NOTE
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* Cfr Civ. Catt. 1959, IV, 19-26.

8 Nel 1957 la Gran Bretagna aveva delle noie nel sultanato di Oman, a Cipro ecc., la Francia in Algeria. Inoltre era troppo vivo il ricordo di quanto era accaduto in Cocincina, nonché dei fatti verificatisi in Francia durante la seconda guerra mondiale tra pétainisti e degaullisti, ai quali per confessione dello stesso P. Boulle, pare che si richiami il suo romanzo (cfr T. KEZICH, op. cit., p. 51).

9 Tutte cose che fanno spettacolo, non necessariamente arte. In realtà, se si fosse soppressa quasi tutta la parte sostenuta dall’Holden, il film non solo avrebbe ridotto ragionevolmente l’eccessiva durata, ma avrebbe evitato alcune sequenze dove il racconto ristagna, vale a dire quella d’inizio e quelle ambientate nel Reparto 316. Ma – particolare utile a sapersi – pare che l’Holden sia stato cointeressato nella produzione... Altri elementi spettacolari probabilmente imposti dalla produzione, superflui se non dannosi al film, ci sembrano la morte del paracadutato, il bagno dei soldati con l’uccisione di una ragazza e conseguente fiume di sangue, e l’uccisione del giapponese compiuta da Warden, che si sostituisce a Joyce.

10 Crediamo che molti, specialmente tra i militari, abbiano visto nel film più che altro «un bell’episodio di stoica fierezza di prigionieri ridotti a brandelli nella guerra della jungla», come scrive il ten. col. Nicolò Maraini (Il Tempo, 21 giugno 1959); certo che, dopo il film, Alec Guinness fu nominato baronetto, assumendo il titolo di Sir, onore che probabilmente non gli sarebbe stato concesso se David Lean, o chi per lui, non avesse eliminato dalla figura di Nicholson tutti gli elementi militarmente disonoranti che il Boulle gli attribuisce, e non gliene avesse aggiunti altri pregevoli. Nel romanzo, infatti, egli rifiuta il lavoro per gli ufficiali soltanto per motivi economici e di disciplina interna del reggimento (pp. 27 e 61), mentre la convenzione di Ginevra è invocata piuttosto dal Clipton (pp. 28 e 34); l’utilità bellica del ponte è chiaramente e ripetutamente rilevata, mentre nel film vi si accenna appena due volte e di sfuggita; infine le condizioni di lavoro alle quali Nicholson sottopone i prigionieri nel romanzo sono descritte come schiavistiche e bestiali, mentre nel film le loro carnagioni sono sempre eccellenti e i loro stracci più pittoreschi che miserabili. Il parteggiare poi del regista per l’inglese, fine ed ironizzante, contro Saito, impotente e ridicolo, si vede tra l’altro nella sequenza dell’ultima capitolazione di questi, ridotto ad ordinate il tè ed il pranzo per il suo antagonista e per lo stato maggiore che lo affianca, causando due serie di ridicoli ordini a catena.

11 All’elogio funebre di Prewitt, protagonista di Da qui all’eternità, di J. Jones, un sergente enuncia: «Era pazzo. Amava l’esercito. Chiunque ama l’esercito pazzo!».

12 Ecco alcune battute del loro dialogo: — Senta una cosa: sarebbe capace di usare questo [un pugnale] a sangue freddo? — Eh, me l’hanno insegnato! — Non mi sono spiegato: saprebbe usarlo a sangue freddo, saprebbe uccidere senza esitare? — Non so. È una cosa che mi sono chiesto parecchie volte anch’io, colonnello. — E se la sentirebbe? — Veramente non so. Mi ci dovrei provare, per saperlo. Certo non è facile per me pensare che uccidere non è un delitto. — È un antico problema. Beh, vada pure. — (Di fatto poi nel film, posto nella necessità di uccidere il giapponese, Joyce esita un istante; poi, col maggiore Warden, che più pronto l’ha prevenuto, si scusa con un sincero: «L’avrei fatto, sa, l’avrei fatto!»).

13 La consegna viene in questi termini: « — A proposito, questo la può interessare. La pillola elle. — Elle? — Sì: come letale, ad effetto istantaneo, e senza sofferenze. In caso di cattura. — Insomma, non mi devo far prender vivo! — Non glielo consiglio. Poi, sa, se uno di voi resta ferito, gli altri lo devono lasciare lì dove si trova. C’è anche questo caso!». – Da notare le varianti semantiche che alcuni termini vengono ad assumere secondo i personaggi; per esempio, Vita militare, per Shears significa seccatura, per Warden professione, per Joyce avventura; Soldato per Saito vale eroe, per Nicholson: libero e costruttore, per Shean: eroe e gentiluomo fasullo.

14 Con buona pace di L. PESTALOZZA, che la stronca (Cinema nuovo, 1958, n. 129, pp. 252 e 256), la marcetta ci pare una delle cose più felici del felicissimo commento sonoro di tutto il film. Circa la sua non italianità cfr Il Tempo, cit.; sulla sua diffusione mondiale e le reazioni da essa occasionate nei paesi d’oltre cortina, cfr Schermi, 1959, n. 12, p. 72.

