NOTE
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1 Presidente l’italiano Luigi Chiarini. – Anche per aver programmato, e premiato con la Palma d’oro, Viridiana, di Buñuel, si distinse «per il trionfo del tormento monacale». (cfr V. PANDOLFI, in Cinema nuovo, 1961, n. 152, p. 363).

2 I principali scritti ascetici e mistici del padre GIOVANNI GIUSEPPE SURIN sono: 1) Catéchisme spirituel (Rennes 1657); 2) Dialogues spirituels, ou la perfection chrétienne expliquée pour toutes sortes de personnes (Parigi 1704); 3) Fondements de la vie spirituelle (Parigi 1667); 4) Guide spirituelle (Parigi 1801); 5) Les questions importantes à la vie spirituelle... (Parigi 1930). – I due principali scritti autobiografici sono: 1) Le triomphe de l’amour divin... (Parigi 1830); 20) La scienze expérimentale... (Avignone 1829).
Sui contenuti, valori e vicende editoriali delle stesse, cfr, tra gli altri, i seguenti autori, ai quali anche rimandiamo per più ampie e sistematiche notizie sul Surin, i suoi casi e la problematica che lo riguarda: 1) C. SOMMERVOGEL, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, tomo VII, Bruxelles 1896, coll. 1704-1716; 2) H. BREMOND, Histoire littéraire du sentiment religieux en France, vol. V, Parigi 1923, capp. III-V, p. 118 ss.; 3) L. MICHEL – F. CAVALLERA, Lettres spirituelles du P. Jean-Joseph Surin, 2 voll., Tolosa 1926 e 1928; 4) P. POURRAT, La spiritualité chrétienne, vol. IV, Parigi 1928, cap. III, p. 85 ss.; 5) Studes Carmélitaines (vari autori), ottobre 1938; 6) G. COLOMBO, Introduzione a I fondamenti della vita spirituale, Milano 1949 (cfr Civ. Catt. 1952, II, 177 ss.). 7) M. DE CERTEAU S.I., Introduction a: J.-J. SURIN, Guide spirituelle, Parigi 1963.

3 «Mademoiselle» Giovanna d’Arrénac, la quale, di fatto, restata vedova, vi entrò, consigliata dal figlio, nel 1638, morendovi l’11 ottobre 1652.

4 Medici e psichiatri, oggi vi rilevano tutti i sintomi di una esplosione di isterismo collettivo; psicologi e storici non escludono quella diagnosi, ma, specie rispetto alla povera protagonista, madre Giovanna degli Angeli – rea del supplizio del disgraziato Grandier, fantasiosa organizzatrice dell’epicomico suo pellegrinaggio ad Annecy via Parigi, e poi goffa intermediaria di consultazioni angeliche – l’integrano con l’ipotesi di morbosa sensualità e di più o meno consapevole ed interessata vanità, incrementata dalla credula superstizione del tempo e dal tornaconto politico di Richelieu, nonché del suo consigliere di Stato signor De Laubardemont; infine, teologi ed esorcisti non escludono, anzi questi ultimi espressamente ammettono, concomitante alle due già dette, la diagnosi di vera e propria possessione diabolica collettiva.

5 «Il terzo grado d’umiltà è perfettissimo: supposto il primo e il secondo, essendo uguale la lode e la gloria di sua divina Maestà, per imitare e identificarmi più concretamente a Cristo nostro Signore, voglio ed eleggo più la povertà con Cristo povero che la ricchezza, gli obbrobri con Cristo che ne è pieno, che ali onori; e desidero di più essere stimato fatuo e stolto per Cristo, che per primo fu ritenuto tale, che saggio e prudente in questo mondo» (IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, n. 167).

6 «Tamquam prodigium factus sum multis» fu il versetto del Salmo col quale, non senza una punta di furberia, ne compendiò la scomoda esistenza terrena l’incisore S. Gantrel, sotto l’arguto rame che di lui ci ha lasciato (cfr MICHEL.CAVALLERA, op. cit., vol. II, 429; vol. I, 128. Per il rame del Gantrel, cfr op. cit. al Frontespizio del vol. I).

7 Testo riportato in parte in Studes Carmélitaines, cit., pp. 172-173. È del 2 luglio 1698 (ivi, p. 177).

8 Ciò avvenne nel 1695. A questo proposito nota G. COLOMBO, nello studio introduttivo alla Dottrina spirituale del P. Lallemant (Milano 1945, p. 50): «La cosa si spiega. Basta riflettere che il sistema spirituale tracciato da Lallemant è un misto, in dosatura singolare, di introspezione psicologica e di illuminazione soprannaturale, di totalitarietà e di semplificazione, di rigore e di soavità, di sforzo ascetico e di abbandono mistico. È sufficiente una forzatura minima sull’uno o sull’altro elemento perché, perso quell’equilibrio superiore, sparisca la sicurezza della dottrina, e si apra un varco a estremismi inquietanti. È il caso del Surin, il più grande discepolo del Lallemant: il più grande, ma non il più normale».

9 Il Catéchisme nel 1660 e nel 1663, e i Fondements nel 1667: in verità, quando, ancora non iniziata la sua controversia col Fénelon, aveva poca o nulla pratica con gli scritti dei mistici (cfr POURRAT, op. cit. p. 227).

10 Si tratta del volume L’homme de Dieu en la personne du P. Jean-Joseph Seurin (Parigi 1683), tradotta in italiano da Cristoforo Pilati (Brescia 1755). I pochi dati biografici, che vi sono annegati in valanghe di pie elevazioni e di ardenti sospiri, hanno dato la materia al libretto di M. BOUIX: Vie du P. JeanJoseph Surin... (Parigi 1876).

11 Études Carmélitaines, cit., passim, pp. 166-176.

12 Ivi, pp. 235-236.

13 Ivi; ed anche M. BLEURER – G. BENEDETTI, in Enciclopedia Medica Italiana, vol. VIII, 1956, sn. Schizofrenia, col. 1477: «...fenomeno della doppia contabilità: ossia la contemporanea presenza di gravi fenomeni psicotici e di atteggiamenti mentali del tutto normali, gli uni accanto agli altri. Chi riesce a porsi in profondo contatto con l’infermo rimane spesso sorpreso della sua capacità a risolvere, in particolari situazioni, compiti intellettuali corrispondenti all’originario livello mentale. L’abnorme comportamento dell’infermo non corrisponde, come nei malati cerebropatici, ad un vero e proprio disfacimento delle capacità mentali. Queste ultime appaiono potenzialmente conservate e funzionano talora indipendentemente dal grado di demenza raggiunto dalla malattia».

14 La difficoltà è accresciuta dalle manomissioni, che i diversi editori degli scritti del Surin si sono disinvoltamente permessi di farvi.

