NOTE
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1 Ci conforta, leggendo l’ottimo Tre maestri di cinema, di A. SOLMI (Milano 1955), di trovarci su questo d’accordo con lui, mentre non ne condividiamo pienamente le osservazioni sulla “fede” di Giovanna (pp. 36-37).

2 Cfr, per esempio, T. GUERRINI, La filosofia dell’esistenza nella storia del cinema, in Bianco e nero, 1954, n. I, p. 39, ma con argomenti scarsi e, ci pare, molto discutibili. Cfr anche F. DI GIAMMATTEO, Profili di registi: Dreyer, in Comunità, 1956; n. 41, p. 78; N. GHELLI, Carl Theodor Dreyer, in Rivista del cinematografo, 1956, nn. 9-10, pp. 50-51.

3 Cfr per i relativi testi: H. ROOS S.I., Kierkegaard et le catholicisme, Louvain 1955, pp. 30-31. Del resto, a spiegare una sua antipatia per l’indre-mission basterebbe ricordare i tristi anni della infanzia passati da Dreyer nella famiglia adottiva, seguace appunto dell’indre-mission, da lui ricordati, non certo per esaltarla, nella prima parte dell’Angelo del focolare, evidentemente autobiografica.

4 Per il dialogo tra il vicario e Mikkel, cfr Ordet, in Film, 1955, n. 2, p. XII.

5 In Enciclopedia Cattolica, vol. VIII, s.v. Kierkegaard, p. 693.

6 Altro punto di contrasto e di critica contro Lutero, difensore del «servo arbitrio»: cfr ROOS, op. cit., pp. 42 e 47.

7 Per N. GHELLI, Dies irae è «una condanna spietata e feroce di quel mondo» (op. cit., p. 51).

8 Per l’esegesi del testo cfr ROOS, op. cit., pp. 68-71. Da notare però che la traduzione kierkegaardiana: Agis selon mon enseignement, et tu sauras par expérience, risponde assai scarsamente all’originale: Si quis voluerit voluntatem eius facere, cognoscet de doctrina utrum ex Deo sit.

9 Cfr BOORGE TROLLE, Il mondo di Carl Theodor Dreyer, in Bianco e nero, 1955, n. 6, p. 46.

10 A questo proposito ci pare anche sintomatica la scelta già fatta dal Dreyer di Maria Stuarda come soggetto di un film, poi non girato.

11 Per l’individualismo di Kierkegaard, che ignorò la Chiesa come Corpo mistico, e per il suo “solitarismo”, cfr ROOS, op. cit., pp. 79-84.

12 Diremmo che anche la stregoneria, elemento presentissimo nel pensiero del medioevo e in modo superlativo in quella di Lutero, in Dreyer rientri in certo qual clima religioso; essa non è solo un elemento per fare atmosfera (Vampiro, Dies irae), ma, per quanto superstizioso, un tentativo di superamento del reale materiale, e, come tale, sia come presunta attività delle streghe, sia come credenza in esse, altro fenomeno posto al limite tra il materiale e il soprannaturale, tra il temporale e l’eterno. – Sulla fondamentale religiosità della sua opera si accorda la quasi stroncatura che di Dreyer fa F. DI GIAMMATTEO, nell’art. cit., nel quale, ci pare con eccessiva severità, si fa derivare il decadentismo del «piccolo artista» solo «talvolta artista autentico» dalla letteratura decadentista europea a cavallo tra i due secoli, e il suo cristianesimo appunto da quello dì Kierkegaard.

13 Per una trattazione più vasta di questo argomento rimandiamo al nostro: La fede taumaturgica nell’ultimo Dreyer (Civ. Catt. 1956, II, 373-383). Ma non è difficile trovare posizioni polemiche contro il sacerdozio in altri film di Dreyer; così G. C. CASTELLO li trova in Dies irae e nella Passione definendoli «essenzialmente anticlericali». Cfr Parabola creativa di C. Th. Dreyer, in Bianco e nero, 1948, n. 9, p. 31.

14 Cfr Entretiens avec Dreyer, in Revue internationale du cinéma, 1955, 22, p. 44.

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Si può dire religiosa l’opera cinematografica di Dreyer? — A bella prima risponderemmo senz’altro «sì». Sennonché, se ci diamo la pena di sottoporre tutti i ventun pezzi che la compongono all’esame dei contenuti ternatici, ci accorgiamo che l’affermazione, se proprio la vogliamo mantenere, necessita di qualche precisazione. Intanto, degli otto cortometraggi, sei sono di contenuto del tutto religiosamente neutro: Aiuto alle madri e Acqua nelle campagne, del 1942; Thorvaldsen e L’infanzia della radio, del 1948; Il ponte di Storstrombroem e Un castello dentro un castello, del 1949; neanche gli altri due: Chiese di villaggio (1947) e Essi presero il traghetto (1948) svolgono argomenti religiosi, appartenendo il tema del primo alla storia dell’architettura e quello del secondo alla propaganda antinfortunistica: tuttavia questi vertono su oggetti che riguardano la religione, o direttamente, come le chiese, o indirettamente, come la morte, con la tetra scenografia di teschi e di bare con la quale Dreyer suole accompagnarla.

