NOTE
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1 Ai film elencati in Civ. Catt. 1954 IV 320, aggiungiamo, tra gli altri titoli: The shoes of the Fisherman (L’uomo venuto dal Cremlino, 1969) di M. Anderson; Tu ne tueras point (Non uccidere, 1963), di Cl. Autant-Lara; La primera missa (1961), di L. Barreto; Nazarin (1959), El angel exterminador (1962) e La voie lactée (1969), di L. Buñuel; Galileo (1969), di L. Cavani; El texidor de milagros (1962), di Fr. Del Vilar; la serie dei Don Camillo, di J. Duvivier et C. Gallone; La dolce vita (1960), di F. Fellini; Matka Joanna od aniolov (1960), di J. Kawalerovicz; Hoodlum priest (Le canaglie dormono in pace, 1961), di I. Kershmer; Milkezie (Il silenzio, 1963), di K. Kutz; Nell’anno del Signore (1970), di L. Magni; Léon Morin, prêtre (1961), di J.-P. MeIville; The cardinal (1963), di O. Preminger; Era notte a Roma (1960), di R. Rossellini.

2 Nell’escalation, tra i film di un certo impegno, si ricordano: Il disordine (1961), di Brusati; L’ape regina (1963), di M. Ferreri; Divorzio all’italiana (1962), di P. Germi; Il Gattopardo (1963), di L. Visconti; Ieri, oggi e domani (1964), di V. De Sica. Sull’argomento: cfr Assenza di Dio nel cinema italiano, di FR. DORlGO (in Cineforum, 1962, n. 15, 41.5 ss.).

3 Così il primo Art. della Legge 1213, del 4 nov. 1965, Provvidenze per la cinematografia (cfr C. CAMMARANO, Codice della legislazione sullo spettacolo, Roma 1968, 317 ss.).

4 Ed altri, seguiranno. Mentre, infatti, dalla Francia ci giunge L’amante del prete, di G. Franju, riesumazione del romanzo di E. Zola La faure de l’abbé Mouret, si annuncia Maddalena, del polacco J. Kawalerovicz...

5 Cfr GIOVANNI XXIII, Allocuzione al Il Sinodo Romano, 26 genn. 1960 (in AAS 46 [1960] 235); PAOLO VI, Lett. enc. Sacerdotalis Coelibatus, 24 giugno 1967 (in Civ. Catt. 1967 III 105 ss.).

6 Commenta PAOLO VALMA RANA (in Oss. Rom. 26 nov. 1970): “Il cinema può, e anzi deve, identificare le contraddizioni della società, segnalarne le carenze, far meditare lo spettatore su quello che è stato fatto ma anche sul molto che resta da fare. Ora tutti questi meriti, salvo pochi esempi, e per di più sospetti di strumentalizzazione politica, sembrano del tutto assenti. C’è stato un autunno caldo, un nuovo modo di vedere la presenza operaia, e quindi dei non ricchi, nel tessuto della società, ci sono stati fermenti e inquietudini nel mondo studentesco, c’è stato un ampio e spesso acceso dibattito religioso postconciliare, c’è stata l’introduzione del divorzio[...], c’è la progressiva industrializzazione del Mezzogiorno, e quindi la sua restituzione a più degni livelli di vita, ci sono i problemi delle grandi città sovraffollate e delle campagne semideserte, c’è da postulare un nuovo rapporto di fiducia tra il cittadino e lo Stato, e naturalmente viceversa. Ora di tutto questo non v’è traccia nel cinema italiano; cioè la realtà del paese, buona o cattiva che ciascuno, liberamente, la giudichi, non si rispecchia nei nostri film”.

7 Il Centro Cattolico Cinematografico ha assegnato La ragazza del prete alla IVª categoria, con questa motivazione: “Film misero nella realizzazione ed elementare nella regia, basato su vari episodi farseschi, mal legati fra loro e privi di spirito, ma non di cattivo gusto. La storia affronta il tema del celibato ecclesiastico con tale superficialità ed insulsaggine da contribuire a sconcertare e confondere ancora di più le idee sul delicato problema”.

Per Il prete sposato, in una conferenza stampa (Film-spettacolo, 11 sett. 1970), il regista M. Vicario ha dichiarato solennemente: “Ho scritto, prodotto e diretto il film perché penso che il cinema debba raccontare quello che accade nel mondo che lo circonda e nella società del suo tempo. Se i preti hanno deciso di cominciare a sposarsi, o almeno di considerarne la possibilità, è preciso dovere del cinema mettersi al passo con gli avvenimenti e raccontare come e perché; questi avvenimenti succedono”; sennonché, alla RAI-TV, nel programma Cinema ’70 andato in onda domenica 14 febbr. 1971, ha confessato: “Sono sicuro di non avere sbagliato bersaglio, perché il film è al primo posto degli incassi italiani. Era un tema scottante, un tema difficile, un tema particolare, che non ho voluto affrontare in chiave seria; perciò ho preferito scherzarci sopra, perché anche il pubblico ci scherzasse con me, lasciando indietro quelli che sono i retroterra grossi del problema, cioè lasciando il problema irrisolto”.

