NOTE
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1 Cfr Pio XII ministro della parola in Civ. Catt. 1954, I, 609 ss.

2 Qui riuniti e pubblicati online in un solo documento: Discorso «Il film ideale». Ai capoversi di esso si riferiscono i numeri in parentesi che accompagnano questo articolo.

3 Appartengono, tra le altre, alla morale particolare del cinema le questioni sulla responsabilità personale dei singoli agenti che entrano nella produzione: soggettisti, attori, registi e finanziatori, chiamati a collaborare in film che di poco, o di molto, o del tutto, si allontanassero dall’ideale; i problemi morali propri del noleggio e della reclame; quelli dei gestori delle sale, dei critici e della stampa cinematografica in genere; infine, i doveri degli spettatori e il valore precettivo o meno delle “qualifiche”, con cui l’autorità ecclesiastica in ogni nazione cerca di tutelare l’integrità morale dei singoli fedeli e di tutta la comunità. Per questi cfr gli Atti del magistero ecclesiastico nella raccolta in preparazione presso la Pontificia Commissione per la Cinematografia.

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Articolo estratto dal volume IV del 1955 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Se col “magistero occasionale”, caratteristico del suo pontificato1, Pio XII dimostra la possibilità e il diritto da parte della Chiesa cattolica di essere tempestivamente presente nei novissimi problemi, che l’esplosiva evoluzione tecnico sociale del mondo odierno pone a tutta l’umanità, in esso non poteva essere ignorato il cinema, che oggi è una delle massime industrie, uno dei più impressionanti fenomeni di massa ed uno dei più efficaci artefici dell’opinione e della morale pubblica. Ecco, perciò, i suoi due discorsi, del 21 giugno e del 28 ottobre di questo 1955, che in realtà, poi, non sono che due parti di un’unica trattazione2.

Naturalmente, tali e tanti sono i problemi morali e i presupposti di psicologia individuale e collettiva, che il cinema pone nei tre stadi del suo ciclo economico: produzione, distribuzione e consumo, che era materialmente impossibile toccarli tutti, senza sconfinare dai limiti di un discorso, sia pure insolitamente ampio, come quello di cui parliamo, a quelli di un vero e proprio trattato. Il Papa, perciò, s’è limitato al primo stadio: la produzione, e in esso ha considerato solo l’oggetto prodotto: il film, rilevando le qualità di cui assolutamente non deve difettare se vuole passare felicemente il collaudo su piano etico e morale. Tuttavia, i due discorsi costituiscono come un trattatello di morale cinematografica, perché, determinata con precisione psicologica la fisonomia del film in sé, non c’è caso di morale cinematografica che non se ne trovi lumeggiato3.

Di qui l’opportunità di richiamarvi l’attenzione dei nostri lettori, non tanto per commentarlo – ché superflua è la glossa dove chiaro è il testo! – quanto per rilevarne alcune caratteristiche fondamentali, tanto ricche di valori umani e soprannaturali da costituire da sole una validissima raccomandazione dello stesso magistero e una sicura garanzia della sua efficacia.

Oggettività psicologica

Un’attività complessa come il cinema, che è insieme tecnica e linguaggio, industria e commercio, divertimento, arte, cultura, propaganda e cento altre cose, si presta facilmente a visioni e ad apprezzamenti parziali e, in quanto praticamente negassero quel che non considerassero, fallaci e falsi. Di qui la confusione delle lingue che regna nella letteratura cinematografica, specialmente quando si avventura in campo estetico o, peggio, etico morale. Chi, per esempio, a proposito di censura, statale o ecclesiastica, non ha visto noti critici ergersi in difesa di una minacciata sacrosanta “autonomia dell’arte”, e gelosi politici denunciare presunti attacchi alla libertà di pensiero e di espressione, garantita, tra l’altro, in Italia, anche dalla Costituzione? E insieme con siffatti difensori dei più sacri diritti dell’uomo si ergono, non meno imperiosi, quelli dei più concreti suoi interessi economici. Come caso limite, recentemente, nel convegno di Varese, ci toccò ascoltare un rappresentante della produzione italiana proporre, a noi critici, di tacere per almeno una o due settimane sui film di nuova programmazione «per non pregiudicare il loro lancio commerciale», e motivare la sua proposta osservando che, per il produttore, un film non è che un prodotto d’industria, come un ferro da stiro o un’automobile, su cui egli rischia enormi capitali...

