osservazione poi sul modo diverso di agire della Provvidenza mediante i miracoli è di san Gregorio: Homiliae in Evangelia, n. 29: P.L. 76, 1215. – Per la Chiesa come sufficiente motivo di credibilità cfr Concilio Vaticano, Const. de fide catholica: DENZ.-U. 1794.
Delle condizioni richieste per fare i miracoli e di chi possa farli tratta san Tommaso: Summ. Theol. 2ª 2, q. 178, artt. 1 e 2. Per la questione dei miracoli fatti da peccatori e da infedeli, cfr Dictionnaire de thlologie catholique, X, coll. 1836-1838.

6 Nel Munk il fatto della morte avvenuta non ha la stessa prova professionale e, forse, dato il suo stato di dubbio e di scetticismo, per lui la risurrezione di Inger non è altro che un simbolo della “rinascita” di Johannes; questo almeno secondo il citato Boerge Trolle, il quale l’afferma senz’altro per il film di Molander: «Nell’interpretazione di Gustav Molander la risurrezione della donna sta chiaramente a simboleggiare la risurrezione della natura emotiva ed intellettuale di Johannes» (art. cit., p. 53); ma lo stesso Boerge Trolle giustamente nota che «nel film di Dreyer appare un tutt’altro atteggiamento interpretativo. Dreyer, è chiaro, vuole che noi accettiamo il miracolo come una realtà» (ivi).
Continua a non essere della nostra opinione la citata G. Smith, la quale si domanda: «Che cosa ha voluto dimostrare Dreyer?... È egli davvero convinto che – con la fede autentica – il miracolo può, anzi deve avvenire?» e si risponde: «Pensiamo di no. Forse Dreyer era più convinto di noi che far risuscitare chi è morto è impossibile: infatti egli fa compiere il miracolo a un pazzo che è rinsavito fino a un certo punto...». La segue a ruota G. Aristarco, il quale trova Ordet incredibilmente «confuso», affollato com’è di «simboli, simbolismi e contraddizioni», e dunque va affannosamente in cerca di una chiave per capirci qualche cosa. E la trova, fortunato mortale, la chiave, attraverso un rompicapo di risvegli e di Limelight, di sangue e di labbra esangui, di letti e di sepolcri, nonché di «amaranti e di viole che non riescono a sopraffare il crisantemo». La chiave non è la fede ma «la vita»! Nel film si vuole significare «che solo dei sopravvissuti possono interessarsi a certa problematica mistica (leggi “religione”), che solo il morente – o chi è morto tra morti vivi – può aver fede nell’ultima speranza: li miracolo divino». – A siffatto cibreo di acutezze fa riscontro l’atrabile di U. Barbaro, il quale ai lettori di Rinascita assicura che «la qualità generale del film è sicuramente inferiore» e che Ordet è «opera di irrazionalismo superstizioso, di cruda disumanità e di empia fusione di follia, di misticismo e di erotismo»; ragion per cui, marxisti per marxisti, noi ai due nostrani preferiamo il marxistissimo e senza dubbio competentissimo G. Sadoul, per il quale Ordet, più onestamente, «dimostra che la risurrezione dei morti è per Dreyer un articolo di fede»; egli non teme di affermare che «tutta l’azione è immersa nel più profondo misticismo ed è incontestabilmente sincera... Un’incredibile perfezione domina ogni scena, ogni immagine...».

7 Non prendiamo in considerazione un’ultima difficoltà mossaci sulla presunta uccisione del bambino atteso da Inger perché la crediamo manifestamente suggerita da un malinteso; infatti nel parlato più di una volta viene detto che «il bambino è nato morto» e, nella parte visiva del film, nessun gesto da parte del medico lascia supporre che egli proceda o abbia proceduto ad operazioni moralmente reprensibili.

8 E precisamente: da parte dei Borgen il grundtvigianesimo (dal “profeta” N. F. Severino Grundtvig: 1783-1872), e da parte del Peter l’indre-mission (che si rifà a Guglielmo Becks: 1829-1901).

9 Siamo d’opinione che un film, come del resto ogni altra opera d’arte, va giudicato dagli elementi oggettivi che esso stesso offre e non da esterne precisazioni che ne può dare direttamente o indirettamente l’autore. Qui però, trattandosi di chiarire idee più che valori artistici, ci pare che giovi riportare alcune battute di un’intervista in cui il Dreyer espone sue vedute in relazione col problema che ci occupa: si vedrà che non è precisamente la chiarezza dataci dalla teologia cattolica che vi brilla. Per maggiore oggettività le riportiamo nel loro francese originale: La science moderne, marchant sur les traces d’Einstein, avait démontré qu’hors du monde des trois dimensions que nous pouvons percevoir avec nos sens, il y a aussi une quatrième dimension, celle du temps, et une cinquième, la dimension psychique. La preuve de l’existence de la prémotion a été faite. De nouvelles données de la science nous permettent de mieux comprendre le Divin et nous fournissent l’explication naturelle des événements surnaturels. Dans cette perspective, nous voyons autrement le Johannes de Kaj Munk. Celui-ci l’a pressenti quand, en 1925, il disait que Johannes est plus proche de Dieu que les chrétiens qui l’entourent (Revue intemationale du cinéma, 1955, n. 22, p. 44).

