NOTE
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1 E magari risistemare quanto credeva di sapere circa l’introduzione della patata nell’area del Mediterraneo. Nel film, infatti, Giasone e i suoi compagni argonauti cuociono, sbucciano e mangiano patate; ma queste, salvo errori, furono introdotte in Europa dal Cile dopo il 1580, e divennero cibo comune dal sec. XVIII.

2 Il film si articola in undici sequenze, o blocchi narrativi: sette nel primo tempo (1 – Il centauro Chirone e Giasone. 2 – Sacrificio umano di fertilità nella Colchide. 3 – Incontro di Medea con Giasone. 4 – Furto del Vello d’oro. 5 – Fuga degli argonauti e smembramento di Absirto. 6 – lmbarcamento degli argonauti. 7 – Loro arrivo a lolcos); e quattro nel secondo tempo (1 – Propositi di vendetta di Medea. 2 – Prima morte di Glauce-Creonte. 3 – Seconda morte di Glauce-Creonte. 4 – Infanticidio).

3 E mettiamoci pure una plausibile Callas, anche se è da supporre che se la sarebbe cavata meglio come cantante nella Medea di Cherubini, che non come attrice in questa Medea di Pasolini.

4 Per una critica alla teoria pasoliniana del “linguaggio” cinematografico, cfr E. GARRONI Semiotica ed estetica, Bari 1968, 14; G. DORFLES, Morfologia e semantica della pubblicità televisiva, in Pubblicità e televisione, Torino. ERI-RAI. 1968, 179 ss., il quale cita A. Sychia e U. Eco; CH. METZ, Essais sur la signification au cinéma, Parigi 1968, 201, 208, 216.
A proposito si legge con utilità la lettera aperta "Come risolvere il problema del naturalismo nel cinema”, in cui il regista C. Lizzani chiede a Pasolini: "È possibile, con lo strumento ’pellicola-e-suono’, operare sul passato senza cadere nel naturalismo o nell’intellettualismo o decadentismo?” (in Cinema nuovo, 1970, n. 204, 96).

5 Tuttavia, pur non tentando assurdi confronti, più di un critico l’ha giudicato un capolavoro o quasi. Così, su Le Monde (31 genn. 1970), J. DE BARONCELLI; né fa meraviglia a chi conosce i facili entusiasmi di certa critica francese. Così anche MET, in Note schedario (28 genn. 1970), scrivendo: “Tutto ciò contribuisce a fare della Medea pasoliniana un’opera d’arte notevole nel senso della forma e del contenuto. È una dimostrazione che Pasolini riesce veramente ad accostarsi ai ’monumenti’ letterari, oltre che con animo appassionato, con lucidità poetica geniale e creativa”: giudizio che riteniamo discutibile come l’affermazione che “la Medea pasoliniana non si discosta dal testo euripideo” (ivi, 15).

6 “L’elemento centrale – specifica Pasolini – è appunto nella contraddizione di due mondi, quello religioso e sacrale che Medea reca con se dalla Colchide, dal suo ambiente barbarico, e il mondo laico, tecnico e ricco, che invece trova a Corinto. Nel film il sentimento profondo che la induce a far morire la fanciulla che deve essere sposata da Giasone, non nasce da uno spasimo di vendetta, razionale e ragionato, come è in Euripide, ma da un lungo sogno in cui ella torna alla sua infanzia, alla sua fede, alla valutazione in cui venne educata dalla realtà del mondo quale estrinsecazione della sacralità. In questo sogno, il lungo monologo quale estrinsecazione della vendetta sarà recitato dalla Medea-Callas in greco antico e il pubblico lo seguirà attraverso i sottotitoli” (Cinema nuovo, 1969, n. 199, 107).

7 A.J. TOYNBEE, A study of history, Londra 1934 ss. (in Civ. Catt. 1952 I 644-654).

8 Torino 1950 (in Civ. Catt. 1951 I 562).

9 Forse il Trattato di storia delle religioni, Torino, 1954; Il sacro e il profano, Torino, 1957; Mito e realtà, Torino, 1966 (in Civ. Catt. 1951 I 562).

10 Così E. REGOGLIOSI e E. ESCOBAR, in Incontri al Centro Culturale S. Fedele febbr. 1970, 108 e 110. Lo stesso, come ipotesi J. DE BARONCELLI, in Le Monde, cit.

11 È lo stesso rilievo che una parte della critica ha mosso a proposito di Porcile, film, tutto sommato, molto meno difficile di questo. Vero è che il regista s’è difeso dando dell’ignorante ai critici: “Io non discuto la libertà dei critici di esprimere la loro opinione e il loro giudizio. Discuto sul loro diritto di non capire e di dire di non capire. Perché questo diritto non lo hanno: e, se se lo prendono, mancano al più elementare rispetto per l’autore” (cfr Il Tempo, 1969, n. 40, 33). Ma giustamente D. Meccoli ribatteva in Epoca: “Il ragionamento di Pasolini poggia su un sillogismo: il critico ha il dovere di capire l’opera di un autore, quindi il critico ha il dovere di capire Porcile. E, ancora una volta, e li riassume ciò che v’era da capire in questo film, a suo parere, ’cristallino’. L’insistenza e di per sé sospetta. In ogni caso si puo controbattere che il dovere dell’autore è di farsi capire, e il dovere del critico libero e responsabile è di fargli capire che non vi è riuscito. Chi non ha le idee chiare – scriveva press’a poco Emilio Cecchi – si difende con l’oscurità dei concetti, con la preziosità dei vocaboli, con il fumo delle astruserie. È il caso di Pasolini che, dopo essere arrivato all’essenzialità e alla chiarezza allora sì, cristallina del Vangelo secondo Matteo, è andato via via inviluppandosi in un simbolismo sempre più nebbioso, forse per meglio mascherare le proprie contraddizioni, i propri problemi personali e forse anche l’esaurirsi dell’ispirazione. Fino a Teorema, si poteva seguirlo, comprenderne i tormenti veri o presunti, ricercare significati a monte o a valle. Porcile passa i limiti della sopportabilità. Del resto, quando si realizzano di proposito film ’difficili’ per sottrarsi a condizionamento della cultura di massa (dichiarazione fatta a Grado) si corrono certi rischi. Ma ciascuno ha le proprie idee sulla funzione della cultura e non si può proibire a Pasolini di averne una concezione aristocratica”.

