Articolo estratto dal volume IV del 1954 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Da una quindicina d’anni il prete sullo schermo pare che sia piuttosto redditizio, se prima l’industria americana e poi quelle delle altre nazioni maggiori produttrici non dubitano di rischiare ogni anno i loro capitali in film che hanno sacerdoti come protagonisti o come figure di primo piano.
L’esperimento in grande cominciò nel 1938 col notissimo La città dei ragazzi (The boys town), di M. Taurog, e con Angeli con la faccia sporca (Angels with dirty faces), di M. Curtiz; riprese, dopo la parentesi della guerra, con La mia via (Going my way, 1944) e Le campane di Maria (The bells of St Mary, 1945) di Mc Carey, ed il capolavoro di Rossellini: Roma, città aperta (1945); continuò con Le chiavi del paradiso (The Key of the Kingdom, 1946) di J. Stahl, Il sole sorge ancora di A. Vergano (1947), La croce di fuoco (The fugitive, 1947) di J. Ford, e Monsieur Vincent (1947) di M. Cloche; nel 1948 M. Taurog riportò sullo schermo il padre Flanagan in Uomini della città dei ragazzi (Men of boys town); nel 1949 la Spagna dette La mies es mucha; nel 1950 fu la volta di La porta dell’inferno (Edge of down) di M. Robson, Prima legione (The first legion) di D. Sirk, e dell’eccellente impresa di J. Delannoy: Dieu a besoin des hommes; seguirono l’ancora più eccellente Journal d’un curé de campagne (1951) di R. Bresson, gli spassosi Don Camillo (1952) e Il ritorno di don Camillo (1953) di J. Duvivier, nonché lo confesso (I confess, 1953) di A. Hitchcock, e, per finire, quest’anno 1954 ci ha portato i due buoni successi veneziani: Father Brown di R. Hamer, e On the waterfront di E. Kazan, nonché Lo spretato (Le défroqué) di Léo Joannon, che in questi giorni comincia il suo giro nei cartelloni d’Italia. Sicché abbiamo ormai un campionario completo di sacerdoti vivi solo sullo schermo: viatori e santi, organizzatori e asceti, poveri uomini ed eroi altissimi, impersonati volta a volta, per ricordare solo alcuni interpreti più felici, da Pat O’Brien e Dana Andrews, Henry Fonda, Bing Crosby e Barry Fitzgerald, Spencer Tracy, Gregory Peck e Montgomery Clift, Pierre Fresnay e Georges Rollin, Charles Boyer, Claude Laydu e Fernandel, Fabrizi e Lizzani...
Si tratta, come si vede, non più di un fenomeno sporadico, ma di una corrente sufficientemente copiosa per nutrire saggi, critiche e polemiche1. Da parte di protestanti, per esempio, vi si è vista una subdola aggressione della Chiesa cattolica ai danni delle altre confessioni cristiane; i materialisti vi hanno denunciato una pericolosa invasione di superstizione e di oscurantismo nel campo dello spettacolo, secondo loro, di fatto e di diritto, riservato al pensiero laico e perciò chiuso a ogni problema di trascendenza; critici di cinema hanno indagato sulle relazioni tra libertà di creazione artistica ed esigenze di tesi teologiche e morali, tra il linguaggio concreto del cinema, tutto rapportato a fenomeni esterni o esteriormente manifestabili, e spiritualità incomunicabile di esperienze religiose, quasi sempre da essi ridotte a «esperienze mistiche»; sacerdoti e critici cattolici infine, lungi dall’applaudire incondizionatamente a quest’inflazione del sacro nella settima arte, un po’ sospetta in produttori che per la maggior parte simpatizzano con la mammona iniquitatis, hanno mosso frequenti critiche e censure alle deformazioni e alle lacunosità con cui quasi sempre vengono portati sullo schermo i sacerdoti cattolici e la loro missione umano divina2. Non pochi echi di queste polemiche i nostri lettori ritroveranno nelle considerazioni con cui lo introduciamo alla visione dello Spretato3, un film che merita di essere visto per i suoi valori drammatici, tanto più alti e veri quanto più lo spettatore avvertito riesca ad isolarli dai difetti che ne diminuiscono la compiutezza artistica.