10 Non ci si fraintenda: parliamo di atmosfera cattolica e non di valori artistici; tant’è vero che, pur riconoscendone gli accentuati elementi spettacolistici, fummo tra i primi a muovere ampie riserve sugli scarsi pregi d’arte di questo film (cfr Panoramica su Cannes nel sessantennio del cinema, in Civ. Catt. 1955, III, 279-282).

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Articolo estratto dal volume II del 1956 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Il consuntivo della XVI Mostra di arte cinematografica di Venezia, che abbiamo tentato di fare1, resterebbe sostanzialmente incompleto, e perciò falsato, se tacessimo dell’opera che tra tutte le concorrenti tanto emerge per arte, da doverla ritenere fuori serie anche tra le premiate: vogliamo dire di Ordet (La parola), di Cari Theodor Dreyer.

Dal teatro al cinema

Ordet deriva dal noto dramma di Kaj Munk, pastore danese, prelevato nel 1944 dai tedeschi nel suo villaggetto di Vederso e ritrovato cadavere lungo una strada della regione. Profondamente impressionato per aver visto una donna della sua “parrocchia” morire di parto, nel 1925 egli costruì intorno a quel triste fatto il dramma della fede taumaturgica, che nel film del Dreyer si ricompone su quest’intreccio.

In un villaggio danese vive il vecchio Morten Borgen, già per molti anni esponente e promotore di una fede fiduciosa e luminosa, ma ormai raffreddato in essa da quando quattro disgrazie gli hanno rattristato la casa: gli è morta la moglie; il figlio maggiore Mikkel, invano sollecitato dall’ottima sposa Inger, vive in un totale indifferentismo religioso; il secondo figlio, Johannes, già applicatosi a studi di teologia, trascina le giornate in uno stato di dolce demenza, che lo porta, in casa e nelle dune che la circondano, a parlare e ad agire come se fosse Gesù Cristo; l’ultimo, Anders, normale e pio, s’è incapricciato di Anne, figlia di Peter, sarto del villaggio, cultore a sua volta e predicatore di una fede spietatamente rigida, il quale perciò avversa come eretica e pagana quella dei Borgen e dei suoi seguaci. Su queste premesse il vecchio Morten non vuol sentire parlare di matrimoni tra le due famiglie, ma ne diventa subito testardo fautore quando viene a sapere che il sarto per il primo ha negato il suo consenso al figlio. Allora egli stesso affronta il nemico nella sua casa, ma con esito disastroso. Quando il colloquio tra i due volge alla fine, una telefonata annuncia che Inger, colta dalle doglie del parto, corre pericolo di morte. Peter non teme di affermare che la nuova disgrazia è meritata dai peccati del vecchio; allora questi nell’ira lo schiaffeggia, e corre presso la nuora giusto in tempo per assistere alle ultime inutili cure del medico: il bimbo atteso nasce morto e anche la puerpera, sottoposta ad un’operazione, muore.

Presso il letto di Inger si porta, in contrasto col muto e tragico dolore di Mikkel e del vecchio, anche il demente Johannes, che in tono profetico grida alla morta di alzarsi, naturalmente senza effetto e cadendo poi egli stesso in deliquio. Ma nel giorno dei funerali la fede porta i suoi frutti. Il sarto Peter si riconcilia con i Borgen e consegna ad Anders la sua Anne; Johannes, ormai guarito dalla sua demenza, in un primo momento non crede più possibile richiamare alla vita la morta; ma quando una nipotina, mettendogli una manina nella mano, gli ricorda la promessa da lui fattale di ridonarle viva la mamma, la sua fede si riaccende. Contro le proteste del pastore, che ha detto le sue parole di commiato sulla salma, e del dottore, geloso della sua scienza, che ha già firmato l’atto di avvenuto decesso, egli fa sua la parola di Gesù e comanda alla morta di risorgere. Il sorriso della bambina indica che il miracolo è avvenuto: Inger riapre gli occhi e riabbraccia il marito, ormai reso all’antica fede dei Borgen.