15 Il Globo, 29 marzo 1958. – Anche per il Times (23 dic. 1957), il film è ambiguo. Non diversamente lo giudica G. BEZZOLA (cit.), dandone «la responsabilità prima... alla volutamente imprecisa posizione di Lean, il quale ha accennato più che non espresso, lasciando un vasto margine di dubbio entro il quale giocare, non sempre in modo onorevole». Si orientano verso la tesi di guerra L. PESTALOZZA (cit.), che giudica «la trama, complessa, di un radicale pacifismo, con una certa ambiguità nel modo di muoversi del regista nella sua materia»; R. BUZZONETTI (cit.), secondo il quale «il film rileva le componenti psicologiche che, almeno parzialmente, contribuiscono a determinare e ad alimentare la guerra». Ancora per l’ambiguità è Cinema Nuovo (cit.), secondo il quale, tuttavia, «è evidente che l’intenzione degli autori non è tanto di condannare la guerra, quella guerra», ma i fenomeni assurdi che portano a quelle assurde conclusioni. – Sono invece decisamente per una tesi di guerra: T. KEZICH (cit.), S. MINORINO (Cinema Nuovo, 1958, n. 133, p. 353), H. HARDT. Per il primo il film «condanna l’alienazione di ogni personalità nella guerra, attraverso metodi indiretti...»; infatti «così la guerra distrugge negli uomini il senso della realtà proponendo a ciascuno, con la perentorietà di un imperativo morale, una serie di falsi scopi, di obiettivi inutili. Da una parte e dall’altra, gli uomini sono animati dalla stessa fedeltà alle regole ed all’onore, vestono la stessa divisa e lavorano per uno scopo opposto. Il peso moralizzatore (!?) del film sta nel personaggio dell’americano, che fa da punto di congiunzione delle due vicende: e il giudizio degli autori è tutto nella smorfia di disgusto sul volto di W. Holden sporco di nerofumo, quando esce dall’acqua del fiume Kwai e si trova di fronte l’attonito Nicholson»; per il secondo «Il ponte acquista un significato ideale, diventa un simbolo di pace, attorno al quale due uomini, espressione di due diversi modi di pensare, si battono... Pacata, sicura, umana, la voce del medico si leva alla fine del dramma, condannando la guerra degli uomini, e paragonandola a uno stato di follia». – Accenni a temi più generali hanno G. FENIN (Cinema Nuovo, 1958, n. 124, p. 68): «Nel ponte si rivela il classico motivo simbolistico della lotta, spesso vana, impegnata dalle forze umane contro eventi super naturali o super normali»; ed il Time (cit.): «Il film grida, dalle profondità del disastro e del fato impersonale, che l’uomo non è la misura di tutto, che la vita è più grande delle cose che la vivono, che c’è un significato, per coloro che hanno occhi per leggerlo, anche nel vangelo del caos». – Degne di nota ci paiono le parole con le quali J. D’YVOIRE chiude il suo studio (cit.): Le pont de la rivière Kwai s’arrête à l’absurdité de la mécanique humaine, sans transcender le constat du mal. Chanson bien connue, à l’unisson de tant de témoignages actuels, issus d’un, société où tout idéal intérieur, celui du soldat song-t-on encore que le vrai soldat n’est pas un outil docile, mais un homme? – celui du saint, ou simplement celui de l’honnête homme, se trouve dévalulé, méprisé, ou trop souvent condamné à l’échec. La seule manifestation du spirituel encore possible aujourd’hui serait-elle le cri vers le ciel de l’homme noyé dans l’absurde est la mort?

16 Cfr Per una iniziazioni cinematografica del pubblico, in Civ. Catt. 1959, III, 17 11.

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Articolo estratto dal volume IV del 1959 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Dicono che H.G. Clouzot abbia rinunciato a portare sullo schermo il romanzo del Boulle* perché intimorito dalla difficoltà che le censure verosimilmente avrebbero opposto ad un film con una tesi tanto avversa agli europei, soprattutto in tempi in cui gli spettatori, specialmente di Francia e d’Inghilterra, potevano troppo agevolmente leggere, attraverso la scaltra trasposizione del romanziere, una condanna delle non gloriose imprese in atto, da parte delle due nazioni, nei loro rispettivi residui coloniali d’Africa e d’Oriente8. Lo stesso timore deve aver provato il produttore polacco-americano, il quale perciò, più affarista e meno idealista del Clouzot, s’è tutelato togliendo dal romanzo ogni asprezza tematica, col ritoccarne acconciamente fatti e personaggi, in tal maniera approdando ad un film non soltanto non spiacevole a nessuno, ma motivo di orgoglio specialmente agli inglesi ed agli americani, pur conservando, anzi accrescendoli, tutti i già considerevoli valori spettacolari e drammatici del soggetto, che ne assicuravano l’eccezionale successo economico.

I mutamenti di maggior rilievo riguardano la nazionalità e le caratteristiche psicologiche e morali dei tre membri del commando, la sostituzione dei portatori tailandesi con giovani portatrici e l’effettivo brillamento del ponte all’ora segnata. Non occorre eccessiva pratica della produzione hollywoodiana per scorgervi molti degli ingredienti d’uso corrente in quella cucina, tendenti da una parte a smorzare ogni problema fastidioso, dall’altra a condire il prodotto con tipi e situazioni standard graditi al grosso palato del gran pubblico; infatti, il ponte che, alla fine di una suspense interminabile, salta in aria con tutto il treno, ripaga ad usura ogni legittima attesa del pubblico; le giovani donne servono a temperare la vicenda, altrimenti troppo aspra di maschia violenza, con gradite note di grazie femminili e di spunti sentimentali; dei tre del Commando, a Warden, l’unico che di essi è restato inglese, viene affidato il ruolo elementare del tenace distruttore, antagonista del costruttore Nicholson, e si chiama a rappresentarlo l’attore americano Jack Hawkins, di sicuro successo presso il pubblico inglese; Joyce, invece, mutato in canadese, deve incarnare il tipo suggestivo del volontario giovane, bello ed ingenuo, che perde la vita nella sua prima ed ultima esperienza di guerra; finalmente Shears, reso americano, è chiamato a svolgere più di una funzione di richiamo, prima sul mercato interno degli Stati Uniti e poi su quelli internazionali: l’attore W. Holden, di alto rendimento economico in U.S.A., gli presterà la maschera di soldato prammatista, senza scrupoli e spesso fortunato, che già tanto successo riscosse in Stalag 17; poi, il supporlo già prigioniero dei giapponesi, quindi evaso, quindi raccolto mezzo morto nell’India inglese, infine costretto a rifare la strada percorsa per evitare un processo di guerra, mentre arricchirà, in funzione di second Story l’azione di quella principale, così conferendo al film una più complessa unità d’intreccio in confronto del romanzo, fornirà costanti e pittoreschi elementi di contrasto tanto rispetto ai prigionieri inglesi quanto ai due soci del Commando, inoltre offrirà il destro per le molto suggestive sequenze nella giungla e per i due particolari altamente drammatici della sua fuga iniziale e del suo trovarsi inopinatamente a faccia a faccia contro Nicholson nel tragico scioglimento del dramma9.