Il soggetto
In una domenica del 1945, qualche settimana prima della fine delle ostilità, in una baracca di prigionieri francesi in Germania, arriva il tenente Gérard Lacassagne, il quale, tra gli ufficiali che vi convivono da più di cinque anni, stringe subito amicizia col tenente Maurice Morand, come lui insofferente di disciplina ed apertamente ostile ad ogni pratica religiosa. In quel giorno, come al solito nelle feste di precetto, il cappellano, padre Mascle, inizia la messa; ma atterrato, subito dopo la consacrazione, dalla malattia che lo mina, e trasportato moribondo in infermeria, la lascia interrotta. Gérard, che fortuitamente viene a trovarsi presso il morente, è da lui pregato di chiamargli, per assisterlo in morte, un prigioniero che egli solo conosce essere uno spretato; con grande meraviglia di Gérard ed enorme scandalo di tutti gli ufficiali, si rivela spretato proprio il Morand, il più cinico ed empio della baracca. Egli, tuttavia, per amicizia, e senza credere al valore del suo atto, dà l’assoluzione e chiude gli occhi al Mascle, ma poi ostenta una condotta irriverente e sacrilega avanti alle specie consacrate, anche quando, eseguendo ciò che aveva disposto il cappellano, indica allo stesso Lacassagne il modo di consumarle e di rimuovere i sacri vasi.
Arrivate le truppe alleate, il campo viene smobilitato e i due si lasciano sempre amici, nonostante che una notizia sbalordisca ed indispettisca Morand: Gérard si farà prete per prendere il posto da lui abbandonato. Non valgono a smuovere il giovane dal suo insensato proposito né la lettura di una velenosa opera approntata dal Morand contro la Chiesa, mostrata traditrice dell’opera lasciata da Gesù Cristo, non le scenate che l’investono in casa Lacassagne da parte del padre e dello zio, e neppure l’appassionata perorazione di Caterina, sua gelosa fidanzata. Ma non meno saldo resta il Morand contro gli assalti di zelo che l’agente Couturier e don Jousseaume, già suoi compagni di scuola e poi di seminario, gli sferrano contro per riportarlo al sacerdozio tradito; egli, infatti, non solo dà alle stampe il libro sacrilego composto durante la prigionia, ma accetta una cattedra di storia delle religioni alla Sorbona per smantellare di lassù il castello di tradimenti su cui, secondo lui, si regge la Chiesa cattolica col suo clero.
L’attività editoriale dello spretato gioca un brutto tiro a Gérard: una copia del volume, con dedica autografa dell’autore, dal rettore del seminario d’lssy viene presa come una prova tanto convincente di dubbia ortodossia nell’aspirante seminarista, che a questi viene negata l’entrata in seminario. L’incontro tempestoso tra Gérard furibondo e Morand ignaro dell’accaduto, rivela loro l’autrice del maneggio in Caterina, e conferma in tutti e tre la saldezza della vocazione sacerdotale che li angustia. Don Jousseaume, proprio su presentazione dell’amico spretato, accoglie Gérard in seminario e lo difende da un altro passo della non rassegnata Caterina. Sennonché, nelle vacanze estive, per mettere alla prova la sua costanza, lo rimanda per un mese nel suo ambiente di vecchie amicizie e di famiglia. Gérard, nel suo ardore di apostolo novellino, ne approfitta per tentare la conversione di Morand. Aiutato da Caterina, riesce a persuadere la vecchia mamma di Maurizio ad invitargli in casa quattro spretati della regione, nella speranza che la vista di quei disgraziati, da strumenti di grazia ridotti a ruderi di miseria, avrebbe fiaccato la sua superbia rivelandogli il suo vero stato. Ma la scena disgustosa sortisce un effetto opposto, perché lo spretato decide di abbandonare una casa dove gli si giocano simili tiri, non senza però aver dato la lezione che si merita all’infelice organizzatore del conciliabolo.
