NOTE
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1 F. ZEFFIRELLI, Il mio Gesù, Milano, Sperling Kupfer, 1977, 16º, 212. L. 3.800.

2 Cfr V. FANTUZZI, Vangeli cinematografici a confronto (Civ. Catt. 1977 II 579-586), in cui l’Autore mette, appunto, a confronto Il Vangelo secondo Matteo di P. P. Pasolini, Il Messia di R. Rossellini e il Gesù di Nazareth di Zeffirelli. Sulle possibilità e limiti tra mezzi cinematografici e messaggio cristiano in Zeffirelli concorda E. BARAGLI, Una favola bella: «Fratello Sole, Sorella Luna» (Civ. Catt. 1972 III 136-143).

3 Si tratta proprio del noto filosofo «enciclopedista» rivoluzionario francese, che scrisse, tra l’altro, Il paradosso dell’attor comico (1773-1778). Il De Sanctis lo definì «iniziatore di quell’alta critica che è stata detta estetica».

4 Konstantin Sergeevic Stanislawskij, nome d’arte del regista, attore e teorico teatrale russo S. Alekseev (1863-1938), che espose il suo «sistema» specialmente in Il lavoro dell’attore su se stesso (1938 e 1948). Su i due teorici cfr ancora valido L. CHIARINI – U. BARBARO, L’arte dell’attore, Roma, 1950; e il più recente A. BIANCA, Il cinema, l’attore e il rapporto arte-vita, Messina. 1960.

5 A proposito di attori, il Regista cosi si difende contro chi l’ha criticato «per il fatto che il cast messo insieme comprendeva molti tra i nomi più famosi del Gotha cinematografico. Qualcuno sorrise, altri dissero che si trattava di un’operazione alla dei divi in cartellone. La realtà era ben diversa: nessuno di questi attori era stato scelto per la risonanza del suo nome o l’attualità del suo successo, ma solo, ed esclusivamente, perché si trattava della scelta migliore, della risposta più giusta alla proposta di questo o quel personaggio. [...] Una cosa invece voglio sottolineare [...]: ed è che tutti, senza esclusione, hanno accettato compensi ben al di sotto della norma. Avevamo avvertito tutti: “La sola stella del programma è quella di Betlemme. Siamo tutti al suo servizio. Non possiamo permetterci di pagare le cifre che personalmente ciascuno merita”. E tutti hanno anteposto al calcolo, pur legittimo, il piacere di prender parte ad un’impresa cosi diversa, sotto segno così alto» (p. 46).

6 La sequenza ebbe un’appendice grottesco-drammatica; Zeffirelli la narra alla pagina 184.

7 «Non ogni fatto o fenomeno religioso è trasferibile sullo schermo [...]. L’argomento religioso presenta spesso per autori ed attori specifiche difficoltà, tra cui la principale forse consiste nel come evitare ogni traccia di artificioso e di manierato, ogni impressione di macchinalmente imparato, poiché la vera religiosità è, per sé, contraria all’esteriore ostentazione, e non si lascia facilmente “recitare”. L’interpretazione religiosa, quando anche sia condotta con retta intenzione, raramente reca l’impronta di cosa veramente vissuta, e quindi comunicabile allo spettatore» (Pio XII, Discorsi sul film ideale, 28 1955, in E. BARAGLI, Cinema cattolico, Roma 1965, nn. 462-464).

8 Sul suo modo di documentarsi ricorrendo a competenti delle differenti confessioni religiose, cfr pp. 60 e 76-77.

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Articolo estratto dal volume II del 1978 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Del volume che presentiamo1 occorre conoscere la genesi. Nei primi mesi del ’77 si faceva un gran discorrere e polemizzare sul film di Zeffirelli Gesù di Nazareth ormai imminente. L’editore Barbieri raggiunge per telefono il regista a Londra e gli propone di spiegare all’immenso pubblico dei telespettatori la sua storia.