Poco differente sarà il discorso se passiamo ad esaminare i suoi tredici lungometraggi. Cominciando dai tre massimi, ai quali è legata la migliore fama di Dreyer come artista, l’ultimo di data, Ordet (1955) — checché ne dica qualche fedel marxista, costretto a negare la luce del sole per esigenze di ideologia — è essenzialmente religioso, movendosi tutto sul tema della fede nella presenza taumaturgica di Dio nel mondo odierno; tema, tuttavia, che non ne esclude un altro parallelo: il trionfo della vita sulla morte. Ma già Dies irae (1943) è di un assunto religioso molto meno dichiarato: sì, vi formicolano elementi che hanno che fare direttamente con la religione — i due pastori e i loro colleghi del tribunale, la scenografia tutta religiosa che fa da sfondo alla tragedia — e soprattutto vi pesa un’atmosfera a mezzo tra la religione e quella degenerazione della religione che è la superstizione, creata dal tema del peccato — ma più come marchio dell’uomo che come offesa di Dio — dall’altro della stregoneria, che tormenta la vecchia Marta, la prima moglie di Absalon e la seconda: Anna, nonché dal solito lugubre armamentario di ceri, di morti, di ombre e di feretri; ma nell’insieme si direbbe piuttosto un dramma psicologico tra e dentro creature umane, che sono campo di lotta di potestà avverse: il bene e il male, la giovinezza e la vecchiaia, la libertà e la costrizione, l’amore e l’odio, la luce e l’ombra, la vita e la morte; dramma che innegabilmente si rifà ad una tipica concezione dei rapporti tra l’uomo e Dio, dunque religiosa, ma direttamente si conclude tra uomini e nell’uomo.

Ancora meno religioso è La passione di Giovanna d’Arco (1928); sembrerà un paradosso, ma è così. Nonostante che esso tratti di un argomento religioso, e che ecclesiastici sono i numerosi giudici del tribunale inquisitoriale che vi agisce, e che finisca con la glorificazione di una santa canonizzata dalla Chiesa cattolica, un’onesta analisi oggettiva dell’opera fa concludere che ci troviamo piuttosto innanzi a un inno alla libertà interiore della persona umana. False o vere che siano le voci che hanno portato la contadina di Donrémy a Reims, Dreyer non le discute; gli basta sapere che Giovanna ci crede, e che non si pieghi, lei indifesa ragazza, a chi le oppone la forza brutale: sia quella dei cavilli di “sapienti”, che vogliono legarle la libertà interiore, sia quella materiale dei carnefici, che possono distruggerne il corpo, ma non lo spirito; di fatto la lota e la vittoria avvengono sul terreno religioso, di fatto la natura stessa della vicenda ha anche una fortissima efficacia religiosa; ma essa è più merito della gesta eroica della santa che del film di Dreyer; a questo si può riconoscere solo un clima di religiosità, e, magari, un tipo determinato di concezione religiosa, come necessario suo presupposto, al pari di Dies irae1.

Se passiamo al resto della produzione dreyeriana, sei pezzi: Il Presidente (1919), C’era una volta (1922), Il desiderio del cuore (1924), L’angelo del focolare (1925), I fidanzati di Glomdal (1926) e Due esseri (1944), non si rifanno neanche indirettamente a una tematica religiosa, raccontando storie più o meno romanzesche, l’una o l’altra con vaghi intenti moralistici; in due affiora la difesa della libertà umana, e sono Ama il tuo prossimo (1922) contro i pogrom ebraici, e Pagine del diario di Satana (1921): polittico che denuncia, sulla falsariga del griffithiano Intolerance (1916), quattro casi di violenza contro la libertà umana: la morte di Gesù, l’inquisizione, la rivoluzione francese, il comunismo contro la Finlandia. Qui si direbbe che ci troviamo su terreno religioso, non tanto perché alcuni casi sono su oggetto religioso — due contro due — quanto perché tutti e quattro sono suggeriti e, si può dire, portati a termine da Satana, volta a volta vittorioso nella invidia di farisei, nella lussuria del monaco, nell’orgoglio del giacobino e nella violenza del bolscevico; tuttavia un’analisi elementare del film ci porterebbe a concludere più o meno come per la Passione; meglio che centrare i rapporti tra natura e soprannatura, a Dreyer in questo film importa condannare la violenza come tale e difendere l’innocente oppresso: la presenza di Satana, più che significato teologico, vi ha valore simbolico; egli vuoi dire che ogni violenza è figlia “del cattivo”, e dunque è male, da condannare. Resta tuttavia vero che in questo film per la prima volta Dreyer notifica la sua tendenza a vedere, e ad esprimere, questo mondo terreno come non chiuso in se stesso, ma pervio verso un ultramondo superiore, reale anch’esso, e naturale continuazione e spiegazione di questo. Qui l’agente ultra-mondano presente nel mondo è Satana; il film che lo seguì, Il quarto matrimonio della signora Margherita (1921), è da lui ambientato in un mondo sacerdotale, riferito cioè a persone istituzionalmente in relazione e legame tra l’uomo e Dio, che poi non mancheranno, avranno anzi parte di primo piano, nella triade dei capolavori di Dreyer.

Un posto tutto particolare nell’opera del maestro occupa il Vampiro (1931), e non tanto perché tuttora tiene divisi i critici, tra i quali, mentre alcuni lo dicono artisticamente valido, altri lo giudicano un orrore, quanto perché si può ritenere l’arsenale più colmo di tutto il materiale macabro distribuito abbondantemente dal Dreyer in altri film: vi agiscono, infatti, la stregoneria con la relativa Inquisizione, e vampiri, e veleni, e candele accese, e teschi grandi e piccoli, e casse funebri, e morti: una vera orgia di orrori, esaltata dai suoni, dalle voci soffocate, dai rumori misteriosi e da silenzi ancor più misteriosi.

