Articolo estratto dal volume I del 1970 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
“ALLA MEMORIA DEI CARBONARI – ANGELO TARGHINI E LEONIDA MONTANARI – CHE LA CONDANNA DI MORTE – ORDINATA DAL PAPA – SENZA PROVE E SENZA DIFESA – IN QUESTA PIAZZA SERENAMENTE AFFRONTARONO – IL 23 NOVEMBRE 1825”
Questa la lapide che “L’ASSOCIAZIONE DEMOCRATICA G. TAVIANI ARQUATI – PER VOLONTA AMMONITRICE DI POPOLO – POSE – IL 2 GIUGNO 1909” presso la romana Porta del Popolo1, e che da qualche mese va richiamando una folla inconsueta di inconsueti lettori. Accorrono essi da un cinema sito al lato opposto della Piazza, allo sbocco del Corso, dove si proietta il film di Luigi Magni: Nell’anno del Signore; film che, raccontato quel luttuoso evento, nell’ultima inquadratura riproduce appunto la lapide, poi, con una panoramica, sembra dire al colto ed all’inclita: “Sta qui vicino: due passi, e ve ne cerziorate de visu!”.
Molti spettatori, come s’è detto, eseguono. Dopo di che si ritengono autorizzati a credere che tutto quello che il film ha raccontato risponde sostanzialmente a verità, come – purtroppo! – sostanzialmente risponde a verità quello che la lapide afferma. Le cose, invece, non stanno così; perché, non solo abbondano nel film fantasiosi particolari di contorno2, ma anche falsità grossolane, che dimostrano negli autori del film, oppure nelle fonti alle quali essi hanno attinto3, un anticlericalismo becero ed un anacronistico recupero, in termini di “contestazione” odierna, dei due giustiziati.
Il falso più pacchiano riguarda il cardinale Agostino Rivarola, presentato nel film quale esecrando autore di un processo e di una condanna, cui in realtà fu del tutto estraneo. Infatti, a presiedere il processo, ed a firmare la condanna del 21 settembre 1825 contro i carbonari "romani”, fu il governatore di Roma Tommaso Bernetti. Probabilmente – “Pensa bene, ché non pecchi!” –, il regista, o chi per lui, deve aver equivocato questa condanna con quella che il Rivarola pronunciò, sì, ma nell’agosto 1825, e contro i carbonari "romagnoli”; oppure – “Pensa male, ché l’azzecchi!” deve aver ragionato così: Nel film ci sta bene un cardinale, con tanto di porpora e pompons sul cappello. Ma il Bernetti, cardinale, nel 1825, non lo era (lo divenne nel 1826). Mettiamoci, dunque, il Rivarola! Decisa la sostituzione, niente scrupoli per gli altri falsi. Al Rivarola – che, in ogni caso, si trovava in Ravenna – il regista fa leggere la sentenza ai due condannati (notificata loro, invece, dal cav. Ricci, provveditore dell’arciconfraternita incaricata di assistere spiritualmente i giustiziandi); e, per giunta, gliela fa leggere in un’assurda scenografia da Santa Inquisizione (il Galilei della Cavani ha fatto scuola!). Allo stesso – e qui affiora l’anticlericalismo più pacchiano – addossa un’impietosa intransigenza giustiziale del tutto contraria alla remissività da lui mostrata nel processo romagnolo4. Non basta: al cardinale attribuisce la bella scoperta che “Gli ebrei sono esseri umani quasi come noi”, e, per soprammercato, sia pure per bocca di un ignorante calzolaio, attribuisce un interessamento, non propriamente pastorale, per una sua vezzosa e giovane serva5.
