NOTE
×

1 Notevole anche il suo contributo a vari film. Ha infatti collaborato al trattamento degli episodi napoletano e fiorentino di Paisà; (di Rossellini), della Viaccia (di Bolognini) e delle Quattro giornate di Napoli (di Loy), ed ha collaborato alle sceneggiature degli Sbandati (di Maselli), di Terza liceo (di Emmer), di La domenica della buona gente (di Maiano) e di Cronaca di un delitto (di Sequi).

2 Assoluta fino a un certo punto, perché nel film abbondano gli sfrondamenti e non mancano aggiunte, quali quelle del carrettino ribaltato e dell’inizio, giudicata, questa, indispensabile dallo stesso Pratolini per introdurre i tre flash backs di cui il film si compone.

3 Notavo riferendo su Venezia-1962 (in Letture, 1962, 10, 691-692): “Opera di alta classe stilistica e di pregevolissimo buon gusto. Egli (Zurlini) ha puntato prevalentemente su due elementi: la resa del materiale umano ed i valori compositivo-pittorici delle inquadrature. Il primo... gli è stato imposto dalla natura stessa del soggetto... Alcune sequenze, quali quelle del duplice incontro della nonna con i nipoti, per semplicità di sintesi compositiva, intensità di sentimento e commossa partecipazione dei personaggi, tengono ottimamente il confronto con quelle parallele del Pratolini. A bene osservare, però, anche qui non tutto sodisfa. Anzi, pur nel rilievo degli eccellenti elementi singoli, l’insieme si direbbe che manchi di quella impronta di unità essenzialità ed originalità di concezione e di espressione che è inconfondibile nota dell’opera pienamente valida. Ci riferiamo anche alle poche, ma avvertibili, mancanze di misura che qua e là disarmonizzano il film, quali un eccesso di drammatizzazione nella sequenza dell’iniezione suppurata, alcune superfluità polemiche riguardanti la fisonomia del maggiordomo, e soprattutto le lungaggini eccessive dell’ultima malattia, dove forse anche la troppo facile commozione poteva ridursi a toni più raccolti.
“Ma ci riferiamo soprattutto all’equivoco fondamentale che soggiace a tutto il film proprio perché vuol essere non un’espressione ’ricreata’, quindi originale, di un’opera letteraria, bensì la fedele trasposizione figurativa di essa... Fare spettacolo di pagine scritte come in segreto..., mentre conferisce all’insieme una certa enfasi e rafforza lo sviluppo drammatico a spese di quello psicologico-affettivo, riduce la fedeltà al testo letterario ad elementi piuttosto formali, e sottopone il regista ad alternare il suo esprimersi fra traduzione vincolata e creazione autonoma, a scapito appunto dell’unità dell’insieme, Basti, per esempio, pensare al colore, pur mirabile, ad alla sapiente composizione statica delle inquadrature...: in realtà esse formano parte a sé, pregevole quanto si voglia, ma non esigenza stilistica dell’opera filmica e del tutto estranea al testo letterario”.

4 Alla domanda: “Lei è favorevole al rapporto cinema-letteratura?”, Pratolini rispondeva: “No, io non sono favorevole”; e spiegava: “Penso che, per il tipo particolare di arte che è il cinema, il regista dovrebbe essere anche l’autore dei suoi film. Quando si avvicina al testo letterario, nel migliore dei casi ne farà una bella illustrazione. Ma più sarà bello il libro, più mediocre sarà il film. Cioè non vedo come da un’opera letteraria si possa ricavare l’equivalente cinematografico, se non distruggendo i valori intrinseci” (M. D’AVACK, Cinema e letteratura, Roma, Canesi, 1964, 31). Cfr anche Centro Studi Anica, Roma, nov. 1957-febbr. 1958. 58 ss.

5 Sul nostro autore si consultano con utilità: Dizionario universale della letteratura contemporanea, Milano, Mondadori, 1961, 1147-1150; Letteratura italiana, Milano, Marzorati, 1963, 1639-1656; N. AMENDOLA, Romanzo italiano del dopoguerra, Bari, Berta, 1966; R.A. ASOR, Vasco Pratolini, Roma, Ed. Moderne, 1958; G. BARBERI SQUAROTTl, in La narrativa italiana del dopoguerra, Bologna, Cappelli, 1965, 117-125; R. BERTACCHINI, in Figure e problemi di narrativa contemporanea, Cappelli, 1960, 245-300; F. FLORA, in Scrittori italiani contemporanei, Pisa, Nistri-Lischi, 1952, 233-272; F. LONGOBARDI, Vasco Pratolini, Milano, Mursia, 1964; G. PULLINI, Romanzo italiano del dopoguerra, Milano, Schwarz, 1961, 117-149. In particolare, sul dibattito intorno al Metello: G. FERRETTI, in Belfagor, 1966, 101-107.