8 ORESTE DEL BUONO, in L’Europeo (28 genn. 1971), dopo aver ironizzato su questi film congegnati sul modello di “una intera storia familiare italiana” – “Ci si fa la moglie..., e poi ci si fa l’amante...” –, continua: “Avvertivo un qualche scompenso, l’impressione che mancasse un’ulteriore tessera al mosaico. E, di colpo, m’è venuto in mente che anche da noi ormai c’è il divorzio. Quindi si presenta la possibilità che un bell’ingegno [...] metta in cantiere un ulteriore film che renda più completa la storia familiare italiana. Cioè, il prete si fa la moglie, in seguito (come spesso capita ai mariti) si fa l’amante, poi passa a sospirare il divorzio allo stesso modo con cui precedentemente sospirava il matrimonio, e ottenutolo... Mi ha preso un autentico brivido alla considerazione che non mancava una sola tessera, ne potevo preventivare e temere infinite”.

9 Così ne riferisce le parole Il Corriere della Sera (10 marzo 1970): “lo credo che i sacerdoti debbano essere considerati come tutti gli altri uomini. Sono favorevole al matrimonio dei preti, nella convinzione che, se sposati, sarebbero molto più integrati nella vita, più aperti alla comprensione, più capaci di risolvere i problemi di quanti li circondano. Però: un momento. Voglio aggiungere che, se venisse loro concesso di sposarsi, dovrebbe parallelamente essere proibito ai preti il divorzio, che ritengo debba essere sancito invece per tutte le altre persone. Perché è chiaro che nessun altro uomo come il sacerdote dovrebbe affrontare il sacramento del matrimonio con la maturata certezza di stringere un vincolo destinato a durare tutta la vita” (Altra redazione in La Nazione, 13 marzo 1970).

10 Pare, infatti, che, dopo aver ormai toccato il fondo del turpiloquio, produttori e registi italiani abbiano iniziato una promettente escalation dissacrante dei valori cristiani. A parte battute più o meno blasfeme sempre più frequenti, abbiamo già rosari scapolari e crocefissi ridicolizzati nel Don Giovanni di C. Bene; Gesù in croce: argomento di barzelletta nei Tulipani di Haarlem, di Fr. Brusati; il sacramento della confessione ridicolizzato, oltre che nel Preste sposato, nell’Asino d’oro, di S. Spina; il quale regista ci aggiunge, messi in canzonella, i martiri cristiani e la stessa Madonna “vergine-madre”; san Giuseppe: parodiato come sposo in bianco in La ragazza di nome Giulio, di T. Valerii...

11 Riporta Cinema d’oggi (15 febbr. 1971): “L’Assemblea straordinaria dell’Unione Nazionale Produttori Film, riunita a Roma il 9 febbraio 1971, denuncia l’estrema, non più mascherabile gravità della situazione del cinema italiano, tale da far prevedere – qualora entro brevissimo termine il governo non approvi i provvedimenti da troppo tempo all’esame – la paralisi totale della produzione; sottolinea agli ambienti responsabili e all’opinione pubblica che in questa eventualità scomparirebbe, con la libera iniziativa industriale, la forma di espressione più prestigiosa per la cultura e lo spettacolo italiani nel mondo, l’unica ancor oggi affrancata da condizionamenti cui vanno soggetti la televisione e il cinema di Stato: invoca la mobilitazione ecc.”.

12 Per la televisione inglese cfr N. M. LUGARO, in Verona fedele (17 maggio 1970). il quale, per suo conto, commenta: “Il cinema italiano, il quale sta attraversando un altro dei suoi periodi di crisi, che cosa fa per tentare di sollevarsi? Va forse alla ricerca di idee? Scava forse nella realtà drammatica dell’uomo e del mondo per scoprire le origini profonde del dolore e del dubbio, della lotta e della salvezza? Neanche per sogno! Ad eccezione di rari esempi di particolare impegno, il cinema italiano si sollazza con la banalità e la volgarità, si fa giuoco dei fenomeni più vistosi e sovente più sofferti del costume contemporaneo, si fa beffa di quanto la vita presenta di difettoso o di errato, considera gli uomini e il loro camminare insicuro come bersaglio di scherzi, di lazzi, da mettere alla berlina per il divertimento facile e stolto di platee grossolane ed incolte”.

Per la Francia cfr La Croix (17 febbr. 1971), che inizia così il suo trafiletto: "Le célibat et la solitude du prêtre ont inspiré au cinéma français le Journal d’un curé de campagne, Léon Morin, prétre et Dieu a besoin des hommes. Sur les écrans italiens ils ont fait naître Le prêtre marié et La femme du prêtre...

13 Ai quali, sulla solitudine affettiva di pastori protestanti, si possono aggiungere Nattvardsgasterna (Luci d’inverno, 1962), di I. Bergman, ed il capolavoro di C. T. Dreyer Vredens Dag (Dies irae, 1943).

