Articolo estratto dal volume II del 1966 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Non intendo qui parlare del film che il regista Jacques Rivette ha derivato dal romanzo La religieuse, dall’enciclopedista Denis Diderot licenziato alle stampe nel lontano 1780. Ho letto gli articoli che nella stampa francese hanno fatto seguito al divieto di programmazione e di esportazione di esso deciso dal segretario di Stato all’Informazione signor Yvon Bourges, nonché i servizi della stampa italiana in occasione della sua proiezione a Cannes. Quindi voglio soffermarmi sul pessimo servizio reso da certa stampa alla cultura cinematografica, che proprio non ne aveva bisogno. Insomma: si direbbe che ce l’ha messa tutta, per rivendicare a questo settore il non ambito privilegio del disprezzo verso la logica, e perfino verso il buon senso comune.
Lasciamo andare certi eccessi polemici sconfinanti nel grottesco, come la denuncia del divieto quasi fosse «un altro caso Ben Barka», o l’indignata richiesta di quarantuno cittadini di Bourges di far mutare il nome della loro città, «disonorato dall’omonimo Segretario», in quello di Diderot o di Rivette; o il parallelo da altri tentato con la repressione russa di Budapest e le efferatezze naziste di Auschwitz... Bisogna proprio riconoscere che la passione fa perdere la misura delle cose!... E fermiamoci, invece, alle critiche ed ai rilievi che conservano la parvenza del rispetto per le ragioni della mente più che agli ingorghi del fegato.
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Una prima categoria di essi, com’era da prevedere, se l’è presa contro la censura, contro ogni censura. Se attacchi del genere, col vento che tira, riscuotono a priori il favore dell’opinione pubblica, le circostanze nelle quali questa volta si è svolto l’intervento amministrativo non potevano fornire miglior buon giuoco agli attaccanti. Figurarsi! Un ministro che boccia un film contro il parere due volte favorevole della sua commissione! Giuridicamente, la procedura era ineccepibile, dato che – la legge è quella che è – il giudizio della commissione è consultivo e non vincola affatto il titolare del dicastero. Anzi, in fondo, in tanto diffusa prassi di personaggi e di istituti che giuocano a scaricabarile, verrebbe fatto anche di plaudire al coraggio di uno che, quando la coscienza glielo imponga, sa assumersi le proprie responsabilità, magari a scapito dell’auge popolare. Ma è stata, poi, solo, o principalmente, una questione di coscienza, oppure anche, e principalmente, l’interesse politico a dettare la decisione? Qui sta il punto! Perché tanto zelo, prima nell’ex-segretario signor Alain Peyrefitte nel promettere, a suo tempo, un intervento pesante, poi nel consigliere municipale signor Frédéric Dupont nel sollecitarlo, infine nel segretario Bourges nell’eseguirlo, purtroppo non sfugge alla suspicione di tentato accaparramento di voti cattolici, già rispetto alle recenti elezioni presidenziali e poi alle prossime elezioni politiche. E questa parvenza di strumentalizzare religione e morale a scopi politici, non giova al già tartassatissimo istituto censorio, quale si sia l’opinione che uno ne difenda.
Sempre a proposito di odiosità censoria, a rinforzo dei motivi spuri che pare siano stati all’origine dell’intervento, si è tentata la corda della pietà verso il regista ed il produttore del film, dal crudele intervento “ridotti al fallimento”. Ma diffido di una pietà che adopera reticenze troppo comode per non essere calcolate. A parte il fatto che il rischio economico è normalissimo nella produzione cinematografica – decine e decine di film, per parlare solo dell’Italia, ogni anno non riescono ad incassare un decimo dei molti milioni che sono costati, e nessuno ci invita a piangere con chi piange! –, perché mai, informatori dal cuore tanto tenero non informano il pubblico che in questo caso, se fallimento ci sarà, esso sarà imputabile tutto e solo ai due interessati, dato che l’organo amministrativo, illuminato o non illuminato che fosse, ha tentato tutto quello che doveva, e forse anche più, perché essi non lo incorressero? Infatti, inviato, nei primi del 1962, il soggetto ad un preesame della commissione, il suo presidente, il 30 maggio successivo, avvertiva il primo produttore che il film andava incontro ad una bocciatura. Il 5 luglio 1963 seguiva, ad un secondo produttore subentrato al primo, un altro avviso simile, motivato col rilevare «che il film avrebbe offeso una parte rilevante del pubblico». Finalmente, il 30 agosto 1965 un’altra lettera, questa volta dello stesso ministro all’Informazione, rinnovava la diffida. Ora, padronissimi, registi e produttori, di giocare a braccio di ferro con la pubblica amministrazione; ma sarà poi informatore onesto il giornalista che tace del lungo giuoco, per chiamare vittima l’arrischiato perdente, ed odioso tiranno quello che ha avuto la meglio?