12 Tra le ombre comuni a Medea e a I cannibali, non ultima è quella del frequente ricorso al già visto altrove; ma mentre Medea torna ai “luoghi deputati” dello stesso Pasolini, l cannibali annette stilemi, simboli e contenuti figurativi di altri autori: dal Godard di Alphaville al Brooks di Marat-Sade, a Buñuel ed allo stesso Pasolini. Su piano contenutistico-ideologico commenta Cinema nuovo (1970, n. 206, 298): “Il risultato è un ’allegoria generica e indeterminata, senza spessore e mordente, che non ha davvero molto da dirci. E infatti, quando tenta di dirlo, la Cavani è costretta a forzare pesantemente, con maldestre intrusioni didascaliche, l’inerzia delle situazioni. Né le cose vanno meglio sull’altro e più decisivo versante dei ’ribelli’, visti come gli ’eletti’ e i profeti di una religione giovanile di rivolta e di pietà, carica di echi e di contaminazioni indigeste, che pencolano tra il ’grande rifiuto’ degli orecchianti marcusiani... e il recupero di un cristianesimo dissenziente e messianico... Si deve aggiungere che il velleitarismo de I cannibali è della specie meno accettabile, perché non nasce da generosa intemperanza e allegra incoscienza dei propri limiti, ma da una tetra presunzione di rigore e profondità. Il fallimento è implicito nella pretesa di raggiungere, attraverso una serie di ’stazioni’ esternamente simboliche, ciò che in altri autori è stato e continua ad essere l’esito, e sia pure provvisorio e parziale. di un discorso sofferto e davvero sperimentato”.
Ovviamente, nel suo nuovo clima socio-politico, dissente la rivista Cineforum (1970, nn. 92-93, 121 ss.) col panegirico-difesa-ditirambo di A. GUARDINCERRI, I. MOSCATI, L. BARDELLI e S. SCANDOLARA. Plaude – e pur cause! – la marxista Cinema 60 (1970, n. 77, 78) ad un cristianesimo che sostituisce “all’anacronistico dizionario della preghiera il lessico di una più attuale fisionomia progressista”, ed alle nuove leve “protagoniste nella continuazione di un discorso in parallelo già da tempo iniziato con i coetanei marxisti”.

13 Circa l’aspetto morale-religioso il CCC ha dato questo giudizio: “Il discorso dell ’A., scopertamente ambiguo, è aggravato dall’assenza di un ideale qualsiasi che appaia come molla di ribellione contro gli abusi del sistema. All’impostazione anarcoide e sovversiva – che coinvolge in un’unica accusa situazioni deprecabili e interessate mistificazioni insieme ad atteggiamenti ed ambienti religiosi (ad es., la grottesca benedizione ai cadaveri del sacerdote vestito di bianco) – va aggiunto il compiacersi lungamente di situazioni e scene, del tutto gratuite e sconvolgenti, tali da rendere il lavoro negativo – IV”.

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Articolo estratto dal volume IV del 1970 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

I film di Pasolini non appartengono certo al genere scacciapensieri: ed è già non piccolo merito, in una produzione cinematografica che in evasione sempre più futile rozza e sudicia superabbonda. Ma i suoi film più recenti hanno un altro merito: quello d’indurre gli spettatori, che vogliano venirne a capo, a riesumare, dai ricordi più o meno remoti di scuola, i classici greci e latini. Tre anni fa Edipo re ci riportò a Sofocle; quest’anno Medea ci ha proposto la rilettura di Euripide e di Seneca (nonché di Corneille e del Niccolini, loro tardivi manipolatori o imitatori). Che poi alla rinfrescata culturale segua subito la comprensione dei film, è un altro discorso.

Il soggetto

Prendiamo Medea. Lo spettatore, previdente, comincia, a buon conto, col rinfrescarsi l’antefatto del mito risalendo agli Argonauti ed al Vello d’oro; ad appuntarsi che nei tempi dei tempi, in Iolcos, regione della Tessaglia, centro d’irradiazione della civiltà greca, Pelia occupava il trono usurpato al nipote Giasone. Giunto questi alla maggiore età e reclamando il suo, lo zio gli impone di recargli il Vello d’oro, vale a dire pelle e lana dell’ariete sacrificato da Frisso nella lontana Colchide, custodita da un dragone che sbranava chi vi si appressasse. Giasone, dunque, con altri eroi, salpa da Iolcos sulla nave Argo, attraversa l’Ellesponto (i Dardanelli), giunge all’estremo orientale del Ponto Eusino (Mar Nero) e, con l’aiuto della selvaggia maga Medea, trafuga il vello. Il re Eeta, padre di questa, li insegue; ma Medea ne rallenta l’inseguimento uccidendone il figlio (e fratello proprio) Absirto, e disseminandone le membra lungo la via. Riapprodati gli Argonauti a Iolcos, Pelia non mantiene la promessa: Medea lo fa uccidere, tagliare a pezzi e mettere in pentola dalle sue stesse figlie.