14 Nella cit. trasmissione televisiva Cinema ’70, J. Delannoy ha sostenuto “la assoluta mancanza di un cinema veramente religioso e la sostanziale incapacità del cinema di affrontare seriamente un determinato problema”, con l’argomento che “il cinema è una forma di spettacolo che serve innanzitutto a divertire e a distrarre il pubblico”; J.P. MeIville ha rilevato “la difficoltà oggettiva, da parte del cinema, di trattare argomenti di ordine morale, in quanto arte a rimorchio della letteratura, e perché deve sottostare alle regole proprie della sua natura; una per tutte: lo spettacolo”, pur ammettendo la possibilità di eccezioni quando il regista si faccia guidare, “in umiltà, dal gusto e della misura”; infine R. Bresson ha individuato “la ragione della superficialità con cui il cinema affronta i problemi religiosi, e più largamente morali e sociali, nell’uso che esso fa di mezzi spuri: per esempio, l’attore professionista”.

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Articolo estratto dal volume I del 1971 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Di preti, sugli schermi, c’è più inflazione che scarsezza1; né il cinema italiano fa eccezione.

Sino a qualche anno fa esso ricorreva al prete prevalentemente come a condimento sarcastico-ridanciano di vicende che poco o nulla lo riguardavano. Poi l’ha promosso a piatto forte, con la salsa piccante dell’erotismo di personaggi sempre più sboccati e sfrontati; erotismo mescolato, in dosi sempre più ricche ed in situazioni sempre più scabrose, al sacro delle sue funzioni e del suo abito2. Oggi siamo ad una svolta decisiva. Proclama o no, lo Stato italiano, che “il cinema è mezzo di espressione artistica, di formazione culturale e di comunicazione sociale”?3. Ebbene: maturi di idee e con alto senso civico, produttori e registi sono passati dagli ammiccamenti furbeschi e dalle grasse barzellette postconviviali al problema stesso del celibato ecclesiastico, sfornando in pochi mesi ben quattro film sull’argomento; cioè: La contestazione generale, di Luigi Zampa; Il prete sposato, di Marco Vicario; La moglie del prete, di Dino Risi; La ragazza del prete, di Domenico Paolella4.

Il sociologo e lo studioso del costume odierno non se ne meravigliano. Il celibato ecclesiastico, non c’è dubbio, fa notizia; era quindi impensabile che il cinema italiano, esaurito anche il filone dei “western-spaghetti”, o prima o dopo si buttasse a sfruttarlo. E non se ne scandalizza il moralista cattolico. A prescindere, infatti, dall’opportunità e dalla stessa possibilità, oggi, di mantenere tabù, nel cinema, certi argomenti, il celibato sacerdotale è stato oggetto di recente magistero pontificio5; materia, specialmente in questo postconcilio, largamente discussa nell’editoria, anche cattolica; divulgata nelle cronache, purtroppo spesso scandalistiche, dei giornali, nonché dai rotocalchi di ogni colore e di ogni estrazione religiosa o ideologica.

Ma sociologi studiosi e moralisti, non diversamente da qualsiasi spettatore colto ed onesto – dato e non concesso che l’argomento fosse tra i più urgenti da portare sugli schermi6 – erano in diritto di aspettarsi che esso venisse trattato, se non in tutta la sua complessità – cosa impossibile al cinema, soprattutto se spettacolo popolare –, almeno con quel minimo di tatto e di rispetto che il convivere civile richiede, a dir poco, verso le opinioni e la condotta altrui. Perciò hanno ragione di rammaricarsi che, in questa occasione, il cinema italiano si sia assicurato un altro, non invidiabile, primato di volgarità. d’incultura e di dissacrazione.

Infatti, per tutti e quattro i film in questione, un discorso estetico risulta del tutto fuori luogo; per due di essi, poi, – Il prete sposato e La ragazza del prete – sarebbe sprecato anche qualsiasi discorso culturale, tanto palesemente il celibato dei preti vi è sfruttato quale pretesto e materia di farsa triviale7.

Solo nei due restanti il problema sembra affrontato con qualche impegno umano; ma vedremo a quale livello di preparazione culturale e con quanto irridente senso religioso.

* * *

Nel film di Zampa vengono presentati tre casi di Contestazione generale. Nel primo, un regista televisivo – l’istrionico Vittorio Gassman – tenta invano di proporre un programma contestativo a funzionari tanto culturalmente grezzi quanto timorosi di grane. Nel secondo, un maturo impiegato – l’ottimo Nino Manfredi –, succubo di un industriale tiranno – quell’orco di Michel Simon –, tenta invano una sua tardiva contestazione. Nell’ultimo – e siamo in argomento - il personaggio contestatore è un prete.

