NOTE
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1 Per tutte queste notizie e fonti cfr l’esemplare volume di V. PIERRE: Les seize Carmélites de Compiègne (Parigi 1905), specie nella Préface (pp. IX-XXIV).

2 La traduzione italiana, sotto il titolo L’ultima al patibolo, usci a Brescia nel 1939. Porta una utile Premessa (ma con qualche imprecisione) di A. BEGUIN, lo stesso autore che, con qualche ritocco, ridusse il testo per le scene, e poi commentò elogiativamente i primi successi teatrali dei Dialogues in Le théâtre contemporain (Recherches et débats, n. 2), Parigi 1952, pp. 133-137.

3 A Parigi fu replicato duecentottanta In Italia fu portato sulla scena da O. Costa, nel 1952 a San Miniato, poi al Teatro delle Arti in Roma con novantacinque repliche, ed altrove.

4 Per controllare quanto poco s’accordi con la verità storica della Meunier la paura tutta letteraria di suor Bianca, cfr V. PIERRE, cit., pp. 61-61 e 152. Non mancano, tuttavia, presso lo stesso storico, accenni a manifestazioni di paura fisica della ghigliottina da parte di cinque altre martiri, del resto prontamente superata (cfr per le settantasettenni Piedcourt e Thouret p. 62, per la Brard p. 81, e per una delle Soiron p. 145). Il tema della morte imminente, dissolto nel più eroico abbandono in Dio, è svolto nella seconda strofe composta e cantata, sull’aria delle Marseilleise, dalle martiri prigioniere (p. 123).

5 I numeri romani rimandano ai Quadri, e quelli arabi rimandano alle Scene dell’edizione italiana sopra citata.

6 Dall’estratto della lettera inviata all’O.C.I.C. dal padre R. BRUCKBERGER, in occasione dell’assegnazione del Premio O.C.I.C. (in Revue Internationale du Cinéma, 1960, n. 47, p. 16).

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Articolo estratto dal volume IV del 1961 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Allo scoppio della rivoluzione francese vivevano, raccolte nel Carmelo di Compiègne, ad una sessantina di chilometri da Parigi, ventidue donne, di cui: sedici religiose di coro, tre religiose converse, una ancora novizia e due portinaie non religiose; e nello stesso anno 1789 cominciò per esse, in nome della Liberté, dell’Egalité; e della Fraternité, una Via Crucis che doveva portarne sedici al Calvario del martirio. 26 ottobre 1789; proibizione di emettere i voti religiosi: la ventitreenne Maric-Jeanne Meunier resterà novizia; 4 agosto 1790: inventario legale dei beni del convento in previsione della confisca; il giorno appresso, interrogatorio di tutte le religiose, sollecitate ad abbandonare il monastero ed a tornare in famiglia. 11 gennaio 1791: elezione “laica” della superiora e dell’economa; 17 agosto 1792: ordine che «per il 1° ottobre seguente tutte le case ancora occupate da religiosi e da religiose vengano evacuate e poste in vendita a cura delle amministrazioni civili»; 12 settembre: con quasi tre settimane di anticipo sulla data legale, le diciotto religiose (due nel frattempo erano decedute) sono costrette a svestire l’abito del Carmelo ed, insieme con le due portinaie, a disperdersi in quattro gruppi nella cittadina. Il 19 dello stesso settembre, quali “pensionarie dello Stato”, sono piegate a prestare «il giuramento di libertà ed uguaglianza»; il 23 novembre, ridotte a diciannove con la morte di un’altra religiosa, le donne vengono private del cappellano-confessore, esiliato come «pericoloso all’ordine pubblico»; qualche settimana dopo, in previsione di quanto ormai si profila, spontaneamente tutte si consacrano al martirio. 21 giugno: improvvisa perquisizione domiciliare alle “cittadine”, ree di convivere ancora in comunità; 22 giugno: sedici di esse sono arrestate ed imprigionate nel convento della Visitazione, che, manu militari, ammanettate e su due carrette, lasciano il 12 luglio. Il 13, dopo ventiquattro ore di viaggio, giungono a Parigi e vengono gettate nella Conciergerie; ne escono il mattino del 17, per essere condotte nella sala della Liberté, dove vengono giudicate e condannate dal Tribunale rivoluzionario; nel pomeriggio dello stesso giorno un’altra carretta le trasporta dalla Conciergerie alla Place du Trône. Giunte ai piedi della ghigliottina, tutte insieme rinnovano i loro voti, ed insieme intonano il Veni Creator; quindi la novizia s’inginocchia avanti alla superiora e le chiede il permesso di morire; avutolo, cantando sale il patibolo. Lo stesso fanno le altre donne. Ultima, tra le voci che hanno continuato il canto, viene troncata quella della superiora. Qualche ora dopo, i sedici corpi decapitati, insieme con quelli di altri ottanta giustiziati in quello stesso giorno, vengono gettati alla rinfusa in una vicina cava di sabbia.