A complemento di quanto si è detto, notiamo che quasi non c’è film di Dreyer che non presenti uno o più morti, e che rari sono quelli che non mettano a contrasto giovinezze assetate di vita con vecchiezze condannate: altro aspetto del suo problema centrale vita-morte, e del suo istintivo portarsi verso quelle zone dell’essere dove il noto confina con l’ignoto e il tempo con l’eternità. Questo ci fa concludere che, se l’opera di Dreyer nel complesso non si può dire dichiaratamente religiosa, tuttavia è tale che suppone una visione fondamentalmente religiosa della vita, alla quale bisogna necessariamente risalire per spiegarla.

L’angoscia esistenzialista

Il mondo di Dreyer è l’esistenzialismo di Kierkegaard? Molti saggisti sono stati tentati di affermarlo, e pochi hanno resistito alla facile tentazione2. E si capisce: danese è Dreyer e danese è Kierkegaard, anzi, da mezzo secolo, il più noto dei danesi per la sua filosofia e la sua polemica religiosa: come si può presumere che Dreyer lo ignori? Piuttosto, se semplicisticamente si fa Kierkegaard = esistenzialismo, ed esistenzialismo = angoscia, dato che gli angosciati abbondano nell’opera di Dreyer, e che vi abbonda il materiale orrifico, e angosciato è il suo monocromo insistere su pensieri di morte, come non vedere tra i due danesi una relazione di dipendenza?

Sed contra est... direbbe san Tomaso, che, intanto, un argomento a posteriori sembra deporre per una scarsa simpatia di Dreyer verso Kierkegaard. Lo prendiamo da Ordet. Manifestamente le simpatie del regista vanno per la famiglia dei Borgen, rappresentanti di quel grundtvigianesimo che propugna una concezione ariosa ed illuminata della fede e della religione, mentre l’indre-mission della famiglia del sarto, asfittica e rigida, gli è piuttosto antipatica; ora si dà il caso che Kierkegaard si comportò proprio al contrario, combattendo il grundtvigianesimo e propugnando un cristianesimo al limite: “eroico”, agonico, sofferto... Suo, tra l’altro, è il rimprovero a Lutero e alla sua “riforma”, per essersi «adattato al mondo in favore di una vita religiosa più comoda senza difficoltà e senza martirio»3. Inoltre, mentre Johannes, nel dramma di Munk, impazzisce a causa della morte della fidanzata, in Ordet impazzisce «perché ha letto Kierkegaard... con le sue speculazioni e i suoi dubbi»4. Chi non vi scorge un sarcasmo più o meno palese? Se poi si passa da questo argomento poco più che indiziario a un altro, i dubbi non diminuiscono. Infatti, confrontando il quadro della problematica di Dreyer con quello del pensiero di Kierkegaard, si vede che i due mondi non coincidono, nonostante l’angoscia comune.

Secondo la sintesi di C. Fabro5, il pensiero di Kierkegaard si struttura di realismo, di spiritualismo e di cristianesimo; contro Hegel, infatti, il filosofo danese prese posizione difendendo la realtà oggettiva di Dio e del creato, e su di essa fondò i rapporti oggettivi umani di arte e di religione; contro i materialisti egli stette per la possibilità della scelta propria dello spirito e della fede, aprendo così la via alla trascendenza6: e, finalmente, contro il peccato ossessionante egli pose Gesù Cristo, salvatore e modello di vita; sicché, se l’esistenza umana, perché disordinata fin nelle sue più remote radici dall’onnipresenza della colpa originale, non può non essere sofferenza, questa viene radicalmente superata in un momento etico che prelude all’attesa di Dio; perciò, in definitiva, la vita dell’uomo, polarizzata in un’attesa non vana, non è priva, almeno nel suo termine, dalla speranza cristiana. Non per nulla alcuni tra i suoi esegeti – e forse lo stesso Kierkegaard ci si credeva – lo considerano a mezza strada tra il protestantesimo e il cattolicismo!

Su tutto ciò l’opera di Dreyer, naturalmente, non teorizza; forse perché, come vedremo, egli non poteva; ma anche se l’avesse potuto, come artista non l’avrebbe voluto, intendendo egli fare opera d’arte e non polemica filosofico religiosa; tuttavia, neppure esprimendo nei suoi personaggi e nelle loro vicende il suo mondo interiore, egli ci fornisce elementi per poterlo giudicare all’unisono con quello di Kierkegaard. Sì, passi pure per il realismo, supponendo che quello artistico, caratteristico dello stile di Dreyer, sia il corrispondente di quello filosofico di Kierkegaard; e passi pure per lo spiritualismo, almeno nei limiti nei quali lo “spiritualismo” di tutti e due, come vedremo, nega ogni materialismo e immanentismo, e non in quanto diverge da quello pienissimo aristotelico tomista; ma nell’elemento dolore-speranza? e su Gesù Cristo salvatore e modello? Come vuole l’angoscia esistenzialista, i personaggi di Dreyer sono soli, e soli vivono i loro tormenti interiori; ma più che per una causa intrinseca originaria, legata all’esistenza come tale – sì, c’è anche questo! –, lo sono perché soggetti ad una forza esterna ad essi, che ha fissato il loro destino temporale ed eterno, senza lasciare loro molta possibilità di scelta; inoltre, al termine della tragedia terrena di molti suoi personaggi non c’è luce di speranza soprannaturale, cristiana. Lasciando, infatti, da parte Ordet, che fa a sé, Dies irae termina nella disperazione più nera; tutti e cinque i personaggi vivono nell’angoscia, tanto quelli che in essa e per essa affrontano la morte: la strega, il vecchio pastore e la sua giovane moglie, quanto la nonna vendicatrice e il nipote traditore, che restano in una vita amara come il peccato da loro commesso; la morte nella Passione di Giovanna d’Arco poi è, sì, una liberazione, ma non verso Dio, termine beatificante, bensì dall’incombere delle potenze illiberali impersonificate dai suoi persecutori, ecclesiastici e laici.