Th. Dreyer assisté alla prima di Ordet del Munk a Copenaghen il 2 settembre 1932, e subito ebbe l’idea di tirarne fuori un film: idea che attuò nel 1954. Purtroppo però i ventidue anni lasciati trascorrere per decantarla e maturarla non sono bastati a toglierle del tutto l’impronta nativa letteraria e teatrale2. Gran parte del film, infatti, passa nel predisporre i termini e nel disporre, per ordine esterno, le linee che portano alla scena madre. Non siamo ancora nell’azione dei personaggi ma nella definizione delle loro idee teologiche, quasi che non la loro vita fosse informata da esse, bensì solo le simboleggiasse. Ecco, dunque, benché ridotto a meno di un terzo, il lungo dialogare del Munk, necessario per distinguere teorie di fede da teorie di fede, che a spettatori non adusi a questioni del genere finiscono per passare per sfumature superflue ai fini del dramma, avvertito dai più solamente nel contrasto tra i due estremi della lunga serie: cioè la non-fede assoluta del medico, per il quale oltre la scienza c’è solo l’assurdo, e la fede assoluta della coppia Johannes-bambina, per la quale la risurrezione dei morti può essere una realtà non meno reale che la morte dei viventi. Sulla falsariga del Munk, il Dreyer s’impegna a distinguere tra la fede fiduciosa, confidente e luminosa dei Borgen e quella onerosa, dolorosa, chiusa ed asfittica che il Peter diffonde intorno a sé; non solo, ma anche a distinguere, tra i Borgen, la fede delusa del vecchio dalla fede perduta e riconquistata di Mikkel, dalla fede prima patologicamente pazza e poi “soprannaturalmente” non meno “pazza” di Johannes e la semplice non problematica fede infantile d’Inger e della sua figlioletta, nonché la fede “ortodossa”, professionale, ufficiale del pastore, il quale ne ha tanta quanta è sufficiente per ammettere la vita eterna delle anime, ma non da ammettere, oggi, la possibilità della presenza taumaturgica di Dio nel mondo sublunare.

* * *

Il Dreyer è artista e non professore di teologia. Egli adopera il dialogo teatrale e sopporta l’allentamento da esso prodotto nell’azione filmica, adeguando ad esso i suoi mezzi espressivi, sicché la staticità della sua opera, innegabile, tende a diventare stile.

Già negli altri suoi film, e specialmente nei suoi capolavori, egli, tra i tanti mezzi espressivi che la tecnica cinematografica gli offriva, aveva scelti solo quelli che istintivamente sentiva più congeniali all’argomento e alla particolare ispirazione con cui egli l’affrontava. In Giovanna d’Arco (1927), dramma intimo e personale della protagonista e dei suoi carnefici, adoperò quasi unicamente il primo piano; in Dies lrae (1943), approfondimento psicologico di passioni che lungamente si sviluppano e scoppiano improvvise, puntò quasi unicamente sul montaggio per contrasto; nel Vampiro (1931), evocazione di climi allucinati, chiese aiuto non di rado a particolari effetti di luce e a inquadrature soggettive. In Ordet, tolti i primi piani e quasi abolito il montaggio per contrasto, ridotte a due o tre le carrellate, lentissime, il Dreyer ripiega sulle inquadrature a campi totali, intorno alle quali, anzi sulle quali fa scivolare la macchina in un moto pendolare lentissimo di panoramiche orizzontali.

Anche la poca varietà di scene, che nel Munk era necessità di genere, nel Dreyer tende a diventare stile, e spesso vi riesce. La fissità dei due interni, raramente interrotta da qualche esterno di campagna, crepuscolare ed indistinta, stringe le anime dei personaggi in una vicenda che non è più di idee ma di sofferenza umana; la scenografia vi è ridotta al minimo, per oggetti e spazio libero, sicché gli uomini lo riempiono tutto, in contrasto con gli esterni, in cui l’uomo si sperde nella immensa natura che lo circonda; gli effetti di luce si riducono quasi tutti ai famosi grigi dreyeriani, che da soli creano profonde prospettive aeree in una prestigiosa gamma di sfumati e di semitoni, quasi impercettibili e pur sempre distinti. In quest’atmosfera le idee e le distinzioni di pensiero teologico nel Dreyer si rivelano stati d’animo, emozioni, e le emozioni prendono corpo in immagini che le esauriscono. Nell’interno di casa Borgen, l’ilare, affettuosa e pur modesta figura di Inger, il suo scherzoso interessarsi ed interessare il babbo all’amore del fratello minore, spirano fiducia nella vita; le stesse faccende domestiche e culinarie vi rivestono un’aria di festa; la sfiducia dei due uomini maggiori e la stessa dolce follia di Johannes, turbano sì quell’aria ma non la distruggono: vi perdura salda una promessa che, se qualche cosa si è rotta, alla fine tutto si aggiusterà: la promessa di un fiore racchiusa in un buon seme sepolto profondo nella terra. Al contrario, nella casa del sarto, tutto tradisce il plumbeo peso di un dovere imposto come un castigo: Anna e sua madre vi si muovono come automi, tristamente rassegnati alla vita che le schiaccia; anche la cura degli uccelletti vi è triste, simbolo, ahimè, quanto vero di altra non dorata schiavitù di creature umane; anche la preghiera vi è funerea e la lettura del Cantico dei Cantici vi è pericolosa come un trabocchetto...