Questa, ridotta all’essenziale, è la tragica e gloriosa storia di alcune delle molte vittime del Terrore (31 maggio - 27 luglio 1794), narrata nei processi canonici, che nel 1906 portarono alla beatificazione le Sedici Carmelitane di Compiègne, e quale si raccoglie dai documenti degli arresti e della condanna, conservati negli archivi di Parigi e di Compiègne, e soprattutto dalla relazione scrittane dalla signora Françoise-Geneviève Philippe (in religione: suor Maria dell’Incarnazione), la quale per quasi otto anni, fino a due mesi e mezzo prima del loro martirio, aveva convissuto con le beate, mancata alla loro sorte soltanto perché lontana da Compiègne nel giorno del loro arresto1, storia che, come tante altre narrate nelle vite dei santi, sarebbe forse restata ignorata al gran mondo della cultura e dello spettacolo se un’artista, quale Gertrud von Le Fort, non ne avesse tratto, nel 1931, il racconto Die Letzte am Schafott2.

Da questo, infatti, il padre domenicano Raimondo Bruckberger, nel 1937, derivava il soggetto e la sceneggiatura di un film, commettendone i dialoghi a Georges Bernanos. Dieci anni dopo, nell’inverno 1947-1948, lo scrittore iniziava e compiva il lavoro, seguendo liberamente la sceneggiatura del Bruckberger, sul ricordo del racconto tedesco. Il manoscritto, ancora non del tutto limato dall’autore, colpito dalla morte nel luglio del 1948, veniva pubblicato l’anno seguente come opera letteraria a sé stante, col titolo Les Dialogues des Carmélites. Adattato alle scene, nel 1952 mieteva grandi successi in Francia, e poi anche in Italia ed altrove3. Finalmente, nel 1959, con la regia di Philippe Agostini, il padre Bruckberger riusciva ad attuare il suo sogno portando sullo schermo Le Dialogue des Carmélites, film di coproduzione italo-francese, al quale, generosamente, l’O.C.I.C. assegnava il Grand Prix: pour la profondeur et l’universalité de son thème exprimé en un language accessible à t-ous.

Siccome non accade spesso che una storia edificante occasioni sì disparate, eppur interdipendenti, opere d’ingegno, crediamo che metta conto trattare di alcune questioni suscitate dal confronto tra esse opere; e non tanto quelle, più chiassose, di ordine economico-giuridico, che oppongono gli credi di Bernanos ai cineasti che ne hanno utilizzato l’ultima opera, quanto quelle di carattere e storico-religioso, e moralistico-didattico, e tecnico-espressivo.

Il racconto della von Le Fort

Contro il tragico racconto, corale ed esteriore, di avvenimenti pubblici, dato con tono tutto virile ed oggettivo dallo storico, sta dunque il dramma di persone singole, tutto sentimenti intimi e femminile, della von Le Fort, fondato, tra l’altro, sulla reinvenzione totale di due personaggi in funzione di antitesi. Da una parte, come protagonista, c’è la giovane novizia, non coraggiosa e salda contro ogni profferta di salvezza, quale in realtà fu la Meunier4, ma psichicamente traumatizzata fin dalla nascita, quindi vittima di una vera e propria depressione nervosa, rifugiatasi al Carmelo quasi lepre inseguita, perciò sgomenta non solo al pensiero del martirio, ma di qualsiasi atto di violenza: essa non porta più il borghese nome di Marie-Jeanne Meunier, ma l’antifrastico sonante e gentilizio nome di Bianche de la Force; dall’altra, come antagonista, c’è la sua maestra delle novizie, dalla scrittrice arbitrariamente identificata con la scampata suor Maria dell’Incarnazione, immaginata non aristocratica, nervosa e malaticcia, quale fu la vera Maria dell’Incarnazione, né delicata, piissima, equilibrata e materna, quale fu la vera maestra delle novizie Henriette de Jésus (pronipote di Colbert: Marie-Françoise-Gabrielle de Croissy), bensì donna forte, francese spavaldamente ligia al sacrificio, e perciò diffidente di Bianca de La Force.

Posto questo contrasto psicologico, la von Le Fort fa che nella catastrofe del dramma, mentre suor Maria dell’Incarnazione, approfittando di un’assenza della superiora, quasi imponga a tutte le religiose il voto del martirio, Bianca de La Force, in una crisi di nervi, fugga insieme dalla funzione religiosa e dal convento, per rifugiarsi in famiglia; ma nell’epilogo del dramma essa inverte le parti, mostrando che anche il nome della e donna forte, Maria dell’Incarnazione, era in realtà antifrastico, convenendole meglio quello pietoso di Maria dell’Umanazione; questa, infatti, subitamente, alla vista di un drappello di donne condotte alla ghigliottina, fugge, mentre Bianca, da lei già definita de La Faiblesse, udendo di tra la folla le voci delle sue consorelle spegnersi ad una ad una nel canto del Veni Creator, intona l’ultima strofa, e si slancia, né processata né condannata, verso il martirio.