Invitatolo in un tabarin notturno, mangia e beve lautamente; poi, avanti all’amico e alla sua ex fidanzata, esaltato dalla stizza vendicativa e dalle libazioni, vuota una bottiglia di champagne in un secchiello da ghiaccio e vi pronuncia sopra la formala della consacrazione. Gérard, esterrefatto, si crede in dovere di riparare il sacrilegio bevendo tutta d’un fiato la coppa consacrata, e ci riesce, accompagnato dai battimani delle allegre donne che affollano il locale e dagli strumenti dell’orchestra accorsa a rallegrare quella che aveva tutta l’aria di una scommessa da ubriachi.
Questa scena terribile segna il punto risolutivo della vicenda. Morand, schifato di se stesso, si ritira in solitudine; Caterina rinuncia ad ostacolare Gérard, e questi si ritira in seminario, vergognoso degli errori commessi, ma più che mai deciso di diventar sacerdote e di fare del suo sacerdozio la salvezza dell’amico. I due anni che maturano questi suoi propositi portano a termine, tra alterne vicende, anche l’indurimento e il decadimento umano di Morand.
Gérard viene ordinato sacerdote; ma non gusta le gioie della prima Messa. Munito dei necessari poteri, nella notte buia corre, vola dall’amico. Lo trova spossato da una lotta condotta simultaneamente dall’’inferno, dalla terra e dal cielo. Egli raccoglierà il frutto maturo della grazia, ma non senza contribuirvi con un suo ultimo e totale sacrificio. Un suo errore esaspera Morand, che reagisce violentemente: nel suo cieco furore lo precipita per le scale, l’abbatte, lo scuote, lo sbatte ripetutamente contro un pilastro; le antiche ferite si riaprono e Gérard muore appena pronunciate su Morand, finalmente atterrato dalla grazia, le parole dell’assoluzione. Alle due guardie notturne che l’arrestano, indossata la veste dell’amico ucciso, l’ex spretato si consegna come: Maurice Morand, «sacerdote cattolico».
Limiti e pregi
Su questo soggetto era possibile ricavare un film esteticamente valido? – Senza dubbio! – C’è riuscito il regista? – Per tre quarti no. Prima di tutto per insufficiente uso del mezzo espressivo da lui scelto. Infatti, dopo le sequenze iniziali del campo di guerra, non prive di azione cinematografica, con quella del ritorno in patria dei due prigionieri, l’azione comincia a ristagnare in un dialogare prolisso, utile certo per introdurre lo spettatore nel mondo interiore dei personaggi, ed anche vivo e intelligente, ma cinematograficamente inefficace. Solo con la sequenza del tabarin il ritmo riprende vigore e, pur con qualche rallentamento, felicemente prosegue fino alla sequenza conclusiva.
Inoltre, non è sufficientemente giustificato dalla stesura cinematografica il processo interiore dei personaggi. Come mai Morand ritorna così improvvisamente alla Chiesa? Perché Gérard passa dalla ribellione all’apostolato, e Caterina dall’amore più geloso di fidanzata alla rinunzia? – Sì: abbondano gli elementi per formulare risposte nette ed esaurienti: l’efficacia della preghiera nel caso di Morand, l’opera improvvisa della grazia, che si serve dell’insufficienza degli argomenti dell’apostata per convincere Gérard, la sublimazione dell’amore in Caterina...; ma sono elementi, per così dire, estrinseci al film e non sufficienti per mettere lo spettatore a contatto immediato con l’anima dei personaggi e con la soprannaturale realtà che in essa si compie.