15 H. BREMOND, op. cit., pp. 307 e 294.

16 TORQUATO TASSO, Prose, Milano 1959, pp. 894 e 957 ss. Il particolare dell’esorcista è a p. 955.

17 MICHEL-CAVALLERA, op. cit., 126 ss., 245 ss.

18 Ivi, pp. 254, 259, 264-265.

19 Op. cit., p. 282.

20 Il padre J. DE GUIBERT, maestro sicuro in materia (Études Carmélitaines, cit., p. 183 ss.), li riduceva a quattro; di cui due sono questioni di fatto, vertenti: 1) sulla sua reale o presunta possessione diabolica, e 2) sulla reale o presunta presenza in lui della contemplazione infusa; e due sono questioni teoriche, vale a dire: 1) se nelle anime pie la possessione diabolica possa verificarsi come prova purificante della «notte oscura», e 2) se la grazia della contemplazione infusa possa essere conferita a soggetti affetti da caratteristiche malattie mentali.
Esulando dal nostro argomento, e dalla nostra competenza, la discussione approfondita di esse, ci limiteremo a riferire, sunteggiandole al massimo, le risposte dello stesso sicuro autore; il quale, incline alla diagnosi del De Greeff, risolve la prima questione di fatto giudicando che «nulla, nelle descrizioni del Surin, ci forza ad ammettere in lui possessione diabolica». Circa la seconda, con estrema prudenza dettata da sottili considerazioni e distinzioni, egli osserva che, «pur non osando optare per un’affermativa pura e semplice, è molto probabile che il Surin abbia personalmente fruito della contemplazione infusa». Passando, quindi, alle due questioni teoriche, il De Guibert risponde positivamente alla prima soltanto nell’ipotesi di una ossessione puramente esterna (come il caso del Curato d’Ars); mentre, appoggiato a ragioni ed ad autori eccellenti, risponde dubitativamente per i casi di violenza diabolica e di possessioni vere e proprie. Finalmente risponde alla seconda in maniera sostanzialmente concorde con il referto medico, da noi sopra riportato, circa i rapporti possibili tra turbe nervose e libera attività intellettuale, escludendo di conseguenza la possibilità di grazie mistiche nei casi di pazzia totale, cioè di perdita permanente e definitiva della ragione; non necessariamente, invece, negli altri casi, pur rilevando ovviamente la differenza tra mistici giuridicamente proposti dalla Chiesa alla venerazione ed alla imitazione dei fedeli, e «santi» mistici non chiamati a siffatti pubblici riconosci menti.

21 Noi seguiamo la traduzione francese Les diables de Loudun (Parigi, Plon, 1953), alle cui pagine ci riferiamo.

22 Ovviamente non lo seguiamo là dove i suoi apprezzamenti ed illazioni contrastano con la dottrina cattolica e con i principi filosofici ad essa soggiacenti; per esempio, a proposito di religione, di morale e di mistica piegate ad interpretazioni razionalistiche (p. 84 ss.) o Junghiane (p. 112); di metapsichica trinitaria (p. 86 ss.), di mortificazione (p. 97), di paralleli taoisti con parole evangeliche e con Francesco di Sales (p. 101), ecc. Invece, molte pagine, per quanto discutibili nei loro particolari, nell’insieme ci sembrano degne di massima attenzione per i loro aspetti dottrinali, per esempio contro i totalitarismi del nostro secolo (p. 253 ss.), ed i succedanei della Grazia (Appendice, p. 272 ss.).

23 H. BREMOND, op. cit., p. 185.

24 Ivi, Appendice, p. 388 ss.

25 H. BREMOND (op. cit., p. 194 ss.) attribuisce questi eccessi anche all’epidemia di demoniaco causata dai libri allarmanti, quali l’in-quarto di DE L’ANCRE Tableau de l’inconstance des mauvais anges et démons..., edito a Parigi nel 1613, lettissimo anche dal Giansenio, e soprattutto dall’Histoire admirable... di SEBASTIANO DE MICHAELIS «che nella prima metà del secolo XVII seminò lo spavento nei conventi e vi diffuse le più deprecabili epidemie».

26 Così il dott. DE GREEF, in Études Carmélitaines, cit., p. 164.

27 «È un attacco contro il fanatismo che non ha fiducia nell’uomo, e vede dietro le sue tendenze e necessità naturali forze diaboliche... L’attacco vittorioso è condotto dal sentimento dell’amore... Perciò il film è un grido potente in difesa della vita vera, piena ed autentica, contro ogni fanatismo di demoni e di misticismo... contro la cecità di chi vede demoni nel cuor umano, privo di libero respiro e di luce» (W. SADKOWSKI, in Trybuna Ludu, 11 febbr. 1961); «Suryn è il simbolo di un mondo astratto. La sua forza è l’ignoranza del mondo reale... Suppliva con la liturgia all’azione. Ma la natura gli rivela finalmente i suoi conflitti, che la teologia gli teneva nascosti. Allora s’accorge che l’uomo può ribellarsi ai dogmi, e che non gli basta l’aspettativa della felicità eterna... Una cosa sola è sicura, ed è che la sua strada conduce fuori della realtà umana, verso mondi immaginari, non controllati dall’esperienza di nessuno» (S. GRZELEKI, in Zycie Warszawy, 11 febbr. 1961); «Tema del film è il dramma di due persone poste in una realtà irreale...: critiche di una ideologia assurda. Fa parte della corrente dei film polacchi che attaccano le mitologie parassitarie della nostra società... e di polemica contro ogni aberrazione mentale... che si oppone alle necessità più logiche della vita» (S. KALUZYSKI, in Polityka, 18 febbr. 1961); «La tesi del racconto è questa: i religiosi non sanno nulla dell’uomo e della sua vita... La pazzia delle suore e la ribellione della superiora significano la ripugnanza degli individui e dell’umanità contro ogni regola di vita ed ogni soffocante monotonia quotidiana... in spregio della libertà della natura» (B. MICHALEK, in Nowa Kultura, 19 febbr. 1961)...
E, come al solito, la nostra stampa marxista s’è affrettata a copiarli pedissequamente: C. TERZI, riferendone da Cannes, vi vede «la lotta tra la ragione e la superstizione in un’epoca in cui l’uomo sembra non riconoscere ancora la prima»; U. CASIRAGHI (in Filmcritica, 1961, n. 109, p. 271) vi vede «l’eterno conflitto tra la coscienza umana da una parte, e i precetti del conformismo dall’altra» e (in Cinema nuovo, 1961, n. 151, p. 233) «l’eterno conflitto tra le forti individualità e la schiavitù delle regole». Per T. CHIARETTI (Cinema 60, n. 10, p. 8) il film contiene «un racconto misteriosamente allusivo ad una generica condizione dell’uomo oppresso dalle regole: troppo poco per un regista semiufficiale di un paese socialista».

28 Revue Internationale du Cinéma, 1961, n. 52, p. 9.

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Articolo estratto dal volume II del 1965 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Ancora vietato in U.R.S.S., dopo quattro anni di attesa, il film Matka Joanna od Aniolov (Madre Giovanna degli Angeli), del polacco Jerzy Kawalerovicz, è uscito sugli schermi italiani. Anche se decorato dal premio speciale della giuria nel festival di Cannes 19611, lo ritenemmo e lo riteniamo un’offesa alla cultura ed alla vita religiosa cattolica, non riscattato dai gratuiti virtuosismi formali, di cui abbonda. Se ,ne persuaderà, crediamo, anche il lettore che ci seguirà, dalla presentazione del pietoso «caso Surin» al film girato su di esso, tramite una faziosa elaborazione letteraria.