Naturalmente ci si può, e ci si deve chiedere, se questo mondo descritto da Dreyer sia anche accettato da lui o, non sia, piuttosto, condannato. Ci pare che, evidentemente, egli non l’approva; soffre perché le cose vanno così; nell’assistere alla lotta tra il male e il bene, tra la morte e la vita, tra le tenebre e la luce, egli sta per il bene, per la vita, per la luce, ma non può fare a meno di notare che di fatto vincono il male, la morte, le tenebre...7. In ogni caso l’angoscia dei suoi personaggi è piuttosto causata dall’urto di uomini presenti l’uno all’altro, la diremo piuttosto storico psicologica, che sfocia nella morte, o subita (Pagine del diario di Satana, La Passione, Il Vampiro) o cercata (Il Presidente, Il quarto matrimonio, Dies irae), mentre l’angoscia di alcune correnti esistenzialiste è piuttosto metafisica, annessa alla finitezza dell’essere umano, e quella kierkegaardiana è addirittura teologica, connessa col peccato.

L’eredità luterana

Stando così le cose, induzione per induzione, volgiamo altrove le nostre ricerche per trovare l’origine degli elementi comuni al mondo religioso dei due grandi danesi, che ci pare di potere individuare nella “riforma” luterana. Ci aiuteranno, per arrivarvi, alcuni dati sulle vicende religiose della Danimarca.

È noto che questa regione fu tra le prime ad aprire le strade ai “riformati” tedeschi, i quali vi penetrarono appena qualche anno dopo il 1517, data della definitiva secessione di Lutero. Reso il protestantesimo religione unica del paese dal colpo di Stato di Cristiano III (1536), l’anno appresso, il fedele discepolo di Lutero Giovanni Bugenhagen, dal suo luogo d’origine detto il Pomerano, vi dava, e alla nuova dottrina e alla nuova organizzazione ecclesiastica, un aspetto radicale e definitivo. Forse perciò la Danimarca conserva rilevanti ancor oggi le caratteristiche della “riforma” primitiva e costituisce uno dei blocchi più omogenei del protestantesimo.

Se le varie crisi di pensiero filosofico e religioso, che nel frattempo hanno travagliato l’Europa, vi hanno fatta larga messe di atei o d’indifferenti religiosi, resta vero che a più di un secolo dalla promulgata libertà di culto (1849), ufficialmente i protestanti vi formano un blocco compatto numerando il 98,8 per cento della popolazione, sicché si può inferire che quel poco o molto che vi circola ancora di pensiero religioso senta poco o nulla l’influsso di correnti diverse dal protestantesimo. In quest’ambiente visse un secolo fa Soeren Aabye Kierkegaard (1813-1855), visse e vive Carl Theodor Dreyer.

A conferma di un prevedibile scarso influsso cattolico nel mondo religioso dei nostri due danesi, valgano questi particolari: Kierkegaard, nonostante che facesse proprio la religione oggetto del suo maggiore interesse, mostra sia nella sua attrezzatura tecnica (si conosce la lista dei libri da lui posseduti e letti), sia nel seguire alcuni pregiudizi comuni circa i cattolici, lacunosità culturali religiose rilevanti (si ricordi, del resto, che morì a quarantadue anni); riguardo a Dreyer, poi, ricordiamo che egli non è propriamente un uomo di studio, tra l’altro perché non ha avuto né modo né tempo di applicare la mente a studi sistematici di cultura religiosa e scientifica; da ragazzo, infatti, poté apprendere un po’ di musica, poi la teoria e la pratica della ragioneria; da giovane e da adulto fece il giornalista interessandosi prima di aviazione e poi di teatro, intramezzando, come continua a fare tuttora, al giornalismo e ai conti, la pratica del cinema, neanche a questo applicandosi come teorico. Ciò posto, si può opinare che il suo mondo religioso sia più che altro la risultante delle suggestioni su di lui esercitate all’ambiente della Danimarca protestante.