È vero: don Jousseaume, l’agente di cambio, la mamma di Morand e i quattro spretati hanno fisonomie ben caratterizzate; ma si tratta di personaggi di contorno, e perciò superficialmente sbozzati; questo fa pensare che il regista si trovi a suo agio più nello sbozzare personaggi che nell’approfondire personalità. Eccolo allora ripiegare su aspetti ed episodi meno impegnativi e di facile potenza emotiva: la messa interrotta nella baracca, il convegno degli spretati, la consacrazione sacrilega nel tabarin, la morte violenta di Gérard, dove la carica emotiva non è propriamente estetica. Chi mai, infatti, che abbia il cuore un po’ sensibile, non si commoverebbe alla rappresentazione sia patetica sia brutale della morte? Chi, che abbia un minimo di sensibilità religiosa, non fremerebbe alla rappresentazione di un sacrilegio, specialmente se il regista, proprio per assicurarsene l’effetto, ne calca alquanto le tinte? D’altra parte, chi non sa quanto sia facile esagerare nell’uso dei mezzi espressivi propri del cinema? La stessa finale alla Griffith, che s’inizia con l’ordinazione di Gérard e termina col suo presentarsi a Morand per chiedergli una tazza di caffè, e che, come diremo, è tra i pezzi più potenti del film, non è del tutto immune da una certa forzatura di espressione.
Restano i pregi della recitazione, buona negli attori secondari (tra i quali c’è lo stesso regista Joannon in veste di don Jousseaume), convincente quella di Nicole Stéphane (= Caterina), della madre e soprattutto di Pierre Trabaud (= Gérard), ottima quella di Pierre Fresnay nelle vesti dello spretato. Ma quest’ultima è tanto eccellente che quasi esorbita dall’opera d’arte ch’era chiamato a compiere. La sua potenza espressiva sopraffà lo spettatore più che non la sua realtà di personaggio. Insomma, se nella vita reale vedessimo coi nostri occhi uno spretato comportarsi come si comporta Fresnay sullo schermo, prima di condolerci con lui per i guai che passa, ci rallegreremmo per la maniera perfetta con la quale li soffre. Con questo inconveniente, che se in Dio ha bisogno degli uomini e in Monsieur Vincent il prevalere di Fresnay era ancora sopportabile, nello Spretato accentua quella mancanza di unità interiore che è condizione essenziale per fare opera d’arte compiuta. Ci siamo commossi: va bene! Forse abbiamo anche pianto: e ce n’era motivo. Ma, usciti dal cinema, passato il primo effetto d’urto del film, ci domandiamo: Che cosa ci ha voluto dire l’artista? Quale idea pregnante ne ha mosso l’immaginazione e il sentimento, e quale idea, di fatto, in unità di vita ha egli espresso? L’eternità del sacerdozio personale di un uomo consacrato? In questo caso il prevalere di Fresnay si giustifica: ma come giustificare tutte le vicende di Gérard e di Caterina? L’idea centrale era invece l’eternità del sacerdozio nel tempo, per cui la vocazione di Gérard germoglia sulla morte di Mascle e il ritorno di Morand al sacerdozio si compie alla morte di Gérard? Ma allora l’onnipresenza del primo attore si spiega meno e diventano troppo accessori la più parte degli episodi più rilevanti del film. Mettiamo che il tema centrale sia stato la comunione dei santi nel confluire delle preghiere e dei meriti per la salvezza di un’anima sacerdotale? Ma allora perché insistere nel film su episodi, come quello degli spretati e quelli riferentesi alla vita personale di Gérard, che pongono in rilievo temi che con quello della comunione dei santi, nella realtà filmica, nulla hanno che vedere? Il regista, infine, voleva dire che nei disegni della Provvidenza la salvezza di un’anima può dipendere dal libero e totale sacrificio di un’altra? In questo caso sarebbe più facile comporre tutti gli elementi del film in un profilo costruttivo, che partendo da un punto comune: il campo prigionia e la morte di Mascle; si sviluppa secondo due linee divaricantisi: crisi e ritorno di Morand, sacerdozio e morte di Gérard, ma interessate da rapporti comuni (le vicende nelle quali s’inseriscono anche i personaggi secondari), e che si ricongiungono alla fine quando appunto i due protagonisti hanno esaurito il compito narrativo al quale erano stati chiamati; tuttavia, resterebbe sempre qualche elemento del film (per esempio il titolo e la preponderanza del personaggio di Morand, il funerale della madre e l’insistere nel confluire delle preghiere) che per lo meno ne disturbano l’armonia compositiva e impediscono una piena unità estetica.