6 A proposito del Bolognini della Viaccia, Pratolini notava: “Secondo me, Bolognini è uno dei maggiori registi che noi oggi abbiamo, come realizzatore. Si innamora molto spesso delle cose più di gusto che delle idee da rappresentare. Non è un giudizio negativo, naturalmente. Egli si era innegabilmente innamorato di un ambiente, voleva ricostruire un’epoca e un ambiente: in questo è stato prodigioso” (M. D’AVACK, op. cit., 36). Forse lo stesso tipo d’innamoramento l’aveva portato a chiedere di girare lui Cronaca familiare. La regia di Metello gli fu affidata come terza alternativa. Prima essa fu offerta a Lizzani, che non accettò perché negli anni ’55-’58 il suo nome [di marxista] più Metello significava censura preventiva. Il produttore Bini, che acquistò i diritti, pensava a Germi, il quale a sua volta rifiutò perché ammirava, sì, il libro e la storia, ma temeva che, rivisto oggi, Metello risultasse un operaio comunista (cfr Cinema domani, 162 n. 1, 11 ss.).

7 Si ricordi che il partito socialista in Italia si era costituito al Congresso di Genova-1893.

8 Il film, del 1963, salvo forse il finale, si direbbe derivato pari pari dal Metello. Se ne esamini il soggetto: “In un ’industria tessile torinese, sul finire del secolo scorso, dopo un grave incidente sul lavoro subito da un compagno, gli operai richiedono una revisione del loro trattamento. Però l’azione fallisce. Riprenderà quando un agitatore sociale organizzerà gli operai incitandoli allo sciopero ad oltranza. Nell’azione di crumiraggio sollecitata dai padroni un operaio perde la vita... Lo sciopero continua e la resistenza padronale sta per vacillare. Nello scontro con la cavalleria chiamata per difendere la fabbrica dall’occupazione, cade una seconda vittima. Gli operai ritornano al lavoro sotto il peso della sconfitta, ma con una speranza per l’avvenire”.

9 Sui fatti del tempo cfr Civ. Catt. 1902 II 101 e 737; III 221. Circa la dottrina mette conto rileggere quanto su Scioperi e scioperanti la rivista pubblicava in quello stesso anno 1902 (III 385 ss., 529 ss.), dove non la dottrina fa difetto né le sottili distinzioni. Del resto un anno prima (1901 IV 23), a proposito dei Doveri dei cattolici in Italia nell’ora presente, dopo aver dichiarato che “lo sciopero non è per sé condannabile dalla morale cristiana”, e dopo aver rilevato i “vizii” che v’introduceva il socialismo, continuava: "È vero che questi vizii non sono inerenti allo sciopero per la sua natura, ma per la malizia dei sobillatori delle plebi, i quali ne abusano; quindi speculativamente parlando, non ripugnerebbe che i cattolici organizzati nella democrazia cristiana se ne valessero onestamente. Ma troppo grande in pratica e troppo prossimo è il pericolo che lo sciopero trasmodi: quindi scrittori cattolici e capi autorevoli del movimento cattolico furono generalmente concordi a sconsigliarlo in Italia; e i Vescovi lombardi... vivamente raccomandano ai loro figli spirituali di astenersene anche nei casi in cui fossero giustificati da patti primitivamente non stipulati secondo giustizia, o non osservati dagli imprenditori; e ciò massime per gli strascichi di odio che lasciano e le colluttazioni talor sanguinose che provocano colla pubblica forza, come, dicono i Vescovi, è accaduto anche recentemente. L’autorità politica, del resto, è sempre disposta a ravvisare negli scioperi dei cattolici i flagranti reati di violenza o minacce previste dagli artt. 165 e 166 de Codice penale, pur chiudendo ambedue gli occhi, per non vederli, negli scioperi dei socialisti, che anzi furono, come è noto, difesi e magnificati dal Ministro Giolitti ne’ due rami del Parlamento” (36-37).

MENU

Articolo estratto dal volume II del 1970 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Vasco Pratolini – con Alvaro e Bacchelli, Brancati, Marotta, Moravia e Pavese – è tra gli scrittori ai quali più ha attinto il cinema italiano1, da quando è passato dalla cronaca sul vivo del neorealismo al racconto ed al romanzo, per lo più di memorie, verso la rievocazione storica.