Giovanni Surin

Nato a Bordeaux nell’anno 1600, da un ceppo familiare fertile, sembra, in paranoici, nell’infanzia isolata e taciturna Jean-Joseph Surin2 respirò un’aria eccessivamente misticheggiante. A undici anni, la canonizzazione diocesana di Ignazio di Loyola lo accende di santo entusiasmo verso i gesuiti, di cui è scolaro; a tredici, nelle ombre suggestive del Carmelo locale, dove, sotto una priora spagnola, già compagna della grande Teresa d’Avila, si santificava una sua sorella ed anelava a ritirarsi anche sua madre3, prova la prima sconcertante visione mistica; a sedici entra nel noviziato della Compagnia di Gesù. Supplendo con l’ingegno vivacissimo le scarse risorse della salute, in tredici anni compie la sua formazione religiosa e culturale; dopo di che viene avviato al «terz’anno di probazione», retto da quell’istruttore eccezionale che fu il padre Luigi Lallemant. E ne approfitta pure troppo, tanto da doverlo interrompere – maggio 1630 – con qualche mese d’anticipo. Viene quindi avviato a quei ministeri sacerdotali che, è lecito supporre, avrebbe santamente e fruttuosamente esercitato per tutta la vita come tanti altri suoi confratelli, se quattro anni dopo non gli fosse stato ordinato di occuparsi, anzi d’immergersi sino al collo, nella faccenda delle «indemoniate» di Loudun.

Ancora non è stata fatta luce, né forse mai si farà, sulla natura di quei tanto tristi quanto celebri fatti4; ma tutti convengono nel rilevare che, se c’era uno non indicato ad immischiarsi in quel torbido traffico, questi era proprio il padre Surin. Eccessivamente credulo, vedeva diavoli ed angeli dappertutto; appena trentaquattrenne e già logoro di forze e di nervi, ogni esperienza un po’ viva lo esaltava e poi lo prostrava; ingenuo e puro come un bambino, era incapace di sospettare negli altri, non diciamo una colpa, ma neanche una debolezza, ogni male attribuendo alla presenza attiva del «maligno».

Il provinciale, che, contro l’unanime parere dei suoi consiglieri, ve lo aveva inviato contando sulla sua indiscussa santità, s’accorge troppo tardi dello sbaglio. Spicca, dunque, un contrordine, che però non raggiunge mai il Surin; il quale, il 15 dicembre 1634, purtroppo, arriva a Loudun, ed una settimana dopo dà inizio agli esorcismi sulla superiora Giovanna degli Angeli, affidatagli dai confratelli, che ne riconoscono la preminenza in virtù e la pratica nelle vie mistiche. Ma non passa un mese che egli stesso dà in smanie tali da ritenersi ossesso. Esorcizzato a sua volta, resta, esorcista, a Loudun quasi due anni (1634-1636), e vi si riduce in sì deplorevole stato psichico che, contro le suppliche di Giovanna degli Angeli e la volontà dello stesso cardinale Richelieu, su ordine del generale Muzio Vitelleschi, ne è rimosso. Ma, rimessosi alquanto, qualche mese dopo vi viene rinviato a portare a termine la «liberazione» interrotta. Verificatasi questa pienamente il 15 ottobre 1637, il liberatore la paga cara. Affonda, infatti, in vent’anni di mutismo e d’inattività, interrotti da crisi di logorrea e di grafomania, di ossessioni suicide e di stranezze, per riemergere lentamente al possesso di sé soltanto cinque anni prima della sua morte, avvenuta nel 1665.

Maximum aenigma

«Geniale, o pazzo? Credulo, oppure ossesso e mistico? Fedele, o contrastante alla spiritualità propria dell’ordine?» – si chiesero i suoi contemporanei, sia dentro sia fuori della Compagnia di Gesù; e, di conseguenza, mentre alcuni lo trattarono a schiaffoni ed a bastonate, come allora ci si comportava con i mentecatti, oppure lo misero in condizione di non nuocere a sé e agli altri, come si fa con gli esaltati, altri lo ammirarono come eroico praticante del «terzo grado d’umiltà» ignaziano5, o sommerso nella purificante «notte oscura» di Giovanni della Croce; e mentre alcuni lo denunciarono a Roma come estra-vagante e scandaloso, altri si rubarono a vicenda e ne seguirono gli alti insegnamenti ascetici e mistici, da lui assimilati dal Lallemant. Insomma, a ragione, maximum aenigma (insolubile rompicapo) lo definiva il suo amico gesuita padre Bastide, scrivendone al padre Vitelleschi, mentre «factus sum magna quaestio», confermava candidamente lo stesso Surin all’altro suo amico, il padre d’Attichy6.

Né, con la morte del Surin cessarono le dispute sull’uomo e sulla sua dottrina. Mentre, infatti, il confratello padre Giacomo Nau ne denunciava, ancora scandalizzato, gli eccessi, di cui per vent’anni era stato testimone7, e mentre la traduzione italiana del suo Catéchisme spirituel, coinvolta nella polemica del quietismo, veniva posta all’Indice dei libri proibiti8: il grande Bossuet ne prefazionava con ampie lodi le opere9, il piissimo arcidiacono di Evreux, Enrico Maria Baudon, lo magnificava in un volume con anche eccessivo trasporto lirico10, ed i gesuiti della provincia d’Aquitania ne ottenevano l’inserzione del nome e della edificante memoria nel Menologio dell’Ordine. Ed anche oggi, per quanto sia quasi svanito ogni interesse passionale a suo riguardo, il caso Surin è più aperto che mai, in una problematica che, si sviluppa su due direzioni: letterario-dottrinale la prima, teologico-mistico la seconda: l’una e l’altra partenti da una ormai quasi indiscussa diagnosi psichiatrica.

Una diagnosi

Tale l’ha fornita, per esempio, sulla scorta dei suoi scritti autobiografici, il dottor Étienne De Greeff. Premesso che «oggi, in termini psichiatrici, si direbbe che il padre Surin presentava, in partenza, una complessione fortemente schizoide, ipersensibile, iperemotiva, ansiosa, tendente a volgere tutto al tragico e con una certa ipertrofia delle funzioni esclusivamente intellettive: quadro, questo – egli rileva – non propriamente morboso, e comune a molte personalità superiori, ed anche a geni, ma di precario equilibrio»; rilevate, inoltre, nel progredire della sua vita di religioso, varie «turbe e stati mentali gravi», «interpretazioni deliranti», «raptus malinconici» e «distorsioni estremamente profonde nel campo della personalità», tirando le somme egli conclude:

«Il padre Surin credeva di non essere un alienato, bensì soltanto di sembrarlo per effetto di possessione diabolica; tuttavia, stando ai dati rilevati, noi non possiamo non diagnosticare in lui una malattia mentale molto grave. Non semplice depressione, ma complicata di sintomi schizoidi comuni alle depressioni deliranti, accompagnati da interpretazioni e manie di persecuzione, illusioni, allucinazioni, impressioni di sdoppiamento di personalità in sé e negli altri, con inibizioni motrici e periodi di piccola agitazione...: tutto ciò richiama più una sindrome di psicosi, o demenza paranoica, che fenomeni riducibili a stati mistici, per quanto strani si possano immaginare... Se, come malato, egli ha superato con lode e merito la più dolorosa delle prove, bisogna pur riconoscere che, per le condizioni nelle quali la stessa prova lo pose, il problema religioso gli si presentò sotto una luce del tutto estranea alla psicologia normale»11.