Dieci anni dopo – e qui siamo nella Medea di Euripide – ritroviamo la maga nell’aristocratica Corinto, sposa di Giasone e madre di due figli. Ma il marito la ripudia per i begli occhi e la condizione principesca di Glauce, figlia del re di Corinto, Creonte; il quale Creonte decide di togliersela d’attorno condannandola all’esilio. Furente per l’oltraggio subìto dal marito e per la sorte destinata ai figli, la maga decide di vendicarsi di Giasone uccidendogli i propri comuni figli e la nuova sposa. Simulando di accettare la scelta fatta dal marito, ottiene da Creonte che il suo esilio da Corinto sia rimandato di un giorno. Allora, per mezzo dei propri figli, invia in dono alla principessa-sposa una sopravveste ed una corona affatturate, che non appena indossate da Glauce, bruciano lei, ed il re suo padre precipitatosi in suo soccorso, in un unico rogo. Segue il duplice infanticidio dei figli di Medea, commentato dal rimprovero-lamento di Giasone e del coro.

Così preparato in mitologia greca, lo spettatore si asside avanti allo schermo. Ma subito s’accorge che doveva ripassare la materia più a monte: risalire cioè all’infanzia di Giasone, ed alla sua genealogia, tanto intricata che lo stesso Chirone – il centauro-pedagogo che discorre in apertura di film –, benché figlio di Crono, se la cava a stento. Anzi doveva, lo spettatore, istruirsi anche in sacrifici umani di fertilità, praticati, pare, nella mitica Colchide1. A parte ciò, il racconto procede abbastanza secondo il previsto, e lo spettatore più o meno ci si ritrova2; salvo quando Pasolini fa morire due volte Glauce e Creonte – la prima, nell’immaginazione di Medea-maga, bruciati; la seconda, nel realismo razionale, precipiti dalle mura di Corinto – senza sufficientemente chiarire questa differenza con mezzi cinematografici.

Arte? Cinema?

Ma Pasolini regista non è un semplice narratore di storie, è un artista. Merita, dunque, che lo spettatore, venuto a capo del contenuto narrativo del film, se lo riveda un’altra volta per scoprirne i valori artistici.

Non è che Medea difetti di bellezze plastiche, ché, anzi, le preziosità figurative vi abbondano. Fotografia splendida: paludamenti, visi, colori, controluci, aurore e tramonti da esposizione. Angolazioni da album. Scenografie superbe: dall’incantata distesa palustre della Tessaglia centaurina (girata, pare, nella veneta Grado), alle mura massicce, alle arrampicate torri di Corinto; dall’elegante sinfonia bianco-verde del pisano Campo dei miracoli, ad una Colchide fantastica (girata, sembra, in Anatolia e in Cappadocia): con le inverosimili aeree abitazioni trogloditiche, emergenti da un paesaggio un po’ rocce dolomitiche, un po’ langhe emiliane e un po’ mammelloni di Monserrat. Attori, soprattutto maschi, bellissimi, accarezzati a lungo dall’obiettivo3.

Ancora: un sonoro “prezioso”: nei suoi lunghi silenzi sospesi; nelle colte conferenze del centauro, “incavallato” o meno; nelle musiche esotiche: africane, persiane, giapponesi, tibetane... La composizione narrativa è tutta un contrappunto ingegnoso di corrispondenze, contrapposizioni, rimandi. A parte la doppia morte di Glauce-Creonte, e la doppia apparizione di Chirone (con e senza cavallo) che apre i due tempi: Medea, con un cerimoniale barbaresco entra nel santuario trogloditico, e con un altro, civile-borghese, nel palazzo corinzio; quivi essa cade a terra tramortita, com’è caduta una prima volta nell’antro del Vello; esamina, nudo, dalla testa ai piedi, dopo l’amplesso sotto la tenda, il suo Giasone-amante, e lo riesamina, paludato, dai piedi alla testa, fedifrago, dopo l’amplesso nel suo palazzo. Un fuoco purificatore chiude il sacrificio umano di fertilità dell’inizio, e un altro fuoco purificatore segue l’infanticidio-riparazione del finale...

Tu rilevi, annoti, magari ammiri: e tuttavia non partecipi. Ti chiedi perché, ed avverti che tante preziosità sono disposte a freddo, da un Pasolini compiaciutamente intellettuale, decadentemente aristocratico, scarsamente ispirato. Scopri, inoltre, nel film un continuo ricalco di “luoghi” pasoliniani.

Prendiamo, per esempio, la struttura narrativa: c’è lo stesso ribaltamento dal mito greco ai nostri giorni che in Edipo re e lo stesso urlo finale che in Edipo re ed in Teorema; torna il racconto parallelo di Uccellacci e uccellini, di Porcile; e, come in Porcile, torna il contrasto tra il silenzio (cinema muto) di una natura primitiva-pulita-sacrale, e il sermonare (cinema logorroico) di una civiltà artificiata-corrotta-borghese. Prendiamo il materiale plastico e figurativo: torna, come in Porcile e in Edipo re, il carro assaltato dai predoni; come nel Vangelo, torna, nel ruolo di madre-prefica, la madre del regista; torna il vento furioso che già ha soffiato nel Vangelo e in Teorema; tornano, soprattutto, le commistioni, volutamente anacronistiche, di stili architettonici, del Vangelo, i paludamenti enfaticamente barbareschi, in contrasto con quelli enfaticamente elaborati (“alla Fellini”?) dei notabili-borghesi, nonché il parallelo-contrasto tra tuguri e palazzi, già visti nel Vangelo, in Porcile, in Edipo re. Prendiamo, finalmente, la regia propriamente detta: ecco i soliti movimenti di masse su comando; il solito procedimento cerebrale di pezzi narrativi slegati, a modo di diapositive, sicché godi quando t’imbatti in sequenze – quali quella dell’inseguimento di Medea da parte di Eeta, o del rituale bagno-infanticidio finale – dove il ritmo narrativo si fa spontaneità, verità, poesia. Ecco, ancora, le lente carrellate e panoramiche su gruppi immobili, su volti inerti, smaccatamente “veri”, con lo sguardo in macchina, fissi in un ridere, espressivo non sai di quale sentimento o significato.