L’interiorizzazione drammatica del fatto è accentuata dalla von Le Fort mediante due felici espedienti letterari. Essa, infatti, costruisce il racconto come una lettera inviata da Parigi nell’ottobre 1794 – vale a dire tre mesi dopo i fatti narrativi – da un gentiluomo ad un’amica riparata all’estero, e fa che questi si riferisca non soltanto ai suoi ricordi personali di familiare ai de La Force e di clandestino sotto il Terrore, ma anche ad un diario lasciato dalla superiora suor Lidoinec. In tal maniera il racconto si snoda tutto su diversi piani di creazione fantastica; non c’è soltanto il testimonio che riferisce su quanto sta succedendo, ma l’amico commosso che commenta, ed illustra, e si sforza di penetrare, e di far penetrare ad una persona amica e lontana, i segreti misteriosi ed ineffabili di due creature umane; c’è il filosofo, che intravede le costanti profonde dei fatti storici; c’è il credente, che tra i tragici avvenimenti politici, conseguenze e premesse delle condizioni sociali di una nazione, ed il maturarsi della vocazione al sacrificio di una comunità-vittima, intuisce più ineffabili presenze provvidenziali, e misteriosi riflussi vitali di grazia e di meriti. Allora, il dramma vissuto da due anime non è soltanto quello della natura e della grazia nell’intimo di coscienze individue, ma dell’interazione comunitaria di un’anima su di un’altra, predisposta da un’amorosa Provvidenza, la quale guida gli uomini che si agitano, compongano essi un’oscura eroica comunità carmelitana o i sanguinari tribunali rivoluzionari, i timidi ed atterriti residui di una società nobiliare scrollata per sempre o la folla, ignara dei misfatti che vendica, come di quelli che compie. In tal maniera, quel che soffre l’obiettività storica viene compensato dalla commozione provata ed espressa da un artista credente nel sorprendere l’invadente azione di Dio, vittoriosa di ogni violenza come di ogni debolezza umana.

«Les Dialogues» di Bernanos

Il contributo sollecitato al Bernanos era, più che altro, complementare al film, impostato sul soggetto della von Le Fort, rimaneggiato e svolto nella sceneggiatura del Bruckberger. Ma lo scrittore, o perché ignaro delle esigenze proprie del linguaggio cinematografico, che comunica mediante immagini prevalentemente visive più che con espressioni verbali, o, piuttosto, perché determinatosi ad un’opera letteraria autonoma, di fatto non si limitò a stendere le battute necessarie ad integrare una narrazione filmica, ma sviluppò tanto i dialoghi da esaurire in essi il soggetto ed il dramma delle sedici carmelitane; tanto più compiutamente quanto, adottando il genere letterario di un dialogo a sé stante, Bernanos non contò sull’integrazione di un’eventuale interpretazione scenica del testo, mentre relegò negli esigui scampoli salvatisi della sceneggiatura – pur essi letterari – le poche notazioni narrativo-descrittive strettamente indispensabili. Di conseguenza, nei Dialogues soggetto e dramma non sono più visti e descritti dall’esterno, come nel racconto della von Le Fort, o rappresentati nella loro oggettività presenziale, come dovevano svolgersi nel film progettato, bensì, ed ancor più che se l’autore avesse adottato il linguaggio teatrale, sono visti tutti e soli nei personaggi, in quanto tutti e soli vissuti soggettivamente ed espressi in atto da essi.

Sarebbe superfluo rilevare quanto siffatto genere letterario riuscisse congeniale al Bernanos. Come Paul Bourget, infatti, in tutti i suoi scritti egli preferì porre e far agire i suoi personaggi, psicologicamente complessi, in conflitti morali psicologicamente intricati, e poi scavarne le anime inquiete e tormentate, vivisezionarne i sentimenti più opachi, gli istinti e le reazioni inconsapevoli, con una specie di mania del subconscio; ma diversamente che nel Bourget, freddo psicologista di personaggi di lusso tardivamente approdato alla fede e religione cattolica, nel Bernanos, di sangue spagnuolo, credente e cattolico fin dall’infanzia, vibra l’impulso polemico, viscerale ed esaltato, applicato ad anime ed a situazioni religiose cariche di ansie più d’introspezione che di dedizione, più giansenisticamente timorose che cattolicamente espanse, più róse da un affanno passionale di santità che libere nella carità, più mistificate che mistiche, più ossessionate, se non vinte, dall’onnipresenza del Maligno, che abbandonate all’azione dolce e forte della Grazia del Salvatore.

Nei Dialogues, dunque, lo stesso genere letterario prescelto dà via libera al Bernanos per rivelare senza diaframmi di sorta il dramma delle martiri, da lui interiorizzato più di quanto già non fosse nel racconto della von Le Fort. I suoi personaggi, espressi unicamente nelle loro parole, sono tutti letterari e sentenziosi, ma non scadono nella retorica. Anche il lirismo smagliante delle loro espressioni e delle loro similitudini – che ricorda quello di certo teatro claudeliano, specie dell’Otage –, ben si conviene ad anime femminili, costantemente portatrici e rivelatrici di valori di vita psicologicamente ed asceticamente raffinati, e le sfumature, le precisazioni verbali, le frequenti contrapposizioni di concetti contigui, che in racconto o in un dramma veristico sarebbero preziosità insopportabili, qui svelano piani multipli di spiritualità ricche ed introspezioni profonde; al contrario che altrove nel Bemanos, esse quasi mai sono virtuosismi da psicanalista, fine a se stesse, bensì sono commosso tentativo di un artista di scendere a spirale nel mistero di anime d’eccezione, pur disperando di poterne mai toccare il fondo.