Un’altra serie di falsi storici riguarda lo stesso papa Leone XII. Sorvoliamo sulle intenzioni che, secondo il film, l’avrebbero spinto ad allargare il ghetto ed a far apporre i famosi cancelletti alle osterie di Roma, e fermiamoci alla pretesa sua riluttanza di permettere la vaccinazione contro il vaiolo “quale invenzione dei nemici della Chiesa, e perciò diabolica”. La verità è tutt’altra. Consta, infatti, che già sotto Pio VII, il 20 giugno 1822, il segretario di Stato card. Consalvi “emanava un minuzioso editto sulla vaccinazione contro il vaiolo, prescrivendo l’erezione di commissioni provinciali, disponendo per la sorveglianza chirurgica, le competenze dei medici comunali, l’istruzione di quelli condotti”; disponendo, inoltre, che “tutte le petizioni che si avanzeranno per godere di qualche tratto di beneficenza sovrana dovranno essere accompagnate da un certificato, dal quale risulti che il chiedente, essendo padre di famiglia, ha fatto praticare la vaccinazione”6. Se queste disposizioni, tanto sotto Pio VII quanto sotto Leone XII, male si attuarono, la colpa non fu né dei papi né dei loro governi7, bensì dei pregiudizi popolari, e degli stessi medici, nonché dei parroci. Questi ultimi, un po’ perché ritenevano “molesto, difficile ed odiosissimo il compilare gli elenchi trimestrali dei nati, e soprattutto di esporre i motivi della non eseguita vaccinazione, stante l’odiosità che ne deriva”. Vista l’inutilità di insistere, con l’editto del 22 agosto 1824, Leone XII si limitò a rendere libero quel che Pio VII aveva reso obbligatorio8: tutto qui.
Una terza serie di falsificazioni serve a travestire il nostro film-tragicommedia in un Come ti erudisco il pupo (rivoluzionario). Allo scopo, gli autori battono due vie. La prima, piuttosto “razionale”, consiste nel porre in bocca ai personaggi sentenziosi enunciati, del tipo “Non si fa una rivoluzione senza il popolo!” “Il popolo fa la sua buona rivoluzione anche con le pasquinate!”, e nel tipizzare negli stessi personaggi diverse alternative di maturazione rivoluzionaria9; ma si tratta, a dir poco, di epifonemi anacronistici rispetto alla Roma di quel tempo, e di sommarie evoluzioni psicologiche a livello di fotoromanzo, su cui perciò è inutile insistere. L’altra via, prevalentemente emotiva, consiste nell’aureolare con tutte le più belle luci, fisiche e morali, i rivoluzionari – attuali (i carbonari) o potenziali (il popolo) – e, ovviamente, nel caricare di ombre, fisiche e morali i “conservatori”. Ora, almeno per i primi, consta piuttosto il contrario.
Il tutt’altro che clericale D’Azeglio10, che di carbonari “ne conosceva molti... perché nel mondo artistico ci si mescola un po’ di tutto”, e che aveva conosciuto di persona anche i due Nostri, ricorda che “in quel tempo in Roma l’opposizione politica era ristretta a qualche società segreta d’infima categoria... , la schiuma sopraffina della canaglia, che si riuniva misteriosamente nelle vendite de’ Carbonari, nelle osterie”. Del Montanari-uomo scrive che era “un bel tipo di romagnolo: bruno, alto, forte di corpo, d’animo ardito ed appassionato”; ma il Montanari-carbonaro lo annovera tra le “infelici esistenze che..., mancanti... d’un sicuro criterio per poter separare... il bene dal male..., rimangono vittime della maggiore e più pericolosa di tutte le illusioni, quella di considerare... atto de più... virtuoso eroismo ciò che in realtà non è altro se non un esecrabile delitto”: sicché, “data la pena di morte, a Montanari non fu fatto torto”. Del Targhini, poi, dà questo giudizio: “Era figliolo del cuoco del papa. Non ho idea che possa esistere una natura più perversa della sua. Fu il cattivo genio della maggior parte di quei suoi compagni... V’era in lui di che fare un valentuomo, e morì del supplizio degli assassini”.
Certamente, non si può non riconoscere, nella maniera stoica con la quale i due infelici affrontarono il supplizio, un’eccezionale forza d’animo. Tanto meno, perciò, era necessario alterare ancora una volta la verità dei fatti, come invece fa il film, presentando i due quali esaltatori, sino all’ultimo momento, della libertà politica, ed in particolare mettendo in bocca al Montanari una discorsa sulla ghigliottina quale unico cambiamento della rivoluzione francese adottato dal governo papale. Dal Libro delle giustizie lasciatoci dalla confraternita di cui sopra, risulta che le rare risposte del Montanari furono quelle di un uomo sdegnato perché, innocente dell’assassinio imputatogli, gli era stato negato anche il diritto di difesa; e che le risposte del Targhini, invece, furono soltanto quelle di un ateo confesso, il quale tale protestava di voler morire, a scorno di tutti i preti ed i “confrati” confortatori che lo circondavano, decisi a salvargli l’anima.