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Ma, a rincalzo delle reticenze, vengono i sofismi, dove, se non fa le spese la buona fede le fa certo la cultura, tanto esiguo è il bagaglio filmologico che basta per rilevarli e risolverli. Per esempio: riferendosi al contenuto del film, il produttore avrebbe eccepito l’incongruenza di proibirlo quando invece la pièce teatrale derivata allo stesso romanzo di Diderot per tre mesi era stata rappresentata a Parigi indisturbata; i più, invece, sono risaliti allo stesso romanzo, opera d’arte, capolavoro anzi, ed anche morale, «tant’è vero — ha affermato uno di loro — che neanche la Chiesa l’ha posto all’Indice»!
Ma quale stima mostra di nutrire dell’intelligenza dei propri lettori chi li instrada in sì sublimi raziocinari? Come supporre, infatti, che essi ignorino che il teatro è teatro ed il cinema è cinema, e che, oltre tutto, il qualche migliaio di spettatori del primo – cittadini, «cólti» ed autonomi – non hanno nulla che vedere con i milioni e milioni di spettatori – eterogenei e «massa» – preda potenziale del secondo, soprattutto se pimentato e lanciato con qualche furbo scandalo? E, dato pure che il romanzo sia arte, e magari capolavoro, con quale logica si conclude che debba essere capolavoro, o almeno passabile arte, il film derivatone? Occorre proprio essere specialisti di cinema per ricordare mediocrità ed orrori artistici derivati da capolavori – quelli sì – mettiamo del Manzoni e di Dostoewskij, di Shakespeare, di Dante, di Omero?
Ma veniamo all’asserita onestà del romanzo di Diderot. A parte il risibile argomento della sua non avvenuta condanna all’Indice, si assicura, dunque, che esso non è affatto libello lanciato contro la religione cattolica e contro la vita religiosa quale questa la promuove, bensì spassionata denuncia dei disordini che dilagavano nei chiostri del tempo, anzi inno alla libertà individuale e sociale. Orbene: ritengo che chi propone simili enormità, una delle due: o non ha letto, neanche in diagonale, il romanzo, non sa quale sia stato il suo autore, né ha notizia della beffa libertina che ne fu all’origine; oppure mente sapendo di mentire. Figurarsi! Un materialista confesso e militante, per il quale conventi e vita religiosa erano abominandi, non tanto perché covi di vizi, quanto perché quintessenza dell’oscurantismo, destinato ad essere fugato dai «lumi» sbandierati dal suo «secolo», scrivere un romanzo senza farne scherno e zimbello! Meno tartufo dei suoi odierni epigoni, F.-M. Grimm già compare di Diderot e suo commentatore, lo giudicò «opera di utilità pubblica ed universale, restando la satira più feroce che sia mai stata scritta contro i conventi»!