E non inferiori a quelli stilistici sono i pregi morali e religiosi dei Dialogues. Come già nel Journal d’un curé de campagne, che per tanti versi li ricorda, anche in essi, infatti, tace quasi del tutto il Bernanos deteriore. Chi non lo ricorda romanziere invettivale e catastrofico, libellista faziosamente polemico? Chi non ha rilevato il satanismo cui soccombe tanto spesso l’ascetica dei suoi angosciati eroi, o l’insofferenza dei suoi “santi”, maniaci e paradossali? Giustamente egli non li voleva miele e lustrini della terra, ma, lungi dal descriverli e rivendicarli sale e luce, quali ci vuole Gesù, si accanì ad esigerli acido e rogo della terra! Invece, qui, finalmente, anche più che nel Journal, spira un’aura d’indulgente comprensione per la fralezza degli umani, ed aleggia un’insolita luce di speranza sulle sorti delle anime invase dalla Grazia. A che cosa attribuire siffatta felice variazione dell’incorreggibile apocalittico fustigatore? – Pensiamo che il merito vada e alla natura stessa del dramma delle sedici vittime verginali, specie per la variante tutta femminile introdottavi dalla von Le Fort, e, soprattutto, alle dolorose condizioni psicologiche e morali che accompagnarono il Bernanos in questa ultima sua opera. Sapendosi affetto da tumore maligno, si vedeva ormai segnato dalla morte, e se, credente e cristiano convinto, sapeva suo dovere l’accettarla con rassegnazione dalle mani di Dio, spirito ribelle e lottatore qual era stato, non poteva non paventarla come una disfatta, sua personale ed al cospetto degli altri; non, forse, perché la morte veniva a troncargli la vita, cui aveva tanto tenuto da passarne buona parte nella ricerca di più favorevoli condizioni climatiche, in giro si può dire per tutti i continenti, bensì per la sofferenza fisica che prevedeva l’avrebbe preceduta, ed anche per la maniera meschina con la quale egli forse l’avrebbe sopportata. Così l’avvilimento di una creatura prostrata dall’ineluttabile si aggravava con quello di uno che si riteneva disonorato dallo spettacolo di viltà che paventava di dare; ed allora, il peso dell’agonia, tutta letteraria, da lui costruita per i suoi personaggi, egli lo sentì peso di angoscia reale, e tutta sua personale; ma, lungi da ribellarsi contro l’errore di Chi gli avesse destinata una morte «sbagliata», e l’avesse defraudato di quella “eroica” che gli spettava, egli sublimò la sua angoscia unendola a quella assaporata fino in fondo dall’Uomo-Dio nell’agonia dell’Orto degli ulivi. In queste condizioni il dramma delle sedici carmelitane trapassa, per il Bernanos, nel dramma dell’uomo posto avanti alla morte o, meglio, alla paura, sia della morte fisica sia del suo spettacolo desolante. Egli dispone perciò quattro dei cinque personaggi principali dei Dialogues in due coppie parallele e complementari, quasi a moltiplicare in un giuoco di specchi, di echi e di rimandi i poli tra i quali si dibatte la sua angoscia mortale. Nella coppia delle suore anziane, da una parte egli pone la prima priora, la De Croissy, alla quale trent’anni di professione e dodici di superiorato non riescono a far accettare la morte imminente (II, 7ª)5; distaccata com’è da tutto, ne parla, sì, in termini perfetti ed edificanti, ma sbigottisce all’idea di «vedersi morire», di comparire agli occhi delle sue suddite atterrita e non esemplarmente intrepida, di avvertire il suo volto disfatto e di sentire il suo corpo ormai inerte e greve come un sacco di sabbia (II, 10ª): e le assegna cinquantanove anni, quanti appunto ne contava egli nel 1948, mettendo poi in bocca a suor Costanza l’amara domanda: «Ma, via, a cinquantanove anni non è ormai tempo di morire?» (II, 6ª), e fa sì che, di fatto, essa muoia, sotto gli occhi atterriti di suor Bianca, nel delirio di una fine angosciata e straziante (II, 10ª). Dall’altra egli pone l’antitetica figura della vice priora, madre Maria dell’Incarnazione: la donna nobile, inflessibilmente ligia al dovere, per un senso di onore più patriottico che religioso, che non solo gode di uscire vittoriosa dagli scontri con i rivoluzionari, e di provocarli, ma, sollecita dell’onore di tutto il convento, lancia la proposta (IV, 8ª), e la fa eseguire (IV, 13ª), del voto collettivo del martirio; poi, diffidando di suor Bianca, paventa la sua defezione come di un disonore per il convento: «Non sarebbe una spaventosa disgrazia per noi tutte veder venir meno quella di noi che porta precisamente il nome della Santissima Agonia? In battaglia tocca ai più bravi l’onore di portare lo stendardo. Sembra che Dio abbia voluto affidare il nostro nelle mani della più debole, e forse della più vile!» (III, 15ª); e quando la sua defezione inizia, essa cerca di farla passare inosservata (IV, 12ª); quando poi pare compiuta, fa di tutto per farla riparare (V, 8ª). Ma, contro ogni previsione, suggellandola con un tragico ed eroico: «Sono disonorata!» (V, 16ª), il Bernanos assegna proprio a lei una morte «sbagliata», facendole subire non quella fisica, da lei cercata, ma quella morale, da lei sopra ogni altra cosa paventata.