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Tutti questi interrogativi suffragano, ci pare, il giudizio riservato con cui, in sede artistica, abbiamo iniziato questa nostra indagine. Lo spretato, come opera di grande arte, è per tre quarti mancata per deficienza di quell’unità poetica che non può essere supplita né dal mestiere eccellente, né dalle idee ottime, né dalle buone intenzioni, né dalla commozione psicologica presente nell’artista o nel pubblico. Concluderemo definendo Lo spretato un brutto film? No davvero! Anzi lo diciamo un bel film, ma spettacolare; e così qualificandolo vogliamo definirne i limiti ma anche rilevarne i pregi.
Nel genere sacro e sacerdotale valida opera d’arte fu il Diario di un curato di campagna: quanti però lo videro? Non moltissimi. Quanti l’apprezzarono? Gli intendenti, cioè pochissimi. Il pubblico medio lo trovò troppo impegnativo e preferì far la fila per vedere Don Camillo, film artisticamente mediocre ma spettacolarmente eccellente, tanto che segnò uno dei più grandi successi mondiali. Orbene, Lo spretato, per arte è più vicino al Don Camillo che all’eroica vicenda bernanosiana; ma questo non gli toglierà il successo delle masse, anzi glielo assicurerà. Del resto, notizie dai paesi di lingua francese già riferiscono di successi lusinghieri per affluenza e per commozione di pubblico; a Nizza e a Parigi, tutto dire!, molti spettatori piangevano; lo scrivente è stato testimone della commozione provocata dal film in Berna, città in prevalenza protestante. In Italia le prime prove non sono state meno eccellenti: e noi ne siamo contentissimi, perché tutto sommato preferiamo la commozione psicologica messa a servizio di idee buone a quella che somministra di frode idee false o non idee. Se una cosa ci dispiace è che la mancata totale validità artistica limiti quell’influsso maggiore che opere perfette possono avere in un pubblico preparato a comprenderle, e perciò limiti in profondità l’opera, diciamo pure, apostolica intesa dal cattolico Joannon.
Esaltazione della vita e del sacerdozio cattolici
Una lode che Lo spretato merita pienissima è per la perfetta ortodossia della dottrina e del sensus cattolici che l’informano; lode tanto più preziosa quanto rarissimamente meritata dai molti film “ecclesiastici” e quanto più ardui e numerosi sono stati i problemi teologici che il regista vi ha affrontato4.
Qui non ci sono le vicende esterne dell’organizzazione e dell’apostolato, né i casi limiti della morale cattolica o della psicologia sacerdotale fatti oggetto di curiosità, più che di pietà, nel pubblico. Qui c’è il problema della fede drasticamente e modernamente posto, nel dissidio tra religione soprannaturale e gerarchie umane, tra Gesù Cristo e la sua Chiesa storica, ed ortodossamente risolto nell’incontro vitale dei due estremi: Morand infatti ritrova Dio negli uomini e Gesù Cristo nella Chiesa. C’è la presenza reale e sacramentale di Gesù. Mai, nel cinema, le specie consacrate erano state usate come materiale plastico di tanta suggestiva potenza5. L’aria della baracca s’è rarefatta intorno ad esse; gli ufficiali non osano parlare, tanto meno mangiare; noi tremiamo di commozione alle parole della sacrilega consacrazione e alla consumazione nel tabarin notturno. Ci vuole proprio il cattolicismo giansenista e inacidito di certi “laici” per scandalizzarsi di tanto osare dell’uomo intorno all’Eucaristia, forse perché non mai familiarizzati essi stessi col maggiore osare di Dio6. Qui c’è il problema della remissione dei peccati: invocata ed ottenuta da Mascle morente, conferitone il potere dalla Chiesa a Gérard neo sacerdote e da questi esercitata, prima ed ultima assoluzione, su Morand; questi ne manifesta l’incontenibile empito di