NOTE
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1 Per grazia ricevuta, Italia, Rizzoli, 197I. – Regia di Nino Manfredi. Interpreti principali: Nino Manfredi (il “miracolato” Benedetto), Lionel Stander (il farmacista ateo sor Oreste), Delia Boccardo (Giovanna, figlia del sor Oreste e “compagna” di Benedetto), Paola Borboni (madre di Giovanna).

2 Per essere precisi: al 18 luglio, con 1.070 giorni di programmazione in 16 città, l’incasso era di 1.197.426.000 lire, e gli spettatori ascendevano a 1.175.252.

3 In L’avventura di un soldato (episodio del film L’amore difficile, 1962), da un racconto di Italo Calvino. Manfredi, per 35 minuti di cinema “muto” (cioè esprimendosi soltanto con gesti e mimica), vi era anche attore, nelle vesti di un soldato in licenza, che, in treno, corteggiava e conquistava una vedova in gramaglie, e la lasciava, sorpreso, scendere dal treno, in lacrime, verso i parenti che l’attendevano alla stazione.

4 Tognazzi era passato alla regia sin dal 1961, con Il mantenuto; Sordi nel 1966, con Fumo di Londra; Gassman nel 1969, con L’alibi.

5 Per esempio: il sorriso (ironico?) del ragazzetto nella “risurrezione” di Benedetto che ricorda quello “taumaturgico” della bambina nella risurrezione di Inger in Ordet; il furgone “peccaminoso”, che rimanda a quello di Zampanò-Gelsomina di La strada; i frati del romitorio, che sono qualcosa di mezzo tra quelli di Marcelino pan y vino e quelli dei rosselliniani Fioretti; certe felliniane scenografie d’interni...

6 Ben vengano, quando occorra e siano sinceri, e per quei pochi che possano e vogliano comprenderli, anche i film ermetici. E vengano pure, purché non barino, i film impegnati in problematiche contestative, o sul sesso. Ma in linea di principio riteniamo che, sia la grande arte, sia un autentico impegno politico possano esprimersi e comunicare senza estraniarsi nell’ermetismo, o sguazzare nella para-pornografia. Sotto questo aspetto alcuni rilievi di Manfredi collimano – si parva licet... – col pensiero e la prassi di “grandi” quali René Clair e Chaplin.
Nota egli sui film ermetici: “Pigliamo dei nomi a caso. Di Pasolini che fa Accattone o il Vangelo dico benissimo, ma tutto il resto non lo capisco più (...), mi pare che stia sprecando il fiato. Fellini lo apprezzo molto, come no? ma che peccato che, proprio per non essere un pochino piu generoso, più chiaro, il lavoro di questi grandi registi, non arrivi a tutti. lo sono per il cinema che tutti capiscono. L’esempio più assurdo di film è per me Nostra signora dei turchi di Carmelo Bene (...). Questo autore non mi deve dire che ho torto se non lo capisco, e che lui solo ha ragione. Gli sperimentalismi vanno bene, ma non gridiamo al capolavoro (...). Marco Ferreri, in Dillinger è morto, tifa per tutta la notte un uomo che si prepara la minestra. Ma perché non scrive un libro invece? Perché non fa una conferenza? Come la Dacia Maraini, che sputa su questo e su quello e poi combina un film che dura venerdì e sabato, fa 300.000 d’incasso, e per passare la domenica il padrone del cinema deve tirar fuori un vecchio film di Jack Lemmon? E poi tutti gli ermetismi, quella che passa il dito sul vetro per un minuto intero e dice “Come mi fanno male i capelli”: aoh, ma che so’ queste stupidaggini? Il cinema deve essere (...) senza bellurie e preziosismi, il regista al servizio del racconto e non viceversa”.
E nota sui film sessuologici: “Non li capisco. lo sono un contadino. Mi ricordo l’imbarazzo, mio e di Monicelli, quando Bini ci portò a vedere Scacco alla regina, film sessuologico. “Mo’ che je dimo?”, ci chiedevamo. lo capisco il sesso solo come sofferenza, dono di Dio, vita. Dicono che questi film sdrammatizzano, liberano, educano. Ma non si sdrammatizza mica così. Così è come dare la torta ai bambini. Sai che ci fanno quando ne hanno troppa? Se la tirano in faccia. Con la minestra non lo fanno. Abbiamo eliminato le prostitute, giustamente, e adesso tutte le donne dovrebbero fare le prostitute, a sentir loro: il sesso meccanicizzato, il sesso sportivo, e se sei vergine ti devi vergognare. Se non vai a letto con tua madre, se non rapisci le bambine. Ma questa non è salute, non è libertà. È strumentalizzazione sbagliata di una cosa importantissima, è la stessa costrizione di quando eravamo repressi. La vera educazione sessuale è quella che ti insegna che il sesso è amore, ed è questa che do ai miei figli” (da Fusse che fusse il regista bono, in Gente, 12 giugno 1971).