 

Dopo tante e tali manipolazioni, che cosa sarebbe rimasto della lineare ed acida tesi del Boulle, dato che il suo racconto, come abbiamo già notato, era prevalentemente di avvenimenti, con personaggi costruiti soltanto in funzione di essi? Evidentemente nulla! Avremmo avuto un ennesimo prodotto standard americano, perfetto di sceneggiatura, di dialogato, di materiale umano, di recitazione, di gags, di musica, di scenografia e d’ogni altra cosa, ma puro spettacolo-evasione, sterilizzato da qualsiasi valore umano ed artistico. Però, per sua e nostra buona sorte, Sam Spiegel ne ha affidata la regia a David Lean, il quale al perfetto mestiere unisce eccellenti doti di penetrante psicologo e di misuratissimo narratore – chi non ricorda Brief Encounter, suo capolavoro? –: ed ecco che il film si trasforma nei drammi di determinati personaggi causati da un avvenimento, e che quel che poteva essere uno spettacolo fine a se stesso, finisce col proporre agli spettatori una problematica di situazioni morali insospettatamente vasta, tuttavia, come abbiamo già detto, ambigua. Basta, per convincersene, rilevare alquanti dei vari significati che il film viene ad assumere secondo che se ne analizzino alcuni piuttosto che altri elementi interni od esterni, e prima di tutti i diversi personaggi.

Tre personaggi

Incominciamo dal colonnello Nicholson. Indubbiamente nel film egli suscita anche sensi di simpatia e di ammirazione ignoti al romanzo, e ciò a causa sia della maggiore suggestività del linguaggio cinematografico, concreto ed immediato, rispetto a quello letterario, astratto e mediato, sia per la connaturale partecipazione affettiva che ha portato regista ed interprete, ambedue inglesi, a fare piuttosto l’orgoglioso elogio che non la descrizione oggettiva, o sarcastica, del tipico ufficiale coloniale inglese. Fin dal suo primo apparire sullo schermo noi siamo sollecitati a stare dalla parte sua. Egli ed i suoi soldati, che fanno blocco con lui, ci appaiono materialmente vinti ma moralmente vincitori; se i loro vestiti sono a brandelli, il loro aspetto è fiero; stanchi ed ammalati, il loro passo è marziale ed il loro allineamento perfetto; la Colonel Bogey che essi, per quanto sfiniti, fischiano in tono di sfida, vibra di una sua carica epica, specialmente quando, in funzione soggettiva rispetto al colonnello, sulle stonature dei fischi all’unisono, s’inserisce, in asincronismo, l’altro motivo di marcia strumentata ed il rullo dei tamburi, quasi a ricordare che il reggimento, anche così ridotto, si sente quello che era quando, fanfara in testa, sfilava nello scintillio delle sue uniformi e delle sue armi.

Quel che immediatamente avviene di poi ce lo fa ammirare di più. Insultato, infatti, e schiaffeggiato dall’incivile vincitore, gli oppone la civiltà del diritto; egli ed i suoi ufficiali la spuntano contro la minaccia delle mitragliatrici spianate e sul supplizio dell’insolazione; bastonato e poi segregato nel forno, non cede; sfibrato, procede avanti ai suoi soldati barcollando ma sostenuto, come se li passasse in rivista. Chiamato a colloquio dal colonnello suo aguzzino lo vince con l’ironia nelle sue risposte; finalmente liberato e portato in trionfo dai suoi al suono della nota marcia gloriosa, questa volta orchestrata a pieno volume, noi lo applaudiamo con essi; lo stesso facciamo quando risulta vittorioso su tutte le questioni del ponte, ormai conquisi, forse, più che altro, dalla intelligente e perfetta interpretazione di Alec Guinness10.

Tuttavia, al trar dei conti, il suo personaggio risulta ambiguo, e con esso vacillano, in fase critica, tutti i valori che rappresenta: la supremazia della legge e delle convenzioni sull’arbitrio e la violenza, la disciplina militare ed il morale delle truppe da assicurare, l’amore al lavoro rifinito e duraturo... – Ha il diritto – ci si chiede – un ufficiale di esigere il rispetto di una semplice convenzione internazionale fino ad esporre subalterni e truppa a rappresaglie ed alla morte? Se sì, come potrà egli poi esigerne, o permetterne, la violazione dai suoi ufficiali? Tra l’assicurare la disciplina ed il morale della truppa, il dimostrare al nemico vincitore la propria supremazia tecnica ed organizzativa, ed il non arrecargli vantaggi profittevoli alle sue azioni di guerra in atto, qual è il dovere prevalente? Se i primi due, dove comincia il delitto di collaborazionismo col nemico, o addirittura di tradimento? Se il terzo, dove cessa la responsabilità di un ufficiale riguardo alla salute ed alla vita della truppa affidatagli? In ogni caso, l’assoluta certezza soggettiva, che Nicholson ha di agire secondo giustizia, è psicologicamente e moralmente possibile, probabile, oppure confina coll’ottenebramento della coscienza, ed il suo far brillare le mine del ponte è da considerarsi un atto volontario conseguente al grido di resipiscenza: «Che cosa ho fatto?», o da ritenersi involontario cadere di un corpo colpito a morte? Evidentemente, Lean riesce a darci, sì, un personaggio coerente e verosimile, ma non gli elementi per un giudizio di valore sul suo comportamento e, se c’è stato almeno all’ultimo momento, sul suo dramma interiore.