Formuli l’ipotesi che si tratti di costanti stilistiche di un poeta, il quale si esprima in moduli ricorrenti, sì, ma sempre rinnovati – come avviene in Dreyer, in Bresson, in molto Bergman – da un genuino valore fantastico. Ma propendi a scartarla, questa ipotesi, quando rilevi che qui, come spesso altrove in Pasolini, si tratta di “cinema” spurio, probabilmente conseguente alla molto discutibile sua teoria sul “linguaggio” cinematografico4. Nei suoi film, infatti, egli raramente concepisce e si esprime da cineasta, cioè in e con immagini; per lo più egli vede e concepisce da uomo di lettere, in segni e strutture verbali – magari poetiche –, che solo in un secondo momento cala in immagini. Concezioni e visioni letterarie risultano quindi come vestite dalle immagini, magari lussuosamente: non risolte in esse. Tecnicamente, in quanto duranti con tempo interno, sono senz’altro immagini cinematografiche; in realtà continuano a rimandare a contenuti letterari; anzi, soprattutto quando i film si strutturano in allegoria, – come, dopo La ricotta, Uccellacci, Porcile e Teorema, è il caso di questo Medea – personaggi e vicende, composizione, dialogo e il resto, non valgono quali segni in sé risolti, bensì quali simboli, emblemi, quando non anche quali crittogrammi, da decodificare.

In questa situazione, è vano cercare nei personaggi consistenza coerenza o sviluppi psicologici. Medea e Giasone, Creonte e Glauce, con la loro fissità dipinta, sono fastosi manichini, che non dicono nulla perché si prestano a significare ogni cosa: come le musiche esotiche del film, belle in sé, se chiudi gli occhi, ma quasi sempre gratuite, interpretabili ad libitum, se li apri. Il centauro quadrizampe, con tanto di (sola) coda che si muove, “vero” come convenzione teatrale, filmicamente sa di falso; e di teatro cinematografico sanno i due veristici fantocci di Glauce e Creonte che precipitano dalle mura di Corinto, nonché le donne che, su comando, arrancano su e giù per il vestibolo accompagnando litanicamente (è il coro greco?) Medea che declama i suoi propositi di vendetta; per non parlare degli anatoliani e dei cappàdoci, vestiti da arcaici colchidesi, ma spavaldamente moderni; e dei due figli di Medea, compiaciutamente caravaggeschi, che (come i ragazzi del Vangelo) pare che ridano della loro stessa recitazione: questi e quelli ripresi non come personaggi filmici, ma addirittura come attori diresti in “foto di scena”. A questo punto viene il sospetto che Pasolini, pretestando più o meno reconditi significati, finisca col prendere un po’ in giro il pubblico ingenuo, come quando nel Vangelo e in Uccellacci evoca riconoscibilissimi squadristi fascisti tra gli scherani di Erode o nella ducentesca Umbria di san Francesco.

Un po’ deluso del film, se rilegge Euripide, lo spettatore dice: Questa è arte! Eppure, ignorato ogni antefatto meraviglioso ed ogni accessorio, l’azione, se azione c’è, vi è ridotta all’osso. Tutta la tragedia è, più che altro, un monologo. Medea è sempre sulla scena, e la riempie da sola. Non tra i personaggi, ma dentro di lei infuriano le passioni: amore gelosia rabbia vendetta, di donna, di sposa, di madre: tradita irrisa esiliata. Una pietas immensa ispira il suo parossistico e pur sobrio monologo che precede la strage; e la strage stessa, non eseguita sulla scena, ma raccontata dal nunzio con tutte le risorse di Euripide oratore e pittore, è un concentrato di orrore tragico difficilmente superabile.

Naturalmente, lo spettatore non fa carico al regista di non aver emulato, tanto meno di non aver raggiunto, col mezzo cinematografico, l’arte di Euripide5. S’induce piuttosto a considerare la Medea di Pasolini non tanto come film a tema (poetico) quanto come film a tesi (ideologica); ed a cercare perciò quale ne sia il “messaggio”, e se sia valido o meno.

Quale “messaggio”?