gioia col pianto che accompagna il suo Magnificat, risposta lungamente attesa dal sorriso sereno della vecchia madre assolta in articulo mortis. Qui, finalmente è presente e funzionante la vita della grazia nella comunione dei santi, in un confluire e rifluire di preghiere e di meriti che sormontano vittoriosamente resistenze e colpe. Il sacrificio di Mascle converte il rozzo attendente e scuote Morand; un atto di bontà di Morand spinge Gérard sulla via del sacerdozio, e due atti di bontà gli aprono le porte del seminario; lo zelo ardito di Gérard, per quanto ingenuo e maldestro, e la sua fede generosa dànno a Caterina il dono delle lacrime e scuotono Morand, sicché egli si disprezzi come un Giuda, non degno di essere raccolto dal carro della spazzatura. L’affettuoso sacrificio e la fede delicatissima della mamma, uccisa dalla diserzione del figlio, stanno per vincere le sue ultime resistenze; ma egli si dibatte, s’irrigidisce; allora la grazia l’assale con un crescendo vorticoso: tutte le distanze sono abolite tra coloro che appartengono all’unica realtà mistica di Cristo e la grazia rifluisce senza soluzione di continuità tra le membra di uno stesso corpo. Sono gli accordi dell’organo, i gesti e le formale del consacrante, le lacrime di Caterina a ricordare allo spretato chi egli era, chi è e chi potrebbe tornare se solo lo volesse; sono le preghiere dell’amico Jousseaume e quelle dell’agente di cambio, le suppliche e l’offerta di Gérard, che sacrifica anche la gioia inesprimibile della prima messa, i canti di ignorate e povere monache di clausura, le voci d’oltretomba della mamma e di Mascle, il grido e la preghiera di tutta la Chiesa militante e trionfante, fatte tutte voce di Gesù Cristo, che, più laceranti del fischio del treno nella notte nuvolosa, lo assalgono perché cessi di scrivere con la sua vita il diario di un assassino e ricominci quello di un datore di vita. Sarcasmo, ribellione, disperazione: ma poi la grazia trionfa anche dell’ultimo rigurgito dell’orgoglio ferito, che lo porta, infuriato come una belva colpita a morte, ad uccidere chi per lui si è fatto grazia, ma poi a magnificare il Signore per la vittoria su di lui ottenuta, mentre docilmente si avvia all’espiazione che l’attende.
Ma il merito maggiore del Joannon è nell’aver fatto un’apologia essenziale e niente affatto retorica del sacerdozio cattolico. Egli porta sullo schermo almeno undici sacerdoti: Morand, Gérard, Mascle, Jousseaume, il vescovo, il direttore d’Issy, il parroco degli ultimi sacramenti e i quattro spretati, oltre, s’intende, le semplici comparse. Ebbene: non uno ce n’è tra tanti che ricordi i dubbi preti sportivi e canterini, aitanti e spericolati, maneschi e mondani, o almeno lacunosi, di molta produzione americana e non americana. Qui tutti pregano: uomini veramente di Chiesa; tutti pensano accoratamente alle anime: uomini pienamente a servizio degli uomini e di Dio. Morand, nella sua ribellione, imputa al clero di aver tradito l’opera di Cristo, ma la migliore confutazione alla sua accusa la trova – e lui stesso lo riconosce – negli eccellenti sacerdoti che lo circondano. Unica eccezione gli spretati: tornati, uomini, al mondo e a se stessi, e perciò deplorandi monarchi scoronati. Tutti sono sacerdoti che s’identificano con la Chiesa e con Cristo, e perciò antimondo; tra loro e il mondo, ideologicamente e sentimentalmente, c’è quel muro altissimo, opaco e massiccio, il quale, capolavoro ascetico d’inquadratura, nel film si alza a separare Caterina da Gérard chierico, in sortem Domini vocatus, e non più amante; una voce che viene da un altro mondo la saluterà con un generico, impersonale «Grazie, signore!» e le lascerà come ricordo dell’amore sacrificato il dono delle lacrime.