Infatti, se si eccettua un po’ la disgraziata Suzanne Simonin, la quale, del resto, più che protagonista, vi funge da filo conduttore per presentare e stimmatizzare personaggi ed ambienti1, quale mostruoso campionario non vi si raccoglie a sostenere la tesi! Figlie adulterine monacate per forza o per inganno; religiose: o ottuse, sadiche ed ossessionate dalla presenza del maligno, o lesbiche-ninfomani, comunitariamente dedite al vizio e prossenete; preti, che ne aiutano, sì, una ad uscire dalla bolgia, ma per tentare subito di violarla... Se qualcuno si salva – come in certo triste mondo di Pirandello –, finisce in pazzia, o, – ed è il caso di Suzanne – suicida. Il tutto, appunto, abilmente articolato in modo da individuare e denunciare, non tanto i disordini quanto la radice necessaria di essi in una religione, come oggi si direbbe, «alienante», e nei suoi tre voti di povertà, castità ed ubbidienza: che, essendo repressione di sane forze naturali e sociali, non possono non proliferare individui invertiti e convivenze mostruose.
«Ma Diderot — è stato replicato — non ha fatto altro che romanzare una triste vicenda del suo tempo realmente avvenuta!» Ribatto che, ancora una volta, si ignorano i fatti, o si mente. In realtà, l’unico «vero» della triste storia, che appunto offrì lo spunto alla beffa Diderot-Grimm, resta che una ragazza, monacata per forza, riuscì ad ottenere di poter lasciare il convento: punto e basta. Tutto il resto è fantasia del romanziere2. Il quale, se l’avesse fatto per denunciare la piaga delle vocazioni forzate – pur convinti che, oggi come oggi, è molto più frequente il caso delle vocazioni religiose ostacolate ed impedite – gliene saremmo grati, come ogni estimatore della libertà e dignità umane deve essere grato a Bourdaloue e Massillon che, da pari loro, nella Francia dell’ateo enciclopedista, prima di lui tonarono contro la triste piaga, ed è grato al nostro Manzoni che, pare, partendo dal libello del Diderot – è proprio vero che omnia munda mundis! – dedicava alla Monaca di Monza pagine calde di pietas umana e cristiana. Ma, purtroppo, alla prova dei fatti, come s’è visto, l’intento di Diderot fu ben altro!
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E veniamo al terzo ed ultimo gruppo di rilievi occasionati dal film di Rivette nella stampa, tutti di critica contro la condotta delle 125.000 religiose francesi, accusate: 1) di aver operato come «gruppo di pressione», facendo ricorso, loro, «Chiesa», ed in atmosfera di dialogo conciliare, al braccio secolare, per vincolare nella loro libertà i non credenti; 2) di aver usato, in ciò fare, vie e metodi non ineccepibili.
Senza voler minimamente giudicare delle intenzioni, ed usando della notizia retrospettiva delle cose avvenute in quest’occasione in Francia – purtroppo non dissimili da quelle recenti e non recenti, verificatesi in Italia –, resto anch’io un po’ perplesso circa l’opportunità delle iniziative prese per ottenere la proibizione del film. Prima di tutto perché diffido, in genere, dell’utilità delle denunce quando non sono accompagnate, in chi le fa, le promuove o le approva, da un’azione positiva: che opponga produzione buona a produzione deteriore; che appoggi chi potrebbe e vorrebbe ben fare, e non soltanto lo critichi; che almeno predisponga piani e mezzi, sì da poter rendere possibile domani quel che non potesse farsi oggi. Oltre tutto, deplorare e poco fare ci fa passare per piagnoni sterili; e quando ciò avvenga a proposito di persone ed eventi in qualche modo legati alla «cultura», presso l’opinione pubblica confina i «buoni» nell’angolino del «moralismo» mentre conferisce ai «peccatori» il prestigio dell’illuminismo.