Che, a differenza della tragedia euripidea – esclusivamente psicologico-personale di Medea, senza contrasti di cultura-civiltà – il film di Pasolini contrapponga due mondi socio-etnologici, pare ovvio; del resto, lo stesso regista, già in fase di elaborazione del film, l’aveva precisato6. Nel primo tempo – silenzioso, dai panorami “natura” ampi e mossi, dagli abbigliamenti arcaici e dai riti agresti – l’Oriente asiatico: primitivo-barbarico, credente-animista, passionale; nel secondo tempo – qua e là verboso, a colori violenti, dalla scenografia artefatta e per lo più in interni, dagli abbigliamenti lussuosi e sofisticati, e dal cerimoniale laico – l’Occidente mediterraneo: evoluto-cittadino, razionalista-scettico, convenzionale-calcolatore. In apertura di ogni tempo: il centauro Chirone; ma più mitologico animale che umano quando, nella laguna tessalica, fa da pedagogo al Giasone bambino “innocente”; e più uomo razionale che mitico animale, insomma “sconsacrato”, quando, nel Campo pisano, ragiona con Giasone adulto e conquistatore sacrilego. Tra i due mondi: Medea, espressione del primo, ma che, presa d’amore per Giasone, frutto del secondo, gli si dà tutta, tradendo riti, costumi, famiglia. Sradicata dal suo ambiente sacro si sente estranea nella nuova terra. Per dieci anni s’illude che l’amore possa farle dimenticare quanto ha tradito; ma il tradimento calcolato di Giasone la disillude. Allora si vendica togliendo tutto a Giasone, marito e padre. Ritorna ai suoi miti, ai suoi riti, ad invocare il Sole, padre di suo padre, prima di uccidere – in un terzo sacrificio, questa volta riparatore – i frutti della sua passione delusa. Questi saranno “il nuovo seme che rinasce”, come lo fu il giovane sacrificato per la fecondità di una natura vergine, mentre a Giasone scettico calcolatore resterà il tormento del rimorso, che già gli ha tolto la sposa Glauce ed il re Creonte.

Tutto chiaro: questa è la referenza esplicita. Ma quale il significato inteso da Pasolini? Forse il suo travaglio interiore tra il razionale e l’irrazionale? Forse la sua nostalgia per un mondo-natura, “innocente”, e la sua avversione contro il disumano della civiltà industriale-borghese, già presenti in Uccellacci, in Teorema, in Porcile, in Edipo re? O forse – dato il manifesto parteggiare del regista per Medea, parallelo al suo identificarsi con Edipo – un suo furore contestativo per distruggere dal didentro “il sistema”, come già in Teorema e specialmente in Porcile? Siamo, insomma, all’espressione solitaria di uno stato d’animo, anziché al film-comunicazione, quale ci si attende nel normale cinema-spettacolo? Non si esclude.

Però, sulla scia degli ultimi film del regista, lo spettatore tende a leggere, anche in Medea, un’allegoria vera e propria; quindi a vedere i suoi personaggi ed eventi come strettamente emblematici di una realtà sociale concreta, odierna. Non, ovviamente, quella del sottoproletariato romano, esaurita dal primo Pasolini; e neanche quella “sociale” in senso marx-gramsciano, da lui sfiorata nel Vangelo e, pare, archiviata col "Boh!” di Ninetto nel film-dibattito Uccellacci e uccellini; ma, probabilmente, una problematica storico-sociale a respiro più universale, quale, per esempio, quella delle interazioni-degradazioni che si verificano nella convivenza di civiltà-culture di dominatori con civiltà-culture di soggiogati, di minoranze evolute con maggioranze barbariche, di società industriali con proletariati preindustriali, già trattata dal Toynbee7.

Tuttavia, nella Medea pasoliniana la contrapposizione tra i due mondi insiste quasi soltanto sull’aspetto sacrale-religioso-mitico e sul suo opposto; s’affaccia, allora, allo spettatore l’ipotesi che la chiave dell’allegoria, o almeno il terreno in cui essa nasce, vada ricercata davvero, come qualche critico ha suggerito, – oltre che nelle considerazioni psicanalitiche dello Jung –, nel Ramo d’oro del Frazer8 o nei volumi di storia delle religioni di Mircea Eliade9. Lo spettatore malcerto sa bene che chiedere ad un artista cos’abbia voluto dire con una sua creazione non è la via giusta per comprenderla. Tocca a lui, se l’opera è valida, mettersi in sintonia con essa e “sentirla” quale l’artista l’ha espressa. Ma sa pure che chiedere lumi al regista di un film a tesi, quando questo sia scarsamente decifrabile o quando le sue proprie risorse siano limitate, è legittimissimo. Nel caso nostro, però, Pasolini finisce di disorientarlo del tutto. Pare, infatti, che abbia dichiarato di aver voluto significare, in Medea, l’attuale contrasto tra Terzo Mondo ed Occidente10. Francamente, se lo spettatore, magari in una terza visione, riesamina il film, non nega che, a spiegazione data, l’uno o l’altro elemento dell’allegoria avrebbe anche potuto servire questa tesi; ma non gli riesce di ammettere che di fatto la convalidino, né che in qualche modo vi alludano. Finisce così col sospettare che le oscurità del film dipendano, non tanto da profondità di significati, quanto da una tematica affastellata, non decantata, dispersa, oltre che da deficienze narrativo-espressive; e si conferma, lo spettatore, in un giudizio su Pasolini regista, già suggeritogli da altri suoi film.

Si direbbe che in lui l’intellettuale, oltre che soffocare il poeta, confonda pure l’ideologo. Se, infatti, gli elementi ed i contrasti figurativi e sonori, tutti spavaldamente “belli”, scadono in estetismo, il simbolismo eccessivo degrada in bizantinismo. Certo: lo spettatore non nega i meriti del regista che così contesta gli standards sterilizzati ed idioti di tanto cinema di consumo che gli viene ammannito; ma si chiede se la contestazione più efficace sia proprio quella di proporre agli spettatori, come spettacolo normale, rarefatte preziosità ed ingegnosi rompicapo11.

Dal religioso al sacrale, o viceversa?

Resta da vedere a quale visione religiosa sia approdato Pasolini in quest’ultimo film: sempre che si tratti di approdo e non, come crediamo, di lenta e sofferta ricerca ancora in atto.