7 L’Unità; (22 maggio 1971) riferiva di “usci chiusi e spaventati dalle possibili reazioni degli ambienti ecclesiastici italiani”. Ma la spiegazione di Manfredi è tutt’altra. Eccola, nel suo ciociaro: “Con Per grazia ricevuta, le porte in faccia che mi hanno sbattuto le conosco solo io: le porte di tutte le produzioni d’Italia. Ma come? Li hai abituati che la gente, con te, si sbellica dalle risa, e je vai a di’ un problema, je vai a di’ vorei fare un film sulla ricerca di Dio? “De che parla?’ me chiedevano. ‘Di Dio’. ‘Di Dio’! E che facciamo un film per il venerdì santo?’. S’è convinto Rizzoli..., uno che sapeva osa’... Andai da lui, e me fece: ‘Siccome me dicono che sei così bravo, io ti do fiducia, anche se non capisco perché proprio te, che sei così bravo a far ridere, devi andare a prendere di petto il Padreterno’. Me fece: ‘lo credo che una cosa così è la fine del mondo, e però è anche un rischio. Lo vuoi? Be’, cerca di non farmi perdere troppi milioni’” (Intervista a Lina Coletti, in L’Europeo, 1971, n. 16, p. 64).

8 Ivi.

9 Questo il giudizio di Oreste del Buono, che (in L’Europeo, 1971, 13, p. 79) scrive: “La donna che il farmacista, per coerenza, non ha mai voluto sposare, gli mette intorno preti e biascicatori di preghiere, sinché non riesce a indurre l’agonizzante a tradire un’intera vita in un sussulto meramente muscolare. Oreste muore baciando il crocifisso che gli è stato imposto alle labbra”. Ma è una visione manifestamente travisata del film, spiegabile forse con la posizione religiosa dell’A., il quale, forse, si ritrova a suo agio in quella dell’omonimo sor Oreste. Aggiunge infatti: “Confesso di avere una ragione personale per approvare. Manfredi ha rivestito con l’odioso nome che porto un personaggio simpatico, ultimo sussulto meramente muscolare a parte”.

10 “Un film veramente laico. Un film troppo cattolico. Un’offesa alla Chiesa. Un film sincero, che fa aprire gli occhi. Eccessivo. Moderato. Anticlericale. Morale, Immorale. I giudizi [...] sono contrastanti. Su una cosa sola tutti sono d’accordo: è un bel film. Per il resto, ciascuno lo interpreta a modo suo” (Il Messaggero, 21 marzo 1971).

11 Ma è degno di nota l’equilibrio con qui Manfredi ha trattato questa categoria; e sì che, se avesse voluto calcare la mano, poteva ispirarsi all’esempio ed ai consigli tutt’altro che sacerdotali datigli, egli afferma, da un noto ex gesuita (cfr L’Europeo, cit., 62). Di fatto, nel film, se il parroco compagnuolo non è proprio un modello di catechista, se i frati si rifanno al modulo convenzionale di semplicioni e giocarelloni, se il cappellano della clinica sembra più un burocratico sistematore di pratiche che un sacerdote, e se il bonario celebrante del “matrimonio” sembra non del tutto estraneo a certe pastette familiari: il priore del convento è senz’altro un modello di buon senso e d’equilibrio anche “religioso”, ed il vecchio parroco del paese, almeno per il modo con cui sopporta le burle dell’ateo, passa senz’altro come un buon sacerdote.

12 L’Europeo, cit., 64.

13 Egli avrebbe asserito: “Che cosa ho voluto dire? Che io sono un credente, che sono religiosissimo. Non credo nella Chiesa, nelle sue sovrastrutture, nei suoi rappresentanti. Ma io con Dio ci parlo: non so con chi parlo, ma ci parlo. Perché l’uomo ha bisogno di credere in qualcosa. Io sono uno che ha bisogno...” (Il Messaggero, cit.).

14 L’Europeo, cit., 64.

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Articolo estratto dal volume III del 1971 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

È notte alta. In una clinica sul mare viene portato un uomo, raccolto – ancora non sappiamo se precipitato o suicida – nella scogliera a strapiombo. E vi giunge, dopo una corsa folle in auto sulla battigia, un celebre chirurgo, scovato in un party nella lontana città. “Frattura del cranio e del bacino” – diagnostica il radiologo. “Sono arrivato appena a tempo – dice il celebre chirurgo –; l’unica è operarlo subito: anche senza sangue per trasfusioni, anche senza anestesia totale”.

Benedetto Parisi – così si chiama il malconcio – sente tutto e, sotto i ferri, rivà tutta la sua strana vita di “miracolato”. Si rivede, settenne, orfano in un paesotto della montagna ciociara. Poca scuola e molte scappatelle coi compagni. Paure notturne nello scricchiolante solaio della zia: una vedova molto prosperosa e bigotta, ma poco virtuosa. Il catechismo nell’orto del parroco, ad imparare, tra cespi d’insalata e sotto il fico maturo, la materia e forma dell’estrema unzione e la paura del peccato; e, per proteggerlo contro il peccato, l’assegnazione a sorte di un santo protettore. Gli tocca sant’Eusebio, e Benedetto non n’è entusiasta. Come primo omaggio, dato che il santo è morto bruciato dai turchi, gli rinnova il martirio incendiandone ed annaffiandone, lui ed i suoi diuretici coetanei, il fantoccio. Ma il santo si fa sentire: prima sbucando, di notte, in carne ed ossa, dall’armadio scricchiolante che è presso il non casto letto della zia, e poi dandogli “il segno” che doveva decidere di tutta la sua vita.