Passiamo al colonnello Saito. Se nel romanzo, esigendolo la tesi, egli è poco più di un barbaro, che affoga nell’alcool la ragione e vi attinge la violenza, sotto le mani di Lean si arricchisce di una personalità complessa e drammatica. Interpretato dalla maschera misuratissima di Sessue Hayakawa, forse egli è il personaggio psicologicamente più ricco di tutto il film. Lo travagliano tre complessi d’inferiorità: uno fisico, della statura, bassa rispetto a quella media degli inglesi, bassissima rispetto a quella di Nicholson; perciò, le tre volte che arringa i prigionieri cerca di rifarsi issandosi su sgabelli o su palchi sempre più alti e, praticamente estromesso dalla direzione dei lavori, li sorveglia, pietosamente inutile e solitario, dal culmine di una collina. Il secondo è professionale: aveva trascorso a Londra tre anni come studente d’ingegneria e n’era stato richiamato dal padre per essere avviato alla carriera militare, ed ora il corso universitario interrotto, mentre gli impedisce di partecipare onorevolmente alla guerra guerreggiata e lo riduce a un mezzo carceriere, non gli permette le soddisfazioni ed il prestigio del costruttore, dipendente com’è, egli colonnello, da un tenente Miura, da lui definito «con profonda vergogna... cattivo ingegnere e cattivo ufficiale». Forzato a cedere, contro la testardaggine di Nicholson, avanti ai prigionieri inglesi ed ai suoi stessi connazionali, lo umilia quindi il terzo complesso, del vinto: i solitari singhiozzi, non più repressi, che ne scuotono il corpo tozzo durante il frenetico trionfo tributato al suo vincitore, ed il mutismo iroso in cui si chiude per tutto il restante dei lavori, nonché il karakiri cui freddamente si prepara per non sopravvivere alla vergogna subita, palesano il dramma interno che lo travaglia. Se egli la dura fino all’ultimo è soltanto per fedeltà ai tre articoli del suo codice d’onore di soldato-samurai: 1) eseguire a qualunque costo gli ordini, 2) ma non arrendersi al nemico, 3) anzi togliersi la vita piuttosto che capitolare.

Questo codice regola tutta la sua condotta e ne legittima avanti alla sua coscienza ogni applicazione. Coerentemente ad esso, egli interpreta la marcia zufolata dal battaglione non come una comprensibile manifestazione di fierezza nazionale avanti al vincitore, bensì come un’intollerabile ostensione di codardia; quindi coerentemente egli può cominciare la sua seconda arringa ad esso con la precisazione: «Prigionieri inglesi! Notate: non ho detto soldati inglesi. Da quando vi siete arresi, voi non siete più soldati!» –, e coerentemente continuare: «I vostri ufficiali dovranno lavorare con voi. È giusto: perché sono loro che vi hanno tradito, perché vi hanno fatto arrendere. Sono loro che vi hanno detto che era meglio vivere da schiavi che morire da eroi!» –, e coerentemente ribattere a Nicholson, dopo averlo schiaffeggiato: «Lei parla a me di legge? E quale? Quella dei vili. Una sola è la legge per il soldato: il suo onore; e lei l’ha perduto!» –, e coerentemente fare puntare l’arma sui ribelli, come coerentemente non ordinare più il fuoco quando Clipton gli osserva: «Lei uccide dei disarmati: è questa la sua legge?» –; infine, coerentemente, un minuto prima che Nicholson disapprovi la fuga, e la morte, dei tre prigionieri in quanto atto d’indisciplina (!?), egli può mutare il disprezzo per essi in ammirazione: «Perché per un attimo, tra la fuga e la morte, sono tornati soldati!». Certo è molto improbabile che la mentalità occidentale della stragrande maggioranza degli spettatori tenda a condividere siffatto esotico codice etico di eroismo individuale, a preferenza di quello di convenzioni civili propugnato ed applicato con non minore rigore da Nicholson; tuttavia noi avvertiamo che non tutto vi è falso ed assurdo, anzi che, anche se meno “civile”, si direbbe più cavalleresco di quello del suo antagonista. In ogni modo, D. Lean non si compromette né per l’uno né per l’altro, pago di mostrarci due uomini, e con essi due mondi etici, tanto coerenti in se stessi quanto l’uno all’altro impervi e contrari.