E sì che non si può dire che questi sacerdoti siano esseri idealizzati, disumanizzati. Restano uomini come noi, con le loro miserie e con le loro innocenti manie: quella degli ombrelli don Jousseaume, una certa strettezza di giudizio il rettore d’Issy, una manifesta rigidezza di tratto quello degli ultimi sacramenti, molta ingenuità e impulsività Gérard...; ed hanno anche le loro prove: tant’è vero che vicino a loro ce n’è più d’uno che non resiste e cade; ma non per questo cessano di essere i depositari della grazia, amministratori dei misteri di Dio!
In America hanno visto nel film il caso di un uomo che va lasciato tranquillo perché da solo esca dalla sua crisi di coscienza, ed hanno giudicato sconveniente che altri presuma vincolarne la libertà dando in pubblico un giudizio di valore sul suo operato: perciò l’hanno proscritto; ma per il Joannon non è questo il problema. Per lui, non ostante il titolo, il film non si conclude in Morand, ma spazia su d’una visione integrale della dottrina cattolica, nella quale il sacerdote non è più solo individuo privato ma persona pubblica, e i suoi casi, lo voglia o no, sono casi della Chiesa e delle anime. Molto felicemente egli fa sì che il peccato di Morand sia di orgoglio, e non di cuore o di sensi; questo, mentre conserva al decaduto una sua luce di dignità morale, ne rileva il carattere specifico di ribelle dalla Chiesa che è Cristo, e il suo essere non tanto di anima in stato di morte, ma di membro agente della Chiesa gerarchica ridottosi in stato di mortale inefficienza. Cosi, se in Dio ha bisogno degli uomini, J. Delannoy drammatizzava l’assurda pretensione di un semplice uomo a fungere, non chiamato, da sacerdote, qui il Joannon appalesa l’intollerabile condizione di un prete ridottosi a men che semplice laico; in tutti e due i casi viene descritta, per risonanza, vivida e suasiva l’azione essenzialmente trasmutativa che la vocazione sacerdotale compie su di un semplice fedele: egli dirà le parole che mutano il pane in Dio ed anime morte in candidate al paradiso, ma non prima che la parola del Sommo Sacerdote l’abbia accomunato al suo sacerdozio, sceverandolo di tra gli uomini e costituendolo ministro della Chiesa e di Dio7.
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Per tutte queste idee, midolla della più pura dottrina cattolica, espresse con un linguaggio quanto mai efficace, il film gioverà senza dubbio ai laici, credenti o non credenti; ma anche ai sacerdoti, i quali, forse, troppo abituati al soprannaturale che li ha inondati, qualche volta possono essere gli ultimi a sentire di quante grazie sovrabbondino le loro mani consacrate e a quale sovreminente dignità il Signore abbia elevato la loro umile vita; inviterà tutti a pregare e a spendersi, anche se non fino al totale sacrificio di Gérard, per quei poveri sacerdoti, traviati dall’orgoglio della mente prima che da quello del cuore, per i quali l’ispirato lavoro del Joannon ha in noi aumentato l’affetto fraterno e la speranza di poter intonare quanto prima per essi il Magnificat del ritorno.
1 I ventuno film ricordati sono tra i più rappresentativi e più noti di questa corrente, ingrossata da decine e decine di altri. Solo per la produzione italiana, per esempio, si potrebbero ricordare: Natale al campo 119 (1947) di P. Francisci, Proibito rubare (1948) di L. Comencini, Rondini in volo (1949) di L. Capuano, Vogliamoci bene (1950) di P. Tamburella e Gli uomini non guardano il cielo (1952) di A. Scarpelli. Per la produzione straniera basti ricordare L’assassinio nella cattedrale (Murder in the cathedral, 1952) di Hoellering.
2 L’argomento è stato trattato magistralmente da A. AYPRE, in Problemi estetici nel cinema religioso, Roma 1953, p. 70 11. Buone cose hanno pure: H. AGEL, Le pêtre à l’écran, Parigi 1953: R. BUZZONETTI, Il prete nel film, in Rivista del cinematografo, 1952, n. 1, p. 3; e L. B., Il prete nel cinema, in Via, Verità e Vita, 1954, n. 4.