Ora, è anche noto che il complesso sovvertimento religioso della “riforma” ebbe tre componenti principali: l’antipapale, la biblica e la mistico fideista. La prima, passati i fatti contingenti che immediatamente l’occasionarono, si è piuttosto ridotta, almeno nelle sue forme esteriori; la seconda, che aveva posto la Bibbia come unica fonte della verità rivelata, e il libero esame di essa come l’unico modo di appropriarsene il contenuto salvifico, non uscì indenne dai colpi dell’illuminismo e del razionalismo dei secoli XVIII e XIX, venuti a snervare nella sua prima origine la validità di una dottrina già praticamente dimostrata assurda dal caotico proliferare, sul ceppo del libero esame, di correnti cristiane tra loro contraddittorie: ne restò, più che come domma teorizzato, come prassi abitudinaria, un insieme di pratiche, che materialmente e storicamente si collegano con le varie successive interpretazioni della Bibbia date da Lutero, quali la non essenziale distinzione tra laici e preti, il non celibato di questi, la soppressione degli ordini religiosi e la pressoché totale abolizione della vita sacramentaria, ridotta quasi solo al rito dell’Eucarestia, e il carattere nazionale delle chiese, non più parte integrale di una sola e totale cristianità. In questo disperdersi dell’eredità luterana, quella forse che ha più resistito immutata è la componente psicologica, che travagliò senza tregua l’anima del “riformatore”, detta mistico fideista in quanto partì da uno stato angoscioso di coscienza suo, personale ed emotivo, incentrato nel peccato, e cercò una consolazione nell’unica cosa che pareva promettergliela piena, la fede fiduciosa, che sola giustifica.

Lutero, infatti, fu un passionale; se teorizzò fu per uscire dalla sofferenza che le passioni ribollenti gli causavano, e per lo più, guidato da esse. Ma il guaio fu che, quando teorizzò, costruì un sistema che non solo non lo trasse fuori dall’angoscia interiore che l’aveva originato, bensì l’aggravò. Né poteva essere altrimenti. Da una parte, infatti, stabilendo che la religione non è primieramente un insieme di relazioni oggettive tra Dio: creante, elevante e redentore, il quale di fatto le ha fissate secondo il suo beneplacito, e l’uomo: creato, elevato e redento, che è tenuto ad accettarle per libera volontà amorosa, bensì, praticamente, una risposta a esigenze soggettive interiori dell’uomo, portava logicamente a far coincidere l’efficienza della vita religiosa con la consolazione psicologica del fedele; e siccome i fatti dimostrano che questa non è necessariamente frutto di quella, egli tendeva a trasferire ogni angoscia interiore a insolubile problema religioso; d’altra parte, tentando di superare le difficoltà interiori mediante l’abbandono totale in Dio in una fede fiduciosa, tanto assoluta e purissima da escludere ogni intermediario umano – persona o cosa che fosse – si precluse l’accesso proprio ad alcune fonti di consolazione interiore disposte da Dio a soccorrere l’umana debolezza.

Già lo stesso atto di fede, privato dei fondamenti logici che lo rendono ragionevole, e della garanzia probante di un’autorità divina ma visibile, degenerava da soprannaturale, e quindi anche umanamente liberante, a innaturale, e quindi umanamente mortificante; abolendo la confessione sacramentale fatta al sacerdote e l’assoluzione sensibilmente impartita da esso, si snervava qualunque certezza, anche relativa, della remissione dei peccati; quindi il pensiero delle colpe personali, oltre che di quella di origine, restava sempre presente e sempre tormentosa, tanto più che la pratica osservanza della legge morale da parte della natura radicalmente corrotta, era stata detta impossibile; negato ogni merito alle buone opere ed attribuito loro solo un significato estrinseco di bontà d’animo, ne abbondasse o meno la vita del credente, non le toglievano, anzi ne aumentavano, il senso di vuoto e d’inutilità che l’aduggiava, ai fini di una salvezza eterna, elargita o negata irrevocabilmente da un Dio, più giustiziere che salvatore; negata, infine, l’intercessione dei santi, ed ogni possibilità di comunione con essi, l’uomo si ritrovava praticamente abbandonato a se stesso, in una terra senza sole, schiacciato da un cielo fosco ed impenetrabile.

Questo desolato pessimismo teologico, assimilato, vissuto e trasmesso da generazioni e generazioni nei paesi protestanti, non poteva non confluire nel pessimismo tout court di ambienti dove, clima e tradizioni culturali favorendo, più spontaneamente hanno allignato visioni macabre ed inquietanti; quindi nel mondo interiore di Kierkegaard e di Dreyer.

Recettività congeniale

Questa nostra supposizione ci è suggerita anche da una certa recettività che ci pare di sorprendere nei due danesi rispetto, non tanto al contenuto quanto al “modo” del problema religioso di Lutero, parendoci che nell’uno e nell’altro ci sia piuttosto un prevalere della sensibilità sul rigido raziocinio. Infatti, per Kierkegaard le esperienze interne dominano sulle facoltà raziocinanti, e queste servono soprattutto a tormentare la sua anima sensibilissima, sicché anche per lui la vita religiosa è soprattutto passione (= Lidenscab), e non dato oggettivo (= Videnscab); di qui, forse, su piano conoscitivo, quel suo prevalere del concetto di verità esistenziale sui concetti di verità ontologica e logica, e, su piano religioso, quel suo incerto procedere tra la fides quae, oggettiva, rigorosamente formulabile, sulla quale fortemente insiste la dottrina cattolica, e la fides qua, stato d’animo, sulla quale quasi esclusivamente si ferma il pensiero luterano; quindi, ancora, il suo forzare del giovanneo 7,17 (Gv 7.17), in maniera da escludere la necessità di prove logiche come presupposto all’atto di fede teologica e far sgorgare questa come un’esigenza della vita vissuta cristianamente8. Per Dreyer, invece, il prevalere della sensibilità ci pare dimostrato dal suo temperamento di artista e dal modo in cui egli dirige i suoi attori, portandoli all’emozione vissuta nello stesso atto del recitare e non imponendo loro le soluzioni della passione freddamente conosciute, dichiarandosi egli apertamente seguace di Stanislawskij, piuttosto che del paradosso logico di Diderot9. Tuttavia, almeno per quanto riguarda il pessimismo, non escludiamo che Dreyer possa dipendere anche da altri fattori indipendenti da quelli luterani, tra i quali potrebbero esserci la sua infanzia, privata della presenza e della conoscenza dei genitori e trascinata in una famiglia ospite, in cui egli si sentiva estraneo e mal sopportato, e la recrudescenza di pessimismo avvertita dalla letteratura danese a cavallo tra i due secoli, specialmente per gli scritti di H. Bang (1857-1912), H. Pontoppidan (1857-1943) e T. Kristensen.