Del tutto differente e contrastante è l’etica di Shears, il terzo personaggio che nel film assume un rilievo a tutto tondo. Quanto i due colonnelli sprezzano la vita, tanto egli se la tiene cara; quanto quelli fanno conto delle leggi o dell’onore, tanto egli, di norma, non se ne dà pensiero, e, all’occasione, se ne infischia. Si direbbe il compendio di tutti i luoghi comuni usualmente attribuiti al tipo dell’americano medio. Non ha problemi di principi e di cultura; vive alla giornata; di fisico prestante, amante della vita comoda, non disdegna fugaci avventure muliebri sgombre da sentimenti profondi. Pacifista militarizzato odia la guerra, perché scomoda e rischiosa; però si sottomette alle sue esigenze quando, torto collo, non può farne a meno. Semplice marinaio, in pericolo di cadere prigioniero, si traveste da ufficiale e si fa passare per tale, contando di ricevere in tal maniera un trattamento di riguardo dai giapponesi; fallitogli il calcolo, sfugge al lavoro dandosi per ammalato, corrompendo infermieri e sentinelle; appurato che il giuoco non può durare a lungo, pur di sfuggire al beri-beri o alla morte per inedia, tenta la fuga, unico fortunato, con successo; finito in un ospedale inglese continua a godervi, senza scrupoli, i privilegi del suo grado usurpato, ed intanto progetta di farsi riformare col simularsi impazzito in azione di guerra; scoperto, ed obbligato, per sfuggire al processo, a far parte del Commando, fa buon viso a cattiva fortuna e si dà volontario, ma poi, per tre volte, cerca di farsi sostituire od esonerare...: e chissà quante altre ne avrebbe tentate su questa falsariga se alla fine non avesse lasciato la pelle, guarda un po’, sotto pallottole inglesi. Egli è l’unico, tra i personaggi, che condanni la guerra e la violenza, ma, dato il tipo, i suoi motivi e il suo linguaggio appartengono ad un’etica sui generis. Sua è, nella seconda sequenza, la cinica necrologia: «Qui giace...: e chi è che abbiamo seppellito? Ah, già... John Thompson, matricola 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7..., dei fucilieri di sua maestà il re, o la regina, morto di beri-beri nel Bengala nell’anno 1943, per la grandezza di... E perché è morto?... Comunque: dorma in pace, ché di pace ne ha avuta poca da vivo!»11. Egli svuota l’apodittico epifonema di Nicholson: «Senza legge la civiltà non esiste!», rovesciandolo nell’altro non meno apodittico: «Ma qui la civiltà non esiste!»; egli commenta l’eroico resistere di sotto la vampa del sole col volgare apprezzamento: «È come quelli della Carica dei 600: a che è servita? A che è servito che gli ufficiali inglesi nel ’14 andassero alla carica col bastoncino?» –, e con più concreto timore: «Ma quello ci fa ammazzare tutti!». Egli, finalmente, inveisce violentemente contro il maggiore Warden quando questi, ferito gravemente, pur di assicurare il buon esito della spedizione, gli ordina di abbandonarlo nella foresta e di proseguire solo con Joyce: «Ed io non obbedisco! Lei sarebbe capace di lasciarci sua madre qui! Mi disgusta questo eroismo... C’è tanfo di morte vicino a lei... Per lei non c’è altro al mondo: distruggere il ponte e morire. Come per il colonnello Nicholson: coraggiosi ad ogni costo. Per che cosa? Per morire da eroi, anzi da gentiluomini: quando quello che importa è vivere da esseri umani».

«Vivere da esseri umani»: quanto c’è di radicalmente vero ed accettabile, e quanto di falso in siffatta etica semplicista? – Anche qui D. Lean non prende posizione, né guida in qualche maniera lo spettatore, pago di richiamare genericamente le gioie della vita civile e familiare con la presenza, inesplicabilmente sempre fresca, delle ragazze siamesi, in contrasto prima con i disagi ed il putridume della foresta, poi con l’ecatombe finale dei bianchi loro padroni. Né egli si comporta diversamente rispetto ai due personaggi minori: il giovane Joyce ed il colonnello Green del Reparto 316, pur facendo esplicitamente affrontare ad ambedue il problema teorico della liceità o meno dell’omicidio, e quello pratico se un uomo, debitamente educato ad hoc, trovi, al dunque, il sangue freddo di uccidere un suo simile12.

David Lean: oggettivo o agnostico?

Siffatte reticenze del regista denotano un suo impegno di oggettività nella descrizione di tipi umani reali, o piuttosto una sua posizione agnostica rispetto ai valori etici e morali da essi seguiti? – Arguendo anche da Brief Encounter – dramma di personaggi risolto più da un avvenimento fortuito che dall’agire di essi secondo una legge morale definita – riteniamo che, mentre l’interesse prevalente di Lean lo spinge alla costruzione psicologica dei personaggi, si affollano nel suo film molti elementi che, ne sia egli consapevole o meno, conferiscono ad esso una carica non piccola di relativismo, o di scetticismo etico, e che, appunto in questo consiste la sua ambiguità tematica ed anche la sua limitata validità artistica. Troppo profondi, assoluti ed universali sono, infatti, i valori morali posti in causa dalle etiche dei suoi personaggi perché il limitarsi ad esporle senza, almeno implicitamente, giudicarle non equivalga a negarne ogni importanza intrinseca: si tratta nientedimeno delle ragioni ultime della vita e della morte umane! Per Nicholson, come abbiamo visto, il massimo valore della vita consiste nell’ordine della civiltà, e la morte (permessa) sua e dei suoi ufficiali non ne eguaglia il pregio supremo; per Saito, solo l’onore personale dà un senso alla vita, quindi la morte può e deve essere inferta ai disonorati; per Shears la vita serve per godersela, mentre la morte, nonché non affrontata con ridicolo eroismo, va evitata a qualsiasi costo; per Joyce la vita conta qualcosa soltanto se non è monotona, l’avventura è tutto, e vale bene la morte propria ed altrui; per Warden la vita, almeno in guerra, s’identifica col dovere professionale di distruggere, avanti al quale la morte propria o l’uccisione altrui non pongono problemi teorici; per Green, invece, il problema teorico esiste, ma, in pratica, durante la guerra si risolve nella regola indiscutibile: à la guerre comme à la guerre, perciò, senza porre o attendere obiezioni di liceità, egli consegna ai tre da lui comandati le pillole letali in previsione di un loro doveroso suicidio13...; infine, per Clipton, medico, la vita va salvata ad ogni costo, di tutti, anche quella del peggiore dei nemici, se raccolto ferito...