Ritengo, inoltre, che se campagne e denunce clamorose vanno fatte, occorra ponderarne bene i pro e i contra, tempi e modalità, sì da assicurarsi il massimo di probabilità di realmente favorire, e non di danneggiare, la causa che si vuole difendere. Che tutto ciò si sia verificato nel caso nostro qualcuno potrebbe dubitarne. Si è previsto, per esempio, e ponderato il lancio che una campagna del genere avrebbe costituito per un film, che invece, forse, senza di essa, sarebbe passato quasi inosservato? Previste le ristampe e lo smercio rinnovato del romanzo, di cui pochi ormai ricordavano l’esistenza? Considerata la rilevante riduzione del valore «democratico» del mezzo milione di firme raccolte quando ne resti non chiara fa procedura di raccolta, e soprattutto quando proteste e proposte vertono non su ciò che i firmatari hanno personalmente visto e controllato, ma sul sentito dire? Se sì: fu interpellato, in proposito, l’Ufficio Nazionale Cattolico del cinema, cui – secondo il decreto conciliare Inter mirifica – compete, tra l’altro, «coordinare tutte le iniziative dei cattolici in questo settore»? E fu predisposto un adeguato appoggio alla stampa, almeno cattolica, documentandola ed illuminandola tempestivamente, sì da ridurne i giudizi contrastanti, liberi, senza dubbio, perché in argomenti opinabili, ma quanto mai controproducenti in termini di opinione pubblica?
Questi, ed altri ancora, i dubbi circa l’opportunità concreta dell’iniziativa congiunta, vale a dire se, in previsione o in chiusura di bilancio, si possa ritenere che l’impresa valesse veramente la spesa. Tuttavia ritengo che non dovrebbero sussistere dubbi sul diritto, anche da parte di religiose, della difesa del proprio buon nome, usando all’uopo di tutti i mezzi dalle leggi messi a disposizione dei comuni cittadini. Plaudo, perciò, a quanto il vescovo di Verdun, mons. Boillon, riconosceva recentemente alle religiose della sua diocesi:
«Vi incolpano perché vi siete difese. E da quando in qua non si ha più il diritto di difendere il proprio nome? Da quando è delitto rivolgersi alle autorità pubbliche negli attentati contro il proprio onore? Non c’è dubbio che, se si fosse trattato di vostri interessi economici, nessuno avrebbe messo in forse il vostro diritto a difendervi. Ma qui voi avete difeso qualcosa di molto più prezioso, difendendo l’alto ideale che vi ha fatto abbracciare la vita religiosa. Chi attenta a questo ideale recide alle radici le vocazioni, anche se non ha la minima idea di che cosa sia una vocazione religiosa».
Certo: santa è ogni disposizione al dialogo, ed anche al perdono delle ingiurie da parte delle religiose; ma ritengo che gli ultimi autorizzati a parlare in questi termini dovrebbero essere quelli che, pur di far soldi, non temono di attaccare persone ed istituzioni, proprio perché le sanno miti, inermi ed indifese3.
Ci si domanda che cosa sarebbe avvenuto, in Francia ed altrove, se qualche Rivette e qualche Beauregard più coraggiosi si fossero permessi di portare sugli schermi sporcizie e delitti, passati oppure odierni, veri o inventati, poniamo: di ugonotti o di musulmani, oppure di ebrei, di neri o di qualche minoranza razziale, e magari di comunisti o di «resistenti»... Mi pare di sentirlo il clamore indignato che si solleverebbe da questa stessa stampa, in difesa di «valori» sacri ed intangibili, o in gloria del dialogo ecumenico; da quella stessa stampa che oggi si scandalizza perché delle religiose osano difendersi. Eppure, tra minoranze, movimenti, corporazioni, collettività – chiamiamole come si vuole – è difficile, credo, trovarne una come quella delle religiose che, nell’insieme, in passato come oggi, rifulga di tanto amore e dedizione, di tanto nascosto sacrificio e di tanta radiante serenità in tutto il mondo: su tante infanzie derelitte, su tanti malati abbandonati, su tanti vecchi da consolare nei loro squallidi tramonti: per tacere delle loro pure preghiere, che non cessano di elevarsi come parafulmini a protezione di un’umanità peccatrice e dimentica dell’eterno.
È ancora il vescovo di Verdun che riconoscente scrive:
«Voi andate scrivendo un magnifico poema di amore nel grande libro della storia, ad onore di tutta l’umanità... Perciò mi rifiuto di far coro con quanti difendono un film cavato da una prova scritta per infangarvi e, pronto a passare per codino, io vi dico, sorelle mie, dal fondo del cuore: vi stimo, vi ammiro e con tutto il rispetto vi ossequio: a nome di tutti quelli ai quali voi donate quanto avete di meglio e di più prezioso, a nome della Chiesa».