Tre caratteristiche

Su queste premesse ci pare di poter individuare tre caratteristiche “luterane” dell’opera di Dreyer, e perciò anche del suo mondo religioso, e sarebbero: un accentuato personalismo, una fondamentale profonda religiosità e un’ansia sempre rinnovata e sempre insodisfatta di liberazione.

Per la prima, oltre al già detto, ci basti rilevare la frequenza con cui nei suoi film viene difesa la libertà personale e condannata la sua oppressione; questo, a nostro parere, è il leit-motiv di tutta la sua opera, come di quella degli altri due sommi artisti: Chaplin e Clair. In Pagine del diario di Satana l’oppressione dei singoli è opera di Satana, nel Quarto matrimonio c’è la vittoria di una giovinezza sacrificata (motivo che si amplierà in Dies irae e, in parte, in Ordet); in Ama il tuo prossimo è difeso un ebreo contro i pogrom; nell’Angelo del focolare i diritti di libertà, sia pure nei limiti dei doveri familiari, di una moglie e di un figlio, nella Passione, la libertà di coscienza contro Ogni oppressione esterna10; viceversa vi è quasi assente ogni sensibilità sociale o collettiva: i personaggi di Dreyer sono tutti “soli”; abbiano o non abbiano problemi in comune, ognuno di essi è chiuso nel suo proprio problema, e le sofferenze di ognuno si esasperano proprio perché manca qualsiasi osmosi tra mondi contigui. Si direbbe che essi sono solitari, com’è solitario Dreyer su piano artistico (e Kierkegaard su piano di pensiero)11. Quanto siamo lontani dalla socialità del Corpo mistico e dalla – negata da Lutero – comunione dei santi!

Anche sulla religiosità del mondo dreyeriano, per quanto, come abbiamo visto, sui generis, non c’è dubbio. Dio è presente nella sua opera non soltanto come esigenza oggettiva, o solo nel suo continuo girare intorno ad oggetti che riguardano la religione, ma piuttosto nel suo costante tornare a due realtà-limite umane, l’una e l’altra indissolubilmente relative a Dio creatore e legislatore dell’uomo: la morte e il peccato. Non il gusto del macabro porta Dreyer a trattare tanto frequentemente la morte, quanto il senso di arcano che le è implicito quando essa è non un semplice accadere nel tempo ma uno schiudersi dell’esistenza verso altre realtà fuori di ogni tempo, perché fuori di ogni vicissitudine; la morte, per lui, è il contatto più concreto tra il descrivibile e l’ineffabile: essa è insieme la negazione e la misura di tutti i valori umani. Anche il peccato connota la presenza del divino, essendo la violazione di una legge, appunto, divina; e quanto esso sia presente nell’opera di Dreyer è inutile dimostrarlo. Chi, per esempio, in Dies irae non rivive il tormento di Lutero, perseguitato dal peccato, ossessionato dalla sua presenza, dopo aver ridotto il cristianesimo a quasi sola osservanza di una legge durissima?12.

In questo film i due elementi-limite sono sempre presenti, e lo rendono il più religioso dei film di Dreyer – sempre fatta eccezione di Ordet – ma anche il film che più tradisce l’atmosfera di chiusa desolazione lasciata come eredità da Lutero alla “riforma”. Qui è veramente dove i personaggi sono più chiusi; non solo perché ognuno di essi vive la sua tragedia, ma perché tutti vi soffrono come avanti a un Ignoto – e pur presente – che li supera e li schiaccia senza scampo, ingabbiati in un mondo soffocato in se stesso, in cui è vano guardare in alto. Su di loro grava un cielo basso e senza aperture. Schiacciato da esso il vecchio pastore prega, ma nessuno gli risponde; ed egli lo sa, ed anche la moglie se ne accorge. Anche la vecchia muore, ma il suo sollevarsi verso il cielo è per imprecare agli uomini che le hanno apprestato il rogo, e all’Ignoto che non impedisce l’ingiustizia. Anche il giudice muore, ma i riti che dovrebbero essergli di conforto non lo rasserenano, sicché la sua dipartita non è liberazione verso la patria, bensì salto nel buio ed attesa di un tremendo resoconto, per preparare il quale alla coscienza desolata non giovano i mezzi della grazia. I due giovani in qualche modo riescono ad evadere dalla prigione che ne mortifica la vita, ma la loro liberazione è effimera: l’aria libera degli esterni li inebria per poco, ché subito il peccato fa sentire loro l’amaro del rimorso e prepara la disperazione finale; per essa alla giovane, visto che nell’amato più può la paura egoistica che l’amore di lei, diventano insopportabili la vita, la giovinezza, la maternità, la libertà, la luce, sicché essa si abbandona alla morte, anzi la provoca con la sua mentita confessione.