La risposta è: «Rimandare», perché Zeffirelli è impegnatissimo – dodici-quattordici ore di lavoro al giorno -: il montaggio, i tagli, le ultime scelte, l’edizione americana, quella inglese, il doppiaggio italiano che curava di persona, la verifica della stampa del film, la musica, le proiezioni per gli esperti delle varie confessioni religiose... Si viene ad un compromesso: l’Editore gli avrebbe messo al fianco per una settimana lo scrittore Luigi Gianoli, che nei ritagli dal lavoro avrebbe raccolto dalla sua viva voce la «storia». Ed ecco, da quei colloqui, integrati da alcune carte del Regista, da sue lettere alle sorelle, agli amici e al produttore del film V. Labella, questo volume «ideato, scritto, prodotto e distribuito in trenta giorni», e – aggiungiamo – che ha contato quattro edizioni in sette mesi.

Quali che siano i pregi ed i limiti spettacolari e artistico-religiosi del film2, il volume sollecita due sorte di rilievi. La prima riguarda il lavoro e la regia cinematografica.

Se ci fosse ancora qualcuno tanto digiuno di filmologia da scambiare il cinema con la ripresa documentata della realtà, nel cogliere in queste pagine il travaglio, per non dire il tormento, con cui un regista serio immagina, sceglie, scarta ed adatta scenografie, attori, costumi, arredamento, robe, ecc., per esprimere se stesso in immagini schermiche: questo qualcuno si ricrederà. Sotto tale aspetto sono particolarmente istruttivi i ventidue bozzetti intercalati nel testo, nei quali il Regista, di sua mano, ha disegnato come a guazzo le scenografie, ed ha indicato i personaggi principali, i generici, le comparse e il fabbisogno di ogni sequenza.

Un altro capitolo di filmologia toccato in queste pagine riguarda la resa degli attori. Tutti i filmologi concordano nell’affermare che, a differenza del teatro, nel cinema autentico – quello, cioè, in cui il regista-autore si esprime, appunto, con immagini – non ci sono, propriamente parlando, «attori», bensì «materiale umano», plasmabile dal regista. E però vero che in tale lasciarsi plasmare, anche a questo materiale umano si aprono varie vie, che oscillano tra il «paradosso» della recitazione controllata, «a freddo», di Diderot3 e lo «stato attorico», vale a dire il vivere a caldo il personaggio immedesimandosi nelle sue passioni, di Stanislawskij4. Ora nel volume, se abbondano i rilievi di Zeffirelli sulla resa degli attori5, è soprattutto interessante il caso della resa, piuttosto alla Stanislawskij, dell’attrice Olivia Hussey, che nel film «vive» la parte della Madonna. Ricorda il Regista:

«Quando ha dovuto affrontare il mistero, o certi momenti difficili della sua parte, e sono tutti difficili, si raccoglieva in una specie di estasi interiore yoga, per venire infine fuori con una sua esplosione che non era più soltanto il frutto dell’abilità di una brava attrice, ma dello slancio di un intero essere che si liberava. Era tutto il suo spirito che, balzato fuori, si realizzava in immagine.
«Ho avuto per fortuna la stessa intensità di resa nella scena della Deposizione, dove lei ha creato qualcosa di veramente raro nel cinema. Era penetrata completamente in questa sua parte, nel suo pianeta di supremo dolore, e al culmine ne è uscita urlante sotto la pioggia che scrosciava sul corpo appena deposto del figlio martoriato, che lei raccoglie con una forza insospettata. Olivia ha infatti sollevato Robert Powell, un uomo che pesa settanta chili, come se davvero si trattasse di un bambino tra le braccia della Madre. Una scena sconvolgente, la più drammatica forse di tutte le nostre riprese» (p. 136)6.