Guardare le gambe alle ragazze in riva al fiume, gli hanno insegnato, è peccato mortale. Benedetto le ha guardate, ma non ha il coraggio di confessarsi; dunque: la sua prima comunione è sacrilega! Mezzo soffocato, fugge dall’altare e dalla chiesa, precipita da un muraglione, pare morto. Invece si rialza, illeso. “Miracolo!” – grida una donna – “sant’Eusebio ha fatto il miracolo!”. E in onore del taumaturgo tutto il paese sfila in processione, con angeli, fiamme, nuvole, candele, stendardi, statue, musica e canti: avanti a tutti, candela in mano e in saio francescano, il “miracolato” Benedetto, che la zia, riconoscente, ha consacrato al santo protettore.

Ritroviamo Benedetto, aiutante tuttofare in un romitorio di frati francescani. Giovanotto maturo, sarebbe ora che pensasse ad un mestiere e ad una famiglia. Ma lui non se ne preoccupa: è un “consacrato”: tocca al santo protettore farsi yivo con un altro segno. E il segno arriva, violento, quando Benedetto, per ordine del padre guardiano, sloggia e confina nella cantina la pacchiana statua del santo che troneggiava nella sua cella.

Per sua disgrazia – o per sua fortuna? ancora non lo sa – nelle adiacenze del convento, in riva al torrente, si accampa una colonia estiva, con una vigilatrice giovane e fresca. Un giorno che, di lontano, stava a guardarla giocare con le bambine presso la riva, Benedetto la vede alle prese con una vipera. Accorre, la difende e la medica, come il caso esige, succhiando il sangue che le scorre in una gamba. Ma quel contatto intimo ed imprevisto lo sconvolge. Vaga fino a notte nella campagna. Riportato in convento, si sbornia, e combina, nella cucina-cantina in cui s’è chiuso, una liturgia dissacratoria, con un contrappunto sonoro non proprio ortodosso alle litanie della Madonna cantate dai frati. È il suo congedo da essi.

Sempre sotto i ferri del chirurgo, mentre tra i suoi familiari in attesa c’è chi spera che ce la faccia e chi, invece, prega perché ci rimanga, Benedetto rivive il suo laborioso rodaggio di “sconsacrato”. Le prime sue prove sul binario dell’erotismo e dell’irreligione sono maldestre. Basta un canto religioso sulla porta di una chiesa per fargli interrompere il suo commercio ambulante di indumenti femminili “peccaminosi”; e si vede che il santo protettore non gli è rimasto soltanto in effige nel portafoglio se, quando la prima donna “chiacchierata” gli si offre nel furgone chiassosamente “diabolico”, le sue reazioni sono ancora quelle ingenue del monello Benedetto con le grazie prosperose della zia.

Proverà a sottrarlo del tutto all’influsso di sant’Eusebio un santo “laico”: il volterriano farmacista sor Oreste, collezionatore dei “miracoli” più sadici di una Provvidenza beffarda, praticante e teorico incallito del libero amore. Faccia come lui, Benedetto: vada a donne, infischiandosi di tutti i tabù dei preti! E Benedetto ci prova; ma superare due tabù alla volta – l’erotismo venale, e con una sposata! – proprio non gli riesce. Fortuna che il sor Oreste ha una figlia – ovviamente illegittima e “scomplessata” – che gli si offre in un primo amore vero, pulito. Egli l’accetta; ma, sia ben chiaro, per un matrimonio religioso, in chiesa. Sennonché, avanti al prete il “sì” non gli viene. I passi del suo santo “laico”, rimbombanti sulla soglia della chiesa, lo fanno decidere: Niente matrimonio sacramento! Giovanna sarà sua “compagna” e basta. E da quel giorno – ricorda Benedetto, mentre l’intervento chirurgico volge alla fine – sotto la protezione del sor Oreste visse tranquillo e felice, nell’amore e nell’ateismo, finalmente libero da ogni tabù e da ogni soggezione per l’aldilà.

Ma gli càpita il più imprevisto degli imprevisti. Il farmacista ha un colpo al cuore. Benedetto accorre al suo letto: il sor Oreste non è più lui. Esita a bestemmiare. Gli stringe la mano, a lui, Benedetto, che nella notte dell’iniziazione all’ateismo e alla vita dissoluta, si era abbandonato, sicuro, sulla sua mano di guida. Accanto al suo letto è la donna che egli ha reso madre, e che per vent’anni ha beffato ed oltraggiato: ed egli non la scaccia. Viene il prete e gli amministra l’estrema unzione: sì, con quella formula che lui, Benedetto, ha imparato nell’orto del parroco; e il volterriano sor Oreste l’accetta; anzi, poi, bacia con pietà il crocifisso che il prete, tante volte da lui burlato e deriso, gli porge. Benedetto si sente perduto. È quello il suo maestro tanto sicuro? Allora, l’aldilà... Se è così, lui, Benedetto, ha sbagliato tutto: il “matrimonio”...; e la vita laica che si è imposto con tanta fatica non ha senso: meglio stroncarla buttandosi in mare...

Ora l’operazione è finita. Benedetto, nel suo letto, con l’ossigeno, torna lentamente in sé, ma non può parlare. Apre gli occhi, e vede, accanto a sé, Giovanna, fiduciosa; avanti a sé, il chirurgo: scuro, accigliato, barbuto: tale e quale il “santino” avuto in sorte alla prima comunione; tale e quale la pacchiana statua di sant’Eusebio sloggiata dalla sua cella. E sente che lo strano chirurgo, andandosene, pronostica perentorio: “Guarirà: ma è un vero miracolo!” Benedetto sbarra gli occhi. Sul suo sbalordimento, le note sonore della banda che lo aveva accompagnato nella sua processione di “miracolato”, e la parola FINE.