Nella coppia delle giovani novizie, da una parte egli pone suor Bianca, già de La Force ed ora dell’Agonia di Gesù, la quale, rósa fin nelle ultime sue radici fisiologiche, paventa la morte fisica in ogni ombra ed in ogni volto nuovo (I, 3ª; III, 10ª; IV, 1ª), respinge violentemente chi gliela preannuncia (II, 6a; V, 10ª), guarda esterrefatta dissolversi sotto i colpi della rivoluzione le condizioni di sicurezza nelle quali aveva confidato (III, 8ª), avverte l’angoscia sommergerla (VI, 6ª), e, in un momento di debolezza tutta umana, scampa dalla morte fuggendo: in essa, come nella sconfitta priora De Croissy, il Bernanos raffigura se stesso quale non vorrebbe essere, eppure, sgomento, si sorprende. Dall’altra pone la spensierata e generosa suor Costanza, sano virgulto di ceppo nobile, per la quale, se la vita è divertente, non lo è meno la morte fisica, da affrontare, dunque, lietamente, sull’esempio di tutti i suoi pari, nobili non tanto sulle pergamene mangiate dai topi, quanto perché per essi la morte era un giuoco come un altro... (II, 6ª): in lei Bernanos vede se stesso quale vorrebbe essere, perciò fa sì che suor Bianca non finisca di ammirarla (II, 6ª), d’invidiarla e di subirne il fascino acuto, non inferiore a quello che emana dalla madre Maria dell’Incarnazione (II, 11ª, 12ª; VI, 9ª).

Chi non vede ripetuta nella priora De Croissy ed in suor Bianca l’agonia psicologica ed ascetica già ipotizzata dal Bernanos nel tarato ed impaurito Curé de campagne? Tuttavia nei Dialogues, pur portando le sue deboli eroine al «Tutto è grazia!» in cui misticamente sfociava il Journal, vivendo egli stesso, nella loro, la sua ultima avventura terrena, lo scrittore si piega docile ad un senso di umiltà e di misura, e dimensiona la loro morte, e quella delle altre religiose, non più sui paradossi della sua ascetica esaltata, bensì sul buon senso e l’equilibrio della seconda priora, madre Maria di Sant’Agostino (signora Lidoine), nella quale rivivono molti tratti della figura vigorosa e comprensiva del curato di Torcy.

Figlia di un mercante di buoi, questo quinto personaggio principale ha, oltre al linguaggio colorito e concreto, tutte le buone qualità del buon “borghese”. Essa lascia certo onore di lusso e magniloquente a chi è nata “padrona” e preferisce per sé l’eroismo del dovere quotidiano, umile e silenzioso. Prudente e forte, non teme i rivoluzionari, né la impressionano i loro guasti, ma neanche li provoca; tuttavia, se, per ubbidire ai suoi superiori, deve esporsi ad essi, non esita. È pronta a riconsegnare a Dio, quando egli lo chieda, la sua vita e quelle delle figlie affidatele dalla Chiesa, tuttavia cerca con tutti i mezzi leciti di salvarsi e di salvarle, e diffida di voti eroici, più pittoreschi che generosi; ma, quando occorra, non dubita di prendere atto dell’impegno liberamente da altre preso e di esigerne l’osservanza. Nel convento tutte guardano a lei senza entusiasmi lirici, ma con tranquilla fiducia; nella prigione, soltanto lei dà loro sicurezza e conforto; ormai condannate, soltanto lei sa disporle al supplizio, «mettendole solennemente nell’ubbidienza, per l’ultima volta ed una volta per tutte», semplicemente, «come l’ultima cerimonia della nostra cara comunità» (V, 14ª).

Senza scadere a simbolo, anzi conservando coerenza umana e psicologica di creatura semplice, forte e materna, essa viene ad assumere per il ribelle Bernanos la fisonomia e la funzione della Chiesa gerarchica, e della divina, eppur tenera e dolce, sua presenza dottrinale e disciplinare. Per tramite di lei ogni anima, perciò anche la sua, posta avanti alla morte come all’ultima delle scelte offertele da Dio, trova con tutta naturalezza la sua via; ogni ribellione della natura, come ogni facile entusiasmo, si sublima, anche nell’apparente sconfitta; per tramite suo, pure il sacrificio, la più preziosa moneta dell’uomo, acquista il suo pieno valore, inserendosi nel piano della volontà di Dio, in Cristo; quindi, sì: e debolezza e forza, e miseria e grandezza, e spavento e coraggio, e disonore ed onore, e morte e vita: tutto è grazia di Cristo, se unito alla sua santissima Agonia, prima che all’immancabile sua santissima Resurrezione.

Questo, ci pare, è il tema e messaggio, poetico e cristiano, dell’artista e dell’uomo, vissuto ed espresso nei Dialogues di Bemanos. La verità storica ci ha sofferto più che nel racconto della von Le Fort: ma dal materiale grezzo della storia e del racconto, l’artista, già tocco da sorella morte, ha liberamente creato un’opera umanamente commovente e liricamente universale.

ll film di Bruckberger-Agostini

Regola aurea d’ogni valida critica estetica è che l’opera d’arte venga esaminata in se stessa, vale a dire esclusivamente rispetto al mondo poetico dell’artista ed all’uso dei mezzi espressivi da lui liberamente prescelti, e non, per esempio, forzandola al confronto con altre opere, artistiche o meno, che possono averla ispirata: unica regola artisticamente valida del fare creativo dell’artista essendo la fedeltà del suo esprimersi al suo sentire poetico; sicché, per esempio, un valido giudizio estetico del Saul alferiano non poggerà sulla fedeltà della tragedia ai dati storici e religiosi del racconto biblico, né quello dei Promessi Sposi sulla dipendenza del romanzo dal manoscritto recentemente ritrovato del «buon secentista», o, per stare in argomento cinematografico, quello dell’Enrico V (1946), dell’Olivier, sulla sua fedeltà o alla realtà del personaggio storico, o al testo poetico di Shakespeare, o alle convenzioni del teatro elisabettiano, o allo stile pittorico del quattrocento francese: e così di seguito.