Il Papa prende le mosse al suo dire da una visione meno parziale, più totale, e perciò più vera, più umana, del cinema. Egli vede il mondo costellato da più di centomila schermi, e avanti ad essi, non sai se cattedre o altari, allineati più di dodici milioni di posti a sedere, dove ogni giorno si assidono, per almeno due ore, quaranta milioni di uomini, e il numero di essi raggiungere ogni anno in Italia gli ottocento milioni, e in tutto il mondo i dodici miliardi, e queste cifre di schermi e di spettatori accrescersi ogni anno più... (I, 6; II, 111). Prescindendo dagli interessi più o meno nobili che possono muovere la produzione, egli si domanda quale influsso di fatto eserciti nell’umanità questo fenomeno strabiliante (I, 7). Che un influsso, e prepotente, e incontrollato, il cinema lo abbia è fuori di discussione; altrimenti come si spiegherebbe che in appena sessant’anni esso è diventato un bisogno quasi primario di gran parte dell’umanità, quali il mangiare e il fumare, e rapidamente si avvia a diventarlo per tutta? Come si spiegherebbe che vi accorrono i poveri, quanto e più dei ricchi; gli ignoranti, gli analfabeti e i bambini, quanto e più dei dotti e degli adulti? (I, 4). Che lo adoperino i governi come scuola, i regimi come propaganda, e, per la prima volta nella storia, gli alunni non ribellarsi e i cittadini far ressa e pagare per assistervi?

È anche certo che parte dell’influsso dipende dai generi di film che vengono proiettati e dagli argomenti che trattano; ma, contrariamente all’attesa di quanti rimproverano alla morale cattolica un’eccessiva sensibilità circa i problemi di contenuto nelle opere di pensiero, il Papa non segue senz’altro questa facile pista, che l’avrebbe portato a considerazioni vere, ma piuttosto marginali; s’impegna, invece, subito nell’esaminare la natura stessa del cinema, giustamente trovando il segreto del suo potere sulle folle prima di tutto nelle sue qualità tecniche, che lo rendono uno spettacolo splendido (I, 8), e nel perfezionamento rapidamente raggiunto dai suoi mezzi espressivi, i quali, da meccanica riproduzione della realtà, l’hanno presto reso strumento di fantasia poetica (I, 10); sicché oggi, mentre i più degli spettatori, non iniziati ai segreti del suo linguaggio, vi s’immergono come in un immenso, vivo e vissuto caleidoscopio, gli iniziati vi possono gustare, quando ne raggiunga il livello, alte espressioni di arte (I, 11).

Ma anche questa considerazione non tocca il fondo del problema, che il Papa addita nelle leggi, solo in parte sperimentalmente controllate, inerenti alla natura stessa del linguaggio filmico (I, 12). Passività dello spettatore avanti alle suggestioni dello schermo, per cui egli si lascia affondare come in uno stato onirico, successiva sua attivazione psichica causata dall’incantesimo delle rappresentazioni luminose e in movimento; suo inconscio e fatale trasportarsi nel mondo del protagonista, da lui appreso come reale e non come rappresentato, fino a rivestirne e a viverne l’animo, i sentimenti, le passioni...; infine, incontrollata messa in moto dei suoi più intimi dinamismi: attese, brame e impulsi psichici: lo voglia o non lo voglia, l’avverta o non l’avverta lo spettatore, queste leggi agiscono, e tanto più efficacemente quanto più il regista, affinatosi nella loro conoscenza teorica e scaltritosi nel loro uso pratico, più ne eccita e ne incatena l’attenzione e accresce l’incanto della rappresentazione (I, 13).