Assente, salvo sviste, in Accattone (1961), il cristianesimo si fa presente in Mamma Roma (1962) con un prestito pittorico: il disgraziato figlio di una prostituta, legato supino sul tavolaccio del carcere, ha la posizione esatta del Gesù morto nel famoso scorcio del Mantegna: non, quindi, il Cristo-Dio che, secondo la dottrina rivelata, fa suoi, sublimandoli e redimendoli, i dolori e le miserie degli uomini, bensì l’Uomo-sottoproletario, che, vittima della società, compendia su di sé, reali, le sofferenze della (mitica?) Vittima divina. Lo schema si ripete, ampliato, partendo dalla Crocifissione di Antonello da Messina, nell’ambivalente La ricotta (1963): che si può leggere, ugualmente bene, o come denuncia dello sfruttamento del sacro in funzione di spettacolo laico da parte del cinema-civiltà borghese, o come umanizzazione-socializzazione del sacro (mitico?), individuandovisi nei proletari, affamati e disgraziati, i reali-storici “crocifissi”, e nei cinematografari-borghesi i loro reali-storici crocifissori.

Col Vangelo secondo Matteo (1964) siamo al ribaltamento totale del Cristo-Messia nel Cristo sociale. Non figlio di Dio, non preannunciato dai Profeti quale redentore e riconciliatore dell’uomo fattosi, col peccato, nemico di Dio ed escluso dalla Sua visione beatificante, Gesù vi è il denunciatore delle ingiustizie sociali, il fustigatore dei grandi e dei potenti che ne vivono, vittima indifesa lui stesso di una società borghese. Sotto la sua Croce, perciò, non piange la Madonna, Madre di Dio, simbolo e portatrice dei dolori di tutte le madri, bensì una madre tutta e solo umana – la madre del regista – che porta in sé tutte le sofferenze dell’Addolorata; il grido di Cristo morente è quello di un disperato sull’inutilità sociale delle sue parole e del suo sacrificio; ed, alla sua morte, non il velo del Tempio si straccia, ad indicare l’adempimento delle profezie messianiche e l’avvenuta redenzione, bensì crollano i tuguri polverosi dei poveri, con l’auspicio che dalle loro macerie sorga l’attesa Città Terrena di giustizia sociale.

Ma non ci si avvicina impunemente alle pagine del Vangelo. Opera, ancora, in esse, “viva, attiva e più penetrante di una spada a due tagli” (Ebr 4,12), la Parola, con una sua efficacia, si direbbe, sacramentale. Anche in Pasolini, già in choc ideologico per la morte di Togliatti, essa dovette penetrare “sino alla divisione dell’anima e dello spirito..., discernere pensieri ed intenzioni del cuore” (ivi). Fatto sta che in Uccellacci e uccellini (1966) il Vangelo non è più visto da lui come un apporto, bensì come un’alternativa, all’ideologia marxista, e non solo per la soluzione dei problemi sociali, bensì anche per i più vasti problemi esistenziali. Purtroppo, al dilemma, i due personaggi rispondono col "Boh! " sopra ricordato, sicché pare che a loro, ed a Pasolini con essi, non resti altro che proseguire incerti verso l’ignoto. Infatti, con Edipo re (1967) ogni confronto tra le due (per lui) “ideologie” pare accantonato. Non pago del materialismo marxista e non aperto allo spiritualismo cristiano, il regista cerca un senso all’esistenza umana rifacendosi agli schemi della psicanalisi freudiana ed esplicitando un tal quale valore “sacrale” della natura, e dell’uomo in essa, più o meno latente in tutti i suoi film. È una specie di panteismo, più poetico che ideologico, più emozionale che razionale: d’infanzie, di costumi arcaici, di istinti pre-civiltà, visti in una luce magico-mitica, evocati con la nostalgia di un Paradiso perduto.

Dopo la parentesi di Teorema (1968) e di Porcile (1969), film a tema-tesi critico-demolitrice della società sconsacrata-borghese, in Medea riaffiorano elementi storici caratteristici del cristianesimo: ancora presente, pare, in Pasolini, come emblema di “la religione” tout court; e riaffiorano, appunto, come degradati, o da degradare, in "sacrali”. Santi, Madonne e croci dipinte ornano l’antro barbarico di Medea e le grotte rupestri simili agli eremi degli anacoreti orientali; la cattolicissima pisana Piazza dei miracoli rende la “civile” Corinto di Creonte e di Giasone: disumana sovrastruttura che, secondo il centauro Chirone, è da distruggere per reinstaurare “un rapporto di tipo religioso con la realtà”: non natura rozza, ma in se stessa “divina”, bastante dunque per vivere una “religione” in senso pasoliniano; un sacrificio finale, riparatore di una colpa originaria, è presentato quale condizione per riportare l’uomo ad un suo originario, autentico, rapporto col “sacro”. Come non rilevare l’ingrandire, nel regista, di un mito, proprio mentre egli tenta di smitizzare le radicali esigenze umane di ogni vera “religione”, e la verità storica del cristianesimo che a quella dà la risposta più piena?

Postilla

Pasolini ha fatto scuola. Ma, come avviene, i discepoli non eguagliano il Maestro nelle virtù, mentre ne sopravanzano i difetti. Così abbiamo I cannibali (1970).

Infatti, anche questo è un film-allegoria12; e si rifà ad una tragedia greca, l’Antigone di Sofocle, ribaltandola ai tempi nostri: una donna, Antigone appunto, si rifiuta di rispettare l’ordine del tiranno di non seppellire i morti, e perciò viene giustiziata.