Ed, a rincalzo, il dottor F. Achille-Delmas:

«Tutta la sua vita prova che egli ha sofferto periodi di grave malattia. Le testimonianze dei suoi contemporanei, ed i giudizi dipoi portati sulle sue confessioni, lo confermano senz’ombra di dubbio. Ma noi, in più, siamo in grado di affermare che le turbe da lui accusate appartengono a quelle alternanze di eccitazione e di depressione, che in psichiatria vanno sotto il nome di stati ciclotimici, o stati maniaco-depressivi»12.

Immaginiamo bene il disappunto del profano, il quale, conosciuta siffatta inequivoca perizia clinica sul Surin, si faccia poi a leggere o il lodativo saggio dottrinario-letterario che gli consacra, per esempio, il Bremond, o direttamente le sue opere e lettere. «Come — egli si domanderà — tanto acume psicologico e tanta elegante, viva ed immediata espressione letteraria, in un alienato?» – Vero è che gli psichiatri ci rassicurano distinguendo tra i periodi lucidi, intercalari, degli alienati, ed i periodi di turbe mentali in atto. Durante i primi – essi affermano – resta possibile anche la più piena e perfetta attività dell’intelligenza, mentre durante i secondi, soltanto nelle forme più gravi d’incoerenza e di delirio mentali viene profondamente sconvolta ogni attività intellettuale e morale; nelle forme più leggere e medie l’esperienza clinica autorizza conclusioni più benigne13.

Ne prendiamo atto. Del resto, a chi non sovviene dei casi di illustri nevropatici, quali, per esempio, quello di Auguste Comte, ricoverato tre volte per crisi maniaco-depressive, e quello più patetico e più noto stesso morbo né prima né dopo i suoi otto oscuri anni di segregazione nel Sant’Anna di Ferrara? Purtroppo, però, anche nel caso Surin, ciò non sempre basta per distinguere ciò che si possa e debba attribuire alla sua intelligenza genialissima da ciò che risenta, invece, anche della sua psicosi, tanto nelle lettere – più di duecentocinquanta, nella raccolta Michel-Cavallera, quasi tutte scritte prima o dopo i vent’anni della grande crisi –, quanto, e molto più, nelle opere ascetiche e mistiche, per lo più dettate, di getto, durante quell’infausto periodo14.

E si tratta, spesso, di testi di smagliante lucidità e bellezza letteraria:

«In lui — elogia commosso il Bremond — tutto tradisce un pensiero eccellente: ordine, saldezza, forza e profondità. Trasparente e sottile nell’analisi, saldo, armonico e sublime nella sintesi, egli sfoggia tutti i doni più preziosi dell’intelligenza. Non c’è linea che non armonizzi in un solo grande disegno, compatto e prodigiosamente fecondo... Nei suoi scritti si ritrova la lucidità di Malebranche, la flessibilità di Fontenelle, l’incanto di Fénelon ed il tatto di Francesco di Sales»15.

e, osiamo completare noi, l’acume ed il rigore psicologico del La Rochefoucauld e del La Bruyére.

Abbiamo fatto il nome del Tasso, di cui, a ragione ammirati, si ricordano e si commentano le lucide e pietose lettere che sui suoi mali egli andava scrivendo, tra gli altri, a Girolamo Mercuriale ed a Maurizio Cattaneo, una volta anch’egli protestando di aver «maggior bisogno dell’esorcista che del medico»16. Ma, a leggere la lettera con la quale il Surin comunica all’amico padre d’Attichy le sue prime esperienze di «posseduto», e soprattutto le diciassette che di lui ci restano come scritte «ad una religiosa sconosciuta» negli anni 1636-39, quando egli gemeva nel colmo della crisi17, ci si persuade che queste, non solo non temono il confronto con quelle, ma lo sostengono con onore. L’inarrestabile accumularsi delle sue angosce fisiche e morali, il disperato ritirarsi della sua natura, pur viva, dinanzi ad esse nella vana ricerca di un ridotto sicuro; quindi la stanchezza mortale di una lotta senza quartiere e senza respiro, e l’abbandonarsi ad onde troppo alte e troppo furiose per contrastarle; la furiosa sùbita fame di conforto nell’attività, nell’amicizia, insomma nelle poche creature che lo sollecitavano, ed il suo nauseato ritrarsene appena trovatele vuote e secche di consolazione, anzi amare e nemiche; il fastidioso ingombro del proprio corpo, il senso di vuoto in cui sprofonda la propria esistenza; il timore insieme ed il desiderio della morte, la gioia e la rabbia di vederla venire a rilento; la disperazione di sapersi per sempre ripudiato da Dio, pur sentendolo ed amandolo Padre amabilissimo, perciò l’anelarne insieme ed il paventarne la giusta vendetta...: tutto ciò è riferito nello stile più quotidiano, con paragoni di vivace icasticità, in ampie cadenze elegiache e con la lucida sicurezza di uno che, sdoppiato come si vede, giudica «oggettivamente» mentre tuttavia drammaticamente partecipa alla pietà di quel che descrive.

Ovviamente, a differenza del Tasso, il suo dramma resta sempre ed esclusivamente religioso; sicché, lungi dall’attardarsi in compiacimenti letterari o in una sterile pietà per se stesso, anche nelle punte parossistiche di esso le espressioni più paradossali si illuminano del riverbero della carità più eroica.

«Mentre la natura — scrive egli una volta — è in croce senza sollievo, l’anima è come legata ad una ruota, la quale, girando, la sbalza in alto e poi la sprofonda, e così senza respiro la travaglia e la tormenta. Ma tutto ciò non importa nulla. Per conto nostro dobbiamo attenderci soltanto questi strazi: ma siamo sicuri che Colui che è il nostro tesoro, la nostra vita ed il nostro amore, sta in pace ed è contento. E questo ci deve bastare».
«Che cosa importa — scrive altrove — se noi ci ribelliamo e ci arrovelliamo come diavoli? Egli è più forte di noi, e trova il suo piacere e la sua gloria nel vedere i suoi nemici umiliati ai suoi piedi. Le nostre rabbiose ribellioni non ostacolano affatto la sua opera, anzi concorrono ad accrescere la sua gloria».

Una volta sola, nella sua notte oscura, egli vede aprirsi anche una schiarita di speranza. Ecco, allora, prima che i vent’anni di tenebre si chiudano su di lui, i festosi termini conviviali con i quali descrive la sua certa attesa:

«Ora dobbiamo durarla, aspettando il meglio. Per mio conto, io attendo il giorno di rifarmi di tutta la mia fame, e satollarmi all’imbandigione promessaci dal Vangelo. Procuriamo di arrivarci tra i primi, e di occupare due posti vicini. Io spero di prendermi una satolla, da dimenticare tutti i digiuni passati: ché il Maestro di casa è ricco e munifico. Tanta è la voglia di vedermi alla sua tavola che già sento l’acquolina in bocca e già vedo stesa la tovaglia. Addio, dunque, aspettando l’ora di questo pranzo di gala. Io sto tutt’orecchi quando la campana sonerà per avvertirci. Che Dio in noi sia tutto!»18.