Cominciò Blasetti nel 1953 trasferendo in Tempi nostri il racconto Mara dal pratoliniano Mestiere di vagabondo. Lo seguì nello stesso anno Carlo Lizzani portando sullo schermo Cronache di poveri amanti. Negli anni 1955 e 1963 fu la volta di Valerio Zurlini, con Le ragazze di San Frediano e con Cronaca familiare. Nel 1959 Sergio Capogna si cimentava con Un eroe del nostro tempo. Esce in questi giorni (1970) Metello, di Mauro Bolognini, mentre Valerio Zurlini torna ai suoi amori pratoliniani girando Lo scialo.

Quali i risultati? – Men che mediocre, direi, l’opera prima di Capogna. L’amore tragico dell’ex-marò Sandrino con la vedova del repubblichino vi si snoda lento e lungo (due ore e mezza!), materialmente fedele all’originale ma semisvotato della sostanza; inoltre, il buon mestiere scade qua e là nell’oleografia. Discreto il film con cui Zurlini passò dal documentario al film spettacolare. Corretto mestiere e ricerche formali, ma scarsa poesia ed insufficiente scavo dei personaggi. Manca il clima pratoliniano; manca la coralità del sanguigno e picaresco quartiere San Frediano. Resta il gallismo frigido di Bob con le varie Mafalde, Gine, Taschine, Piselle, Lorette..., a livello bozzettistico: neorealismo minore.

Con esito migliore, specialmente nella prima parte del film, Carlo Lizzani ha “tradotto” la pratoliniana descrizione dell’ormai famosa fiorentina Via del Corno ai primi anni del fascismo. Precisa la sua ricostruzione del costume dell’epoca, sicuro il possesso del mezzo cinematografico. Ma anche qui i personaggi risultano impoveriti rispetto all’originale, e la coralità del romanzo si disperde nell’intrecciarsi d’incerte linee narrative.

Molto meglio, mi pare, sono andate le cose nel secondo film pratoliniano di Zurlini – Leone d’oro a Venezia-1962 “per la squisita forza evocatrice dei sentimenti filtranti dalla memoria” –. Fare del cinema rispettando, come l’autore esigeva, assoluta fedeltà al testo di Cronaca familiare2, che è tutta un soliloquio evocativo, sembrava ed era impresa rischiosa; eppure Zurlini se la cavò con onore. Forse anche per la perfetta intesa creatasi nel frattempo tra lo scrittore e il regista, e poi tra questi e gli attori: bravissimi, soprattutto il protagonista Mastroianni e la nonna (Sylvie), ma anche il Perrin nella parte di fratello minore, e Salvo Randone in quella, un po’ teatrale, di maggiordomo. Pregi evidenti ne sono il ritmo elegiaco, ora allargato nella staticità dei fatti e della composizione, ora mosso dal contrappunto narrativo; l’isolamento psicologico dei personaggi, e l’analisi dei loro sentimenti condotta prevalentemente su primi piani; una Firenze stupenda, alla Ottone Rosai (il pittore amico e maestro di Pratolini), nello splendido colore di Rotunno; la musica di Goffredo Petrassi, a cominciare dallo struggente “largo” iniziale... Tuttavia non tutto soddisfa. Se l’inizio è stilisticamente perfetto nel tempo e nel tono emotivo, il finale risulta stanco ed indulgente al sentimentalismo. L’onda emotiva che ti accompagna per tutto il film non sai se muova tutta dalle immagini cinematografiche o ti giunga dal bel testo letterario, restato intatto nella voce fuori campo. Lo stesso clima figurativo, in sé perfetto, solo in parte risulta esigenza stilistica, necessità espressiva; per il resto, invece, si rivela preziosità estranea alla pudica e racchiusa evocazione pratoliniana3.

Questi esiti qualitativamente diversi offrirebbero una buona occasione per tornare sull’annosa e complessa questione della convivenza tra cinema e letteratura. Ma non mi sembra il caso. Mi limito a rilevare che se, come gran parte della critica ha giudicato, Cronaca familiare resta a tutt’oggi l’opera migliore di Pratolini, la teoria (discutibile) del Nostro – che “Più sarà bello il libro, più mediocre sarà il film”4 – riceve in questa trasposizione di Zurlini, confrontata con quelle sopra ricordate, una felice smentita. Può dirsi altrettanto del Metello, di Bolognini?