In un paesetto di montagna, dove l’emigrazione in massa ha lasciato soltanto poche decine di vecchi, vive, più in miseria che in povertà, il parroco don Giuseppe. La sua attività pastorale s’è ridotta a poche e deserte funzioni nella chiesa cadente; egli perciò serve i suoi pochi e squallidi parrocchiani in umili commissioni, arrancando, infagottato ed intabarrato, per e dal paesotto a valle, col suo traballante motorino. Continuerebbe, rassegnato, la sua triste vita di prete solo e proletario se tre incontri – uno con una donna, e due con ecclesiastici molto diversi da lui – non gli aprissero gli occhi e non gli scaldassero il cuore.

Intanto scopre che in città vivono preti ricchi. Per esempio don Roberto (E. M. Salerno), al quale egli va a chiedere lumi circa certe lettere anonime, che lo accusano di farsela con la bella cassiera di un bar del paesotto a valle. Lumi, da don Roberto, non ne riceve. In compenso: scalee, tappeti, poltrone, quadri, televisore, servitù, ed una copiosa colazione servita in vasellame d’argento all’illustre prebendario in elegante clergymen, lo inducono a meditare sulla sua tonaca consunta, i suoi scarponi ed il tugurio dove egli consuma i suoi magri pasti. Il mistero delle lettere anonime, invece, glielo svela, in un cordiale colloquio notturno, la stessa bella cassiera del bar (Marina Vlady). Sì, l’autrice anonima è lei. L’ha fatto per sviare i sospetti della Curia proprio dallo stimatissimo don Roberto, di cui essa, da nove anni, è discretissima compagna. L’appartamentino è accogliente, la donna è comprensiva, affettuosa. Se anche don Giuseppe volesse colmare la sua solitudine...

L’incontro risolutivo avviene, in auto e a tavola, con un pastore protestante, ammirabilmente sereno nel suo ministero, svolto nell’agiatezza economica e nell’affetto della moglie e di tre bei bambini. Ormai don Giuseppe è maturo per la contestazione. Si presenta al suo vescovo, ultimo esemplare di una gerarchia ricca e incartapecorita, e gli chiede: primo, una parrocchia in città; secondo, una congrua sistemazione economica; terzo, di sposarsi. Sugli occhi sbarrati del decrepito gerarca la parola FINE.

Con La moglie del prete, Risi passa ad una tematica del celibato, si direbbe, meno emotiva e più dottrinaria. Non, dunque, la solitudine sentimentale del sacerdote, ma i suoi diritti di uomo e di cittadino; non l’insensibilità di medievali gerarchie ecclesiastiche per i problemi sentimentali-erotici del basso clero, ma la convivenza in ipocrite soluzioni di compromesso da parte di furbe gerarchie postconciliari. Eccone, per farsene un’idea, come Film-Spettacolo ne ha presentato il soggetto agli esercenti italiani, suoi lettori.

“Valeria Billi (Sophia Loren), già cantante in dancing di terz’ordine, tenta il suicidio per amore. Le risponde, in una telefonata disperata, la “voce amica” di un sacerdote sulla quarantina, don Mario Carlini (Marcello Mastroianni), che l’aiuta, è vero, a vincere la sua depressione, ma rimane succubo, poverino, dell’impulsiva vitalità della ragazza, dalle sfacciate ma non triviali lusinghe con cui vien bombardato.
In una Padova bigotta e repressa, sulla quale si appuntano le frecce corrosive della pellicola [...], la vicenda prende corpo e si fa seria: banditi i rifugi dell’ipocrisia e del peccato, occultati magari sotto le spoglie dell’Onorabilità Apparente, la coppia si decide per quel che gli sembra il meglio: la dispensa cioè dal celibato, e il matrimonio regolare, con tanto di casa, letto matrimoniale e, quel ch’è facile immaginare, con l’anticipo (tutt’altro che sgradevole) concesso dalla fidanzata prima del vincolo del Sacramento.
La trovata del film di Risi è nell’ultimo quarto d’ora. Don Mario, chiamato a Roma, è irretito dalle Alte Sfere della Curia: ufficio dorato, prebende importanti, prestigio e onore. Non abbia fretta, gli si raccomanda; non avrà fretta, si ripromette lui. Toccherà alla donna rifiutare lo sporco compromesso che l’uomo le propone (il quartierino attiguo, le squallide visite periodiche) e abbandonare il fariseo in tonaca, senza avvertirlo del pupo che sta per nascere. Il volto, devastato e impietrito come d’un cadavere, del Cardinale nell’ultima sequenza, suggella il film con sferzante ammonizione”.