L’accento di profonda, calda e sincera pietà che spira da tutti i suoi scritti, l’inflessibile rigore ascetico in cui si struttura tutta la sua direzione spirituale e l’inconfondibile nota di «vissuto e sperimentato» che caratterizza i suoi apprezzatissimi scritti di mistica, hanno permesso, sì, al Bremond di definirlo grand mystique, le plus impitoyable des moralistes et le plus crucifiant des ascètes19 ma, come dicevamo, sono ben lungi dall’eliminare tutti i grossi problemi teologici del caso Surin20. Le numerose e minute distinzioni tra le quali avanzano le risposte degli specialisti possono sorprendere soltanto chi ignori l’estrema prudenza e, diciamo pure, l’estrema umiltà con la quale i veri uomini di scienza sogliono maneggiare le complesse realtà, oggetto dei loro studi, soprattutto quando si tratti di realtà in se stesse insondabili ed ineffabili, quali quelle che si svolgono nel più intimo e profondo segreto spirituale dell’uomo.

E tale, ma con complicazioni straordinariamente superiori alla norma, è il caso Surin. Per venirne a capo, si tratterebbe non soltanto di dipanare quel guazzabuglio che è ogni cuore umano, ma di sbrogliare anche l’inestricabile viluppo di libero e di irrefrenabile, di consapevole e di inconscio, di obiettivamente esperito e di soggettivamente integrato ricostruito e proiettato, in una psiche più o meno alterata; si tratterebbe, inoltre, di sondare non soltanto i sempre misteriosi rapporti di una grazia divina soprannaturale, sì, ma, diciamo così, normale, con la natura storicamente comune agli umani, bensì anche il posse ed il velle di una grazia divina più eminente, mossa ad elevare e divinizzare passivamente una natura umana personalmente sconvolta e traumatizzata, fino agli estremi limiti dell’attività consapevole: – misteri tutti, se altri mai, riservati alla mente ed al cuore di Dio, solo lucido ed indulgente scrutatore delle menti e dei cuori degli uomini (cfr Ap. 2,23).

L’ingiurioso romanzo dell’Iwaszkiewicz...

Nel 1943, col racconto Matka Joanna od Aniolov, del romanziere e drammaturgo polacco Jaroslaw Iwaszkiewicz, il caso Surin cadde dagli studi e dalle controversie dei dotti nella letteratura popolare, a livello dei romanzi d’appendice. Tradotto in francese nel 1959, il film omonimo del Kawalerowicz gli servì di lancio ritardato.

Trasferita l’azione da Loudun in una immaginaria Ludyn ai confini orientali della Polonia del secolo XVII, i personaggi portano i nomi trasparenti di Garniec (= Grandier), Joanna, Suryn...; ma tipi, psicologie e vicende sono manipolati, trasposti ed inventati in funzione di una tesi anticlericale ed antireligiosa. Il convento, tutto è meno che luogo di preghiera e di virtù religiose: gli uomini vi entrano liberamente, non certo per devozione, mentre le monache ne escono per ballare tresconi, al ritmo di quartine scurrili, insieme con cavalieri erranti, che ne usano e le piantano in asso. E «niente di male! — spiega l’autore — dato che la natura umana ha pure i suoi giocondi diritti, e la religione cattolica, con la sua assurda ascetica, o inganna le povere recluse, o pretende da loro l’impossibile, per chimerici paradisi!». Con questa premessa, che cosa volete che non capiti alla giovane superiora Joanna ed al candido Suryn? Ma sì: s’innamorano. Credono, i due, di colloquiare misticamente, ma la loro è tutta una simbologia sensuale, che hanno un bel fingere di ignorare! Ed anche le loro flagellazioni, si noti, in presenza l’uno dell’altra, la dicono lunga sull’aura erotica che, secondo il romanziere, senza scampo li circonda! Del resto, il Suryn, che sia innamorato cotto lo dimostra con i fatti. E che fatti! Non solo prega Dio di deviare su di lui i quattro diavoli di Joanna, ma, ottenuta la grazia, timoroso che questi non lo lascino per tornare a lei, li lega stabilmente a sé compiendo un crimine colossale. A notte fonda, con una scure – altra grossa trovata del romanziere – ammazza due bambini innocenti. Che più? Per dimostrare che il Suryn, tipo del prete cattolico, con tutta la sua illusoria mistica, altro non è che cieca guida di ciechi in un mondo moderno di cui non conosce un bel nulla, con un ultimo sforzo di inventiva, lo fa incontrare con un (ipotetico) caporabbino Reb Iché, e con esso lui lo fa giostrare in un torneo teologico, dopo il quale dovrebbero restare sul terreno, boccheggianti o morti: Dio, gli angeli, i demoni, la creazione, il peccato originale...: insomma tutto quell’ingombro di «non-realismo socialista» che sarebbe la religione.

Certo, occorre riconoscere all’Iwaszkiewicz abilità nello strutturare il racconto e maestria nel crearvi un’atmosfera di suggestiva allucinazione; tuttavia, nel chiudere le sue pagine si prova la vergogna di aver assistito ad una cattiva azione. Ché, non può dirsi altro che cattiva l’azione di uno scrittore, il quale, a mente fredda, insudicia, attribuendogli affetti disonesti e sacrileghi, nonché un doppio esecrando delitto, la memoria di un uomo degno di ogni rispetto per il suo ingegno e le sue virtù, o almeno di umana comprensione per i dolori sofferti. Sicché torna alla mente quanto, in altro contesto, san Paolo rimproverava agli «abbominevoli increduli, inetti a qualsiasi buona opera: – Tutto è puro per i puri; per gli impuri e gli infedeli nulla è puro, perché immonda è la mente e la coscienza loro» (Tt. 1,15-16).

... e l’onesta fatica di A. Huxley

Invece, dieci anni dopo (1952), con The Devils of Loudun21 il caso Surin entra nella saggistica romanzata, sì, ma culturalmente seria e civilmente onesta. Lo «studio storico e psicologico», come lo qualifica lo stesso autore, riveste un interesse straordinario, sia per la natura stessa dei fatti, inquadrati in un complesso ambientale simile a quello della Storia della colonna infame del nostro Manzoni, sia per la consumata arte descrittiva e narrativa con la quale l’intelligente ed ironico autore vi fa mostra della sua invidiabile e varia cultura. E bisogna onestamente riconoscere che, grazie a tutte le serie fonti storiche e letterarie alle quali l’Huxley coscenziosamente si è documentato, e forse anche ad un certo sincretismo mistico residuo nell’autore del Perennial Philosophy, Chiesa e dottrina cattolica, teologi e gesuiti ne escono niente affatto malconci, anzi con onore22; il Surin, poi, pur severamente ripreso nei suoi imperdonabili errori, è fatto oggetto di un umanissimo sentimento di compassione per i suoi mali fisici e morali, mentre come religioso, come mistico e come maestro di spirito, tutto sommato si porta via un elogio simile a quello tributatogli dal Bremond.