Chi ragiona e chi sragiona? – Lean non solamente non si pronuncia, ma pare che si diverta ad isolare etiche e personaggi in mondi chiusi ad ogni possibilità di discussione. Si ricordi con quale rigida coerenza ogni suo personaggio, convintissimo di essere nella verità, dà del matto a tutti gli altri. Per Nicholson «Saito è un pazzo», «è pazzesco tentare la fuga», Shears sragiona «forse perché in America...: e poi è stato troppo solo...», e, finalmente, Clipton gli obietta quel che obietta «perché non capisce niente di vita militare». Per Saito «è una pazzia fuggire», e «quel colonnello è un pazzo». Da parte sua Clipton, che li osserva, testardi tutti e due, giocare con la propria vita e l’altrui, si chiede angosciato: «Ma saranno pazzi? O lo sono io? O lo è il sole?». Per Shears «l’ultima cosa che si possa dire di Saito è che sia ragionevole», Nicholson «è coraggioso, ma pazzo», Joyce, che si è arruolato volontario, «è canadese», tutto dire!, e Warden manifestamente «è un maniaco». Nell’ultima sequenza poi i lanci di «Pazzo!» non si contano più. Per quelli del comando è pazzo Nicholson perché scopre la miccia, perché la mostra a Saito, perché non lascia fare Joyce e perché ingaggia la lotta con lui; per Nicholson sono pazzi quelli che vogliono distruggere un’opera cosi bella, la “sua opera”, che è costata tante fatiche; per le fanciulle siamesi sono pazzi i due bianchi che si arrischiano nel fiume, e mostruosamente pazzo è Warden che spara loro addosso: esse non parlano, ma i loro occhi smarriti ed il loro ritrarsi giudicano, nonostante la scusa di Warden: «Non potevo fare altrimenti!».

Dunque: tutti pazzi o, almeno, tutti vanamente teorizzanti, dato che poi, in definitiva, avvenimenti e fatti umani vengono tutti determinati da circostanze fortuite? – Sì: crediamo che, in contrasto con altri, alcuni coefficienti nell’opera di Lean suadono un’interpretazione siffatta. Si osservi, per esempio, la costanza con cui egli accumula, più che il Boulle, eventi contraddittori nei suoi personaggi, ad incominciare dal suo protagonista. Nicholson affronta la morte per non far lavorare gli ufficiali e poi non solo porta al lavoro essi, ma anche, come Saito aveva minacciato, i malati; voglioso di dimostrare la supremazia inglese finisce con collaborare col nemico in un’opera di guerra molto più efficacemente di quanto il giapponese non avesse preteso; portata a termine l’opera, reputa di aver finalmente impressa su questa terra l’orma duratura che da ventott’anni attendeva di lasciarvi, ma non passa un giorno che proprio lui la riduce in nulla... Saito non è meglio servito. Infierisce per non essere vinto, e poi deve capitolare su tutta la linea; urge il compimento del ponte per evitare la morte, e la trova proprio per esso; scrive alla famiglia annunciando che, almeno, ha riparato col karakiri l’umiliazione subita, ma gli viene tolta anche questa soddisfazione, ucciso com’è alle spalle da un ragazzotto nel momento stesso che i suoi superiori, ai quali doveva consegnare l’opera, saltano in aria con essa. Più paradossale ancora è la situazione di Shears: pacifista irregolare, finisce col diventare maggiore; processabile per simulazione di grado, passa per eroe perché è riuscito a fuggire dalla prigionia; assegnato di forza nella spedizione distruttiva, diventa eroe al quadrato perché vi risulta «volontario»; è, fra i tre, quello che meno ci tiene a che il Commando raggiunga il suo scopo, ma difatti ne è l’aiuto più provvidenziale; protesta di infischiarsene di tutti gli eroismi, e poi ne attua uno salvando Warden; fugge dal Kwai, e vi ritorna per cercarvi volontariamente la morte, non si capisce bene se per salvare la vita di Joyce, di cui non gli è mai importato molto, o per uccidere Nicholson e così far saltare il ponte, di cui non gli è mai importato nulla...

Ma ancora più afferenti ad una tesi tendenzialmente pessimista del film da parte del Lean sono alcuni particolari e l’ironia con cui egli li commenta col sonoro. La Colonel Bogey che epicamente accompagna il battaglione nel suo entrare nel campo giapponese e alla fine nell’inaugurazione del ponte terminato14; la marcia strumentale che festeggia la vittoria di Nicholson su Saito, accompagna, quasi in sordina, l’assegnazione di Shears al Commando, l’avviarsi degli storpi inglesi che Nicholson manda al lavoro e la partenza del Commando verso il ponte, e chiude, a film già terminato, la proiezione. Per finire, nell’ultimo capitolo della paradossale epopea-catastrofe, Lean alterna le inquadrature della festa inglese di addio con quelle del minamento del ponte: 1) ballo mascherato e numero di varietà dei soldati; 2) la zattera del Commando scende sciabordando la rapida del torrente; 3) risate della truppa e del colonnello nella baracca; 4) silenzio in esterno mentre i due si immergono sotto le pile del ponte; 5) battimani che accolgono la perorazione di Nicholson: «Voi vi siete fatti onore, ed in questo modo avete trasformato una dura sconfitta in una vittoria!»; 6) i due applicano le mine al ponte; 7) i soldati, balzati in piedi, intonano il God save the King; 8) i due finiscono di innescare le mine e di applicare le micce: il ponte è pronto a saltare.

Conclusione

Dopo tale preparazione psicologica era assurdo non servire al pubblico lo spettacolo della sua distruzione: di ciò, forse a fatica, si convinse anche il Boulle nei colloqui sollecitatigli dal regista. Dunque lo spettacolo si produce, e gli spettatori ne hanno largamente per il loro danaro, prima partecipando ad un’attesa che D. Lean rende spasmodica, facendo coincidere tempo cinematografico e tempo reale, ed esasperando la suspense principale: – Salta o non salta? –, in almeno sette altre suspense a catena: – Scopre o non scopre la miccia?, Seguendola, scopre o non scopre la batteria?, Joyce aspetta, come convenuto, l’arrivo del treno o, scoperto, si decide prima?, Uccide o non uccide Saito?, Assalito, uccide o non uccide Nicholson?, Riesce o non riesce Shears a soccorrerlo?, Il colonnello, alla fine, capirà o non capirà?, Colpito a morte, si deciderà o non si deciderà? –, e poi facendo saltare di fatto il ponte, contro tutti i timori in contrario, al momento giusto. Ma la tensione così da lui causata non giova davvero per schiarire agli spettatori la sua ambiguità circa i problemi di fondo affiorati nel film (a parte l’ulteriore ambiguità causata dal non sapersi se Nicholson cada o si butti sulla batteria elettrica).