Sul limite tra filmologia, estetica e religiosità troviamo, nel volume, la questione se un’arte figurativa e realistica quale il cinema possa esprimere l’ineffabile religioso. Già Pio XII, in un celebre discorso del 1955, l’aveva rilevato, giustamente attento, in linea teorica, non tanto alla scenografia e alla musica – elementi espressivi meno impervi al religioso –, quanto a ciò che nell’espressione filmica pesa come più corposo: l’attore che recita7. Ma fa piacere vedere che l’esperienza del mestiere conduce Zeffirelli allo stesso quesito. Scrive:

«In quell’episodio [delle Tentazioni] si arrivava fino al mistero puro, e il mistero, in sé, è irrappresentabile, soprattutto con un mezzo labile e insufficiente come quello cinematografico [...]. Questo è stato uno dei casi in cui, a me autore, il cinema ha manifestato evidenti i suoi limiti espressivi; anche se splendidi, gli effetti mi sembravano restare nell’ambito del trucco, del falso [...]. Noi ci serviamo, per esprimerci, di un mezzo molto sofisticato, che però, proprio a causa della sua meccanicità e della sua stessa perfezione (o, in certi casi, imperfezione), non aiuta affatto a comunicare quell’incomunicabile che, invece, l’oracolo di Delfi, con la maschera da cui uscivano parole rotte, soffocate, riusciva a trasmettere a uno spettatore predisposto e attonito» (pp. 151-154).

Tuttavia il Regista fa tutto il possibile per «tirare fuori dall’uomo la parte di divino che contiene in sé». Annota a proposito dell’attore Robert Powell, chiamato «all’impossibile incarico di rappresentare Gesù»:

«Siccome il mestiere di attore è un mestiere che affida la propria esistenza all’impiego di mezzi soltanto umani, ed è quindi soggetto a scadere fatalmente nei cosiddetti «trucchi del mestiere», scelsi dapprincipio la strada passiva, scelsi cioè di impedire a quell’attore la scelta di certe facili soluzioni interpretative, cercando a poco a poco, invece, col progredire del lavoro, di raggiungere con lui quello stile, quelle soluzioni, che si avvicinassero nel modo più convincente alla rappresentazione del «divino» nell’uomo Powell. Siccome io credo profondamente che ogni uomo, anche il più debole e il più vile, contiene in sé una parte del divino, la luce che Dio gli ha alitato dentro, cosi con Robert Powell, che non è certo né un debole né un vile, io riuscii a suscitare e a estrarre dalla sua personalità tutta quella parte in lui disponibile a parlare di cose divine» (p. 78).
«Avevo il dovere di mettere nel film tutto il messaggio e le divine parole di Gesù. Evitare gli ostacoli più difficili, sottrarsi a questa responsabilità era impensabile. Gesù diceva spesso, alternandole a parole più accessibili alle menti di chi lo ascoltava, anche molte cose di un supremo significato teologico, che perfino gli apostoli non riuscivano a capire, spiegavo a Powell [...]. Ma con loro Gesù spesso correva in soccorso dicendo che un giorno, quando le loro menti si sarebbero aperte per virtù dello Spirito Santo, avrebbero allora capito [...]. E Powell cominciava a ridere: “Ma a noi ce lo manderà lo Spirito Santo? Come faremo a trovare Gesù, a capirlo, se neppure gli apostoli che gli stavano accanto ci riuscirono?”. Battuta per battuta, non mi restava che dirgli le parole di Pascal: “Caro Robert, se cerchi Gesù vuol dire che lo hai già trovato”» (p. 102).

E siamo all’altra serie di rilievi: quelli riguardanti i valori religiosi e cristiani esplicitamente professati dal Regista. Intanto veniamo a sapere che il produttore Labella, per convincerlo ad impegnarsi in un film «che doveva essere soprattutto una riscoperta dei Vangeli [...] e un atto di amore verso il Cristo» aveva fatto appello al suo essere «italiano e cattolico» (p. 15), ed osservando che «in un momento di crisi generale dell’Occidente, una crisi di tutti i valori tradizionali e di tutti gli ideali, il film poteva forse ricordare agli uomini quanto essi stavano perdendo, scioccamente e malvagiamente» (p. 19).