Quando, man mano che l’azione avanza, i personaggi prendono maggior rilievo, la scenografia si semplifica ancor più e finisce col dissolversi: li vedi, allora, i personaggi, ridotti a silhouettes, stagliarsi su fondi grigi, indistinti, non sai se di fumo o di nebbia, come resi eterni, avulsi da ogni spazio e da ogni tempo, eppure ancora pienamente umani; perché anche in essi il Dreyer produce la metamorfosi interiore da lui subita nel dare vita alla sua opera. Niente in essi è comandato dall’esterno: tutto crea l’emozione, alla quale esteriormente corrisponde un’espressione, ed una soltanto: quella che rende visibile l’invisibile interiore, sicché tutto intorno all’attore sparisca, e resti solo, oggetto di contemplazione totale, il mistero insondabile dell’essere umano.

Allora il dramma delle persone diventa il travaglio cosmico di una frazione di umanità che è tutta l’umanità, di un angolo di terra che è tutto il creato, desideroso di sapere se la forza di Dio è vincolata dalle leggi della natura, oppure se Egli sia capace di sospenderne l’applicazione per lenire il dolore dei suoi figli. Ma quando la risposta viene, quando, presentendola, tutti i problemi e le ansie dei personaggi si avviano alla soluzione, quasi a significare la vittoria della fede luminosa su quella fredda e convenzionale, i semitoni dei grigi scompaiono, i neri fondi degli abiti di lutto e della coltre funebre risaltano decisamente sui bianchi delle pareti, dell’acconciatura e del viso della morta; il monotono moto pendolare di ricerca ansiosa diventa fissità, o rapido spostamento di certezza. Allora di teatro non c’è più nulla. Nell’inquadratura ormai resa immobile, solo i pochi elementi in lento movimento nell’interno di essa parlano il più puro linguaggio cinematografico. Un leggero, appena percettibile sorriso della bambina e il lumeggiare dei suoi occhi tranquilli bastano al Dreyer per dirci che, sì, Dio risponde alla terra, e il miracolo è avvenuto; allora anche l’inevitabile emozione psicologica che accompagna il lento sollevarsi della morta e l’appassionato suo stringersi al marito, e lo schianto di questi, che torna all’amore e alla fede, sono immagini di pura bellezza, commozione estetica, prodotta dalla più profonda ispirazione espressa con la più immediata semplicità di mezzi.

Film cattolico?

Un film impegnato come Ordet non è fatto per lasciare tranquilli i critici. Eccoli, dunque, occupati a discutere, oltre che sulla sua validità artistica, sulla portata del suo messaggio3. È. un film religioso? Se sì, lo cataloghiamo tra i film protestanti o tra i cattolici?

Le difficoltà mosseci da alcuni di essi a Venezia, evidentemente non di casa nel pensiero cattolico, ci hanno sorpreso col loro incentrarsi sulla possibilità o meno del miracolo: in questo caso, della risurrezione di un morto, parendo loro che la troppo illuminata sapienza della Chiesa cattolica non possa ammettere un tanto assurdo scientifico. Sta il fatto però che nel pensiero cattolico il miracolo non è per nulla un assurdo, e che, anzi, in linea di diritto e di fatto, vi ha piena facoltà di cittadinanza. In linea di diritto, perché noi crediamo che Dio, padrone assoluto delle leggi della natura, possa, quando lo voglia, liberamente sospenderne l’applicazione; in linea di fatto perché ammettiamo che in realtà l’ha sospesa più volte egli stesso direttamente, ed anche servendosi degli uomini come causa strumentale, non esclusi i casi estremi di risurrezione di morti, come crediamo per fede infallibile delle non poche di cui parla la Scrittura, in particolar modo dei tre risorti per comando di Gesù, o in occasione della sua morte, di cui riferiscono i vangeli; e soprattutto ammettiamo la inoppugnabile risurrezione dello stesso Gesù, se dubitassimo della quale vana sarebbe ogni altra nostra credenza4. Né vale sussumere che si tratta di risurrezioni di tempi remoti, perché come cattolici crediamo anche che Gesù ha promesso e preveduto il suo intervento taumaturgico nella vita della Chiesa in miracoli, i quali, di fatto, nella sua storia e nelle vite dei suoi santi, non sono mancati, risurrezioni comprese. Se poi la loro frequenza oggi non fosse tale quale fu nei primi tempi della Chiesa, la spiegazione può trovarsi o nella disposizione della Provvidenza, che in tempi di Chiesa saldamente stabilita non ricorre a mezzi straordinari, più indicati in stadi di cristianità incipiente, e meno quando la Chiesa, vigorosamente vivente, di per se stessa è sufficiente motivo di credibilità, o anche al calo deprecato dal Dreyer di quella fede viva nel mondo odierno, un briciolo della quale, non più grande di un granello di senape, al dire di Gesù, farebbe muovere le montagne5.