Questo, grosso modo, il “soggetto” del film di Nino Manfredi Per grazia ricevuta1, che a Cannes-’71 si è aggiudicato il premio “Opera prima”; che la critica giornalistica, italiana e straniera, ha applaudito unanime, e che il pubblico va accogliendo con favore straordinario. Solo in Italia, infatti, in poco più di tre mesi di prima visione, ha incassato oltre un miliardo, da più di un milione di spettatori, piazzandosi al primo posto nella stagione cinematografica 1970-’712.

Ragioni di un successo

Come si spiega tanto successo? – La grande arte, di regola, non riscuote soverchi entusiasmi dalla critica e, in ogni modo, è dubbio che quella più ponderata delle riviste culturali seguirà certi estemporanei bollori della critica giornalistica. Certo: Manfredi, dopo una prima promettente prova di regia di una decina di anni fa3, supera con lode questo esame di maturità, soprattutto in confronto con le prove di regia, non altrettanto felici, degli altri tre mattatori del cinema comico italiano: Ugo Tognazzi, Alberto Sordi e Vittorio Gassman4. Sì: grazie anche ai suoi collaboratori: luci, colore, fotografia, scenografie, taglio delle inquadrature, scelta degli interpreti: tutto è tecnicamente perfetto. Inappuntabile la recitazione, a cominciare da quella dello stesso Manfredi: se di recitazione si può parlare quando tutto sembra còlto sul vivo. Quasi perfetto il ritmo narrativo, scandito – salvo errore – in cinque flash-backs...

Ma ad un’analisi ponderata qualcosa non sodisfa appieno. Per esempio: la compattezza narrativa appare affidata, spesso, a raccordi figurativo-sonori intelligenti, sì, ma convenzionali. Anche la sceneggiatura denuncia un troppo accorto mestiere, qua e là sfruttando anche prestiti “preziosi”5, in contrasto con – si direbbe – l’ostentato realismo dei fatti e dei personaggi. La reazione forsennata e “scandalosa” del “consacrato” dopo l’incontro traumatizzante con la giovane assistente è, certamente, un pezzo narrativo e figurativo divertente, ma psicologicamente improbabile in un ingenuo giovanotto, vissuto – si presume – sempre con i frati e lontano dal “mondo”. Ed anche meno persuade l’uso dei flashback. Che, infatti, iniziano, opportunamente, come soggettivi rispetto all’operando suicida, sicché dispongono lo spettatore a rivivere le comico-drammatiche vicende del film con gli occhi e l’animo stesso del “miracolato”; e giustificano, inoltre – in quanto fantasticate nel suo ricordo, e non reali – alcune forzature narrative (nella processione), scenografiche (la felliniana cucina conventuale), ecc., le quali, diversamente, risulterebbero gratuite. Ma poi i flash-back passano o in quasi soggettivi rispetto ad altri personaggi (la storia d’amore, di Giovanna), interrompendo così la linea di partecipazione dello spettatore; oppure passano addirittura ad oggettivi, degradando a puro espediente narrativo del regista, in un racconto a suspense in cui lo spettatore resta sostanzialmente estraneo.

Per quanto riguarda il successo di pubblico, la ragione più ovvia parrebbe trovarsi nella sua aspettativa di uno spettacolo tutto da ridere. “Se Manfredi – dovrebbero essersi detto gli spettatori – come attore comico mi dà tanto, figurarsi le risate quando è anche regista!”. E, in verità, il pubblico ride; tuttavia, non più che in altri film, anche dello stesso Manfredi, dato che, contrariamente alle attese, raramente egli sfiora la farsa o la barzelletta gratuita, mantenendosi in una comicità sorvegliatissima e, come vedremo, tutt’altro che scacciapensieri.

Il pubblico accorre, pensiamo, anche e soprattutto perché Manfredi racconta una storia originale, non alambiccata; con personaggi veri, in stile semplice; non sdegnando i sentimenti quando siano genuini; riportando gli spettatori, specie nella prima parte, in un mondo vergine, villico, direi casereccio, dal quale le troppe astruserie ideologiche ed espressive, e l’erotismo esasperato e pretestuosamente contestatorio di tanto cinema, anche italiano, impegnato o di consumo, l’aveva disabituato6.

Qui siamo, infatti, al raccontare popolare, schietto. I ricordi dell’infanzia – spensierate scorribande con i coetanei nella natura pulita e luminosa, sete di affetto ed oscuri turbamenti prodotti dall’egoismo dei grandi... – perdurano, un po’ coloriti ma non falsati dal tempo trascorso. Il saporoso dialetto ciociaro aderisce ai personaggi, autentici anche nella loro ipocrisia provinciale. Virtù non eroiche e vizi non straordinari si mescolano: non predicate le virtù, non denunciati i vizi, neanche quando (come nella madre di Giovanna e nel suo “avvocato”) sfondano nel cinismo più rispettabile: ma discretamente rilevati, tra il benevolo, l’ironico e il rassegnato. La stessa intelaiatura di commedia all’italiana è ridotta al minimo: lo spettacolare non cancella il problematico, la battuta comica viene al momento giusto ad evitare che il racconto d’amore scivoli nel convenzionale (il dialogo notturno con Giovanna, sulla brandina), o che la tensione drammatica si falsi in retorica teatrale (l’acqua bollente, dopo la morte del sor Oreste). Questa sua aderenza al vissuto quotidiano e questo senso della misura nell’uso della comicità, sì da venire incontro alle attese del pubblico, ma senza misconoscerne le risorse d’intelligenza e di buon senso, ha fatto vincere a Manfredi la scommessa, che tutti gli dicevano perduta in partenza7, di ottenere successo di pubblico e di cassetta portando sullo schermo un problema, non solo serio, ma, come vedremo, il più serio e drammatico che esista. La sua teoria in proposito, anche se esposta in termini non proprio cattedratici, risulta, alla prova, esatta.