Arte, dunque, il cinema? Certo: per quanto raramente. Pura cultura ed esposizione di nozioni? Anche, ma ancor più raramente, e forse solo nei film didattici. Innocuo prodotto d’industria? Mai! Si direbbe piuttosto una magica mistura, capace di inebriare e di assopire, di esaltare e d’ipnotizzare, di deflagrare; un congegno a sorpresa, che, col variare di qualche carica, può, imprevedibilmente, o liberare con una risata la mente dello spettatore, o gettarla nell’angoscia, o armonizzargli nell’animo le contraddizioni createvi dagli istinti disordinati, o scatenarglieli vieppiù, e causargli insanabili traumi psichici; insomma: «un veicolo così lesto ad arrecare il bene, come a diffondere il male» (I, 17). Su questo dato di fatto, la prima conclusione del Papa sboccia oggettiva ed inoppugnabile: se il cinema è quel che è, se di sua natura è polivalente, non basta, per quanto doverosa, la vigilanza del produttore, ma spetta alle pubbliche autorità della Chiesa e dello Stato, cui per mandato di natura e divino è affidata la cura del bene comune, il diritto e il dovere di vigilare perché il film nocivo non sia prodotto, o, se prodotto, non circoli incontrollato, e, qualora circolasse, perché i singoli, che non ne volessero subire danno, siano tempestivamente difesi dalle sue “cariche” nocive (I, 18).

Umanità totale

Si sarà notato che, nell’analizzarne la natura, il Papa considera il cinema sempre in relazione all’uomo, riconoscendo costantemente la preminenza dei valori assoluti di questo sui valori relativi di quello. Orbene, su questo sacro rispetto dei valori umani, che ci pare la seconda caratteristica fondamentale del suo discorso, richiamiamo l’attenzione dei lettori.

Come il cinema, anche l’uomo è un dato di fatto, che non va discusso, ma preso per quello che è. Intelligente, volente: persona, egli è soggetto di doveri, ma anche di diritti; e di diritti inalienabili, perché inerenti alla sua natura, dalla quale egli non può separarsi se non cessando di essere uomo (I, 25). Tra questi diritti inalienabili c’è che le cose servano a lui e non lui alle cose, e cioè che esse conservino in ogni caso ragione di mezzo perché egli possa raggiungere con esse i sui fini, e mai pretendano fini autonomi, per ottenere i quali egli serva come mezzo.

Tra queste cose c’è il cinema, sia esso arte, cultura, divertimento, tecnica, ricerca, affare, industria, propaganda, o qualsiasi altra cosa. Esso darà film ideali non nella misura in cui esaurirà le sue possibilità tecniche, ma in cui servirà allo spettatore, sodisfacendone le legittime esigenze. Si pieghi, dunque, il cinema all’uomo e non pretenda di piegarlo a sé (I, 34). Distingua età da età (I, 30), classe da classe sociale (I, 32); l’amor di lucro non lo renda tanto puerilmente elementare da evitare tutti i problemi dell’uomo, né, al contrario, glieli faccia affrontare e trattare indiscriminatamente, a rischio di gettare lo scompiglio nelle coscienze con esperienze parziali e premature. Lo spettatore cerca nel cinema un incremento di cultura? Egli è nel suo diritto di figlio di Dio, e il cinema, se può, deve venirgli incontro (I, 38; II, 55 ss.), attingendo, come esso solo sa fare, nelle inesauribili ricchezze e bellezze della natura (II, 58), delle scienze (II, 60), della tecnica (II, 62), della storia. Lo spettatore vi cerca, invece, come oggi si dice, un’evasione? Nella misura in cui questa sua ricerca fosse legittima, il cinema deve sodisfarla (I, 39); e, dunque, lo faccia pure ridere, distendere, sognare: in questa terra d’esilio il sollievo non è ancora necessariamente peccato: anzi, consolare gli afflitti è un’opera di misericordia... Ma guardi di non creare lui, artificialmente, ulteriori necessità di evasione alla scontenta ed angosciata umanità (II, 77); reagendo a quanto il desiderio di lucro potrebbe consigliargli, moderi la sua potenza d’incantesimo; se non può non immergere lo spettatore nella irrealtà del sogno, almeno lo riconduca poi dolcemente alla realtà in cui deve vivere, come ogni giorno fa la natura coi corpi già rotti dalla fatica e poi ristorati dal riposo (I, 41); in ogni caso non indulga in trattare argomenti inumani, o in esibizionismi immodesti; qualora dovesse trattare il male, dacché in questo mondo esso pure è una realtà, lo faccia, ma senza esagerarlo, senza esaltarlo, senza farne occasione di scandalo (II, 77); giacché avanti a chi mette in pericolo la salute eterna, sia pure di una sola anima, la coscienza cristiana non transige: non ci sono ragioni di arte, di tecnica o di lucro che tengano, se è vero, com’è vero, che sempre e in ogni caso quelle sono per l’uomo e non l’uomo per esse, e se è vero, com’è vero, che anche per il cinema vale il categorico interrogativo di Gesù: «Quale guadagno fa uno che s’impossessa di tutto il mondo e poi nuoce all’anima sua?» (Mt. 16,26).