C’è un personaggio, il “figlio del padrone”, ridotto ad animale: fratello gemello di quello di Porcile; e c’è un enigmatico “celeste inviato”, che rifà il verso a quello di Teorema (nonché all’inviato del buñueliano la Via lattea). C’è poi la contestazione globale contro la società odierna, rea, pare, non tanto di non assicurare condizioni umane ai vivi, quanto di lasciare dissepolti come cani i morti: ma con mano ben più pesante che non in Pasolini, contro i suoi esponenti più qualificati: governo, burocrazia, polizia, soldati, preti. Se Pasolini non scarseggia in nudità, qui, specialmente di maschili, se ne fa scialo: e sono meno “poetiche” e più gratuite di quelle del Maestro. Lo stesso discorso va fatto per l’accozzaglia di simbologie, se possibile, anche più rompicapo, in convalida di caotiche tesi sociali; e per la profusione di rimandi e di simboli cristiani: dal “compagno” estraterrestre al pesce-Ictus che ne è la firma; dall’uva al pane (e salame) eucaristico; dalla bianca colomba, alla tovaglia d’altare buttata in aria per coprire nudità femminili, al tabernacolo (abitato da topi), alla catacomba o Santo Sepolcro che sia...

Ugualmente confusionario, e sotto qualche aspetto più radicale, il degradamento su piano di religione. A quello del “religioso” in “sacrale” del regista “ateo”, corrisponde, in una regista cattolica, il degradamento della religione di Cristo ad un vago dovere umanitario, tra coscienza precordiale ed imperativo categorico; il tutto in un tono astioso, poco confacente, in verità, ad un “messaggio” che, salvo errore, vorrebbe essere di amore umano, e con punte di volgarità polemica ignote, oltre che al senso estetico, al comportamento civile di Pasolini regista. Tra gli zimbelli presi di mira – dopo le sarcastiche caricature pontificie del Galilei – non manca il Papa. Biancovestito ed in pantofole rosse, egli avanza, benedicente, in una strada di Milano, tra morti in putrefazione, seguito da un’autobotte della Nettezza Urbana, che li innaffia13.

Che un film tanto confuso e “coraggioso” rechi la firma di Liliana Cavani, regista, e di Italo Moscati, sceneggiatore, non può che dispiacere.

1 E magari risistemare quanto credeva di sapere circa l’introduzione della patata nell’area del Mediterraneo. Nel film, infatti, Giasone e i suoi compagni argonauti cuociono, sbucciano e mangiano patate; ma queste, salvo errori, furono introdotte in Europa dal Cile dopo il 1580, e divennero cibo comune dal sec. XVIII.

2 Il film si articola in undici sequenze, o blocchi narrativi: sette nel primo tempo (1 – Il centauro Chirone e Giasone. 2 – Sacrificio umano di fertilità nella Colchide. 3 – Incontro di Medea con Giasone. 4 – Furto del Vello d’oro. 5 – Fuga degli argonauti e smembramento di Absirto. 6 – lmbarcamento degli argonauti. 7 – Loro arrivo a lolcos); e quattro nel secondo tempo (1 – Propositi di vendetta di Medea. 2 – Prima morte di Glauce-Creonte. 3 – Seconda morte di Glauce-Creonte. 4 – Infanticidio).

3 E mettiamoci pure una plausibile Callas, anche se è da supporre che se la sarebbe cavata meglio come cantante nella Medea di Cherubini, che non come attrice in questa Medea di Pasolini.

4 Per una critica alla teoria pasoliniana del “linguaggio” cinematografico, cfr E. GARRONI Semiotica ed estetica, Bari 1968, 14; G. DORFLES, Morfologia e semantica della pubblicità televisiva, in Pubblicità e televisione, Torino. ERI-RAI. 1968, 179 ss., il quale cita A. Sychia e U. Eco; CH. METZ, Essais sur la signification au cinéma, Parigi 1968, 201, 208, 216.
A proposito si legge con utilità la lettera aperta "Come risolvere il problema del naturalismo nel cinema”, in cui il regista C. Lizzani chiede a Pasolini: "È possibile, con lo strumento ’pellicola-e-suono’, operare sul passato senza cadere nel naturalismo o nell’intellettualismo o decadentismo?” (in Cinema nuovo, 1970, n. 204, 96).

5 Tuttavia, pur non tentando assurdi confronti, più di un critico l’ha giudicato un capolavoro o quasi. Così, su Le Monde (31 genn. 1970), J. DE BARONCELLI; né fa meraviglia a chi conosce i facili entusiasmi di certa critica francese. Così anche MET, in Note schedario (28 genn. 1970), scrivendo: “Tutto ciò contribuisce a fare della Medea pasoliniana un’opera d’arte notevole nel senso della forma e del contenuto. È una dimostrazione che Pasolini riesce veramente ad accostarsi ai ’monumenti’ letterari, oltre che con animo appassionato, con lucidità poetica geniale e creativa”: giudizio che riteniamo discutibile come l’affermazione che “la Medea pasoliniana non si discosta dal testo euripideo” (ivi, 15).

6 “L’elemento centrale – specifica Pasolini – è appunto nella contraddizione di due mondi, quello religioso e sacrale che Medea reca con se dalla Colchide, dal suo ambiente barbarico, e il mondo laico, tecnico e ricco, che invece trova a Corinto. Nel film il sentimento profondo che la induce a far morire la fanciulla che deve essere sposata da Giasone, non nasce da uno spasimo di vendetta, razionale e ragionato, come è in Euripide, ma da un lungo sogno in cui ella torna alla sua infanzia, alla sua fede, alla valutazione in cui venne educata dalla realtà del mondo quale estrinsecazione della sacralità. In questo sogno, il lungo monologo quale estrinsecazione della vendetta sarà recitato dalla Medea-Callas in greco antico e il pubblico lo seguirà attraverso i sottotitoli” (Cinema nuovo, 1969, n. 199, 107).