* * *

È evidente l’impianto, tutto mercantilistico, di questi film. Il loro genere è la commedia all’italiana, dove il compito di far ridere le platee si affida, non alle idee, ma alle situazioni e alle battute grottesche dei personaggi. Nei panni dei due preti in crisi, due attori di fresco richiamo tragicomico: Alberto Sordi, già istrionico frate confessore in Nell’anno del Signore, di L. Magni, e Marcello Mastroianni, già spiritato e conteso amante di Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca, di E. Scola. Però, non proprio pochade: che diamine! Il ministero dello Spettacolo deve pure assegnare il premio, in sonanti milioni, dei “Film di qualità”; il pubblico deve ridere, sì, ma con l’alibi d’interessarsi a seri problemi umani; e la critica impegnata vi deve pur trovare appigli per prendere posizione sui “gravi problemi sociali” dell’ora! Mescoliamo, dunque, agli elementi farseschi un po’ di romanticismo (i sentimenti frustrati), un po’ di grandi ideali sociali (democrazia, libertà, diritti civili) e molta coraggiosa denuncia (via i tabù, abbasso il medioevo, viva la Chiesa postconciliare); e il giuoco è fatto.

Su questo impianto mercantilistico, personaggi problemi e soluzioni sono tagliati e montati alla grossa. Intanto, come nei film western, tutti i buoni e simpatici di qua, tutti i cattivi ed antipatici di là. Quindi, i preti siano possibilmente campagnoli e sempliciotti; se cittadini e colti, almeno in fatto di problemi affettivi, si presentino disarmati e pudibondi come educande dell’ottocento. Le donne nelle quali s’imbattono, invece, siano tutte: o vecchie sfatte, o giovani sane e bellissime, anzi dive; in ogni caso: viziose, o almeno procaci ed aggressive. I superiori ecclesiastici – cardinali compresi (Fellini e la Cavani hanno fatto scuola) – siano vecchi grinzosi ed acidi: facile bersaglio della contestazione di preti progressisti.

Su piano di cultura, di creanza civile e di serietà professionale, non una traccia d’indagine e di studio sulla reale complessità psicologica, sociologica e morale-religiosa del celibato ecclesiastico, né sulle ragioni profonde della crisi che oggi, in prassi e in dottrina, esso sta attraversando. In compenso, lo sfruttamento acritico di luoghi comuni, dati come pacifici ed indiscutibili, di una “morale” che tutto è meno che cristiana e cattolica. La castità perfetta sarebbe contro natura, perciò impossibile. Chi la impone, per pseudo-ragioni sociali e sacre: o non conosce gli uomini, e s’illude; o li conosce, ed è un ipocrita. Chi, di fatto, la pratica è un minorato; se veramente uomo, un prete, o prima o dopo, o si sposa, o ripiega sul concubinato.

Pur di rivendicare al prete i suoi diritti, e di bollare la vergognosa ipocrisia della gerarchia, magari si passa sopra ad altri luoghi comuni della “morale” corrente. Non più il matrimonio, allora, come in tanto cinema, tomba dell’amore, ma toccasana di tutti problemi erotico-affettivi dell’uomo e della donna; i figli: non più un peso alla libertà dei coniugi, bocche da sfamare, e magari precoci contestatori; ma vezzosi pargoli, da mangiare di baci. Perché dunque i preti cattolici non dovrebbero seguire l’esempio dei pastori protestanti, tutti – come notorio – sposati a mogli ideali e rallegrati da numerosa prole, e tutti, senza eccezione com’è notorio –, liberi da ogni problema di solitudine affettiva?

Naturalmente, si dà per scontato che i matrimoni dei preti saranno tutti felici, all’uopo sorvolando sullo spettro dei cinque milioni – soltanto per l’Italia! – di “fuorilegge del matrimonio”, evocato dai crociati della legge Fortuna. Né ci si domanda – anche perché, probabilmente, la commedia del prete frustrato finirebbe in dramma, o in farsa troppo pacchiana – su quale alternativa dovrebbe ripiegare il prete il cui matrimonio, non indaghiamo per colpa di quale coniuge, risultasse un fallimento. Non, vogliamo sperare, sull’adulterio. Tanto meno sull’amore venale. Allora – dato che, finalmente, esso è diventato legale anche in Italia – sul divorzio8. “Eh, no! – ha obiettato l’interprete della Moglie del prete –: se ai preti venisse concesso di sposarsi, dovrebbe parallelamente essere proibito il divorzio, che ritengo debba essere sancito, invece, per tutte le altre persone”9. Dopo di che non manca che altri film coraggiosi propongano l’abrogazione dell’Art. 3 della Costituzione, secondo il quale “Tutti i cittadini... sono eguali davanti alla legge, senza distinzione... dei religione..., di condizioni personali e sociali”; inoltre, che altri film, “parallelamente”, denuncino l’intollerabile arbitrio della Chiesa cattolica, rea di estendere la forza obbligante del sesto e nono comandamento del Decalogo a tutti i fedeli e a tutti gli uomini, quando – com’è ovvio! – essi dovrebbero obbligare esclusivamente i preti.