Le luci aurorali di «Ordet»

La nostra indagine sul mondo religioso di Dreyer si concluderebbe così con la squallida eredità della fede fiduciale luterana se le posizioni di Dies irae (1943), vecchie di dodici anni, non fossero state largarnente superate e migliorate nel recente Ordet (1955). Questo film ci pare che segni una svolta nell’opera di Dreyer. La religiosità-clima degli altri film in questo prende corpo in vera e propria religione, non solo, ma il problema religioso vi viene affrontato e trattato come unico; forse come mai prima della storia del cinema, almeno se ci riferiamo alla produzione più artisticamente valida: forse solamente il bressoniano Diario di un curato di campagna gli sta alla pari. In Ordet si trova affermato e vissuto un complesso di verità religiose bastanti per costruire una teologia sufficientemente elaborata e sorprendentemente vicina alla nostra cattolica: esistenza di Dio creatore onnipotente, il quale non è agnosticamente assente dal mondo, ma vi opera a soccorrere le sue creature fino, se necessario, a sospendere l’applicazione delle leggi della natura facendo miracoli; Dio provvidente, che permette il male per cavarne il bene: da lui il credente deve accettare le prove, anche supreme; Cristo, che è luce del mondo, il cui nome è tanto potente da dominare tutta la natura creata; dopo la morte ci attende il cielo; la fede è necessaria: dà calore e vita, anzi è vita, ma da sola non basta; occorrono anche le opere buone, in particolare la preghiera è necessaria e utile; prima di pregare però è necessario perdonare le offese ricevute...

Non solo, ma al chiuso nebbioso che rattristava Dies irae qui fanno riscontro luminose schiarite. Sì: c’è anche qui la descrizione di un clima luteranamente teso, ossessionato dal peccato, in cui la morte è solo una punizione; quivi la stessa lettura del Cantico dei cantici, il libro più lirico della Scrittura, viene fatta in un’atmosfera funebre, senza sorrisi, senza neanche un afflato di poetica catarsi: ma questo avviene nella casa del sarto, a condanna dell’indre-mission che vi si vive. Sì, anche qui c’è, e crudamente espresso, il problema della morte, ma esso termina in due motivi di suprema speranza: quella di Inger, che si risveglia alla vita terrena, e quella del fiore nato dal suo amore, che appassisce alla terra ma si schiude alla vita eterna del cielo: eventi, l’uno e l’altro, che trovano i due genitori ormai riuniti in una stessa fede in Dio taumaturgo.

Siamo già in piena luce cattolica? – Evidentemente no. A parte quanto non vi si dice, e che, se detto, avrebbe inconfondibilmente caratterizzato un cristianesimo diverso dal protestantesimo – e, cioè, la Chiesa visibile e gerarchica come continuatrice del Cristo, l’azione santificante dei sacramenti, la comunione dei santi intesa come unità vitale tra la Chiesa militante e quella trionfante – positive sfasature in alcuni punti di dottrina sollecitano dal cattolico riserve piuttosto sostanziali: tali l’uso della Scrittura come fonte unica della rivelazione, un certo polemizzare contro il sacerdozio istituzione sacramentale a favore di un apostolato carismatico, e un’impostazione piuttosto lacunosa del problema della fede, nonché del miracolo, che lascia il teologo cattolico alquanto perplesso, sia a proposito della causa strumentale di esso – il problematico pazzo-savio Johannes – sia a proposito della relazione fede-miracolo, stabilita da Dreyer come necessitante13.

Ma, da dubbiosi, diventiamo disorientati se leggiamo quel che lo stesso Dreyer ha dichiarato proprio su Ordet all’intervistatore Bjorn Rasmussen: «La scienza moderna, seguendo le orme di Einstein, ha dimostrato che oltre al mondo di tre dimensioni, c’è una quarta dimensione: il tempo, e una quinta: quella psichica. La prova dell’esistenza della premozione ormai c’è! Nuovi orizzonti si aprono, nei quali afferrare i nessi profondi tra scienze esatte e religione intuitiva. I nuovi dati della scienza ci permettono di comprendere meglio il divino e ci forniscono la spiegazione naturale dei fatti soprannaturali. Sotto questo aspetto Johannes di Kaj Munk ha un significato nuovo, come, del resto, lo stesso Munk riconobbe, affermando che esso era più vicino a Dio che i cristiani coi quali viveva»14.

Evidentemente non possiamo pretendere da Dreyer, non teorico di filosofia o di teologia, la precisione di termini di uno specialista; tuttavia, a parte Einstein e la sua relatività, tirati gratuitamente in ballo a spiegare la fede che ottiene miracoli, teoria che infirmerebbe la validità del miracolo come prova della divinità di Cristo, non c’è lettore, che sia in possesso degli elementi della dottrina cattolica e che abbia una certa entratura nelle scienze cui Dreyer allude, il quale non sospetti, sotto un tanto aberrante uso di termini, una molto confusa apprensione di concetti e di dottrine religiose.

Non minore disorientamento ci hanno causato altre recenti dichiarazioni sulla personalità e sulla missione di Cristo da lui fatte a proposito del film sulla Sua vita che egli starebbe realizzando; dichiarazioni che speriamo non informeranno la sua nuova opera. Sarebbe un vero peccato se l’arte di uno dei sommi artisti del cinema venisse piegata a menomare una Figura che è sacra per tutti i credenti, i quali vedono nella passione e morte di Gesù Cristo, non l’epilogo di una “resistenza” locale, per quanto umanamente nobilissima, ma quello della missione redentiva dell’Uomo-Dio a pro eterno di tutto il genere umano.