Siccome poi l’uomo, socievole per natura, necessariamente fa parte delle due comunità naturali che sono la famiglia e lo Stato (II, 91, 99), il cinema ideale non solo non deve distoglierlo da esse, ma piuttosto conciliarvelo ed affezionarvelo, diventando così, da disgregatore della società umana, come purtroppo spesso è, efficacissimo fattore di coesione sociale (II, 103). Non basta: dato che tutto nella natura dell’uomo si rapporta, direttamente o indirettamente, a Dio, il cinema non può prescindere dagli interessi religiosi dello spettatore; se li ignorasse, doppiamente fallirebbe alla sua missione umana: mettendosi nel falso di fatto, perché in realtà oggi la religione è ancora presente nella coscienza e nella vita dei singoli e della società, specialmente familiare; nel falso di diritto, mostrando come normale l’assenza sistematica di Dio nell’esistenza umana (II, 71). Anzi, dato che una religione puramente naturale, possibile su piano d’ipotesi, in realtà, a rivelazione avvenuta, non è più sufficiente, il cinema non deve ignorare l’uomo soprannaturalizzato, né la presenza attiva della Chiesa nel mondo: società perfetta voluta da Cristo per portare a termine, fino alla fine dei secoli, la deificazione dei suoi eletti; esso la deve conoscere, per trattarne con la dovuta verità e il necessario rispetto (II, 107). La morale che deriva da questa visione di umanità completa non è, come, ignorandone i fondamenti, la giudicano i profani, un arido codice, vincolante e mortificante, imposto da una volontà estranea, che inumanamente si compiace a tarpare il libero volo degli uomini; ma è esigenza di natura, che è dono di Dio; esigenza di supernatura, che è super dono di Dio; è una poetica che, svincolando l’uomo dalla vischiosità del troppo contingente, in cui lo trova, l’avvia a sublimarsi verso quella contemplazione soprannaturale, della quale la contemplazione estetica è appena una lontana preparazione e inadeguato simbolo. Non per nulla Pio XII osserva più volte che le esigenze morali del film ideale giovano, nonché non nuocere, alle ragioni dell’arte! (I, 13, 33, 45; II, 98, 104).

Fondamentale ottimismo

Una terza gradita caratteristica, che abbiamo motivo di rilevare nel discorso pontificio, è quella del suo fondamentale e costruttivo ottimismo.

Chi è un po’ addentro nella letteratura moralistica e religiosa sul cinema sa quanto sia facile vedervi tutto fosco ed abbandonarsi a geremiadi della stessa tinta. Il Papa lo evita di proposito: «È tempo ora di guardare i suoi rapporti... in quello che esso ha e può avere di positivo, o, come suol dirsi, di costruttivo, conformemente al nostro assunto, che è di non muovere sterili accuse, ma d’indurre il cinema a rendersi sempre più strumento del bene comune» (II, 89). Non che egli ignori il marcio che c’è nel mondo cinematografico! I frequenti accenni che si permette dicono, a chi sa leggere tra le righe, che egli non si fa illusioni. Conosce benissimo il prevalere che, nella produzione e nella distribuzione, vi esercita il fattore economico (I, 17, 19), l’influsso prevalentemente alogico (I, 12, 41), e perciò disumanizzante, anzi spesso chiaramente immorale (II, 50), che il cinema esercita, le critiche interessate che si muovono alla censura civile ed ecclesiastica (I, 18), la fragilità degli spettatori (I, 19, 40), nonché dei registi, che camuffano di esigenze artistiche i cedimenti al mal gusto, e dei critici, che patteggiano l’utile col dovere (I, 45); sa dei colpi inferti alla religione da molti film che praticamente avallano l’ateismo, o, se qualche volta s’interessano di religione, lo fanno in modo del tutto superficiale (II, 72); della morbosa e trionfante descrizione del male contenuta in altri (II, 77), che poi, inefficacemente, lo condannano in una chiusa formalistica (II, 42); infine sa degli attentati alla famiglia che si perpetrano sullo schermo (II, 94) o alla più ampia compagine sociale da politicanti partigiani (II, 100) o rivoluzionari (II, 104), ma, ciò non ostante, per quanto ce ne fosse ampia materia, non una condanna esplicita, non un’invettiva; nelle parole e nel tono, sempre estrema dolcezza, animo paterno, benevolo.