* * *

Dopo siffatti exploits, e quando altri se ne annunciano non meno ignobili10, francamente non si vede con quale faccia la produzione cinematografica italiana possa appellarsi alla pubblica opinione e lanciare allo Stato un ennesimo SOS perché salvi “la forma più prestigiosa per la cultura e lo spettacolo italiano nel mondo”11. La verità è che, fuori d’Italia, – per esempio in Inghilterra e in Francia12 – questi prodotti esportati dall’Italia sono stati piuttosto irrisi che apprezzati: e per difetto di quel minimo di civiltà che dovrebbe far rispettare le istituzioni ed i valori cattolici non meno di quelli protestanti, ebrei, buddisti o musulmani; e per difetto di quella cultura, sensibilità estetica e serietà professionale che ha permesso a produzioni e registi non italiani di allineare, anche in argomento di celibato sacerdotale, autentici capolavori o, almeno, opere di buon livello culturale. Valgano, per tutti: l’ottimo (sotto questo aspetto) Le défroqué; (Lo spretato, 1953), di L. Joannon; i discutibili ma autentici: Dieu a besoin des hommes (Dio ha bisogno degli uomini, 1950) e Léon Morin, prêtre (1961), di J. Delannoy e di J. D. Melville; e soprattutto il capolavoro di tutto il cinema religioso: Journal d’un curé de campagne (Diario di un curato di campagna, 1950), di R. Bresson13.

Questi film dimostrano infondata l’obiezione, mossa dai loro stessi registi14, contro il cinema, quasi fosse strumento di espressione-comunicazione radicalmente inadatto a trattare argomenti seri e complessi com’è quello che qui c’interessa. No: non è in questione il mezzo, ma la preparazione culturale, l’arte e la probità di chi l’adopera. Perciò, qualora la nostra produzione cinematografica continuasse a battere le strade del turpiloquio della pornografia e della dissacrazione, non si vede perché mai l’opinione pubblica – almeno quella intelligente ed onesta – dovrebbe impensierirsi per una sua eventuale “paralisi totale”: anzi, avrebbe molte ragioni per augurarsela quanto più possibile rapida; né si vede perché mai lo Stato dovrebbe preoccuparsi di farla sopravvivere, oltre tutto contro lo spirito della Costituzione, secondo la quale l’iniziativa economica privata è, sì, libera, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno... alla dignità umana”, e deve “essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (Art. 41).

* * *

Ma non tutto il male viene per nuocere. Proprio per il loro basso livello culturale e morale, e per le risate con le quali le platee li accompagnano, questi film possono insegnare qualcosa tanto agli spettatori (che vi accedano culturalmente e moralmente preparati) quanto ai sacerdoti (che ne sono lo zimbello). I primi si diranno: “Sì, oggi più che mai è vera l’ammonizione ’Non tutti comprendono queste parole, ma solo quelli ai quali è dato (Mt 19,11)’, con le quali Gesù concludeva ai suoi discepoli smarriti, la splendida ed ardua sua dottrina sul matrimonio evangelico, e sulla rinuncia ad esso fatta in vista del regno dei cieli”; i secondi saranno indotti a renderne meno difficile la comprensione vivendo in umiltà di grazia ed in testimonianza di carità il loro celibato; non come un peso, ma come un dono; non nella solitudine della rinuncia, ma nella gioia della scelta.

1 Ai film elencati in Civ. Catt. 1954 IV 320, aggiungiamo, tra gli altri titoli: The shoes of the Fisherman (L’uomo venuto dal Cremlino, 1969) di M. Anderson; Tu ne tueras point (Non uccidere, 1963), di Cl. Autant-Lara; La primera missa (1961), di L. Barreto; Nazarin (1959), El angel exterminador (1962) e La voie lactée (1969), di L. Buñuel; Galileo (1969), di L. Cavani; El texidor de milagros (1962), di Fr. Del Vilar; la serie dei Don Camillo, di J. Duvivier et C. Gallone; La dolce vita (1960), di F. Fellini; Matka Joanna od aniolov (1960), di J. Kawalerovicz; Hoodlum priest (Le canaglie dormono in pace, 1961), di I. Kershmer; Milkezie (Il silenzio, 1963), di K. Kutz; Nell’anno del Signore (1970), di L. Magni; Léon Morin, prêtre (1961), di J.-P. MeIville; The cardinal (1963), di O. Preminger; Era notte a Roma (1960), di R. Rossellini.

2 Nell’escalation, tra i film di un certo impegno, si ricordano: Il disordine (1961), di Brusati; L’ape regina (1963), di M. Ferreri; Divorzio all’italiana (1962), di P. Germi; Il Gattopardo (1963), di L. Visconti; Ieri, oggi e domani (1964), di V. De Sica. Sull’argomento: cfr Assenza di Dio nel cinema italiano, di FR. DORlGO (in Cineforum, 1962, n. 15, 41.5 ss.).

3 Così il primo Art. della Legge 1213, del 4 nov. 1965, Provvidenze per la cinematografia (cfr C. CAMMARANO, Codice della legislazione sullo spettacolo, Roma 1968, 317 ss.).

4 Ed altri, seguiranno. Mentre, infatti, dalla Francia ci giunge L’amante del prete, di G. Franju, riesumazione del romanzo di E. Zola La faure de l’abbé Mouret, si annuncia Maddalena, del polacco J. Kawalerovicz...