“Sono – dice egli – uno che vuole gridare: viva la comprensibilità. E invece no: tutti a crede’ che per queste cose, o s’ha da diventa’ noiosi, o s’ha da esse; geni come Buñuel, che però nun te fa ride’ mai, mentre per noi, per il nostro carattere, per il nostro temperamento, la risata è necessaria. Da noi, alla gente je puoi di’ tutto, ma senza piglia’ niente troppo sul tragico. Come a di’: ‘Va be’, ma, intanto, facciamoci un altro bicchiere di vino’. Anche se, poi, trovare questo bicchiere di vino in mezzo a un discorso serio esige una preparazione, una misura, una sensibilità incredibili. Un gioco d’equilibrio difficilissimo [...]. Il mio film è tutto così: un contrappunto continuo [...]. Questo discorso lo vorrei rifa’: osando ancora di più, facendo ride’ ancora di più. Perché ho capito che i grandi discorsi li puoi fare benissimo anche in questa maniera. lo di che cosa ho sempre accusato gli intellettuali? Che in Italia, dove si ride non è un discorso serio. E così distruggono tutto, da Plauto fino a Cecov. Ma come? Fino alla commedia dell’arte erano dei geni, e d’improvviso ci nascondiamo dentro questa cosa provincialissima che, se si ride, non è un discorso serio? Ma, dico: Chaplin ha fatto solo questo. Ha raccontato tragedie immani facendo ridere la gente...”8.

Il grande discorso

In Per grazia ricevuta il “grande discorso” si snoda tutto sulla religione, nel senso immediato, etimologico, del termine; cioè dei rapporti dell’uomo con Dio, necessitati dalla presenza o meno di Dio nella esistenza umana. Non, perciò, nella problematica letteraria e sociologica del Pasolini, mettiamo, di Medea, dove il Dio personale si estenua nel sacrale pan-naturalistico; né in quella emotivo-fantastica di tanti “semplici” felliniani, vaganti al di qua o al di là del razionale; tanto meno in quella dichiaratamente atea di alcuni film di Buñuel, anche se in essi un’ironia blasfema e distruttiva tradisce sopite nostalgie di un cristianesimo perduto. Al dire dello stesso Manfredi, il film è “la storia di un uomo che cerca disperatamente Dio”. Una storia, non di personaggi di fantasia, distanti nel tempo, o – come in molti film di Bergman – portatori di angosce “teologiche”, ma raccontata in prima persona, da un uomo comune, perseguitato ed attratto insieme da un’ineliminabile Presenza.

Infatti personaggi eventi e problemi della vita di Benedetto Parisi si qualificano tutti come rapporti rispetto a Dio. Da una parte un ambiente “religioso” contadino, superstizioso ed ignorante, che lo avviluppa senza illuminarlo, e gli assicura una falsa sicurezza, a patto che non pensi con la sua testa e si rimetta passivamente ad un’inaccessibile Provvidenza; dall’altra un ateo, consapevole ed aggressivo, che, dopo avergli dimostrato, prove alla mano, assurda la Provvidenza, lo esorta a fare a meno di Dio, ed a ragionare. Ed egli ragiona. Che cosa ha fatto, la religione, della sua infanzia e della sua giovinezza? Addio gioie della natura pura ed innocente: angosce e paure lo accompagnano nell’età adulta. Nessuna “grazia” che lo liberi, e che lo maturi, come uomo prima che come cristiano: ma il complesso del peccato, ma l’incubo del sacrilegio, ma la virilità bloccata dall’idea del sesso come colpa, dalla donna fuggita come peccato. Si scuota, dunque, di dosso l’idea di Dio – gli insegna il farmacista – e tutti i suoi complessi spariranno. Guardi lui, ateo ed anticlericale! Libero pensiero, e: via ogni facciata ipocrita, a cominciare dall’onestà sessuale. Niente matrimonio, libero amore, contraccettivi! Benedetto accetta la lezione dell’ateo libertino, abbandonandosi, mano nella mano, alla sua guida. Ma il rodaggio pratico gli riesce difficoltoso. Troppi sono i tabù – del codice morale, del peccato, del pudore, della paura, delle convenzioni... – da superare! Ci riesce, tuttavia, seguendo l’esempio di Giovanna, degna figlia della sua guida: sicura di sé, libera da ogni complesso, femminilità non demoniaca, erotismo senza peccato se è amore: ma sì, anche infischiandosi del matrimonio e dei preti!