Lo abbiamo controllato personalmente partecipando a ben quattro proiezioni del film: l’impazienza delle membra, i fiati tesi che accompagnano l’ansimare del treno che non arriva mai, e soprattutto i pittoreschi incitamenti lanciati ai vari personaggi dai quali dipende lo spettacolo atteso, convincono che il pubblico a questo punto vuole soltanto che esso si produca, a qualunque costo, indipendentemente da qualunque ragione. Tuttavia, a spettacolo goduto, si sorprende intimamente disorientato sul significato di quanto è avvenuto. Quel ponte, ormai distrutto, e pur oggetto di tante ansie ed occasione di tanti drammi umani, simboleggia soltanto i valori falsi di quegli uomini, o tutti i valori umani perché falsi? La tavoletta-iscrizione, già orgogliosamente apposta su di esso da Nicholson «a ricordo imperituro», che il regista ha poi inquadrato, semisommersa ed ondeggiante, alla deriva, significa l’inanità dell’ideale di quell’uomo e di quegli uomini o, leopardianamente, l’infinita vanità del tutto? L’ultima desolata esclamazione di Clipton: «Pazzia! Pazzia!», ed i corvi che, così nell’ultima inquadratura come nella prima, lugubremente volteggiano sullo schermo, condannano il fallimento di quell’impresa di guerra guerresca, o di ogni agire umano?

Molti critici, semplicisticamente, vi hanno visto una condanna più o meno esplicita alla guerra, a parer nostro o equivocando tra argomento occasionale e tesi, o ubbidendo alle sollecitazioni di una critica politicamente impegnata. Dopo quanto siamo venuti dicendo, noi ci accordiamo con i pochi che hanno giudicato il film «abbastanza confuso nei suoi significati spirituali»15. Il che ci dà occasione di rilevare ancora una volta – lasciando il molto di più che potremmo e vorremmo –, la complessità del fenomeno cinematografico, purtroppo ignorata da quanti si ostinano a ragionarne, e ad usarlo, come se fosse soltanto arte (i critici), soltanto industria (i produttori), soltanto divertimento (i gestori), soltanto propaganda (i marxisti) ecc. ecc., e non anche, – lo vogliano o non lo vogliano, lo avvertano o meno tutti questi signori –, una scuola, sempre, tanto violenta quanto suasiva, imponente agli spettatori schemi di opinioni e di comportamento personali e di massa; quindi, ancora una volta, l’urgente necessità, soprattutto finché non abbondi una produzione artisticamente valida e moralmente efficiente, di iniziare culturalmente e moralmente il grande pubblico a saper leggere i film ed a saperne distinguere e giudicare le suggestioni16, soprattutto da parte di quanti allestiamo spettacoli a scopo educativo e morale, affinché anche film problematici come questo, molto criticando, molto ignorando e poco precisando, non diventino, in definitiva, proprio in quanto adoperati da noi, nocivi.

* Cfr Civ. Catt. 1959, IV, 19-26.

8 Nel 1957 la Gran Bretagna aveva delle noie nel sultanato di Oman, a Cipro ecc., la Francia in Algeria. Inoltre era troppo vivo il ricordo di quanto era accaduto in Cocincina, nonché dei fatti verificatisi in Francia durante la seconda guerra mondiale tra pétainisti e degaullisti, ai quali per confessione dello stesso P. Boulle, pare che si richiami il suo romanzo (cfr T. KEZICH, op. cit., p. 51).

9 Tutte cose che fanno spettacolo, non necessariamente arte. In realtà, se si fosse soppressa quasi tutta la parte sostenuta dall’Holden, il film non solo avrebbe ridotto ragionevolmente l’eccessiva durata, ma avrebbe evitato alcune sequenze dove il racconto ristagna, vale a dire quella d’inizio e quelle ambientate nel Reparto 316. Ma – particolare utile a sapersi – pare che l’Holden sia stato cointeressato nella produzione... Altri elementi spettacolari probabilmente imposti dalla produzione, superflui se non dannosi al film, ci sembrano la morte del paracadutato, il bagno dei soldati con l’uccisione di una ragazza e conseguente fiume di sangue, e l’uccisione del giapponese compiuta da Warden, che si sostituisce a Joyce.

10 Crediamo che molti, specialmente tra i militari, abbiano visto nel film più che altro «un bell’episodio di stoica fierezza di prigionieri ridotti a brandelli nella guerra della jungla», come scrive il ten. col. Nicolò Maraini (Il Tempo, 21 giugno 1959); certo che, dopo il film, Alec Guinness fu nominato baronetto, assumendo il titolo di Sir, onore che probabilmente non gli sarebbe stato concesso se David Lean, o chi per lui, non avesse eliminato dalla figura di Nicholson tutti gli elementi militarmente disonoranti che il Boulle gli attribuisce, e non gliene avesse aggiunti altri pregevoli. Nel romanzo, infatti, egli rifiuta il lavoro per gli ufficiali soltanto per motivi economici e di disciplina interna del reggimento (pp. 27 e 61), mentre la convenzione di Ginevra è invocata piuttosto dal Clipton (pp. 28 e 34); l’utilità bellica del ponte è chiaramente e ripetutamente rilevata, mentre nel film vi si accenna appena due volte e di sfuggita; infine le condizioni di lavoro alle quali Nicholson sottopone i prigionieri nel romanzo sono descritte come schiavistiche e bestiali, mentre nel film le loro carnagioni sono sempre eccellenti e i loro stracci più pittoreschi che miserabili. Il parteggiare poi del regista per l’inglese, fine ed ironizzante, contro Saito, impotente e ridicolo, si vede tra l’altro nella sequenza dell’ultima capitolazione di questi, ridotto ad ordinate il tè ed il pranzo per il suo antagonista e per lo stato maggiore che lo affianca, causando due serie di ridicoli ordini a catena.