Resterebbe da vedere se un cattolico, precisate così le sue posizioni di diritto e di fatto, accetterebbe come miracolo la risurrezione nelle circostanze con le quali concretamente viene raccontata dal film. Ebbene, rileviamo che il Dreyer, contrariamente a quanto fa il Munk, non ci lascia dubbi legali sulla morte di Inger, producendocene il certificato, firmato proprio da quel dottore miscredente, sull’attendibilità scientifica e professionale del quale egli ha cura di rassicurarci. Dunque Inger è veramente morta; ma poi Inger rivive: le apparenze del miracolo ci sono; e più che le apparenze, perché la tesi del film, che vuol dimostrare l’efficacia taumaturgica della fede, ne postula la certezza6. Tuttavia dubitiamo molto che un “miracolo” corredato da solo queste pezze d’appoggio verrebbe preso in considerazione dalle autorità ecclesiastiche cattoliche, qualora venisse proposto per una canonizzazione, tanto le sappiamo prudenti e guardinghe, prima nel supporre e poi nel riconoscere miracoli, e tali miracoli, oggi che la scienza mette a loro disposizione tanti mezzi d’indagine, per esempio, sulle morti apparenti...7

Questo circa la presenza degli estremi fisici del «miracolo». Meno categorici saremmo quando si passasse alla presenza o meno in casu delle condizioni teologiche che nell’ordinaria economia della Provvidenza dovrebbero accompagnare il miracolo. Intanto non ci lascia del tutto tranquilli la causa strumentale di esso, cioè la problematica figura di Johannes.

Senza dubbio la sua follia ubbidisce ad un’esigenza estetica del Dreyer; egli, infatti, deve aver intuito che le grandi verità religiose enunciate in tono profetico da Johannes, se fossero state dette da uno normale, difficilmente avrebbero evitato la retorica; dette invece da un folle, senza perdere il loro valore oggettivo originario, potevano simboleggiare quella “visione oltre natura” che è propria della fede teologica, la quale, da chi non crede, è giudicata vera e propria follia. Naturalmente quell’esigenza estetica cessa quando si tratta di fargli compiere il miracolo: allora il Dreyer fa rinsavire Johannes, sicché il miracolo si compie dopo la sua guarigione, e perciò per l’intervento di uno capace di atti pienamente umani e religiosi. Purtroppo, però, prescindendo dalle intenzioni del regista, il rovesciamento subitamente avvenuto in Johannes stenta ad essere rivissuto psicologicamente dallo spettatore, sicché questi vede compiersi l’evento straordinario quando ancora non sente del tutto spente le risonanze della follia del «taumaturgo».

Qualche altra incertezza di luce si avverte nella natura della fede invocata per compiere il miracolo. Secondo il pensiero cattolico, infatti, la fede strappa, sì, i miracoli, ma non ne è né la causa determinante né la condizione da sola sufficiente, dipendendo il loro avverarsi dalla libera azione provvidenziale di Dio, per la quale si richiede la finalità di essi direttamente o indirettamente soprannaturale e la loro opportunità determinata dalle circostanze. Il film queste necessarie precisazioni non le nega né le rileva, onde nello spettatore il pericolo di forzare la sua tematica, attribuendo all’efficacia della fede un valore non obiettivo, si direbbe quasi meccanico. La stessa finalità soprannaturale, conferma della verità teologica che «ancor oggi Gesù Cristo è la parola di vita, temporale ed eterna», circola nell’orditura del dramma, chiaramente si manifesta nelle parole che occasionano l’evento: — Quando pronuncerò il nome di Gesù essa sorgerà... Gesù Cristo, se possibile, dàlle il permesso di ritornare in vita: dammi la parola che può far risuscitare i morti. Inger: in nome di Gesù Cristo, alzati! —, nonché nella rassegnazione della mamma risorta, che accetta la morte del figlio perché ormai lo sa «vivo nella casa di Dio»; eppure, nonostante ciò, uno spettatore cattolico non si sente a suo agio. Il motivo n’è l’atmosfera non cattolica in cui il Dreyer si muove ed imposta tutta l’azione del suo dramma; essa non facilita una comprensione pienamente sodisfacente anche di alcuni elementi che, a rigore, presi in se stessi, la permetterebbero.