5 Cfr GIOVANNI XXIII, Allocuzione al Il Sinodo Romano, 26 genn. 1960 (in AAS 46 [1960] 235); PAOLO VI, Lett. enc. Sacerdotalis Coelibatus, 24 giugno 1967 (in Civ. Catt. 1967 III 105 ss.).

6 Commenta PAOLO VALMA RANA (in Oss. Rom. 26 nov. 1970): “Il cinema può, e anzi deve, identificare le contraddizioni della società, segnalarne le carenze, far meditare lo spettatore su quello che è stato fatto ma anche sul molto che resta da fare. Ora tutti questi meriti, salvo pochi esempi, e per di più sospetti di strumentalizzazione politica, sembrano del tutto assenti. C’è stato un autunno caldo, un nuovo modo di vedere la presenza operaia, e quindi dei non ricchi, nel tessuto della società, ci sono stati fermenti e inquietudini nel mondo studentesco, c’è stato un ampio e spesso acceso dibattito religioso postconciliare, c’è stata l’introduzione del divorzio[...], c’è la progressiva industrializzazione del Mezzogiorno, e quindi la sua restituzione a più degni livelli di vita, ci sono i problemi delle grandi città sovraffollate e delle campagne semideserte, c’è da postulare un nuovo rapporto di fiducia tra il cittadino e lo Stato, e naturalmente viceversa. Ora di tutto questo non v’è traccia nel cinema italiano; cioè la realtà del paese, buona o cattiva che ciascuno, liberamente, la giudichi, non si rispecchia nei nostri film”.

7 Il Centro Cattolico Cinematografico ha assegnato La ragazza del prete alla IVª categoria, con questa motivazione: “Film misero nella realizzazione ed elementare nella regia, basato su vari episodi farseschi, mal legati fra loro e privi di spirito, ma non di cattivo gusto. La storia affronta il tema del celibato ecclesiastico con tale superficialità ed insulsaggine da contribuire a sconcertare e confondere ancora di più le idee sul delicato problema”.

Per Il prete sposato, in una conferenza stampa (Film-spettacolo, 11 sett. 1970), il regista M. Vicario ha dichiarato solennemente: “Ho scritto, prodotto e diretto il film perché penso che il cinema debba raccontare quello che accade nel mondo che lo circonda e nella società del suo tempo. Se i preti hanno deciso di cominciare a sposarsi, o almeno di considerarne la possibilità, è preciso dovere del cinema mettersi al passo con gli avvenimenti e raccontare come e perché; questi avvenimenti succedono”; sennonché, alla RAI-TV, nel programma Cinema ’70 andato in onda domenica 14 febbr. 1971, ha confessato: “Sono sicuro di non avere sbagliato bersaglio, perché il film è al primo posto degli incassi italiani. Era un tema scottante, un tema difficile, un tema particolare, che non ho voluto affrontare in chiave seria; perciò ho preferito scherzarci sopra, perché anche il pubblico ci scherzasse con me, lasciando indietro quelli che sono i retroterra grossi del problema, cioè lasciando il problema irrisolto”.

8 ORESTE DEL BUONO, in L’Europeo (28 genn. 1971), dopo aver ironizzato su questi film congegnati sul modello di “una intera storia familiare italiana” – “Ci si fa la moglie..., e poi ci si fa l’amante...” –, continua: “Avvertivo un qualche scompenso, l’impressione che mancasse un’ulteriore tessera al mosaico. E, di colpo, m’è venuto in mente che anche da noi ormai c’è il divorzio. Quindi si presenta la possibilità che un bell’ingegno [...] metta in cantiere un ulteriore film che renda più completa la storia familiare italiana. Cioè, il prete si fa la moglie, in seguito (come spesso capita ai mariti) si fa l’amante, poi passa a sospirare il divorzio allo stesso modo con cui precedentemente sospirava il matrimonio, e ottenutolo... Mi ha preso un autentico brivido alla considerazione che non mancava una sola tessera, ne potevo preventivare e temere infinite”.

9 Così ne riferisce le parole Il Corriere della Sera (10 marzo 1970): “lo credo che i sacerdoti debbano essere considerati come tutti gli altri uomini. Sono favorevole al matrimonio dei preti, nella convinzione che, se sposati, sarebbero molto più integrati nella vita, più aperti alla comprensione, più capaci di risolvere i problemi di quanti li circondano. Però: un momento. Voglio aggiungere che, se venisse loro concesso di sposarsi, dovrebbe parallelamente essere proibito ai preti il divorzio, che ritengo debba essere sancito invece per tutte le altre persone. Perché è chiaro che nessun altro uomo come il sacerdote dovrebbe affrontare il sacramento del matrimonio con la maturata certezza di stringere un vincolo destinato a durare tutta la vita” (Altra redazione in La Nazione, 13 marzo 1970).