In particolare è degna di lode l’onestà con la quale l’Huxley pone nella loro vera luce i due aspetti più strani della condotta del Surin esorcista. È noto come – probabilmente per l’intromissione dello Stato, alla competenza del quale erano devoluti i casi di possessione diabolica23 –, contro ogni prescrizione del Rituale e contro la prassi dei più prudenti esorcisti anche di quel tempo24, gli esorcismi a Loudun si iniziassero e si continuassero non in privato, o almeno con quel minimo di discrezione che, non foss’altro, si addiceva al genere tutto particolare di quelle persone «indemoniate», bensì coram populo, anzi avanti a grandi personaggi ed a vere folle di curiosi, con tutti gli inconvenienti che si possono immaginare, sia di scherno verso le «ossesse», esibentisi in poco edificanti comportamenti, sia d’incremento al loro isterismo collettivo, che non cercava di meglio di quell’apparato da gran spettacolo per esibirsi, o per stentare a scomparire.

Il padre Surin ed i suoi confratelli – nota l’Huxley –, purtroppo non si avvidero di quella madornale stortura; quindi vi si adattarono di buon grado, e in quanto persuasissimi che a Loudun si trattasse soltanto di infestazione diabolica, stimarono molto conveniente in sé, ed a scopo apologetico, «dimostrare» agli increduli ed ai calvinisti, locali e forestieri, la realtà del soprannaturale, e sfruttare quegli eventi straordinari a tutta gloria di Dio e della sua Chiesa, ai voleri del quale, sotto l’incalzare degli esorcisti, i diavoli, o prima o dopo, finivano pure col rendere omaggio ed ubbidire. Eccessiva credulità, dunque, e discutibile procedimento apologetico25, nonostante le conversioni che di fatto ne seguirono.

Tuttavia – nota ancora coscienziosamente l’Huxley – fu merito grande ed unico del Surin instaurare, almeno con la superiora Giovanna degli Angeli a lui affidata, un metodo, qui porte la marque du génie26, sequestrandola dalle altre suore ed inducendola alla pratica di una vita ascetica e sacramentale sempre più austera e fervorosa, mediante esortazioni suggestive ed esercizi sistematici, da qualcuno qualificati metodo psicoterapico ante litteram; il quale, in realtà, – poco importa che si sia trattato di ossessione, di isterismo o di simulazione –, finì non solo col «liberare» la paziente, bensì anche con l’avviarla alla pratica delle più genuine virtù religiose, se non proprio, come si lusingò il Surin, ad introdurla nelle esperienze mistiche.

L’offesa del Kawalerowicz

Tra la faziosa parodia dell’Iwaszkiewicz e l’onesto saggio dell’Huxley, il quale, non foss’altro perché posteriore, doveva essere preso in considerazione da chi si volesse documentare sull’attendibilità storica della prima, un regista sensibile alla cultura ed alla verità, per non dire ai valori religiosi, non avrebbe ignorato il secondo. Non così il Kawalerowicz, il quale, non solo ha ignorato il saggio dell’inglese, ma ha seguito a paroletta il libello del suo connazionale.

In tal maniera, dalle pagine dell’Iwaszkiewicz portata sullo schermo, la figura del Surin – e diciamo pure: la religione, l’onestà e la cultura – hanno subìto un’ulteriore ingiuria. Non solo, infatti, il regista ha ignorato ogni obiettiva analisi delle condizioni storiche che inquadrano i fatti, né ha cercato di far luce nell’enigma psicologico e teologico dei loro complessi personaggi, bensì, con tutti i più icastici mezzi espressivi di cui il cinema dispone, e di cui egli stesso è indubbiamente padrone, ha rincarato la già pesante dose di areligione e di anticlericalismo contenuta nella tesi del romanzo.

Se, dunque, a quanto sembra, il regista è stato commissionato, dai suoi padroni politici, di fare, con Makta Joanna od Aniolov, un film che, in un paese ancora in maggioranza cattolico come la Polonia, servisse a preparare l’opinione pubblica alle misure legislative marxiste ventilate contro gli istituti religiosi, si deve riconoscere che egli ci ha messo tutta la sua buona volontà. Tuttavia, proprio la sua faziosità dimostrativa finisce con l’inficiare gli stessi valori artistici del film. Infatti, l’indubbia maestria con la quale il Kawalerowicz muove la macchina, gradua illuminazione scenografia e costume, ora in forti contrasti di bianco e di nero ed ora in raffinate tonalità di grigi, come pure la sua felice scelta e la condotta degli attori come tipi e nella loro interpretazione, in primi piani pretendenti tal quali significati psicologici ed in campi totali preziosi di ritmi figurativi, conferiscono, sì, al film un certo preziosismo stilistico – echeggiante ora le spoglie stasi di Bresson, ora le isolate figurazioni di Dreyer, ora l’allucinato mondo di Bergman –, ma spesso non vanno oltre un compiaciuto formalismo, alle preziosità stilistiche non corrispondendo né profondità né universalità di temi, né un qualsiasi vero dramma di realtà interiori.

Il convento, infatti, sorge, rinserrato nel suo muro di cinta, in un paesaggio uniformemente sterile e grigio, segnato soltanto dai resti neri e sinistri di una forca-rogo, a simboleggiare l’epoca fonda quando sugli uomini spadroneggiava una religione nemica di ogni libertà ed infesta ad ogni vita; sul fondo scabro delle mura del chiostro e dell’impiantito della chiesa svolazzano come larve gli ampi e fluttuanti abiti bianchi delle «ossesse» e la veste nera dell’esorcista, a significare gli inconsistenti terrori di anime, angeli e demoni, popolanti l’inesperimentabile mondo religioso; un cavallo brado scorazza per la campagna aperta, grossi maiali neri intralciano i passi dell’unica suora «libera», tutta la narrazione si alterna tra le assurde diavolerie del convento e le consistenti realtà di un’osteria plebea, a simboleggiare il contrasto tra fantasie irrazionali ed esperienze vitali, tra clausura e libertà; una enorme grata divisoria avanza dal fondo e viene a separare, nel solaio ascetico, l’«invasato» dall’«invasata», ma, attraverso le sue maglie, gli occhi si guardano e piangono, e le mani si stringono, a significare la rivincita della natura sugli assurdi impedimenti dell’ascesi; e la campanella, che in apertura di film, suonava argentina a richiamo degli erranti, a chiusura del film si agita invano, senza più voce, a simboleggiare l’ormai definitiva afonia di Chi tanto, troppo, gridò sul mondo, oggi per sempre liberato...

Non dubitiamo un momento della sodisfazione procurata ai committenti atei da siffatta dimostrazione visiva, ai quali la stampa marxista si affrettò di testimoniare che lo scopo inteso era stato pienamente raggiunto27. Per conto nostro, dopo aver giudicato il film spesso fiacco e falso sotto l’aspetto artistico, rileviamo l’ennesima occasione mancata dal cinema di mostrarsi capace di rispettare i valori della cultura e dell’onesto convivere umano. Anzi, date le circostanze nelle quali il film è stato girato, e l’intento col quale è stato forzosamente divulgato, vi denunciamo uno di quegli atti di vile aggressione che sono il triste vanto dei regimi di prepotenza. Plaudiamo, quindi, al Centro Cattolico Cinematografico polacco, il quale, dopo aver escluso il film per tutti, coraggiosamente commentò così il suo giudizio: «Si avverte l’arroganza degli autori, sicuri della loro impunità: approfittano della forza di cui dispongono per aggredire e provocare pubblicamente i cattolici inermi»28.