Benedetto pensa di essere finalmente uscito dall’infantilismo del “miracolato”. Santi e preti sono per sempre dimenticati. Ormai è sicuro di sé: si è fatta una posizione, e la sua “compagna” sta per dargli un figlio... Ma quella sua sicurezza, di un colpo, si rivela precaria. Avanti alla morte, il sor Oreste si dimostra tutt’altro che saldo, dietro la sua facciata di miscredente e di vitaiolo. Adesso è lui, l’ateo, che è tentato di pregare, e che si aggrappa alla sua mano in cerca di aiuto. Lui, il libertino, non caccia via dal suo capezzale la donna che ha sempre irriso. Dal prete, già zimbello delle sue burle, riceve, docile, l’estrema unzione, e bacia – non “in un sussulto meramente muscolare”9, ma consapevole e devoto – il crocifisso che il sacerdote gli porge.

Benedetto Parisi non regge al colpo. Chi, dei due, ha sbagliato tutto? Il sor Oreste, rinnegando, nel “momento della verità”, tutta la sua vita senza Dio e senza scrupoli; oppure lui, che s’è scrollato di dosso l’Uno e gli altri, seguendone l’esempio? Da bambino, la paura di un presunto sacrilegio lo fece fuggire e precipitare da un muraglione, ed è dubbio che un santo l’abbia protetto; ora lo spavento di un’esistenza tutta sbagliata, avanti a Dio prima che avanti agli uomini, lo porta, con la stessa illogicità, a troncarla col suicidio: e vediamo se questa volta il miracolo vero avviene!

Lo spettatore sa che “il miracolo” avviene. Per miracolo Benedetto non muore sfracellato; per miracolo uno strano autista notturno assiste al suo tonfo, e può chiamare al soccorso; per miracolo quelli della clinica pescano, in un party lontano, il chirurgo bravissimo; per miracolo questi giunge a tempo, e può operarlo in condizioni disperate... Ma Benedetto, sotto i ferri, non lo sa. Sente solo che l’intervento miracoloso di Qualcuno è stato il problema di tutta la sua vita, e che, adesso che comincia a tornare in sé, il problema gli si ripropone più acuto ed impreteribile. Aprendo gli occhi vede, infatti, avanti a sé il chirurgo “salvatore”. Ma non è, quello, il “santino” sorteggiato nella prima comunione? Non è, quello, il “fantoccio” da lui bruciato ed irrorato, la statua che gli ingombrava la cella del romitorio? E vede, presso il suo letto, Giovanna, anch’essa non più sicura come una volta. E sente il “chirurgo” congedarsi con un perentorio: “Ce la farà: ma è stato un vero miracolo!”

Anche i giovani meditano

Per grazia ricevuta non è un film a tesi; tanto meno, come già s’è detto, è un film edificante, da venerdì santo. Perciò è suscettibile di interpretazioni diverse secondo le differenti situazioni religiose degli spettatori10.

Riguardo ai cattolici, non si esclude che qualcuno vi rilevi spunti dissacratori di dubbio gusto: per esempio nel rito della prima comunione, o nell’alternarsi delle litanie dei frati con quelle di Benedetto ubriaco: uno dei rari momenti gratuitamente grotteschi del film. Né si esclude che altri gli rimproverino un preconcetto e deviante confronto tra superstizione degradante ed ateismo liberante, al posto di quello, più oggettivo, tra cristianesimo autentico ed ateismo anticlericale. Tuttavia, l’impressione generale resta positiva, perché le storture del mondo cattolico che si rilevano nel film, purtroppo, non sono ipotetiche, né soltanto di tempi remoti. Un insegnamento formulistico del catechismo, senza aperture ad esperienze religiose personali; un cristianesimo ridotto a codice di proibizioni, ossessione del peccato, negatore di ogni valore umano sacrificato ad una “grazia” astratta; una prassi religiosa ridotta a superstizione folkloristica, ipocrita facciata ad una morale di compromessi; sacerdoti e religiosi, suoi rappresentanti qualificati, non sempre fedeli alla loro funzione di guida11: sono altrettanti punti che noi sacerdoti dovremmo meditare, soprattutto in questo post-concilio rinnovatore, quali concause della crisi religiosa di tanti giovani.

Ma anche i non credenti, anche i molti che di cattolico e di credente non conservano che il nome, sono indotti, dal film, a pensare e a meditare. “La gente – osserva lo stesso Manfredi – va lì per farsi quattro risate, e trova un tema talmente universale che la deve toccare per forza, se non è di legno. E così, alla fine, dice: ‘Di risate me ne sono fatte due soltanto, ma però me so’ interessato: ho trovato uno spettacolo e anche un problema. Un problema universale’”12.

È proprio vero – sono portati a chiedersi gli spettatori “lontani” – che la sicurezza che cerco si trova nell’ateismo, teorico e pratico che sia? È proprio vero che, al “momento della verità”, non mi si porrà, forse troppo tardi per redimere una vita fallita, il problema di Dio e dell’aldilà? È proprio vero che tutte le norme morali sono tabù da superare? Che l’erotismo sfrenato sia liberazione, affermazione, conquista; che è segno di maturità vergognarsi del pudore e del rispetto dovuto alle leggi della trasmissione della vita?