* * *

Fa parte di siffatta atmosfera un’impostazione generale del problema della fede, che noi cattolici troviamo parziale, e se fosse proposta come esclusiva, anche errata. Il potere taumaturgico per noi è accessorio della fede, la quale principalmente ci è largita da Dio rivelante per renderci possibile il colloquio con lui nella vita della grazia, preparazione all’eterna visione beatifica, che la annullerà per sempre, e non tanto per assicurarci i beni, anche supremi, dell’esilio umano, transeunte. Poi il contrasto tra i due tipi di fede, essenziale alla vicenda, si riferisce, come abbiamo già osservato, a due correnti interne allo stesso calvinismo danese8, e non a fede e non-fede, dove naturalmente si sarebbe portato l’interesse di un drammaturgo cattolico; inoltre, pare che le stesse relazioni tra concetti di religione, scienza e fede non risultino sufficientemente precisate9; infine il problema religioso è vissuto dalle due famiglie antagoniste come sempre presente e onnincombente, macera le anime e i corpi, con azione più vicina al cupo cristianesimo di Kierkegaard, che a quello arioso e liberante, poniamo, del nostro Manzoni, o, per fare un esempio di cinema recente, di Marcellino, pan y vino (1955)10.

Vero è che un’attenta osservazione scopre nel Dreyer un progredire da climi terrorizzati dalla presenza della morte verso più spirabil aere; se infatti in Dies irae, nell’opposizione tra due fedi, quella atroce di Albertus e quella ariosa del giovane Martin, vince la prima, e la giovane Anna n’è la vittima inutile, in Ordet, al trionfo effimero della morte subentra quello definitivo della vita; tuttavia, la stessa sua soluzione finale non riesce ad attenuare l’impressione generale di sofferta gravezza prodotta, anche in questo, dal solito lugubre armamentario che accompagna tutti i suoi migliori film: cadaveri, candele, vestiti da lutto, carri e coltri funebri...: non sempre di buon gusto, e qualche volta inutilmente atroci: per esempio, la sequenza del parto, orrificato dal verismo dell’intervento chirurgico... Come non sorprendere, in questa cupezza di vita religiosa, specifiche tracce di quel tribolato pessimismo che già aduggiò la riforma di Lutero, staccatosi dalla Chiesa proprio per raggiungere una sua impossibile felicità e libertà interiore, e che egli lasciò in triste eredità ai suoi seguaci ed eredi? E non è meraviglia sorprenderle nelle opere del Dreyer, protestante, quando se ne avvertono anche in opere di cattolici, nella misura in cui esse hanno subìto l’influsso del protestantesimo, specialmente calvinista. Basta ricordare in Francia la chiusa spiritualità dei giansenisti, nonché, oggi, di un Bernanos, agli antipodi di quella rasserenante e cordiale, per restare in Francia, di un san Francesco di Sales e una santa Teresa del Bambin Gesù.

Concludendo, ci pare di poter giudicare Ordet non opera formalmente cattolica, né anticattolica; senza ombra di esitazione, invece, la diremo opera profondamente religiosa, trovandovisi vivissimo il senso del limite dell’uomo-creatura, della sua posizione di preghiera avanti a un Dio trascendente e tuttavia attivamente presente nel mondo. Questi valori contenutistici, felicemente resi da quelli formali apprezzati più sopra, anche se non ci persuadono del tutto a mettere Ordet tra i pochi capolavori del cinema, ci permettono di ritenerlo opera di alta classe, non indegna di figurare tra le migliori del grande regista danese; in ogni caso, capace da sola di dare pregio e rilievo ad una mostra d’arte cinematografica mondiale.

1 Cfr Equivoci e certeze alla XVI Mostra cinematografica di Venezia, in Civ. Catt. 1955, IV, 148-162.

2 Egli era stato preceduto nel 1943 dal regista svedese Gustav Molander. Cfr Boerge TROLLE: Il mondo di Carl Theodor Dreyer, in Bianco e nero, 1955, n. 6, 43 ss.; e BJORN RASMUSSEN: Conversazione con C. Th. Dreyer, in Rivista del cinematografo, 1955, n. 9-10, p. 48 ss., dai quali attingiamo qualche notizia.

3 Per esempio: per M. Gromo è «ineguale, non facile, un po’ prolisso, qua e là compiaciuto... Sarà certo molto discusso»; anche U. Casiraghi lo trova «discutibilissimo»; d’accordo con L. Chiarini che lo dice «ambiguo e problematico... Un film che fa pensare»; G. Moscon rincara: «Difficile, ardua, non credibile persino la vicenda, ove complessi problemi teologici... s’intrecciano con un’esaltazione assoluta della forza della fede... Un film che solleva dubbi, imposta problemi, impone discussioni». A. Bazin invece vi riconosce «perfezione stilistica inscindibile dall’altezza morale del soggetto» e lo giudica tale che «per livello di maestria e di perfezione... s’impone come punto di riferimento assoluto nella storia del cinema». P. Gadda Conti lo definisce «veramente religioso»; per G. Visentini si tratta di «un dramma elementare, spiritualmente povero, fatto di piccole, ingenue e tal volta meschine questioni, che nel loro bigottismo puritano lo rendono spesso tedioso», contro E. D’Alessandro e E. G. Laura, che lo trovano «meraviglioso messaggio di fede cristiana» e «visione autenticamente cristiana»; invece per A. Scagnetti si tratta di «un atto di fede di sapore protestante»; lo contraddicono P. Valmarana, per il quale «la religiosità del film è viva, contemporanea, tale da poter essere di buon grado condivisa dal cattolico di oggi» e G. L. Rondi, che vi trova «un punto di vista sui problemi di fede che si avvicina, sia pure da lontano, a quei problemi di grazia e di salvezza che sono propri del cattolicesimo»; P. Virgintino poi lo conferma «atto di profonda fede cristiana», contraddetto da M. Liverani, che lo definisce «film di sostanza troppo volutamente artistica e strepitosa...» – E. Lonero lo dice «lavoro di autentica poesia»; N. Ghelli lo giudica «di straordinario risalto nella poetica di Dreyer» per la sua «omogeneità senza fratture in un clima altissimo di straordinaria intemità drammatica e di sofferta macerazione mistica»; G. Carancini lo trova «irto di difficoltà... di sceneggiatura che può definirsi perfetta... unità sorprendente di uno stile che non conosce attimi di incertezza, debolezza...». – Più avanti avremo modo di ricordare gli stupefacenti “salti dialettici” di due eminenti marxisti.