Riguardo, poi, al perseverante distributore italiano, il commento può essere uno solo. Ovviamente, anche per i cinematografari, pecunia non olet! Pur di arraffarne non arrossiscono di servire, alla fame svogliata del cólto e dell’inclita, fricassee straniere di erotismo violenza e sacrilègi, quasii che non bastassero quelle, insuperabili, della produzione nazionale.

1 Presidente l’italiano Luigi Chiarini. – Anche per aver programmato, e premiato con la Palma d’oro, Viridiana, di Buñuel, si distinse «per il trionfo del tormento monacale». (cfr V. PANDOLFI, in Cinema nuovo, 1961, n. 152, p. 363).

2 I principali scritti ascetici e mistici del padre GIOVANNI GIUSEPPE SURIN sono: 1) Catéchisme spirituel (Rennes 1657); 2) Dialogues spirituels, ou la perfection chrétienne expliquée pour toutes sortes de personnes (Parigi 1704); 3) Fondements de la vie spirituelle (Parigi 1667); 4) Guide spirituelle (Parigi 1801); 5) Les questions importantes à la vie spirituelle... (Parigi 1930). – I due principali scritti autobiografici sono: 1) Le triomphe de l’amour divin... (Parigi 1830); 20) La scienze expérimentale... (Avignone 1829).
Sui contenuti, valori e vicende editoriali delle stesse, cfr, tra gli altri, i seguenti autori, ai quali anche rimandiamo per più ampie e sistematiche notizie sul Surin, i suoi casi e la problematica che lo riguarda: 1) C. SOMMERVOGEL, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, tomo VII, Bruxelles 1896, coll. 1704-1716; 2) H. BREMOND, Histoire littéraire du sentiment religieux en France, vol. V, Parigi 1923, capp. III-V, p. 118 ss.; 3) L. MICHEL – F. CAVALLERA, Lettres spirituelles du P. Jean-Joseph Surin, 2 voll., Tolosa 1926 e 1928; 4) P. POURRAT, La spiritualité chrétienne, vol. IV, Parigi 1928, cap. III, p. 85 ss.; 5) Studes Carmélitaines (vari autori), ottobre 1938; 6) G. COLOMBO, Introduzione a I fondamenti della vita spirituale, Milano 1949 (cfr Civ. Catt. 1952, II, 177 ss.). 7) M. DE CERTEAU S.I., Introduction a: J.-J. SURIN, Guide spirituelle, Parigi 1963.

3 «Mademoiselle» Giovanna d’Arrénac, la quale, di fatto, restata vedova, vi entrò, consigliata dal figlio, nel 1638, morendovi l’11 ottobre 1652.

4 Medici e psichiatri, oggi vi rilevano tutti i sintomi di una esplosione di isterismo collettivo; psicologi e storici non escludono quella diagnosi, ma, specie rispetto alla povera protagonista, madre Giovanna degli Angeli – rea del supplizio del disgraziato Grandier, fantasiosa organizzatrice dell’epicomico suo pellegrinaggio ad Annecy via Parigi, e poi goffa intermediaria di consultazioni angeliche – l’integrano con l’ipotesi di morbosa sensualità e di più o meno consapevole ed interessata vanità, incrementata dalla credula superstizione del tempo e dal tornaconto politico di Richelieu, nonché del suo consigliere di Stato signor De Laubardemont; infine, teologi ed esorcisti non escludono, anzi questi ultimi espressamente ammettono, concomitante alle due già dette, la diagnosi di vera e propria possessione diabolica collettiva.

5 «Il terzo grado d’umiltà è perfettissimo: supposto il primo e il secondo, essendo uguale la lode e la gloria di sua divina Maestà, per imitare e identificarmi più concretamente a Cristo nostro Signore, voglio ed eleggo più la povertà con Cristo povero che la ricchezza, gli obbrobri con Cristo che ne è pieno, che ali onori; e desidero di più essere stimato fatuo e stolto per Cristo, che per primo fu ritenuto tale, che saggio e prudente in questo mondo» (IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, n. 167).

6 «Tamquam prodigium factus sum multis» fu il versetto del Salmo col quale, non senza una punta di furberia, ne compendiò la scomoda esistenza terrena l’incisore S. Gantrel, sotto l’arguto rame che di lui ci ha lasciato (cfr MICHEL.CAVALLERA, op. cit., vol. II, 429; vol. I, 128. Per il rame del Gantrel, cfr op. cit. al Frontespizio del vol. I).

7 Testo riportato in parte in Studes Carmélitaines, cit., pp. 172-173. È del 2 luglio 1698 (ivi, p. 177).

8 Ciò avvenne nel 1695. A questo proposito nota G. COLOMBO, nello studio introduttivo alla Dottrina spirituale del P. Lallemant (Milano 1945, p. 50): «La cosa si spiega. Basta riflettere che il sistema spirituale tracciato da Lallemant è un misto, in dosatura singolare, di introspezione psicologica e di illuminazione soprannaturale, di totalitarietà e di semplificazione, di rigore e di soavità, di sforzo ascetico e di abbandono mistico. È sufficiente una forzatura minima sull’uno o sull’altro elemento perché, perso quell’equilibrio superiore, sparisca la sicurezza della dottrina, e si apra un varco a estremismi inquietanti. È il caso del Surin, il più grande discepolo del Lallemant: il più grande, ma non il più normale».

9 Il Catéchisme nel 1660 e nel 1663, e i Fondements nel 1667: in verità, quando, ancora non iniziata la sua controversia col Fénelon, aveva poca o nulla pratica con gli scritti dei mistici (cfr POURRAT, op. cit. p. 227).

10 Si tratta del volume L’homme de Dieu en la personne du P. Jean-Joseph Seurin (Parigi 1683), tradotta in italiano da Cristoforo Pilati (Brescia 1755). I pochi dati biografici, che vi sono annegati in valanghe di pie elevazioni e di ardenti sospiri, hanno dato la materia al libretto di M. BOUIX: Vie du P. JeanJoseph Surin... (Parigi 1876).

11 Études Carmélitaines, cit., passim, pp. 166-176.

12 Ivi, pp. 235-236.

13 Ivi; ed anche M. BLEURER – G. BENEDETTI, in Enciclopedia Medica Italiana, vol. VIII, 1956, sn. Schizofrenia, col. 1477: «...fenomeno della doppia contabilità: ossia la contemporanea presenza di gravi fenomeni psicotici e di atteggiamenti mentali del tutto normali, gli uni accanto agli altri. Chi riesce a porsi in profondo contatto con l’infermo rimane spesso sorpreso della sua capacità a risolvere, in particolari situazioni, compiti intellettuali corrispondenti all’originario livello mentale. L’abnorme comportamento dell’infermo non corrisponde, come nei malati cerebropatici, ad un vero e proprio disfacimento delle capacità mentali. Queste ultime appaiono potenzialmente conservate e funzionano talora indipendentemente dal grado di demenza raggiunto dalla malattia».