Dallo stesso Libro delle giustizie risulta pure che quei “confortatori” furono almeno una dozzina, tra i quali “un padre dell’Oratorio, famoso per le conversioni da lui ottenute; poi due padri Passionisti, anche loro famosi per l’arte di sapersi insinuare nell’animo dei più tristi e indurati peccatori; infine, un dotto prelato...”. Nel film, per “confortare” i due condannati – e più gli spettatori – basta ed avanza un superistrionico Alberto Sordi, camuffato in laido monumento di idiozia fratesca, superato soltanto dal gesuita, camuso sdentato e strabico, incaricato di predicare – o meglio: di scagliare insulti e oltraggi – agli ebrei.
Un bel tour de force di antistoria e di anticlericalismo, nel quale sono stati sprecati un bravo Salerno (il Commissario), un eccellente Tognazzi (il Rivarola) ed un superbo Manfredi (il ciabattino Cornacchia-Pasquino) in prestazioni degne di una miglior causa.
1 La lapide segna il luogo ove furono temporaneamente deposti i due cadaveri, poi sepolti (come “impenitenti’) lungo il Muro Torto. All’inaugurazione, avvenuta l’11 giugno, parlarono i deputati Macaggi e Barzilai: autore, quest’ultimo, dell’iscrizione. Con qualche inesattezza la Civiltà Cattolica (1909 III 10) ne riferì. Il cronista, dopo aver riportato l’infamante giudizio del D’Azeglio sul Targhini (ed aver taciuto le lodi dello stesso sul Montanari), nello stile polemico del tempo termina così il pezzo: “Ed in perfetta coerenza di sentimenti, i vindici di tanta grandezza passando in corteo fischiarono avanti all’abitazione del Cardinal Vicario e si sciorinarono in salamelecchi sotto il palazzo Giustiniani, sede della massoneria”.
2 Tra gli altri: il fattaccio avvenne in un vicolo buio presso S. Andrea della Valle e non nell’illuminatissimo – allora! – Gianicolo. ll legale bellunese (e non principe romano) Giuseppe Pontini venne pugnalato, alle spalle e non al petto, dal suo “caro cugino” Targhini, e non dal Montanari; colpito – egli credé – a morte, si rifugiò presso un barbiere, quindi venne trasportato in carrozza e curato all’ospedale Santo Spirito: il darlo per abbandonato sul selciato, e poi allogato nel suo letto principesco sulla pubblica piazza, è una gag più pietosa che spiritosa. Angelo Targhini non era un nobile modenese ma il figlio di un cuoco pontificio, bresciano; e non fu iniziato carbonaro dal Montanari, ma da Vincenzo Fattiboni, come lui detenuto a Castel S. Angelo (per omicidio), e forse nel 1819 a Pesaro da Francesco Perfetti. È poco probabile che il commissario di polizia fosse in amicizia col Montanari, dato che il giovane medico, proveniente da Bologna, esercitava a Rocca di Papa. Anche meno probabile è che le ’due vecchiacce” Letizia e Paolina Bonaparte, all’epoca del fattaccio, passassero il tempo a spiare ed a spettegolare in quel di Campitelli, perché Madame Mère, mezza cieca, abitava a Piazza Venezia, e Paolina Borghese (che aveva abitato presso Porta Pia) moriva a Firenze il 9 giugno di quell’anno 1825.