Tuttavia riteniamo che questa regola aurea non venga in acconcio nel film di Bruckberger-Agostini, e non tanto perché, di fatto, inequivocabilmente esso dipende e dal testo di Bernanos, e dalla novella della von Le Forte dal racconto storico, – dato che siffatte dipendenze, qualora si trattasse d’opera d’arte raggiunta, potrebbero al più offrire materia a considerazioni di varia cultura, di rincalzo a quelle di ordine meramente estetico, bensì perché, – non meno inequivocabilmente, queste dipendenze si avvertono nello stesso film non fuse in una salda visione personale ed in unità stilistica, ma, in un conglomerato, in cui, in un linguaggio materialmente cinematografico, e le singole fonti letterarie e le loro caratteristiche espressive non riescono a fondersi in un linguaggio autonomo.

Esemplifichiamo. Tra le molte possibili, ai due autori si presentavano almeno quattro scelte poetiche. Prima: ispirarsi integralmente al testo letterario di Bernanos, trasponendone tutto l’afflato lirico e la carica drammatico-psicologica – prevalentemente individuale, dei personaggi – in immagini di volti umani, quasi nulla concedendo all’azione esterna, nel ricordo, poniamo, di quanto operato da R. Bresson nel tutto-soliloquio del Journal d’un curé de campagne (1950), dello stesso Bernanos, o dal Dreyer in Dies Irae (1940), pur ricchissimo di dialogo. Seconda: rinunciare al dialogo come mezzo espressivo principe, assegnando ad esso una funzione accessoria, magari adottando l’espediente del narratage, sul modulo del relatore-testimone dei fatti escogitato dalla von Le Fort, cosi limitandosi al dramma, visto anche dall’esterno, teologico (dello spettatore) e psicologico (di suor Bianca), ambientando quest’ultima nelle vicende storiche quel tanto che esse spiegassero e determinassero il suo dramma, un po’ sullo schema del pseudo-storico Dieu a besoin des hommes (1951), del Delannoye. Terza: rinunciando a tutte le invenzioni poetiche del primo e della seconda, attenersi fedelmente al dato storico, inquadrando sullo schermo la vicenda tutta corale delle sedici come un episodio della Rivoluzione Francese, o del Terrore, lasciando alla sola fedele rievocazione dei fatti di esprimere una visione di valori insieme sociale, religiosa, politica e poetica. Quarta: intorno ad un esiguo nucleo storico reinventare totalmente la vicenda, calandola in forme espressive del tutto autonome, come si è comportato, per ricordare un altro esempio illustre, ancora il Dreyer, in Ordet (1933), rispetto sia al dramma di K. Munk, sia al film di G. Molander (1943), sia al fatto di cronaca che aveva ispirato l’uno e l’altro.

Purtroppo, invece, nel film di Bruckberger-Agostini una scelta stilistica coerente e coraggiosa – ché ci vuole coraggio, per fare alta arte! – pare che sia mancata. L’indecisione ha tradito i due autori, tentati da troppi eccellenti spunti. Temendo di scadere da vero cinema a teatro filmato, essi hanno falcidiato i dialoghi del Bernanos, col risultato di conservarne ancora troppe battute, e troppo letterarie, per un racconto di avvenimenti esteriori e con note documentaristiche, nonché di rallentare il ritmo dell’azione, e troppo poche e disperse ai fini di un dramma che ancora vorrebbe essere interiore e vissuto, più che visto e narrato. Inoltre, anch’essi hanno puntato, come la von Le Fort, sulla paura di Bianca e sul coraggio della sua antagonista; tuttavia, quasi diffidassero della sufficienza drammatica di un contrasto a due, hanno allargato l’azione ad altri molti personaggi, disperdendola; ma poi, forse reputando anche il dramma corale, però interiore, ancora non sufficiente allo spettacolo filmico, hanno fatto ricorso a molti elementi narrativi e descrittivi esteriori tipicamente cinematografici, quali l’illuminazione e la fotografia, angolazioni, movimenti di macchina e primi piani, specie sul materiale umano, scenografie e movimenti di masse...