14 La difficoltà è accresciuta dalle manomissioni, che i diversi editori degli scritti del Surin si sono disinvoltamente permessi di farvi.

15 H. BREMOND, op. cit., pp. 307 e 294.

16 TORQUATO TASSO, Prose, Milano 1959, pp. 894 e 957 ss. Il particolare dell’esorcista è a p. 955.

17 MICHEL-CAVALLERA, op. cit., 126 ss., 245 ss.

18 Ivi, pp. 254, 259, 264-265.

19 Op. cit., p. 282.

20 Il padre J. DE GUIBERT, maestro sicuro in materia (Études Carmélitaines, cit., p. 183 ss.), li riduceva a quattro; di cui due sono questioni di fatto, vertenti: 1) sulla sua reale o presunta possessione diabolica, e 2) sulla reale o presunta presenza in lui della contemplazione infusa; e due sono questioni teoriche, vale a dire: 1) se nelle anime pie la possessione diabolica possa verificarsi come prova purificante della «notte oscura», e 2) se la grazia della contemplazione infusa possa essere conferita a soggetti affetti da caratteristiche malattie mentali.
Esulando dal nostro argomento, e dalla nostra competenza, la discussione approfondita di esse, ci limiteremo a riferire, sunteggiandole al massimo, le risposte dello stesso sicuro autore; il quale, incline alla diagnosi del De Greeff, risolve la prima questione di fatto giudicando che «nulla, nelle descrizioni del Surin, ci forza ad ammettere in lui possessione diabolica». Circa la seconda, con estrema prudenza dettata da sottili considerazioni e distinzioni, egli osserva che, «pur non osando optare per un’affermativa pura e semplice, è molto probabile che il Surin abbia personalmente fruito della contemplazione infusa». Passando, quindi, alle due questioni teoriche, il De Guibert risponde positivamente alla prima soltanto nell’ipotesi di una ossessione puramente esterna (come il caso del Curato d’Ars); mentre, appoggiato a ragioni ed ad autori eccellenti, risponde dubitativamente per i casi di violenza diabolica e di possessioni vere e proprie. Finalmente risponde alla seconda in maniera sostanzialmente concorde con il referto medico, da noi sopra riportato, circa i rapporti possibili tra turbe nervose e libera attività intellettuale, escludendo di conseguenza la possibilità di grazie mistiche nei casi di pazzia totale, cioè di perdita permanente e definitiva della ragione; non necessariamente, invece, negli altri casi, pur rilevando ovviamente la differenza tra mistici giuridicamente proposti dalla Chiesa alla venerazione ed alla imitazione dei fedeli, e «santi» mistici non chiamati a siffatti pubblici riconosci menti.

21 Noi seguiamo la traduzione francese Les diables de Loudun (Parigi, Plon, 1953), alle cui pagine ci riferiamo.

22 Ovviamente non lo seguiamo là dove i suoi apprezzamenti ed illazioni contrastano con la dottrina cattolica e con i principi filosofici ad essa soggiacenti; per esempio, a proposito di religione, di morale e di mistica piegate ad interpretazioni razionalistiche (p. 84 ss.) o Junghiane (p. 112); di metapsichica trinitaria (p. 86 ss.), di mortificazione (p. 97), di paralleli taoisti con parole evangeliche e con Francesco di Sales (p. 101), ecc. Invece, molte pagine, per quanto discutibili nei loro particolari, nell’insieme ci sembrano degne di massima attenzione per i loro aspetti dottrinali, per esempio contro i totalitarismi del nostro secolo (p. 253 ss.), ed i succedanei della Grazia (Appendice, p. 272 ss.).

23 H. BREMOND, op. cit., p. 185.

24 Ivi, Appendice, p. 388 ss.

25 H. BREMOND (op. cit., p. 194 ss.) attribuisce questi eccessi anche all’epidemia di demoniaco causata dai libri allarmanti, quali l’in-quarto di DE L’ANCRE Tableau de l’inconstance des mauvais anges et démons..., edito a Parigi nel 1613, lettissimo anche dal Giansenio, e soprattutto dall’Histoire admirable... di SEBASTIANO DE MICHAELIS «che nella prima metà del secolo XVII seminò lo spavento nei conventi e vi diffuse le più deprecabili epidemie».

26 Così il dott. DE GREEF, in Études Carmélitaines, cit., p. 164.

27 «È un attacco contro il fanatismo che non ha fiducia nell’uomo, e vede dietro le sue tendenze e necessità naturali forze diaboliche... L’attacco vittorioso è condotto dal sentimento dell’amore... Perciò il film è un grido potente in difesa della vita vera, piena ed autentica, contro ogni fanatismo di demoni e di misticismo... contro la cecità di chi vede demoni nel cuor umano, privo di libero respiro e di luce» (W. SADKOWSKI, in Trybuna Ludu, 11 febbr. 1961); «Suryn è il simbolo di un mondo astratto. La sua forza è l’ignoranza del mondo reale... Suppliva con la liturgia all’azione. Ma la natura gli rivela finalmente i suoi conflitti, che la teologia gli teneva nascosti. Allora s’accorge che l’uomo può ribellarsi ai dogmi, e che non gli basta l’aspettativa della felicità eterna... Una cosa sola è sicura, ed è che la sua strada conduce fuori della realtà umana, verso mondi immaginari, non controllati dall’esperienza di nessuno» (S. GRZELEKI, in Zycie Warszawy, 11 febbr. 1961); «Tema del film è il dramma di due persone poste in una realtà irreale...: critiche di una ideologia assurda. Fa parte della corrente dei film polacchi che attaccano le mitologie parassitarie della nostra società... e di polemica contro ogni aberrazione mentale... che si oppone alle necessità più logiche della vita» (S. KALUZYSKI, in Polityka, 18 febbr. 1961); «La tesi del racconto è questa: i religiosi non sanno nulla dell’uomo e della sua vita... La pazzia delle suore e la ribellione della superiora significano la ripugnanza degli individui e dell’umanità contro ogni regola di vita ed ogni soffocante monotonia quotidiana... in spregio della libertà della natura» (B. MICHALEK, in Nowa Kultura, 19 febbr. 1961)...
E, come al solito, la nostra stampa marxista s’è affrettata a copiarli pedissequamente: C. TERZI, riferendone da Cannes, vi vede «la lotta tra la ragione e la superstizione in un’epoca in cui l’uomo sembra non riconoscere ancora la prima»; U. CASIRAGHI (in Filmcritica, 1961, n. 109, p. 271) vi vede «l’eterno conflitto tra la coscienza umana da una parte, e i precetti del conformismo dall’altra» e (in Cinema nuovo, 1961, n. 151, p. 233) «l’eterno conflitto tra le forti individualità e la schiavitù delle regole». Per T. CHIARETTI (Cinema 60, n. 10, p. 8) il film contiene «un racconto misteriosamente allusivo ad una generica condizione dell’uomo oppresso dalle regole: troppo poco per un regista semiufficiale di un paese socialista».

28 Revue Internationale du Cinéma, 1961, n. 52, p. 9.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151