4 Non è del nostro parere Smith, la quale, definita «incredibile» la vicenda del film e «assurdo il suo tema», con la sufficienza che distingue i marxisti, sentenzia che «solo l’ignoranza crede nella possibilità di far tornare in vita chi è morto» ed enuclea ai proni suoi lettori che «è una posizione quasi oscurantista: è la lotta alla intelligenza, al raziocinio...». E conclude: «pensiamo che i cattolici autentici non possono accettare questo film per buono...» (Il Paese, 28 agosto 1955). Saremo troppo ingenui, ma ci pare che proprio i marxisti dovrebbero avere meno difficoltà ad ammettere la possibilità della risurrezione, essi che ammettono quei miracoli permanenti che sono i “salti dialettici”, capaci, fra l’altro, di far passare la materia da non vivente a vivente, e da non pensante a pensante. Tuttavia, abbia pazienza la Smith, ma i «cattolici autentici» alla risurrezione ci credono, e come!, e la loro fede la fondano su di un’autorità certo più rispettosa della ragione umana che non sia la “rivelazione” di Carlo Marx e di Stalin suo profeta. Basti ricordare le forti parole di san Paolo: «Se Cristo non è risorto, è vana la nostra fede... Se per questa vita solamente speriamo in Cristo, siamo i più miserabili di tutti gli uomini. Ora però Cristo è risuscitato da morte» (1Cor 15,17 ss.), e i passi degli Atti degli apostoli, in cui san Luca identifica la missione degli stessi apostoli con la loro testimonianza dell’avvenuta risurrezione di Cristo: Att 1,8.22; 2,32; 4,10 ecc. Per le tre risurrezioni operate da Gesù e riferite dai vangeli cfr Lc 7,11 ss. (per il figlio della vedova di Naim), Lc 8,41 ss. e Mc 5, 22 (per il figlio di Giairo), Gv 11,1 ss. (per Lazzaro). A questi ultimi testi rimandiamo il forse distratto E. D’Alessandro, secondo il quale la risurrezione è «miracolo che si è verificato una sola volta nella storia dei secoli» (L’Italia, 28 agosto 1955).
Di miracoli fatti dai santi nei tempi passati sono pieni gli stessi Atti degli apostoli e poi le vite dei santi; per i miracoli dei tempi moderni basti ricordare quanto da circa un secolo avviene a Lourdes, e i miracoli richiesti ordinariamente per la beatificazione (due, tre o quattro) e per la canonizzazione (due o tre) dei nuovi santi, per i quali cfr Codex iuris canonici, cann. 2117, 2138.

5 Sono appunto le parole di Gesù agli apostoli: «In verità vi dico: Se avrete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: Passa da questo a quel luogo, e passerà, e nessuna cosa sarà a voi impossibile» (Mt 17,19), completate dalle altre rivolte a tutti i suoi seguaci: «Chi crede in me, farà anch’egli le opere che faccio io: e ne farà di maggiori» (Gv 14). L’osservazione poi sul modo diverso di agire della Provvidenza mediante i miracoli è di san Gregorio: Homiliae in Evangelia, n. 29: P.L. 76, 1215. – Per la Chiesa come sufficiente motivo di credibilità cfr Concilio Vaticano, Const. de fide catholica: DENZ.-U. 1794.
Delle condizioni richieste per fare i miracoli e di chi possa farli tratta san Tommaso: Summ. Theol. 2ª 2, q. 178, artt. 1 e 2. Per la questione dei miracoli fatti da peccatori e da infedeli, cfr Dictionnaire de thlologie catholique, X, coll. 1836-1838.