* * *

È noto il posto che esso occupa nella evoluzione-maturazione stilistica ed umano-politica dello scrittore5. Conclusa la prima fase, prevalentemente lirico-intimistica, “della memoria”, (di cui Cronaca familiare è un ritorno), e la seconda fase, di avvio al romanzo con interessi che andavano allargandosi da quella dei quartieri popolari fiorentini ad un’umanità più vasta, la terza passa dalla cronaca alla storia italiana. Appunto Una storia italiana s’intitola la trilogia che segna, per il momento, l’approdo più ambizioso di Pratolini: un arco di settant’anni di storia italiana – dal 1875 al 1945 – che sembra emulare i Cent’anni di Rovani e la trilogia bacchelliana Il mulino del Po.

li primo romanzo, e migliore, Metello, del ’55, si arresta al 1902, anno del primo grande sciopero italiano. Il secondo, meno felice, Lo scialo, del ’60, porta avanti i fatti sino al consolidarsi del fascismo.

 

L’ultimo, più discusso, Allegoria e derisione, del ’66, li conclude con la caduta del fascismo, più una postilla datata 2 luglio 1965.

Il film si mantiene sostanzialmente fedele al romanzo. Metello Salani (Massimo Ranieri) nasce a Firenze nel 1872. Fresca di parto, la madre muore. Qualche mese dopo anche il padre, renaiuolo anarchico, che aveva passato metà dei suoi giorni in prigione, muore affogato nell’Arno, dopo aver messo il figlio a balia presso i Tinaj, poveri contadini del Mugello. Nell ’87 (il film tace su tutta l’infanzia dell’orfano), espatriati i Tinaj nel Belgio, ritroviamo Metello, quindicenne analfabeta, a Firenze, accolto nel tugurio dell’anarchico Betto, già amico di suo padre, il quale sui suoi libri sovversivi lo inizia insieme alla lettura e alla politica. E proprio come amico di Betto – finito anche lui, ubriaco, in Arno – Metello assaggia per la prima volta la prigione. Uscitone, fa il muratore. Ma le paghe sono di fame, la sopportazione degli operai è all’estremo. Viola (Lucia Bosè), la fine e matura, ma ancora piacente, maestra che abita presso il cantiere Badolati, gli dà modo di arrotondare la paga occupandolo nel suo orto. Con essa Metello ha la prima veemente esperienza amorosa, che chiude azzuffandosi con un muratore, precedente amante della donna. Segue il triennio di servizio militare a Napoli (su cui il film sorvola).

Ritroviamo Metello venticinquenne a Firenze, nel ’97, di nuovo nel cantiere Badolati. La situazione è peggiorata. Non solo le paghe di fame perdurano, ma si parla di licenziamenti dei più giovani. I muratori, solidali, minacciano lo sciopero. Uno di essi, l’anziano Pallesi, precipita dai ponti e muore. Nella mischia tra i soldati e gli operai che con le loro bandiere rosse scortano il feretro, Metello trae in salvo la figlia del Pallesi, Ersilia (Ottavia Piccolo). Si ricorda di essa finito la seconda volta, dopo i moti del ’98, in prigione, e si dice: “Quando esco, la sposo” (Viola, durante il suo servizio militare, si era sposata per dare un nome al figlio avuto probabilmente da lui). E, difatti, uscito di prigione, la sposa e ne ha un figlio, Libero.

Si arriva così ai memorabili fatti del 1902. I muratori fiorentini, spalleggiati da altre categorie di operai, incrociano le braccia. Metello, che non s’è iscritto al partito socialista ma che è di casa nella Camera del lavoro, si ritrova a capo degli operai del suo cantiere contro l’ingegner Badolati (Corrado Gaipa) ed i suoi “caporali”. Ma lo sciopero va ben oltre le due settimane previste, gli imprenditori non cedono, ed i sussidi di solidarietà che si vanno raccogliendo in altre città italiane non arrivano mai. Nella snervante attesa s’inserisce, nel romanzo e nel film, la tresca di Metello con la bella Idina (Tina Aumont), la “borghese” dirimpettaia, tresca che viene risolta da Ersilia con una magistrale dose di schiaffoni.

Dopo un mese e mezzo di sciopero la situazione precipita. Nel cantiere Badolati, presidiato dalla polizia, un gruppo di crumiri si presenta al lavoro. Guidati da Metello, gli scioperanti invadono il cantiere e li affrontano. Nel tafferuglio la polizia spara e ne ferisce uno a morte. È il trionfo degli scioperanti, perché gli impresari accettano finalmente di trattare col rappresentante della Camera del lavoro. Ma per Metello la festa dura poco. Accusato di sedizione e di resistenza alla forza pubblica, entra per la terza volta alle Murate. Scarcerato dopo sei mesi, sulla porta della prigione, proprio come trent’anni prima aveva fatto l’anarchico suo padre con la povera mamma, egli promette alla moglie di non darle più di quei dispiaceri. Ma Ersilia, figlia dell’anarchico morto sul lavoro, non si fa illusioni.