7 A.J. TOYNBEE, A study of history, Londra 1934 ss. (in Civ. Catt. 1952 I 644-654).

8 Torino 1950 (in Civ. Catt. 1951 I 562).

9 Forse il Trattato di storia delle religioni, Torino, 1954; Il sacro e il profano, Torino, 1957; Mito e realtà, Torino, 1966 (in Civ. Catt. 1951 I 562).

10 Così E. REGOGLIOSI e E. ESCOBAR, in Incontri al Centro Culturale S. Fedele febbr. 1970, 108 e 110. Lo stesso, come ipotesi J. DE BARONCELLI, in Le Monde, cit.

11 È lo stesso rilievo che una parte della critica ha mosso a proposito di Porcile, film, tutto sommato, molto meno difficile di questo. Vero è che il regista s’è difeso dando dell’ignorante ai critici: “Io non discuto la libertà dei critici di esprimere la loro opinione e il loro giudizio. Discuto sul loro diritto di non capire e di dire di non capire. Perché questo diritto non lo hanno: e, se se lo prendono, mancano al più elementare rispetto per l’autore” (cfr Il Tempo, 1969, n. 40, 33). Ma giustamente D. Meccoli ribatteva in Epoca: “Il ragionamento di Pasolini poggia su un sillogismo: il critico ha il dovere di capire l’opera di un autore, quindi il critico ha il dovere di capire Porcile. E, ancora una volta, e li riassume ciò che v’era da capire in questo film, a suo parere, ’cristallino’. L’insistenza e di per sé sospetta. In ogni caso si puo controbattere che il dovere dell’autore è di farsi capire, e il dovere del critico libero e responsabile è di fargli capire che non vi è riuscito. Chi non ha le idee chiare – scriveva press’a poco Emilio Cecchi – si difende con l’oscurità dei concetti, con la preziosità dei vocaboli, con il fumo delle astruserie. È il caso di Pasolini che, dopo essere arrivato all’essenzialità e alla chiarezza allora sì, cristallina del Vangelo secondo Matteo, è andato via via inviluppandosi in un simbolismo sempre più nebbioso, forse per meglio mascherare le proprie contraddizioni, i propri problemi personali e forse anche l’esaurirsi dell’ispirazione. Fino a Teorema, si poteva seguirlo, comprenderne i tormenti veri o presunti, ricercare significati a monte o a valle. Porcile passa i limiti della sopportabilità. Del resto, quando si realizzano di proposito film ’difficili’ per sottrarsi a condizionamento della cultura di massa (dichiarazione fatta a Grado) si corrono certi rischi. Ma ciascuno ha le proprie idee sulla funzione della cultura e non si può proibire a Pasolini di averne una concezione aristocratica”.

12 Tra le ombre comuni a Medea e a I cannibali, non ultima è quella del frequente ricorso al già visto altrove; ma mentre Medea torna ai “luoghi deputati” dello stesso Pasolini, l cannibali annette stilemi, simboli e contenuti figurativi di altri autori: dal Godard di Alphaville al Brooks di Marat-Sade, a Buñuel ed allo stesso Pasolini. Su piano contenutistico-ideologico commenta Cinema nuovo (1970, n. 206, 298): “Il risultato è un ’allegoria generica e indeterminata, senza spessore e mordente, che non ha davvero molto da dirci. E infatti, quando tenta di dirlo, la Cavani è costretta a forzare pesantemente, con maldestre intrusioni didascaliche, l’inerzia delle situazioni. Né le cose vanno meglio sull’altro e più decisivo versante dei ’ribelli’, visti come gli ’eletti’ e i profeti di una religione giovanile di rivolta e di pietà, carica di echi e di contaminazioni indigeste, che pencolano tra il ’grande rifiuto’ degli orecchianti marcusiani... e il recupero di un cristianesimo dissenziente e messianico... Si deve aggiungere che il velleitarismo de I cannibali è della specie meno accettabile, perché non nasce da generosa intemperanza e allegra incoscienza dei propri limiti, ma da una tetra presunzione di rigore e profondità. Il fallimento è implicito nella pretesa di raggiungere, attraverso una serie di ’stazioni’ esternamente simboliche, ciò che in altri autori è stato e continua ad essere l’esito, e sia pure provvisorio e parziale. di un discorso sofferto e davvero sperimentato”.
Ovviamente, nel suo nuovo clima socio-politico, dissente la rivista Cineforum (1970, nn. 92-93, 121 ss.) col panegirico-difesa-ditirambo di A. GUARDINCERRI, I. MOSCATI, L. BARDELLI e S. SCANDOLARA. Plaude – e pur cause! – la marxista Cinema 60 (1970, n. 77, 78) ad un cristianesimo che sostituisce “all’anacronistico dizionario della preghiera il lessico di una più attuale fisionomia progressista”, ed alle nuove leve “protagoniste nella continuazione di un discorso in parallelo già da tempo iniziato con i coetanei marxisti”.

13 Circa l’aspetto morale-religioso il CCC ha dato questo giudizio: “Il discorso dell ’A., scopertamente ambiguo, è aggravato dall’assenza di un ideale qualsiasi che appaia come molla di ribellione contro gli abusi del sistema. All’impostazione anarcoide e sovversiva – che coinvolge in un’unica accusa situazioni deprecabili e interessate mistificazioni insieme ad atteggiamenti ed ambienti religiosi (ad es., la grottesca benedizione ai cadaveri del sacerdote vestito di bianco) – va aggiunto il compiacersi lungamente di situazioni e scene, del tutto gratuite e sconvolgenti, tali da rendere il lavoro negativo – IV”.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151