Non che nell’uso di questi mezzi essi cedano a concessioni volgari o grossolanamente commerciali; anzi, quasi tutto vi è notevolmente sopra la media corrente, e di buon gusto; tuttavia manca un’anima che armonizzi e vivifichi il tutto, o, meglio, si avverte la presenza come di molte anime contendenti. Per esempio, la scelta del materiale umano, nell’insieme, appare felice, e l’interpretazione, specie della Valli, della Renaud, della Moreau e del Brasseur, non mediocre; tuttavia la scelta di tali nomi, come quella del Barrault, impiegato in una troppo estrosa pantomina, oltre che ad un criterio commerciale ci pare abbia obbedito ad una regia più teatrale che cinematografica, e non escludiamo che certe “bravure” interpretative, alquanto indipendenti, siano più subite che volute. L’Agostini, infatti, vi si rivela buon operatore e fotografo, ma debole regista. La sua macchina si muove molto, e fluidamente; le inquadrature sono molto curate, spesso suggestive per composizione, angoli di ripresa ed illuminazione; ottima, anzi alquanto leccata, la fotografia; la colonna sonora è tecnicamente passabile: ma siffatti pregi si sentono più predisposti di volontà che stilisticamente funzionali, vale a dire, che imperati da una commozione intima. Di conseguenza, lo spettatore, se un po’ esigente, si compiace, sì, di molti valori formali, ma li trova sfasati rispetto al tutto insieme e come dispersi dalla stessa dispersione tematica. Prendiamo, per esempio, la scenografia. L’interno del convento, dalle volte basse ed impostate saldamente su mura spesse e su tozzi pilastri di pietra, e l’inferriata, irta di spunzoni, che ne difende l’accesso anche dalla parte della chiesa, rendono bene la sicurezza cercata e trovatavi da suor Bianca, mentre la fragilità delle porte, che invece cedono al primo urto di quattro scalmanati, rivela quanto quella sicurezza fosse illusoria. Tutto ciò conviene ottimamente al tema psicologico della von Le Fort; ma, intanto, molti altri elementi descrittivi e narrativi del film si rifanno piuttosto ad un altro tema, appena accennato dalla scrittrice tedesca. Il Bruckberger lo ha enucleato francamente in questi termini:

Il segreto del successo di questo film, prima di tutto da parte dei tecnici che l’hanno creato..., si trova nel non essersi fermato all’aneddoto..., al documento, ma di aver puntato direttamente al fondo del conflitto che ha opposto la Rivoluzione al Carmelo; conflitto non politico o morale, ma religioso-mistico. Infatti due mistiche irriducibili vi si affrontano... Era questa la sola via per non uscire dal soggetto. Ed era necessario continuare fino al termine, cioè al martirio, che è l’atto insieme più religioso-mistico e spettacolare della religione cristiana, che ha a modello un cuore di Uomo innalzato su di una croce6.

Ovviamente, in armonia con questo invadente nuovo tema, egli dispone molti elementi del film. In particolare dà alla sopravvivenza dell’unica religiosa scampata un valore apologeticamente ottimo, ma estraneo al dramma, e psicologico e teologico, di Bianca de La Force.

 

La vice priora si rassegna eroicamente a sopravvivere per obbedire alla priora: essa deve essere il seme del futuro nuovo Carmelo. Ciò è detto esplicitamente dall’imperioso gesto della priora che sale al patibolo, e dalle anche più esplicite parole del cappellano, sicché la notevole prestazione interpretativa della Moreau va sciupata in un suo dramma, oltre che esterno, accessorio e disperso. Allora vien fatto di chiederci perché, nella stessa sequenza, suor Bianca muova verso il patibolo. La domanda, nella von Le Fort, si risolveva in commozione estetica ed in profondità teologiche; nel film, invece, manifesta il disagio creato nello spettatore da una risoluzione subitanea, psicologicamente gratuita ed improbabile. È essa vinta dall’azione invadente della grazia e della Provvidenza? Sì, senza dubbio, nelle intenzioni degli autori; ma nella espressione cinematografica da essi usata, più che l’ineffabilità del mistero, l’intervento della Provvidenza ricorda quello di un tardivo Deus ex machina.

Altra domanda che ci sembra esteticamente insoluta: «Che ci sta a fare nel film la folla dei rivoluzionari?». Nel tema del Bruckberger certamente essa rappresenta la «mistica della rivoluzione». Bene. Ma quale vantaggio drammatico vengono ad acquistare la vicenda ed il tema (o i temi) dalla visualizzazione di essa folla? Ché le poche decine di armati, i loro canti e il loro rumoreggiare sono troppo poca cosa per documentare realisticamente agli spettatori la rivoluzione, mentre sono più che sufficienti per uccidere in essi qualsiasi integrazione ed amplificazione di fantasia creatrice. Vi manca, insomma, tanto il grandioso visto quanto quello suggerito. Meglio, allora, valeva, insieme con la von Le Fort ed il Bernanos, rinunciarvi del tutto, attenendosi soltanto al dramma interiore delle martiri; oppure, come dicevamo, immergere risolutamente il loro martirio in un quadro della Rivoluzione documentariamente più suasivo. Ciò vale specie per la sequenza dell’assalto al convento e della sacrilega violazione della chiesa. L’azione, nel suo insieme gratuita, molto promette drammaticamente, ma finisce con decadere in un nulla di fatto.

E qui, come spesso altrove nel film, viene il sospetto di una volutamente programmata ricerca del semplice a tutti i costi da parte dei due autori. Ma bisogna riconoscere che – se si eccettuano alcuni particolari pesantucci, quali la pantomina già ricordata, il macabro del teschio due volte introdotto nella cella di Bianca, la banale e convenzionale assoluzione del cappellano e la sequenza dell’attrice Rosa Ducor –, essi vi hanno tenuto fede. Lodevolmente non strafanno nell’uso dei mezzi cinematografici, né indulgono ai sapori facili ed ai luoghi comuni cinematografici connessi con vicende di suore, di rivoluzioni francesi e di esecuzioni capitali. Il guaio è che la loro voluta semplicità decade in indigenza di mezzi espressivi, tanto più avvertibile quanto il film via via si carica, come abbiamo rilevato, di significati plurimi e dispersi.