6 Nel Munk il fatto della morte avvenuta non ha la stessa prova professionale e, forse, dato il suo stato di dubbio e di scetticismo, per lui la risurrezione di Inger non è altro che un simbolo della “rinascita” di Johannes; questo almeno secondo il citato Boerge Trolle, il quale l’afferma senz’altro per il film di Molander: «Nell’interpretazione di Gustav Molander la risurrezione della donna sta chiaramente a simboleggiare la risurrezione della natura emotiva ed intellettuale di Johannes» (art. cit., p. 53); ma lo stesso Boerge Trolle giustamente nota che «nel film di Dreyer appare un tutt’altro atteggiamento interpretativo. Dreyer, è chiaro, vuole che noi accettiamo il miracolo come una realtà» (ivi).
Continua a non essere della nostra opinione la citata G. Smith, la quale si domanda: «Che cosa ha voluto dimostrare Dreyer?... È egli davvero convinto che – con la fede autentica – il miracolo può, anzi deve avvenire?» e si risponde: «Pensiamo di no. Forse Dreyer era più convinto di noi che far risuscitare chi è morto è impossibile: infatti egli fa compiere il miracolo a un pazzo che è rinsavito fino a un certo punto...». La segue a ruota G. Aristarco, il quale trova Ordet incredibilmente «confuso», affollato com’è di «simboli, simbolismi e contraddizioni», e dunque va affannosamente in cerca di una chiave per capirci qualche cosa. E la trova, fortunato mortale, la chiave, attraverso un rompicapo di risvegli e di Limelight, di sangue e di labbra esangui, di letti e di sepolcri, nonché di «amaranti e di viole che non riescono a sopraffare il crisantemo». La chiave non è la fede ma «la vita»! Nel film si vuole significare «che solo dei sopravvissuti possono interessarsi a certa problematica mistica (leggi “religione”), che solo il morente – o chi è morto tra morti vivi – può aver fede nell’ultima speranza: li miracolo divino». – A siffatto cibreo di acutezze fa riscontro l’atrabile di U. Barbaro, il quale ai lettori di Rinascita assicura che «la qualità generale del film è sicuramente inferiore» e che Ordet è «opera di irrazionalismo superstizioso, di cruda disumanità e di empia fusione di follia, di misticismo e di erotismo»; ragion per cui, marxisti per marxisti, noi ai due nostrani preferiamo il marxistissimo e senza dubbio competentissimo G. Sadoul, per il quale Ordet, più onestamente, «dimostra che la risurrezione dei morti è per Dreyer un articolo di fede»; egli non teme di affermare che «tutta l’azione è immersa nel più profondo misticismo ed è incontestabilmente sincera... Un’incredibile perfezione domina ogni scena, ogni immagine...».

7 Non prendiamo in considerazione un’ultima difficoltà mossaci sulla presunta uccisione del bambino atteso da Inger perché la crediamo manifestamente suggerita da un malinteso; infatti nel parlato più di una volta viene detto che «il bambino è nato morto» e, nella parte visiva del film, nessun gesto da parte del medico lascia supporre che egli proceda o abbia proceduto ad operazioni moralmente reprensibili.

8 E precisamente: da parte dei Borgen il grundtvigianesimo (dal “profeta” N. F. Severino Grundtvig: 1783-1872), e da parte del Peter l’indre-mission (che si rifà a Guglielmo Becks: 1829-1901).

9 Siamo d’opinione che un film, come del resto ogni altra opera d’arte, va giudicato dagli elementi oggettivi che esso stesso offre e non da esterne precisazioni che ne può dare direttamente o indirettamente l’autore. Qui però, trattandosi di chiarire idee più che valori artistici, ci pare che giovi riportare alcune battute di un’intervista in cui il Dreyer espone sue vedute in relazione col problema che ci occupa: si vedrà che non è precisamente la chiarezza dataci dalla teologia cattolica che vi brilla. Per maggiore oggettività le riportiamo nel loro francese originale: La science moderne, marchant sur les traces d’Einstein, avait démontré qu’hors du monde des trois dimensions que nous pouvons percevoir avec nos sens, il y a aussi une quatrième dimension, celle du temps, et une cinquième, la dimension psychique. La preuve de l’existence de la prémotion a été faite. De nouvelles données de la science nous permettent de mieux comprendre le Divin et nous fournissent l’explication naturelle des événements surnaturels. Dans cette perspective, nous voyons autrement le Johannes de Kaj Munk. Celui-ci l’a pressenti quand, en 1925, il disait que Johannes est plus proche de Dieu que les chrétiens qui l’entourent (Revue intemationale du cinéma, 1955, n. 22, p. 44).

10 Non ci si fraintenda: parliamo di atmosfera cattolica e non di valori artistici; tant’è vero che, pur riconoscendone gli accentuati elementi spettacolistici, fummo tra i primi a muovere ampie riserve sugli scarsi pregi d’arte di questo film (cfr Panoramica su Cannes nel sessantennio del cinema, in Civ. Catt. 1955, III, 279-282).

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151