Il film di Bolognini per molti versi ricorda Cronaca familiare di Zurlini, anzi qua e là ne sembra un calco. Simile lo stupore di una Firenze immersa in luci d’acquario; l’alternarsi di brani narrativi in colore realistico, con scene-ricordo in pellicola virata in blu; certi effetti luministici d’interni; l’atmosfera musicale (di Morricone, che, ahimè, non è Petrassi!) variata secondo le diverse coloriture di uno stesso insistente leit motiv... Lo ricorda, ma non lo supera, né l’eguaglia, pur condividendone pregi (e difetti).

Anche Bolognini, per esempio, nei particolari tecnici raggiunge risultati pregevolissimi. La ricostruzione ambientale (scenografia e costumi) della Firenze umbertina supera quella già da lui felicemente realizzata nel ’61 nella Viaccia. Egli ne scopre, con lente panoramiche, i giardini e le fontane, i lungarni, le viuzze profonde e le mura aggettanti; ne stempera la visione nella luce diafana dei crepuscoli, la drammatizza con lame di luce radente sui selciati bagnati sotto cieli plumbei, l’inonda radiosa di bagliori meridiani... Ma si direbbe che le preziosità figurative si compiacciano di se stesse; il “vero” sa di ricostruito. Le “signore” che scendono dal Piazzale Michelangelo, o che sfilano nei lungarni, le popolane che si aggirano nei mercatini, o che si allontanano, eleganti silhouttes, lungo i muri in penombra, sanno un po’ di figurino, di attrici brave, e finiscono col distanziare lo spettatore da quel tempo remoto e dai suoi fatti, piuttosto che col favorirne la partecipazione6.

Pregi e debolezze del film si avvertono anche confrontandolo con la unità tematica dell’originale letterario. Infatti, tutta l’amorosa attenzione di Pratolini s’incentra sulla globale maturazione umana di Metello. L’aspetto sociologico (del contadino trapiantato in città) serve di necessaria premessa agli altri due, strettamente interdipendenti: quello sentimentale (dalla disponibilità per esperienze pre- ed estramatrimoniali, alla responsabilità consapevole di capofamiglia) e quello politico (dal quindicenne disposto a lavorare come sfruttato, al trentenne impegnato nel resistere agli sfruttatori). Il film, invece, sorvolando su primo aspetto, rende difficilmente plausibile la totale sprovvedutezza iniziale di Metello. Per il resto, qua e là si ha l’impressione di assistere a due storie parallele, sicché i due aspetti, sentimentale e politico, s’integrano a fatica in un’unica esperienza esistenziale del protagonista. Ricordano un po’ l’espediente narrativo-spettacolare – le double stories di Hollywood – di alternare i meno appetibili (per il pubblico domenicale) con tenuti ideologici a più appetibili e meno impegnative parentesi erotico-sentimentali, con l’esito scontato di valorizzare più questi che quelli.

* * *

Tuttavia va riconosciuto a Bolognini il suo. Che il regista degli Innamorati (del ’55) e di Giovani mariti (del ’57) fosse particolarmente sensibile ai problemi sentimentali, specialmente dei giovani, si sapeva; ma bisogna ammettere che in Metello egli ha fornito la sua prova migliore in argomento. Infatti, se già in Pratolini la Viola e l’Ersilia raggiungevano il tutto tondo umano e psicologico che le accomuna a tante altre sue felici figure femminili – la Milena di Poveri amanti, la Lori di Costanza della ragione, Gloria di Allegoria e derisione, ecc. –, nel film di Bolognini esse ne sostengono ottimamente il paragone. Già la scelta del “materiale umano” è perfetta. Ma perfetto è anche il loro calarsi nei rispettivi ruoli: Lucia Bosè in quello di Viola, vedova passionale e senza scrupoli, ma riscattata da un viscerale senso di maternità e da una fondamentale bontà d’animo; e Ottavia Piccolo in quello di Ersilia, la popolana affettivamente sana, politicamente aperta, donna fiera e forte, nonostante le sue fattezze di bambinona bella. Le sentiamo personaggi vivi: gli unici, forse, rispetto ai quali scenografia e costumi non sembrano più ricostruiti, tanta rilevanza di verità assume sullo schermo il loro essere personale.