Inoltre veniamo avvertiti dell’intento propriamente didattico del Regista:

«Ecco che cosa, alla fine, mi convinse ad accettare: la possibilità di compiere, grazie alle sci o più ore televisive, una grande operazione che tornasse in qualche modo utile a tutti: ai fedeli, così come agli increduli» (p. 18)
«Pretendevo di fare con questo film anche un’operazione rigorosamente didattica e dimostrare che, oltretutto, i Vangeli sono la più grande “sceneggiatura” che sia mai stata scritta» (p. 76). «La storia di Giuseppe e di Maria mi è servita per raffigurare la vera natura del popolo ebraico e, nel contempo, per mettere in luce il nostro triste e vergognoso allontanamento da un mondo di purezza e di valori che ispiravano i pensieri e le azioni dei contemporanei di Gesù» (p. 116).

Ma – caso più unico che raro nel mondo cinematografico italiano, dove da un bel pezzo è di moda dichiararsi marxisti, atei ed anticlericali o, prudentemente, mimetizzarsi in agnostici ed assenti – soprattutto leggiamo di un regista che non si vergogna di professare pubblicamente la propria fede. Intanto egli riscopre i valori eterni ed umani del Vangelo8:

«Da quando mi sono messo a lavorare nel film la mia vita è stata un succedersi di esperienze felici. In primo luogo la riscoperta del Vangelo: occasione unica per chiunque, tanto più nell’età matura» (p. 56). «Dal Vangelo ognuno può attingere ciò che gli serve. È una lettura sconfinata, tanto che potrai sempre consigliare a un uomo disperato: leggi il Vangelo e tra quelle pagine troverai la tua risposta, sempre. Sono risposte, è ovvio, esigenti, perché all’inizio di ogni discorso del Vangelo sta la solita terribile domanda: credi o non credi di essere parte di Dio? Se la risposta è sì, tutto ciò che è contro Dio non serve, va scartato. È una lettura che ti aiuta ad emergere dallo stato animale in cui sci calato e che contribuisce alla tua conquista della massima dignità [...]. Mi si è come spalancata, durante lo studio del film, una grande finestra di speranza, una prospettiva che non conoscevo e che pochi, credo, hanno messo sufficientemente il fuoco. Gesù non promette solo, attraverso la rinuncia dei beni e delle schiavitù terrene, un premio dopo la morte, ma ce lo garantisce qui, in terra, mentre viviamo! Il suo Regno lo porta a noi che siamo uomini vivi; perché la terra non deve essere un pianeta di dolore e di rinunce, ma di gioia, di sonni felici e di giornate di pace» (p. 72).

Inoltre, contro lo scetticismo e il riduttivismo razionalista con cui si trastullano molti, che magari passano per credenti e cattolici, egli crede nell’eterno ed indistruttibile che resta nel Cristo perdurante odia storia; e solo nella fiducia di aver contribuito a rafforzare in qualcuno questa sua certezza egli si accommiata dal suo film e da questo libro:

«Il suo significato, il suo destino più vero: quello di regalare un po’ di fede al mondo di oggi, tanto turbato. Non si può certo chiedere ad un film di spazzar via, con la suggestione delle sue immagini e del racconto, le incertezze, i dubbi che i testi critici continuano a sollevare intorno alla figura di Gesù e intorno ai Vangeli stessi, e che il lassismo, l’edonismo, il cinismo di comodo di questa epoca travagliata non finiscono mai di incrementare.
«Alla lettura di questi testi, e all’ascolto delle parole più corrosive, può nascere il sospetto che tutta l’immensa costruzione del cristianesimo sia nata dal nulla, da un equivoco, da un elementare bisogno morale e spirituale di un’epoca, dalla presa di coscienza di una comunità che si sarebbe riflessa nell’unica figura del Maestro, del Cristo. Un’invenzione, dunque? Ma quale meravigliosa invenzione, se è riuscita a regalare una luce universale all’umanità, ad ammansire i barbari, a piegare alla carità e alla purezza gente di ogni razza, a convincere ,i peggiori tra gli uomini a ravvedersi, e a gettare, infine, nel cuore della gente il fragile seme della bontà [...].
«Il film se ne è andato, e non so – neppure adesso che la tensione si è allentata e una grande stanchezza sopravviene – se ho fatto un’opera egregia o no. Ma se un solo fotogramma del film riuscirà a scuotere qualcuno, a risvegliare in lui l’eco di quel messaggio divino che ognuno porta dentro di sé, non solo avrò dato una giustificazione a tutti i sacrifici fatti, ma addirittura avrò dato un senso, uno scopo a tutta la mia vita» (p. 208 ss.).