11 All’elogio funebre di Prewitt, protagonista di Da qui all’eternità, di J. Jones, un sergente enuncia: «Era pazzo. Amava l’esercito. Chiunque ama l’esercito pazzo!».

12 Ecco alcune battute del loro dialogo: — Senta una cosa: sarebbe capace di usare questo [un pugnale] a sangue freddo? — Eh, me l’hanno insegnato! — Non mi sono spiegato: saprebbe usarlo a sangue freddo, saprebbe uccidere senza esitare? — Non so. È una cosa che mi sono chiesto parecchie volte anch’io, colonnello. — E se la sentirebbe? — Veramente non so. Mi ci dovrei provare, per saperlo. Certo non è facile per me pensare che uccidere non è un delitto. — È un antico problema. Beh, vada pure. — (Di fatto poi nel film, posto nella necessità di uccidere il giapponese, Joyce esita un istante; poi, col maggiore Warden, che più pronto l’ha prevenuto, si scusa con un sincero: «L’avrei fatto, sa, l’avrei fatto!»).

13 La consegna viene in questi termini: « — A proposito, questo la può interessare. La pillola elle. — Elle? — Sì: come letale, ad effetto istantaneo, e senza sofferenze. In caso di cattura. — Insomma, non mi devo far prender vivo! — Non glielo consiglio. Poi, sa, se uno di voi resta ferito, gli altri lo devono lasciare lì dove si trova. C’è anche questo caso!». – Da notare le varianti semantiche che alcuni termini vengono ad assumere secondo i personaggi; per esempio, Vita militare, per Shears significa seccatura, per Warden professione, per Joyce avventura; Soldato per Saito vale eroe, per Nicholson: libero e costruttore, per Shean: eroe e gentiluomo fasullo.

14 Con buona pace di L. PESTALOZZA, che la stronca (Cinema nuovo, 1958, n. 129, pp. 252 e 256), la marcetta ci pare una delle cose più felici del felicissimo commento sonoro di tutto il film. Circa la sua non italianità cfr Il Tempo, cit.; sulla sua diffusione mondiale e le reazioni da essa occasionate nei paesi d’oltre cortina, cfr Schermi, 1959, n. 12, p. 72.

15 Il Globo, 29 marzo 1958. – Anche per il Times (23 dic. 1957), il film è ambiguo. Non diversamente lo giudica G. BEZZOLA (cit.), dandone «la responsabilità prima... alla volutamente imprecisa posizione di Lean, il quale ha accennato più che non espresso, lasciando un vasto margine di dubbio entro il quale giocare, non sempre in modo onorevole». Si orientano verso la tesi di guerra L. PESTALOZZA (cit.), che giudica «la trama, complessa, di un radicale pacifismo, con una certa ambiguità nel modo di muoversi del regista nella sua materia»; R. BUZZONETTI (cit.), secondo il quale «il film rileva le componenti psicologiche che, almeno parzialmente, contribuiscono a determinare e ad alimentare la guerra». Ancora per l’ambiguità è Cinema Nuovo (cit.), secondo il quale, tuttavia, «è evidente che l’intenzione degli autori non è tanto di condannare la guerra, quella guerra», ma i fenomeni assurdi che portano a quelle assurde conclusioni. – Sono invece decisamente per una tesi di guerra: T. KEZICH (cit.), S. MINORINO (Cinema Nuovo, 1958, n. 133, p. 353), H. HARDT. Per il primo il film «condanna l’alienazione di ogni personalità nella guerra, attraverso metodi indiretti...»; infatti «così la guerra distrugge negli uomini il senso della realtà proponendo a ciascuno, con la perentorietà di un imperativo morale, una serie di falsi scopi, di obiettivi inutili. Da una parte e dall’altra, gli uomini sono animati dalla stessa fedeltà alle regole ed all’onore, vestono la stessa divisa e lavorano per uno scopo opposto. Il peso moralizzatore (!?) del film sta nel personaggio dell’americano, che fa da punto di congiunzione delle due vicende: e il giudizio degli autori è tutto nella smorfia di disgusto sul volto di W. Holden sporco di nerofumo, quando esce dall’acqua del fiume Kwai e si trova di fronte l’attonito Nicholson»; per il secondo «Il ponte acquista un significato ideale, diventa un simbolo di pace, attorno al quale due uomini, espressione di due diversi modi di pensare, si battono... Pacata, sicura, umana, la voce del medico si leva alla fine del dramma, condannando la guerra degli uomini, e paragonandola a uno stato di follia». – Accenni a temi più generali hanno G. FENIN (Cinema Nuovo, 1958, n. 124, p. 68): «Nel ponte si rivela il classico motivo simbolistico della lotta, spesso vana, impegnata dalle forze umane contro eventi super naturali o super normali»; ed il Time (cit.): «Il film grida, dalle profondità del disastro e del fato impersonale, che l’uomo non è la misura di tutto, che la vita è più grande delle cose che la vivono, che c’è un significato, per coloro che hanno occhi per leggerlo, anche nel vangelo del caos». – Degne di nota ci paiono le parole con le quali J. D’YVOIRE chiude il suo studio (cit.): Le pont de la rivière Kwai s’arrête à l’absurdité de la mécanique humaine, sans transcender le constat du mal. Chanson bien connue, à l’unisson de tant de témoignages actuels, issus d’un, société où tout idéal intérieur, celui du soldat song-t-on encore que le vrai soldat n’est pas un outil docile, mais un homme? – celui du saint, ou simplement celui de l’honnête homme, se trouve dévalulé, méprisé, ou trop souvent condamné à l’échec. La seule manifestation du spirituel encore possible aujourd’hui serait-elle le cri vers le ciel de l’homme noyé dans l’absurde est la mort?

16 Cfr Per una iniziazioni cinematografica del pubblico, in Civ. Catt. 1959, III, 17 11.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151