Sempre sotto questo aspetto bisogna riconoscere un altro merito a Bolognini. È nota la disinvolta libertà sessuale comune a tanti personaggi di Pratolini; libertà nella quale, certo, egli non si compiace, ma che neanche riprova. Ora, chi conosceva il Bolognini, poniamo, della Notte brava (del ’59), della Viaccia e soprattutto del Bell’Antonio (del ’60), in cui egli rincarava le pesantezze dell’omonimo romanzo di Brancati, aveva ragione di prevedere un pari greve sfruttamento di quella costante pratoliniana, che certo in Metello non fa difetto. Invece, il film risulta molto più misurato del romanzo. Il dongiovannismo prematrimoniale del protagonista viene, per così dire, emblematizzato nella sola sua relazione con Viola, mentre il suo adulterio con Idina mantiene un tono descrittivo – per i tempi che corrono! – sufficientemente corretto; certo molto meno esplicito ed insistente di quello usato, e ne vedremo la ragione, da Pratolini nel romanzo.

Non sembra che sia stato altrettanto felice Bolognini nel rendere la problematica socio-politica di Pratolini. Sì, sostanzialmente non manca nel film quel che ribolle nel romanzo: il laborioso passaggio dall’epoca dell’unità politica della nazione a quella dei conflitti sociali; l’albeggiare di una coscienza sociale nel popolo (non siamo ancora alla “classe” marxista) nel suo lento trapasso dalla cultura contadina a quella industriale; il sorgere del socialismo7 e l’azione programmata delle Camere di lavoro, in contrasto con l’azione eversiva degli anarchici; i problemi dei salari, dello sciopero, del crumiraggio, e la necessaria unione, locale e nazionale, dei lavoratori per farvi fronte; il primo braccio di ferro tra questi e gli impresari; gli interventi dell’autorità (giustizia ed esercito) contro quelli ed a sostegno di questi... Ma, per lo più, il film non sconfina da una materiale illustrazione del romanzo. Ne riconosciamo i personaggi, singoli e corali; li sentiamo discutere, li vediamo scontrarsi ed azzuffarsi; ma ne restiamo estranei. Non perché non ci tocchino i loro problemi, ché, anzi, stando ai fatti come vengono raccontati, parteggiamo senz’altro per quegli operai, contro quei padroni; ma perché sentiamo didascalici, programmati a freddo, tanto i problemi quanto i personaggi. Insomma, perché ritroviamo di nuovo un’accurata ricostruzione cronachistica: non partecipazione autentica, non poesia.

Però, poesia a parte, onestamente, Bolognini non ha strumentalizzato il socialismo di Pratolini, come oggi usa, in propaganda marxista, sull’esempio, poniamo, di Monicelli dei Compagni8. Ora, quello di Pratolini è un socialismo, come dire?, aurorale, se non proprio deamicisiano; che non rifugge, in Metello come in Cronaca familiare, da ingenui (e confusionari) imprestiti evangelici. Un socialismo da rivendicazioni pratiche, elementari; con poca ideologia, e appena tanto di anticlericalismo. Sì, qualcuno dei suoi socialisti nomina Marx, ma non con la competenza con cui i suoi anarchici ragionano di Proudhon, di Kropotkin, di Bakunin... Un socialismo neanche manicheo: “Tutti i santi (i lavoratori) di qua; tutte le forche (i borghesi) di là”. Ovviamente Pratolini non è tenero con i borghesi. Perciò calca la mano sulla fatuità e l’impudicizia volgare della “borghese” Idina, mentre regala esemplare fermezza d’animo e pulizia morale alla popolana Ersilia. Ma anche la sua Viola è una borghese, eppure egli la circonda di un alone di bontà romantica; e lo stesso Badolati, l’impresario, non è tutto da buttar via. Ha le sue idee storte, e le difende, ma non è l’orco con cui certa letteratura impegnata simboleggia il capitale.

Bolognini, come s’è detto, si è attenuto allo stesso senso di misura; anzi, qua e là, smussa ed addolcisce ulteriormente. Si ricordi, per esempio, l’espediente, ignoto a Pratolini, di rappresentare storpio l’ingegnere Badolati a causa di un incidente sul lavoro: ciò che finisce per accomunarlo alla mala sorte dei suoi operai. Perciò, da certa critica ideologicamente impegnata egli può aspettarsi lo stesso trattamento da essa a suo tempo usato con Pratolini.