Confidi pure, il nostro Regista. Opera egregia o meno, non solo qualche fotogramma, ma intere sequenze hanno fatto del bene a milioni di spettatori e, lo confessiamo, anche a noi; come ci ha fatto del bene questo suo libro.

1 F. ZEFFIRELLI, Il mio Gesù, Milano, Sperling Kupfer, 1977, 16º, 212. L. 3.800.

2 Cfr V. FANTUZZI, Vangeli cinematografici a confronto (Civ. Catt. 1977 II 579-586), in cui l’Autore mette, appunto, a confronto Il Vangelo secondo Matteo di P. P. Pasolini, Il Messia di R. Rossellini e il Gesù di Nazareth di Zeffirelli. Sulle possibilità e limiti tra mezzi cinematografici e messaggio cristiano in Zeffirelli concorda E. BARAGLI, Una favola bella: «Fratello Sole, Sorella Luna» (Civ. Catt. 1972 III 136-143).

3 Si tratta proprio del noto filosofo «enciclopedista» rivoluzionario francese, che scrisse, tra l’altro, Il paradosso dell’attor comico (1773-1778). Il De Sanctis lo definì «iniziatore di quell’alta critica che è stata detta estetica».

4 Konstantin Sergeevic Stanislawskij, nome d’arte del regista, attore e teorico teatrale russo S. Alekseev (1863-1938), che espose il suo «sistema» specialmente in Il lavoro dell’attore su se stesso (1938 e 1948). Su i due teorici cfr ancora valido L. CHIARINI – U. BARBARO, L’arte dell’attore, Roma, 1950; e il più recente A. BIANCA, Il cinema, l’attore e il rapporto arte-vita, Messina. 1960.

5 A proposito di attori, il Regista cosi si difende contro chi l’ha criticato «per il fatto che il cast messo insieme comprendeva molti tra i nomi più famosi del Gotha cinematografico. Qualcuno sorrise, altri dissero che si trattava di un’operazione alla dei divi in cartellone. La realtà era ben diversa: nessuno di questi attori era stato scelto per la risonanza del suo nome o l’attualità del suo successo, ma solo, ed esclusivamente, perché si trattava della scelta migliore, della risposta più giusta alla proposta di questo o quel personaggio. [...] Una cosa invece voglio sottolineare [...]: ed è che tutti, senza esclusione, hanno accettato compensi ben al di sotto della norma. Avevamo avvertito tutti: “La sola stella del programma è quella di Betlemme. Siamo tutti al suo servizio. Non possiamo permetterci di pagare le cifre che personalmente ciascuno merita”. E tutti hanno anteposto al calcolo, pur legittimo, il piacere di prender parte ad un’impresa cosi diversa, sotto segno così alto» (p. 46).

6 La sequenza ebbe un’appendice grottesco-drammatica; Zeffirelli la narra alla pagina 184.

7 «Non ogni fatto o fenomeno religioso è trasferibile sullo schermo [...]. L’argomento religioso presenta spesso per autori ed attori specifiche difficoltà, tra cui la principale forse consiste nel come evitare ogni traccia di artificioso e di manierato, ogni impressione di macchinalmente imparato, poiché la vera religiosità è, per sé, contraria all’esteriore ostentazione, e non si lascia facilmente “recitare”. L’interpretazione religiosa, quando anche sia condotta con retta intenzione, raramente reca l’impronta di cosa veramente vissuta, e quindi comunicabile allo spettatore» (Pio XII, Discorsi sul film ideale, 28 1955, in E. BARAGLI, Cinema cattolico, Roma 1965, nn. 462-464).

8 Sul suo modo di documentarsi ricorrendo a competenti delle differenti confessioni religiose, cfr pp. 60 e 76-77.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151