3 Verosimilmente le due principali fonti sono state il pamphlet di COSTANZO PREMUTI, In memoria di Angelo Targhini e Leonida Montanari, edito a Roma nel 1909 dalla stessa ’’Giuditta Tavani Arquati” promotrice della lapide, ed il volumetto Cospirazioni romane, di EMILIO DEL CERRO (Roma 1899), che anch’io tengo presenti. Inoltre ho sotto gli occhi, oltre al MORONI (sub vocibus: Ebrei, Carbonari, Ghetto, Leone XII, Ravenna, Rivarola, ecc.): I miei ricordi, di MASSIMO D’AZEGLIO; Tre pontificati, di ERNESTO VERCESI (Torino 1936), e specialmente il documentatissimo La Chiesa tra Lamennais e Metternich, di RAFFAELE COLAPIETRA (Brescia 1963). Il triste episodio invece, è ignorato dagli “apologisti” di Leone XII: ARTAUD DI MONTOR, Storia ael pontefice Leone XII (Milano 1893) e N. WISEMAN, Quattro pontefici a Roma (Modena 1957).
4 Nota il COLAPIETRA (op. cit., 261 ss.) che “da un punto di vista umanitario la sentenza Rivarola fu tutt’altro che quel monumento di spietata ferocia che la pubblicistica liberale ha tramandato”; infatti, su 144 giudicati, proprio per iniziativa de Rivarola, nessuno fu giustiziato. Ed è inutile rilevare l’altro falso del film, che attribuisce allo stesso cardinale la repressione del brigantaggio a sud di Roma, sia stata essa – dato e non concesso che abbia sortito buon esito – un’infamia o un merito.
5 Più grave insinuazione nel film, sia pure da parte di un ubriaco, quella avanzata sul conto dello stesso pontefice Leone XII, beffeggiato come possibile padre di un “papetto ereditario”.
6 COLAPIETRA, op. cit., 113 ss.
7 Peccato che sia sfuggito agli autori del film questo brano epistolare del dileggiato card. Rivarola, anteriore allo stesso editto del ConsaIvi: “Mi è venuto un pensiero, anzi una decisa determinazione d’introdurre l’utilissima pratica della vaccinazione... La cosa bisogna farla senza strepito... So che le introduzioni nuove incontrano sempre grandi opposizioni e fanno fare molte ciarle, ma io sopra questo non sento ragione, voglio che si faccia, e sta alla prudenza di V.S.Ill.ma di pelare, come suol dirsi, la gallina senza farla strillare” (ivi, 26).
8 L’editto concludeva così: “Affinché quelli che volessero far uso di detta inoculazione vaccina abbiano i mezzi di profittarne, potranno rivolgersi ai pubblici farmacisti per l’occorrente materia, e servirsi de’ professori locali che loro piacerà”. Che si trattasse di una manifestazione oscurantista lo affermò la stampa liberale, specialmente francese, del tempo. Ma già il 4 giugno 1824 il nunzio a Parigi mons. Macchi aveva precisato: "Quoique en général l’inoculation de ce virus ne soit pas, et n’ait jamais été en vogue dans les Etats romains par toute autre raison que celle de religion, l’usage n’en est défendu aucune part, et n’y est point régardé comme une impiété” (ivi, 119 ss).
9 Così: il Targhini resta fedele all’uso della violenza (il pugnale), anche senza l’appoggio del popolo, nel quale non nutre alcuna fiducia; il Montanari, invece, desiste, deluso, quando vede che il popolo, su cui fidava, non è disposto a seguirlo: il ciabattino si converte dalla rivoluzione delle prudenti pasquinate a quella dell’azione “impegnata”; la ragazza ebrea, infine, resta contesa tra l’ammirazione per i due carbonari “eroi” e l’amore per gli stessi quali uomini giovani e belli. Costituzionalmente estranei ad ogni alternativa rivoluzionaria restano le spie, i poliziotti e i preti di ogni calibro.
10 I miei ricordi, cap. XXVI, passim. Lo stesso, per il romano Luigi Spada, che “si era lasciato impaniare dalle società segrete”, adduce l’attenuante che “sua madre era morta pazza”. – A conferma: lo stesso Targhini, poco prima di salire alla ghigliottina, avrebbe confessato “di essersi trovato malcontento non poco di vedersi ascritto a quella società, in cui... non riconosce che follia, ambizione, ragazzate, e la più sonora sciocchezza, e che dopo venti giorni ognuno ben volentieri l’abbandonerebbe” (DEL CERRO, op. cit., 137).