Sì: molti sono i film cattivi a soggetto: moltissimi, è risaputo; ma il Papa non trova, per dirlo, una frase più forte di questa: «In questa sorte di argomenti il film ideale non è cosa di tutti i giorni!» (II, 65). Sì: raro è che la morale esca del tutto indenne dallo schermo, ma il Papa addolcisce ancora, fin dove può senza incorrere nel falso: «Sarebbe utile indagine l’esaminare in quale misura alcuni film abbiano concorso a diffondere tale mentalità, o se semplicemente si adeguano servilmente ad essa per sodisfare i desideri almeno con le finzioni...» (II, 94). Appena può, ammette, comprende. Riconosce l’influsso che il cinema ha nel mondo moderno, ma non se ne lamenta (I, 1-4), o lo fa con termini discretissimi (II, 50). Oggi c’è tutta una letteratura allarmistica sulle nuove rivoluzioni tecniche del cinema, ma Pio XII le guarda con occhio tranquillo (I, 8); neanche la competizione mondiale, in cui da decenni è entrata la produzione cinematografica, l’allarma; anzi egli la trova utile (I, 10). Altri avrebbe esagerato in toni drammatici descrivendo lo stato onirico in cui lo spettacolo filmico cala lo spettatore: egli vi s’indugia minutamente, ma con oggettiva freddezza scientifica (I, 12). Sa del desiderio di evadere che spinge le masse a vivere l’irreale realtà dello schermo, ma, contrariamente ad ogni attesa di chi scambia la morale col volto sempre arcigno dell’inumanità, non condanna: comprende e commisera (I, 40). Che più? Contro tutte le difficoltà che gli oppongono i due termini del problema: il film e l’uomo, con le loro, si direbbe, contrarie esigenze, egli ammette la possibilità, per quanto relativa, del film ideale (I, 22; II, 52), e sulla produzione di esso, piuttosto che sulla critica del film mancato, imposta tutto il suo ampio discorrere. Si rende conto delle difficoltà che, per attuarlo, possono incontrare soggettisti (II, 54), registi e produttori (II, 65), e perciò non si meraviglia della loro scarsezza; ma riconosce che film ideali, grazie a Dio, ce ne sono (II, 57, 60, 71), e perché altri se ne producano si dice fiducioso nei registi (II, 98, 104), fiducioso nei produttori, che paternamente esorta (I, 20, 46; II, 111), e fiducioso, malgrado tutto, nell’onestà e nell’intelligenza del pubblico, che saprà apprezzare quel bello e quel buono di cui sente l’esigenza (I, 20, 45; II, 57, 60). E al film ideale riconosce, in una visione soprannaturalmente ottimista, un fine più che umano: divino. «Rafforzare ed elevare l’uomo nella coscienza della sua dignità, fargli maggiormente conoscere ed amare l’alto grado in cui nella sua natura fu posto dal Creatore; parlargli delle possibilità di accrescere in sé le doti di energia e di virtù di cui dispone; rinsaldargli la persuasione che egli può vincere ostacoli ed evitare risoluzioni errate, che può progredire dal bene al meglio, mediante l’uso della sua libertà e facoltà» (I, 27); «dare alle immense schiere di uomini, di donne, di giovani, di fanciulli... un riflesso del vero, del buono, del bello: in una parola, un raggio di Dio» (II, 112): questo il cinema può e deve farlo, «elevandosi così alla dignità di strumento della gloria di Dio» (II, 48).