Ci si potrà, magari, come Manfredi, professare non cattolici13 ed anche non cristiani; ma occorrerà convenire che senza una fede non si vive. Forse per questo, come ancora lo stesso Manfredi rileva, anche i giovani escono sconvolti dal suo film. Riferisce egli in una pagina che è una lezione:

“Dice: e i tuoi figli? I miei figli li ho avvertiti. Gli ho raccontato loro il mio problema. Gli ho detto: ‘lo invidio mamma, perché mamma non ha dubbi; e, invece, chi non ha fede è un disperato come me’. Chissà come me comporterò io quando me staranno a dì: ‘Guarda che, altri tre fiati, e sei arrivato’. Forse chiamo il prete: che mi aiuti; ché mica c’è scampo... lo quando vedo che i miei figli hanno bisogno di mettersi l’idolo, il portafortuna, gli dico: ‘Vedete che puro voi avete necessità d’aggrapparve a qualche cosa’. Te lo ripeto: quello della crisi religiosa è il dramma più grosso, più attuale, più sentito. Perché ci abbiamo ancora san Pietro, san coso, ma l’educazione è tutta sbagliata, e i giovani oggi pregano cantando con la chitarra, ma non basta: bisogna andare alla base. I giovani lo soffrono questo dramma. Ieri il mio film l’hanno visto dieci studenti. Un’ora dopo, una ancora aveva le convulsioni. M’ha parlato per telefono e m’ha fatto mette a piagne puro a me. ‘Sono sconvolta, sono sconvolta’ – continuava a dì –: ‘ho visto la mia storia, voglio discuterne con lei’. E tutti i compagni: ‘Sì, sì, venga. Venga a parlarne all’università’. ‘Parlatene tra voi’ ho detto io. ‘Già li professori li prendete a calci, che me metto a fa il professore puro io? Guardate il mio film e parlatene. Io mi sono già espresso, ho detto tutto. lo è lì che sono sincero’”14.

Infatti. E c’è da ringraziarlo per questa sua sincerità; ed augurargli che continui per questa strada, una volta che l’ha imboccata con tanto successo.

1 Per grazia ricevuta, Italia, Rizzoli, 197I. – Regia di Nino Manfredi. Interpreti principali: Nino Manfredi (il “miracolato” Benedetto), Lionel Stander (il farmacista ateo sor Oreste), Delia Boccardo (Giovanna, figlia del sor Oreste e “compagna” di Benedetto), Paola Borboni (madre di Giovanna).

2 Per essere precisi: al 18 luglio, con 1.070 giorni di programmazione in 16 città, l’incasso era di 1.197.426.000 lire, e gli spettatori ascendevano a 1.175.252.

3 In L’avventura di un soldato (episodio del film L’amore difficile, 1962), da un racconto di Italo Calvino. Manfredi, per 35 minuti di cinema “muto” (cioè esprimendosi soltanto con gesti e mimica), vi era anche attore, nelle vesti di un soldato in licenza, che, in treno, corteggiava e conquistava una vedova in gramaglie, e la lasciava, sorpreso, scendere dal treno, in lacrime, verso i parenti che l’attendevano alla stazione.

4 Tognazzi era passato alla regia sin dal 1961, con Il mantenuto; Sordi nel 1966, con Fumo di Londra; Gassman nel 1969, con L’alibi.

5 Per esempio: il sorriso (ironico?) del ragazzetto nella “risurrezione” di Benedetto che ricorda quello “taumaturgico” della bambina nella risurrezione di Inger in Ordet; il furgone “peccaminoso”, che rimanda a quello di Zampanò-Gelsomina di La strada; i frati del romitorio, che sono qualcosa di mezzo tra quelli di Marcelino pan y vino e quelli dei rosselliniani Fioretti; certe felliniane scenografie d’interni...

6 Ben vengano, quando occorra e siano sinceri, e per quei pochi che possano e vogliano comprenderli, anche i film ermetici. E vengano pure, purché non barino, i film impegnati in problematiche contestative, o sul sesso. Ma in linea di principio riteniamo che, sia la grande arte, sia un autentico impegno politico possano esprimersi e comunicare senza estraniarsi nell’ermetismo, o sguazzare nella para-pornografia. Sotto questo aspetto alcuni rilievi di Manfredi collimano – si parva licet... – col pensiero e la prassi di “grandi” quali René Clair e Chaplin.
Nota egli sui film ermetici: “Pigliamo dei nomi a caso. Di Pasolini che fa Accattone o il Vangelo dico benissimo, ma tutto il resto non lo capisco più (...), mi pare che stia sprecando il fiato. Fellini lo apprezzo molto, come no? ma che peccato che, proprio per non essere un pochino piu generoso, più chiaro, il lavoro di questi grandi registi, non arrivi a tutti. lo sono per il cinema che tutti capiscono. L’esempio più assurdo di film è per me Nostra signora dei turchi di Carmelo Bene (...). Questo autore non mi deve dire che ho torto se non lo capisco, e che lui solo ha ragione. Gli sperimentalismi vanno bene, ma non gridiamo al capolavoro (...). Marco Ferreri, in Dillinger è morto, tifa per tutta la notte un uomo che si prepara la minestra. Ma perché non scrive un libro invece? Perché non fa una conferenza? Come la Dacia Maraini, che sputa su questo e su quello e poi combina un film che dura venerdì e sabato, fa 300.000 d’incasso, e per passare la domenica il padrone del cinema deve tirar fuori un vecchio film di Jack Lemmon? E poi tutti gli ermetismi, quella che passa il dito sul vetro per un minuto intero e dice “Come mi fanno male i capelli”: aoh, ma che so’ queste stupidaggini? Il cinema deve essere (...) senza bellurie e preziosismi, il regista al servizio del racconto e non viceversa”.
E nota sui film sessuologici: “Non li capisco. lo sono un contadino. Mi ricordo l’imbarazzo, mio e di Monicelli, quando Bini ci portò a vedere Scacco alla regina, film sessuologico. “Mo’ che je dimo?”, ci chiedevamo. lo capisco il sesso solo come sofferenza, dono di Dio, vita. Dicono che questi film sdrammatizzano, liberano, educano. Ma non si sdrammatizza mica così. Così è come dare la torta ai bambini. Sai che ci fanno quando ne hanno troppa? Se la tirano in faccia. Con la minestra non lo fanno. Abbiamo eliminato le prostitute, giustamente, e adesso tutte le donne dovrebbero fare le prostitute, a sentir loro: il sesso meccanicizzato, il sesso sportivo, e se sei vergine ti devi vergognare. Se non vai a letto con tua madre, se non rapisci le bambine. Ma questa non è salute, non è libertà. È strumentalizzazione sbagliata di una cosa importantissima, è la stessa costrizione di quando eravamo repressi. La vera educazione sessuale è quella che ti insegna che il sesso è amore, ed è questa che do ai miei figli” (da Fusse che fusse il regista bono, in Gente, 12 giugno 1971).