Proprio e solo contro di esse sarebbe coraggioso affermare la propria libertà di pensiero e di espressione? Quale libertà, poi? Un «Manifeste des 1789», messo in circolazione dal Rivette e dal Beauregard, vorrebbe far intendere che si tratterebbe della libertà contemplata nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, appunto del 1789. Accettiamola per buona: ma non senza rilevare che in quella famosa Dichiarazione la libertà si faceva consistere «nel poter fare tutto ciò che non nuoce agli altri»4.
E perché mai le uniche alle quali sarebbe lecito portar danno, e cui non sarebbe lecito difendersi, in un paese dove tutti i cittadini partecipano in condizioni di eguaglianza i diritti ed ai doveri, dovrebbero essere le religiose?
1 È, mi pare, quanto sfugge a certi scrittori, anche cattolici – quali M. Oraison, G. Cesbron, ecc. – secondo i quali, o il romanzo o il film sarebbero una denuncia di certe storture della vita religiosa, ed in particolare delle vocazioni forzate; oppure che si fanno forti della dichiarazione particolarmente attendibile, perché appunto di una religiosa qual è suor Marie-Edmond, sulla povera Suzanne, quale «admirable chrétienne», ma dimenticando quanto la stessa suora ha aggiunto: «È una vera pena vedere l’immagine ridicola ed odiosa che vi si presenta della vita religiosa ... A chi non la conoscesse e dovesse averne una prima idea attraverso questo film, sarebbe impossibile non ritenere che si tratta di una vita contro natura...».
2 Purtroppo non manca chi passa per pacifico il quadro della vita religiosa presentato dal Diderot. Così, per tempi più remoti, Réforme, che scrive: «il fondo del problema è che la verità del Vangelo (che il romanzo di Diderot non mette in causa) e l’onore della Chiesa (che si rafforza in una reale e sincera confessione delle sue colpe), non devono venir difesi dal braccio secolare...»; e per tempi meno remoti, Rivarol, che, battendo, pensiamo, ogni primato di onestà informativa, scrive: «Segnaliamo all’attenzione della censura superiore un libro che, sui costumi dei conventi, narra cose ben più impressionanti che La religieuse: ed è la Storia di un’anima di santa Teresa del Bambin Gesù. Vi si trovano, descritte in tutti i particolari, le torture fisiche e morali inflitte dalla madre superiora alla santa, rispetto alle quali il racconto del Diderot è una camomilla».
Con maggiore oggettività e coraggio, in una lettera alle religiose della sua diocesi (Verdun), mons. Boillon ha scritto: «Affermano, scrivono e ripetono che lo scritto rispecchia un’epoca passata. Ma voi sapete bene che è falso. Qui non si tratta di un documento storico, ma di un romanzo; anzi, peggio: di un tiro vigliacco giocato da una delle teste più irreligiose del secolo XVIII: tanto «storico» quanto potrebbe esserlo un romanzo sulla resistenza scritto da un collaborazionista durante l’occupazione».
3 Don Jean Pihan, membro della Commissione di controllo, interrogato sulla questione, non senza l’approvazione del Segretariato dell’opinione pubblica dell’episcopato francese ha detto: «Com’è che anche noi cattolici parliamo di dialogo, di rispetto alle persone, e poi prendiamo per buona la denuncia di Diderot contro le religiose e non prendiamo per buona la loro? Nessuno ha il coraggio di chiamare una cafonata l’azione dei due cineasti; anzi, se faccio appello alla cortesia dovuta a delle donne, mi rispondono con sorrisi sornioni. Ogni gentilezza e signorilità è sparita: nessuno più mostra di giudicare una mascalzonata l’azione intentata contro religiose...».
4 Nell’art. 4 di essa è detto: «La liberté consiste à faire tout ce qui ne nuit pas à autrui: ainsi l’exercice des droits naturels de chaque homme n’a des bornes que celles qui assurent aux autres membres de la société la jouissance de ces mêmes droits».