Sintetizzando quanto abbiamo detto, ci pare che il mondo religioso di Dreyer sia formato di schietta bontà naturale e di profonda religiosità, ma che il regista onestà e religiosità le senta e le viva più con la sensibilità di artista che col vigore logico di un pensatore. Diremmo, però, che il suo mondo per larghe zone pare aduggiato dal pessimismo teologico derivato dalle dottrine di Lutero, oltre che dal grigiore psicologico dei paesi senza sole; tuttavia, che in esso, specialmente dopo Ordet, rilucono insistenti luci aurorali cattoliche; e noi ci auguriamo possano presto esplodere nel pieno meriggio nel quale, per grazia di Dio, noi viviamo. Se, quindi, grande è la nostra simpatia per un’anima, che, come quella di Kierkegaard, dall’onestà naturale è stata condotta tanto vicino al cattolicesimo, altrettanto grande è la nostra ammirazione e la nostra riconoscenza per Dreyer, uno dei pochi artisti, e forse il più benemerito tra essi, che hanno portato il cinema ai più alti livelli di cultura umana e di morale religiosa.

1 Ci conforta, leggendo l’ottimo Tre maestri di cinema, di A. SOLMI (Milano 1955), di trovarci su questo d’accordo con lui, mentre non ne condividiamo pienamente le osservazioni sulla “fede” di Giovanna (pp. 36-37).

2 Cfr, per esempio, T. GUERRINI, La filosofia dell’esistenza nella storia del cinema, in Bianco e nero, 1954, n. I, p. 39, ma con argomenti scarsi e, ci pare, molto discutibili. Cfr anche F. DI GIAMMATTEO, Profili di registi: Dreyer, in Comunità, 1956; n. 41, p. 78; N. GHELLI, Carl Theodor Dreyer, in Rivista del cinematografo, 1956, nn. 9-10, pp. 50-51.

3 Cfr per i relativi testi: H. ROOS S.I., Kierkegaard et le catholicisme, Louvain 1955, pp. 30-31. Del resto, a spiegare una sua antipatia per l’indre-mission basterebbe ricordare i tristi anni della infanzia passati da Dreyer nella famiglia adottiva, seguace appunto dell’indre-mission, da lui ricordati, non certo per esaltarla, nella prima parte dell’Angelo del focolare, evidentemente autobiografica.

4 Per il dialogo tra il vicario e Mikkel, cfr Ordet, in Film, 1955, n. 2, p. XII.

5 In Enciclopedia Cattolica, vol. VIII, s.v. Kierkegaard, p. 693.

6 Altro punto di contrasto e di critica contro Lutero, difensore del «servo arbitrio»: cfr ROOS, op. cit., pp. 42 e 47.

7 Per N. GHELLI, Dies irae è «una condanna spietata e feroce di quel mondo» (op. cit., p. 51).

8 Per l’esegesi del testo cfr ROOS, op. cit., pp. 68-71. Da notare però che la traduzione kierkegaardiana: Agis selon mon enseignement, et tu sauras par expérience, risponde assai scarsamente all’originale: Si quis voluerit voluntatem eius facere, cognoscet de doctrina utrum ex Deo sit.

9 Cfr BOORGE TROLLE, Il mondo di Carl Theodor Dreyer, in Bianco e nero, 1955, n. 6, p. 46.

10 A questo proposito ci pare anche sintomatica la scelta già fatta dal Dreyer di Maria Stuarda come soggetto di un film, poi non girato.

11 Per l’individualismo di Kierkegaard, che ignorò la Chiesa come Corpo mistico, e per il suo “solitarismo”, cfr ROOS, op. cit., pp. 79-84.

12 Diremmo che anche la stregoneria, elemento presentissimo nel pensiero del medioevo e in modo superlativo in quella di Lutero, in Dreyer rientri in certo qual clima religioso; essa non è solo un elemento per fare atmosfera (Vampiro, Dies irae), ma, per quanto superstizioso, un tentativo di superamento del reale materiale, e, come tale, sia come presunta attività delle streghe, sia come credenza in esse, altro fenomeno posto al limite tra il materiale e il soprannaturale, tra il temporale e l’eterno. – Sulla fondamentale religiosità della sua opera si accorda la quasi stroncatura che di Dreyer fa F. DI GIAMMATTEO, nell’art. cit., nel quale, ci pare con eccessiva severità, si fa derivare il decadentismo del «piccolo artista» solo «talvolta artista autentico» dalla letteratura decadentista europea a cavallo tra i due secoli, e il suo cristianesimo appunto da quello dì Kierkegaard.

13 Per una trattazione più vasta di questo argomento rimandiamo al nostro: La fede taumaturgica nell’ultimo Dreyer (Civ. Catt. 1956, II, 373-383). Ma non è difficile trovare posizioni polemiche contro il sacerdozio in altri film di Dreyer; così G. C. CASTELLO li trova in Dies irae e nella Passione definendoli «essenzialmente anticlericali». Cfr Parabola creativa di C. Th. Dreyer, in Bianco e nero, 1948, n. 9, p. 31.

14 Cfr Entretiens avec Dreyer, in Revue internationale du cinéma, 1955, 22, p. 44.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151