10 Pare, infatti, che, dopo aver ormai toccato il fondo del turpiloquio, produttori e registi italiani abbiano iniziato una promettente escalation dissacrante dei valori cristiani. A parte battute più o meno blasfeme sempre più frequenti, abbiamo già rosari scapolari e crocefissi ridicolizzati nel Don Giovanni di C. Bene; Gesù in croce: argomento di barzelletta nei Tulipani di Haarlem, di Fr. Brusati; il sacramento della confessione ridicolizzato, oltre che nel Preste sposato, nell’Asino d’oro, di S. Spina; il quale regista ci aggiunge, messi in canzonella, i martiri cristiani e la stessa Madonna “vergine-madre”; san Giuseppe: parodiato come sposo in bianco in La ragazza di nome Giulio, di T. Valerii...

11 Riporta Cinema d’oggi (15 febbr. 1971): “L’Assemblea straordinaria dell’Unione Nazionale Produttori Film, riunita a Roma il 9 febbraio 1971, denuncia l’estrema, non più mascherabile gravità della situazione del cinema italiano, tale da far prevedere – qualora entro brevissimo termine il governo non approvi i provvedimenti da troppo tempo all’esame – la paralisi totale della produzione; sottolinea agli ambienti responsabili e all’opinione pubblica che in questa eventualità scomparirebbe, con la libera iniziativa industriale, la forma di espressione più prestigiosa per la cultura e lo spettacolo italiani nel mondo, l’unica ancor oggi affrancata da condizionamenti cui vanno soggetti la televisione e il cinema di Stato: invoca la mobilitazione ecc.”.

12 Per la televisione inglese cfr N. M. LUGARO, in Verona fedele (17 maggio 1970). il quale, per suo conto, commenta: “Il cinema italiano, il quale sta attraversando un altro dei suoi periodi di crisi, che cosa fa per tentare di sollevarsi? Va forse alla ricerca di idee? Scava forse nella realtà drammatica dell’uomo e del mondo per scoprire le origini profonde del dolore e del dubbio, della lotta e della salvezza? Neanche per sogno! Ad eccezione di rari esempi di particolare impegno, il cinema italiano si sollazza con la banalità e la volgarità, si fa giuoco dei fenomeni più vistosi e sovente più sofferti del costume contemporaneo, si fa beffa di quanto la vita presenta di difettoso o di errato, considera gli uomini e il loro camminare insicuro come bersaglio di scherzi, di lazzi, da mettere alla berlina per il divertimento facile e stolto di platee grossolane ed incolte”.

Per la Francia cfr La Croix (17 febbr. 1971), che inizia così il suo trafiletto: "Le célibat et la solitude du prêtre ont inspiré au cinéma français le Journal d’un curé de campagne, Léon Morin, prétre et Dieu a besoin des hommes. Sur les écrans italiens ils ont fait naître Le prêtre marié et La femme du prêtre...

13 Ai quali, sulla solitudine affettiva di pastori protestanti, si possono aggiungere Nattvardsgasterna (Luci d’inverno, 1962), di I. Bergman, ed il capolavoro di C. T. Dreyer Vredens Dag (Dies irae, 1943).

14 Nella cit. trasmissione televisiva Cinema ’70, J. Delannoy ha sostenuto “la assoluta mancanza di un cinema veramente religioso e la sostanziale incapacità del cinema di affrontare seriamente un determinato problema”, con l’argomento che “il cinema è una forma di spettacolo che serve innanzitutto a divertire e a distrarre il pubblico”; J.P. MeIville ha rilevato “la difficoltà oggettiva, da parte del cinema, di trattare argomenti di ordine morale, in quanto arte a rimorchio della letteratura, e perché deve sottostare alle regole proprie della sua natura; una per tutte: lo spettacolo”, pur ammettendo la possibilità di eccezioni quando il regista si faccia guidare, “in umiltà, dal gusto e della misura”; infine R. Bresson ha individuato “la ragione della superficialità con cui il cinema affronta i problemi religiosi, e più largamente morali e sociali, nell’uso che esso fa di mezzi spuri: per esempio, l’attore professionista”.

In argomento

Cinemaideale

n. 3008, vol. IV (1975), pp. 155-159:
n. 2970, vol. I (1974), pp. 582-585
n. 2861, vol. III (1969), pp. 390-394
n. 2831, vol. II (1968), pp. 472-474
n. 2824, vol. I (1968), pp. 376-378
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
n. 2776, vol. I (1966), pp. 350-353
n. 2744, vol. IV (1964), pp. 151-156
n. 2723, vol. IV (1963), pp. 473-486
n. 2706, vol. I (1963), pp. 565-567
n. 2636, vol. II (1960), pp. 124-39
n. 2617, vol. III (1959), pp. 17-31
n. 2612, vol. II (1959), pp. 113-124
n. 2605, vol. I (1959), pp. 66-69
n. 2555, vol. IV (1956), pp. 521-532
n. 2545, vol. III (1956), pp. 30-42
n. 2532, vol. IV (1955), pp. 601-609
n. 2519, vol. II (1955), pp. 526-535

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151