Ed a torto, crediamo: perché, per contribuire a formare una coscienza sociale negli spettatori cinematografici che ne difettassero, non c’era affatto bisogno di alterare i fatti. Essi, già così come sono, oggi ancora, a chi vuole sentire, parlano e gridano. Forse anche a troppi cattolici, la cui scarsa sensibilità ai problemi del prossimo mal s’accorda col Vangelo e col Magistero, di allora e di oggi9.

1 Notevole anche il suo contributo a vari film. Ha infatti collaborato al trattamento degli episodi napoletano e fiorentino di Paisà; (di Rossellini), della Viaccia (di Bolognini) e delle Quattro giornate di Napoli (di Loy), ed ha collaborato alle sceneggiature degli Sbandati (di Maselli), di Terza liceo (di Emmer), di La domenica della buona gente (di Maiano) e di Cronaca di un delitto (di Sequi).

2 Assoluta fino a un certo punto, perché nel film abbondano gli sfrondamenti e non mancano aggiunte, quali quelle del carrettino ribaltato e dell’inizio, giudicata, questa, indispensabile dallo stesso Pratolini per introdurre i tre flash backs di cui il film si compone.

3 Notavo riferendo su Venezia-1962 (in Letture, 1962, 10, 691-692): “Opera di alta classe stilistica e di pregevolissimo buon gusto. Egli (Zurlini) ha puntato prevalentemente su due elementi: la resa del materiale umano ed i valori compositivo-pittorici delle inquadrature. Il primo... gli è stato imposto dalla natura stessa del soggetto... Alcune sequenze, quali quelle del duplice incontro della nonna con i nipoti, per semplicità di sintesi compositiva, intensità di sentimento e commossa partecipazione dei personaggi, tengono ottimamente il confronto con quelle parallele del Pratolini. A bene osservare, però, anche qui non tutto sodisfa. Anzi, pur nel rilievo degli eccellenti elementi singoli, l’insieme si direbbe che manchi di quella impronta di unità essenzialità ed originalità di concezione e di espressione che è inconfondibile nota dell’opera pienamente valida. Ci riferiamo anche alle poche, ma avvertibili, mancanze di misura che qua e là disarmonizzano il film, quali un eccesso di drammatizzazione nella sequenza dell’iniezione suppurata, alcune superfluità polemiche riguardanti la fisonomia del maggiordomo, e soprattutto le lungaggini eccessive dell’ultima malattia, dove forse anche la troppo facile commozione poteva ridursi a toni più raccolti.
“Ma ci riferiamo soprattutto all’equivoco fondamentale che soggiace a tutto il film proprio perché vuol essere non un’espressione ’ricreata’, quindi originale, di un’opera letteraria, bensì la fedele trasposizione figurativa di essa... Fare spettacolo di pagine scritte come in segreto..., mentre conferisce all’insieme una certa enfasi e rafforza lo sviluppo drammatico a spese di quello psicologico-affettivo, riduce la fedeltà al testo letterario ad elementi piuttosto formali, e sottopone il regista ad alternare il suo esprimersi fra traduzione vincolata e creazione autonoma, a scapito appunto dell’unità dell’insieme, Basti, per esempio, pensare al colore, pur mirabile, ad alla sapiente composizione statica delle inquadrature...: in realtà esse formano parte a sé, pregevole quanto si voglia, ma non esigenza stilistica dell’opera filmica e del tutto estranea al testo letterario”.

4 Alla domanda: “Lei è favorevole al rapporto cinema-letteratura?”, Pratolini rispondeva: “No, io non sono favorevole”; e spiegava: “Penso che, per il tipo particolare di arte che è il cinema, il regista dovrebbe essere anche l’autore dei suoi film. Quando si avvicina al testo letterario, nel migliore dei casi ne farà una bella illustrazione. Ma più sarà bello il libro, più mediocre sarà il film. Cioè non vedo come da un’opera letteraria si possa ricavare l’equivalente cinematografico, se non distruggendo i valori intrinseci” (M. D’AVACK, Cinema e letteratura, Roma, Canesi, 1964, 31). Cfr anche Centro Studi Anica, Roma, nov. 1957-febbr. 1958. 58 ss.