3 Lo spretato (Le défroqué, 1953), di Léo Joannon. Interpreti principali: Fremay, P. Trabaud, H. Stéfane, M. Géniat. Produzione francese. Una critica intelligente ma sommaria è apparsa in Etudes, aprile 1954, n. 4, p. 86 ss.
4 Qua e là varie polemiche si sono accese sulla validità o meno della consacrazione nel tabarin. Ci permettiamo opinare che in teoria esse si possono dire pertinenti, risultando dubbia in casu l’intenzione del consacrante, e la formola di consacrazione essendo stata pronunciata solo su di una specie con esclusione dell’altra, et quidem fuori del sacrificio eucaristico: tutte circostanze determinanti secondo la più comune opinione dei teologi; ma che ai fini intesi dal regista non siano pertinenti. A lui basta che Morand abbia motivo di credere che Gérard ci creda, come di fatto si verifica nel film.
5 Un anticipo in questo senso si aveva nella mirabile sequenza dello spargimento delle particole non consacrate in Dio ha bisogno degli uomini. Notiamo a questo proposito che non è questa l’unica reminiscenza di altri film che si trova in quello del Joannon; per esempio, l’assoluzione data da uno spretato ad un santo sacerdote in punto di morte si trovava già in Diario di un curato di campagna.
6 Ci riferiamo alle confidenze di MARIO MONTI, in Il borghese (15 ottobre 1954, p. 439), il quale, dopo averci informati che a messa tutte le domeniche ci andava da bambino, e che la fede gli è rimasta, ma non quella ingenua di un tempo, definisce «Le défroqué a tutt’altro ispirato che alla fede», concludendo che «la Chiesa non è più quella di una volta... quando la messa non veniva ritratta [sic!] dalla televisione», tralasciando poi di biasimarla per l’uso della luce elettrica, ignorato dal concilio di Calcedonia, e per i telefoni e gli altoparlanti, forse sconosciuti agli apostoli.
7 Non ce la sentiremmo di onorare con pari lodi il romanzo di HERVÉ LE BOTERF, Lo spretato, Milano, E.L.I. 1954, pp. 318, L. 1.200), che svolge lo stesso argomento del film. Tra l’altro, anch’esso segue l’andazzo di tante traduzioni dal francese che infestano l’editoria italiana, le quali, con la più fresca disinvoltura, fanno strazio della nostra lingua. E pazienza se fosse solo della lingua, ma anche del pensiero! In questo, per limitarci a svarioni in cose ecclesiastiche e di religione, la messa e tutte le funzioni religiose in genere diventano ufficio, alla maniera dei protestanti; il camice diventa uniforme, la pisside ciborio, la benedizione il saluto, Jeovak (oppure Jehovah) s’è fermato al 1800 e ancora non è diventato Jahwè, la benedizione dell’acqua prima dell’offertorio diventa la consacrazione, prima del Pater noster nella messa il sacerdote dice il Dominus vobiscum, e il Pater noster, da preghiera domenicale, si trasforma in preghiera della domenica; il calice non si pone sul corporale ma sul manupergio, san Paolo non era di Tano ma di Tarsio, tutti i preti, seguendo i francesi curé, abbé e vicaire, diventano curati, abbati e vicari, i quali poi non si ordinano sacerdoti, perseverano o si spretano, ma entrano, restano o escono dagli ordini; la vocazione sacerdotale si cambia in vocazione religiosa, gli ordinandi in novizi; appresso ai funerali non vanno i chierichetti ma i diaconi... Probabile che traducendo un romanzo che da cima a fondo tratta di argomenti religiosi e di cose cattoliche, una traduttrice, dotata di tanta ignoranza religiosa, non se ne accorga e non provi la convenienza di ricorrere ad un competente per revisione? Segno di sola ignoranza o anche di «vita discristianizzata» [sic!]? (p. 129). Purtroppo alcuni di questi qui pro quo si sono intromessi anche nel film; il quale poi se n’è aggiudicato uno che vale per trenta. Gli ittìti, poverini, sono diventati ìttici, con disdoro della scienza di Morand, che forse per questo si ritirò dalla cattedra della Sorbona.