Concludendo

Non vorremmo lasciare nel lettore l’impressione di un ingeneroso infierire da parte nostra contro un film, che davvero non ci pare da buttar via. Riteniamo, infatti, che esso, nel suo insieme, occupi un posto distinto nella produzione corrente, per nobiltà di intenti, per senso di misura ed onorato mestiere nell’uso dei mezzi espressivi: qualità tutte rare nei cosiddetti film edificanti. Esclamiamo, dunque: «Magari ce ne fossero, di siffatti film, a redimere il ciarpame, il malgusto e la faciloneria dilagante sugli schermi!»; anzi, non abbiamo difficoltà alcuna a confessare che specie l’ultima sequenza del Dialogue ci ha fortemente commossi. Ma proprio dalla speciale commozione che abbiamo provato – di cui siamo grati a quanti ne portano il merito –, prendiamo le mosse per chiarire, concludendo, il nostro pensiero.

Sì, ci pare indubbio che il film scuota e commuova. A conferma, ricordiamo le lacrime con le quali, nelle prime visioni, lo subirono le stesse attrici interpreti. Ma, a ben riflettere, benché, per esempio, l’ultima sequenza non difetti di un certo ritmo solennemente liturgico, né di una certa aria festosa raggiunta con mezzi espressivi stilisticamente non trascurabili, avvertiamo che la nostra commozione è quasi del tutto legata ad un fatto, ad uno spettacolo in se stesso commovente, qual è una morte violenta subita da donne indifese, e d’ordine morale-religioso, in quanto connesso con una nostra devota partecipazione ad una suprema esperienza religiosa, qual è la volontaria e sanguinosa testimonianza della propria fedeltà a Dio, e non anche alla forma estetica in cui esso si cali; tant’è vero che ad una seconda e terza visione, siffatta commozione tende a decrescere ed a svanire, contrariamente a quanto suole avvenire in genuine esperienze estetiche.

Certo il film Dialogue des Carmélites fa del bene moralmente e spiritualmente; ciò che si può dire di pochissimi film; e lo fa con un linguaggio non volgare: ciò che raramente si può dire dei pochi film ispirati a nobili fini; perciò non ci sentiamo affatto autorizzati a condannarlo come totalmente mancato. Ma ciò non ci vieta di rimpiangere che, ancora una volta, un film buono non abbia toccato gli alti vertici della bellezza, perché crediamo che un più nobile livello artistico avrebbe, tra l’altro, raddoppiato l’efficacia del suo stesso alto messaggio religioso, col renderlo pervio a quei molti che, pare, non riescono a sopportare l’onesto ed il santo se non rivestito del fulgore della forma.

Come non augurarsi, dunque, che nel cinema, dove abbondano gli artisti poco sensibili, se non refrattari, ai valori morali-religiosi, si manifestino anche gli autori che siffatti supremi valori umani vivano ed esprimano, ma in forme di compiuta bellezza? Non affermava, ai suoi tempi, il vecchio Orazio che omne tulit punctum (l’artefice) qui miscuit utile (dei più alti valori umani) dulci (della contemplazione artistica)?

1 Per tutte queste notizie e fonti cfr l’esemplare volume di V. PIERRE: Les seize Carmélites de Compiègne (Parigi 1905), specie nella Préface (pp. IX-XXIV).

2 La traduzione italiana, sotto il titolo L’ultima al patibolo, usci a Brescia nel 1939. Porta una utile Premessa (ma con qualche imprecisione) di A. BEGUIN, lo stesso autore che, con qualche ritocco, ridusse il testo per le scene, e poi commentò elogiativamente i primi successi teatrali dei Dialogues in Le théâtre contemporain (Recherches et débats, n. 2), Parigi 1952, pp. 133-137.

3 A Parigi fu replicato duecentottanta In Italia fu portato sulla scena da O. Costa, nel 1952 a San Miniato, poi al Teatro delle Arti in Roma con novantacinque repliche, ed altrove.

4 Per controllare quanto poco s’accordi con la verità storica della Meunier la paura tutta letteraria di suor Bianca, cfr V. PIERRE, cit., pp. 61-61 e 152. Non mancano, tuttavia, presso lo stesso storico, accenni a manifestazioni di paura fisica della ghigliottina da parte di cinque altre martiri, del resto prontamente superata (cfr per le settantasettenni Piedcourt e Thouret p. 62, per la Brard p. 81, e per una delle Soiron p. 145). Il tema della morte imminente, dissolto nel più eroico abbandono in Dio, è svolto nella seconda strofe composta e cantata, sull’aria delle Marseilleise, dalle martiri prigioniere (p. 123).

5 I numeri romani rimandano ai Quadri, e quelli arabi rimandano alle Scene dell’edizione italiana sopra citata.

6 Dall’estratto della lettera inviata all’O.C.I.C. dal padre R. BRUCKBERGER, in occasione dell’assegnazione del Premio O.C.I.C. (in Revue Internationale du Cinéma, 1960, n. 47, p. 16).

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151