* * *

Tutti i fatti umani sono complessi, e tanto più complessi quanto più numerose sono le componenti libere che vi entrano in giuoco. Solo gli spiriti superficiali, frettolosi nel concludere, pensano di averne ragione forzandoli in una elementarietà che non hanno; di qui, in filosofia e in morale, i facili monismi, che sembrano spiegare tutto, ma che di fatto non spiegano nulla, perché negano o ignorano cento altri aspetti delle cose, non meno veri di quello da essi considerato come unico ed assoluto. Il cinema, come notavamo introducendoci, tra i fatti umani è uno dei più complessi, essendo molte le sue componenti libere: individuali e collettive; di qui le difficoltà che psicologhi e artisti, sociologhi e moralisti provano nel valutarne la portata umana e nel darne un giudizio di valore morale; sicché a priori si può dire che le soluzioni semplici sono parziali e false.

Il Papa non nega la complessità del problema: le distinzioni e le sottodistinzioni in che divide la sua indagine ne sono un segno manifesto; esse praticamente concludono col dire che non è facile definire il film ideale, e che ancora meno facile è produrlo. Noi gliene siamo grati. Proprio la sua minuta indagine psicologica, morale e religiosa ci pare segno inequivocabile della verità, cercata e trovata dalla sua intelligenza illuminata nell’essenza delle cose, e dalla stessa intelligenza riverberata su noi per la loro comprensione. Leggendolo, trovavamo proprio nel fenomeno cinema il simbolo della sodisfazione intellettuale che provavamo nel nostro animo. Uno schermo illuminato a piena luce uniforme non ci dice nulla: gli preferiamo una sapiente distribuzione di luci e di ombre nello spazio e nel tempo, tale che ci faccia vivere la verità della realtà. Non è questo, in fondo, che fa l’incanto del cinema?

1 Cfr Pio XII ministro della parola in Civ. Catt. 1954, I, 609 ss.

2 Qui riuniti e pubblicati online in un solo documento: Discorso «Il film ideale». Ai capoversi di esso si riferiscono i numeri in parentesi che accompagnano questo articolo.

3 Appartengono, tra le altre, alla morale particolare del cinema le questioni sulla responsabilità personale dei singoli agenti che entrano nella produzione: soggettisti, attori, registi e finanziatori, chiamati a collaborare in film che di poco, o di molto, o del tutto, si allontanassero dall’ideale; i problemi morali propri del noleggio e della reclame; quelli dei gestori delle sale, dei critici e della stampa cinematografica in genere; infine, i doveri degli spettatori e il valore precettivo o meno delle “qualifiche”, con cui l’autorità ecclesiastica in ogni nazione cerca di tutelare l’integrità morale dei singoli fedeli e di tutta la comunità. Per questi cfr gli Atti del magistero ecclesiastico nella raccolta in preparazione presso la Pontificia Commissione per la Cinematografia.

In argomento

Magistero

n. 3195-3196, vol. III (1983), pp. 209-222
n. 3188, vol. II (1983), pp. 154-161
n. 3141, vol. II (1981), pp. 222-237
n. 2990, vol. I (1975), pp. 144-157
n. 2983, vol. IV (1974), pp. 36-48
n. 2979-2980, vol. III (1974), pp. 242-247
n. 2950, vol. II (1973), pp. 347-358
n. 2951, vol. II (1973), pp. 425-438
n. 2952, vol. II (1973), pp. 547-559
n. 2911, vol. IV (1971), pp. 39-48
n. 2913, vol. IV (1971), pp. 235-253
n. 2882, vol. III (1970), pp. 154-160
n. 2859-2860, vol. III (1969), pp. 219-230
n. 2847, vol. I (1969), pp. 250-253
n. 2787-2788, vol. III (1966), pp. 314-315
n. 2702-2704, vol. I (1963), pp. 105-118, 313-325
n. 2636, vol. II (1960), pp. 124-39
n. 2612, vol. II (1959), pp. 113-124
n. 2605, vol. I (1959), pp. 66-69
n. 2555, vol. IV (1956), pp. 521-532
n. 2545, vol. III (1956), pp. 30-42