5 Sul nostro autore si consultano con utilità: Dizionario universale della letteratura contemporanea, Milano, Mondadori, 1961, 1147-1150; Letteratura italiana, Milano, Marzorati, 1963, 1639-1656; N. AMENDOLA, Romanzo italiano del dopoguerra, Bari, Berta, 1966; R.A. ASOR, Vasco Pratolini, Roma, Ed. Moderne, 1958; G. BARBERI SQUAROTTl, in La narrativa italiana del dopoguerra, Bologna, Cappelli, 1965, 117-125; R. BERTACCHINI, in Figure e problemi di narrativa contemporanea, Cappelli, 1960, 245-300; F. FLORA, in Scrittori italiani contemporanei, Pisa, Nistri-Lischi, 1952, 233-272; F. LONGOBARDI, Vasco Pratolini, Milano, Mursia, 1964; G. PULLINI, Romanzo italiano del dopoguerra, Milano, Schwarz, 1961, 117-149. In particolare, sul dibattito intorno al Metello: G. FERRETTI, in Belfagor, 1966, 101-107.

6 A proposito del Bolognini della Viaccia, Pratolini notava: “Secondo me, Bolognini è uno dei maggiori registi che noi oggi abbiamo, come realizzatore. Si innamora molto spesso delle cose più di gusto che delle idee da rappresentare. Non è un giudizio negativo, naturalmente. Egli si era innegabilmente innamorato di un ambiente, voleva ricostruire un’epoca e un ambiente: in questo è stato prodigioso” (M. D’AVACK, op. cit., 36). Forse lo stesso tipo d’innamoramento l’aveva portato a chiedere di girare lui Cronaca familiare. La regia di Metello gli fu affidata come terza alternativa. Prima essa fu offerta a Lizzani, che non accettò perché negli anni ’55-’58 il suo nome [di marxista] più Metello significava censura preventiva. Il produttore Bini, che acquistò i diritti, pensava a Germi, il quale a sua volta rifiutò perché ammirava, sì, il libro e la storia, ma temeva che, rivisto oggi, Metello risultasse un operaio comunista (cfr Cinema domani, 162 n. 1, 11 ss.).

7 Si ricordi che il partito socialista in Italia si era costituito al Congresso di Genova-1893.

8 Il film, del 1963, salvo forse il finale, si direbbe derivato pari pari dal Metello. Se ne esamini il soggetto: “In un ’industria tessile torinese, sul finire del secolo scorso, dopo un grave incidente sul lavoro subito da un compagno, gli operai richiedono una revisione del loro trattamento. Però l’azione fallisce. Riprenderà quando un agitatore sociale organizzerà gli operai incitandoli allo sciopero ad oltranza. Nell’azione di crumiraggio sollecitata dai padroni un operaio perde la vita... Lo sciopero continua e la resistenza padronale sta per vacillare. Nello scontro con la cavalleria chiamata per difendere la fabbrica dall’occupazione, cade una seconda vittima. Gli operai ritornano al lavoro sotto il peso della sconfitta, ma con una speranza per l’avvenire”.

9 Sui fatti del tempo cfr Civ. Catt. 1902 II 101 e 737; III 221. Circa la dottrina mette conto rileggere quanto su Scioperi e scioperanti la rivista pubblicava in quello stesso anno 1902 (III 385 ss., 529 ss.), dove non la dottrina fa difetto né le sottili distinzioni. Del resto un anno prima (1901 IV 23), a proposito dei Doveri dei cattolici in Italia nell’ora presente, dopo aver dichiarato che “lo sciopero non è per sé condannabile dalla morale cristiana”, e dopo aver rilevato i “vizii” che v’introduceva il socialismo, continuava: "È vero che questi vizii non sono inerenti allo sciopero per la sua natura, ma per la malizia dei sobillatori delle plebi, i quali ne abusano; quindi speculativamente parlando, non ripugnerebbe che i cattolici organizzati nella democrazia cristiana se ne valessero onestamente. Ma troppo grande in pratica e troppo prossimo è il pericolo che lo sciopero trasmodi: quindi scrittori cattolici e capi autorevoli del movimento cattolico furono generalmente concordi a sconsigliarlo in Italia; e i Vescovi lombardi... vivamente raccomandano ai loro figli spirituali di astenersene anche nei casi in cui fossero giustificati da patti primitivamente non stipulati secondo giustizia, o non osservati dagli imprenditori; e ciò massime per gli strascichi di odio che lasciano e le colluttazioni talor sanguinose che provocano colla pubblica forza, come, dicono i Vescovi, è accaduto anche recentemente. L’autorità politica, del resto, è sempre disposta a ravvisare negli scioperi dei cattolici i flagranti reati di violenza o minacce previste dagli artt. 165 e 166 de Codice penale, pur chiudendo ambedue gli occhi, per non vederli, negli scioperi dei socialisti, che anzi furono, come è noto, difesi e magnificati dal Ministro Giolitti ne’ due rami del Parlamento” (36-37).

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151