7 L’Unità; (22 maggio 1971) riferiva di “usci chiusi e spaventati dalle possibili reazioni degli ambienti ecclesiastici italiani”. Ma la spiegazione di Manfredi è tutt’altra. Eccola, nel suo ciociaro: “Con Per grazia ricevuta, le porte in faccia che mi hanno sbattuto le conosco solo io: le porte di tutte le produzioni d’Italia. Ma come? Li hai abituati che la gente, con te, si sbellica dalle risa, e je vai a di’ un problema, je vai a di’ vorei fare un film sulla ricerca di Dio? “De che parla?’ me chiedevano. ‘Di Dio’. ‘Di Dio’! E che facciamo un film per il venerdì santo?’. S’è convinto Rizzoli..., uno che sapeva osa’... Andai da lui, e me fece: ‘Siccome me dicono che sei così bravo, io ti do fiducia, anche se non capisco perché proprio te, che sei così bravo a far ridere, devi andare a prendere di petto il Padreterno’. Me fece: ‘lo credo che una cosa così è la fine del mondo, e però è anche un rischio. Lo vuoi? Be’, cerca di non farmi perdere troppi milioni’” (Intervista a Lina Coletti, in L’Europeo, 1971, n. 16, p. 64).

8 Ivi.

9 Questo il giudizio di Oreste del Buono, che (in L’Europeo, 1971, 13, p. 79) scrive: “La donna che il farmacista, per coerenza, non ha mai voluto sposare, gli mette intorno preti e biascicatori di preghiere, sinché non riesce a indurre l’agonizzante a tradire un’intera vita in un sussulto meramente muscolare. Oreste muore baciando il crocifisso che gli è stato imposto alle labbra”. Ma è una visione manifestamente travisata del film, spiegabile forse con la posizione religiosa dell’A., il quale, forse, si ritrova a suo agio in quella dell’omonimo sor Oreste. Aggiunge infatti: “Confesso di avere una ragione personale per approvare. Manfredi ha rivestito con l’odioso nome che porto un personaggio simpatico, ultimo sussulto meramente muscolare a parte”.

10 “Un film veramente laico. Un film troppo cattolico. Un’offesa alla Chiesa. Un film sincero, che fa aprire gli occhi. Eccessivo. Moderato. Anticlericale. Morale, Immorale. I giudizi [...] sono contrastanti. Su una cosa sola tutti sono d’accordo: è un bel film. Per il resto, ciascuno lo interpreta a modo suo” (Il Messaggero, 21 marzo 1971).

11 Ma è degno di nota l’equilibrio con qui Manfredi ha trattato questa categoria; e sì che, se avesse voluto calcare la mano, poteva ispirarsi all’esempio ed ai consigli tutt’altro che sacerdotali datigli, egli afferma, da un noto ex gesuita (cfr L’Europeo, cit., 62). Di fatto, nel film, se il parroco compagnuolo non è proprio un modello di catechista, se i frati si rifanno al modulo convenzionale di semplicioni e giocarelloni, se il cappellano della clinica sembra più un burocratico sistematore di pratiche che un sacerdote, e se il bonario celebrante del “matrimonio” sembra non del tutto estraneo a certe pastette familiari: il priore del convento è senz’altro un modello di buon senso e d’equilibrio anche “religioso”, ed il vecchio parroco del paese, almeno per il modo con cui sopporta le burle dell’ateo, passa senz’altro come un buon sacerdote.

12 L’Europeo, cit., 64.

13 Egli avrebbe asserito: “Che cosa ho voluto dire? Che io sono un credente, che sono religiosissimo. Non credo nella Chiesa, nelle sue sovrastrutture, nei suoi rappresentanti. Ma io con Dio ci parlo: non so con chi parlo, ma ci parlo. Perché l’uomo ha bisogno di credere in qualcosa. Io sono uno che ha bisogno...” (Il Messaggero, cit.).

14 L’Europeo, cit., 64.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151