NOTE
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1 Il Quotidiano, 9 febbr.

2 Segnalazioni Cinematografiche, Roma 1960, vol. XLVII, p. 120.

3 Nell’ordine: Paese Sera, 13 febbr.; ivi; Filmcritica, febbr. 1960, n. 94, p. 77; Paese Sera, 12 febbr.; ivi; Paese Sera, 11 febbr.

4 Cfr il testo rispettivamente in Osservatore Romano e Quotidiano, 10 febbr.

5 Il direttore dell’Angelicum di Milano, padre A. ZUCCA, avrebbe detto: «Sono miserie che non è opportuno portare sullo schermo; ed è una vera vergogna giustificare la pellicola dicendo che essa riproduce la vita di oggi». Don U. Traversari, direttore di Vita Nuova, avrebbe osservato: «Come sacerdote escludo la visione ai giovani, perché, se si approda ad un eventuale risultato positivo, ciò avviene attraverso una troppo marcata descrizione del marcio... La negazione di ogni speranza mi è parsa troppo cupa...». «Noi propendiamo — ha scritto DON BEDESCHI — per un giudizio negativo, insanabile. Le nostre ragioni partono non tanto dal contenuto, ma dallo stile distaccato, narrativo, acritico, divertito, che Fellini ha voluto mantenere volutamente nella narrazione» (Vita, 1960, n. 8, p. 36).

6 G.L. RONDI, Il Tempo, 14 febbr.

7 Paese Sera, 12 febbr.

8 Letture, 1960, n. 3, p. 220.

9 I numeri in parentesi quadre nel testo rimandano ai numeri marginali del volume: E. BARAGLI, Cinema cattolico, Documenti della Santa Sede sul cinema, Roma 1959.

10 Filmcritica, cit. p. 140.

11 E. FINESTAURI, in Giornale dello spettacolo, 1960.

12 A questo proposito anche L. RUSSO nega «la catarsi attraverso la crudezza delle scene», ed aggiunge: «Ma anche nel seicento pomposo e barocco dei Promessi Sposi, avvenivano tante cose che l’altissimo Manzoni sapeva velare però con profonda verecondia... Questa la funzione dell’arte: il Pudore e la Pietas con la P maiuscola» (in Belfagor, 1960, n. 2, pp. 226, 227).

13 Perciò riteniamo un po’ eccessivo l’ottimismo col quale C. M. STAEHLIN scrive de palabras e imágines menos indicadas para colegiales, pero que no pueden ser tentación ni escándalo para un hombre normai... (Echos y dichos, 1960, giugno, p. 521). Forse con maggior pertinenza Letture (Chiarificazione, 1960, n. 7, p. 530) rileva «che l’immagine, e soprattutto quella a carica emotiva o addirittura erotica, resta ambigua, e di tale ambiguità non si può non tener conto. Il discorso quindi vale per quanto di male La dolce vita rappresenta, soprattutto in certi suoi punti culminanti, rappresentati a modo di realistica e laica confessione di particolari...».

14 L’Europeo, cit. p. 41.

15 Bianco e Nero, 1960, nn. 1/2, p. 7.

16 T. KEZICH, La dolce vita, cit. pp. 35, 46.

17 Ivi, p. 69.

18 M. MoLLANDINI, Schermi, cit. p. 17.

19 «Vuole essere la storia di quella vita “dolce”, cioè quel clima molle nel quale Marcello viene sempre più a trovarsi immerso, a mano a mano che si affievoliscono in lui le nobili aspirazioni con le quali era partito dalla città nativa» (Letture, cit. p. 209).

20 Schermi, cit. p. 36.

21 L’Europeo, cit. p. 43.

22 Vita, cit. p. 39, riportato in Il nostro tempo, 12 febbr. 1960. – Qualche mese dopo egli ripeteva: «Certo il caso mi ha fatto avvertito in maniera più precisa, con orgoglio e sgomento insieme, di quante responsabilità e di quale delicatezza debba essere provvisto chi fa il ... cantastorie, e chi parla a pubblici così vasti e così eterogenei, sovente distratti ed estremamente influenzabili...» (ivi, 14 luglio 1960).

23 Paese Sera, 14 febbr.

24 E pare che lo stesso triste metodo venga usato fuori d’Italia. Per il Belgio scrive J. LEGAY (La revue nouvelle, 1960, n. 7, p. 861): Un battage publicitaire, axé sur un exhibitionnisme qui n’existe pas dans le film, a fait un tort considérable à cette oeuvre. On a excité une curiosité – parfois malsaine  – et le film a atteint des couches de spectateurs pour lesquels il n’était pas fait.

25 La mancanza di spazio non ci permette di riportare qui la probantissima documentazione, da noi raccolta, di due fonti di parte cattolica e di dodici di parte avversa. Ci riserviamo di riprodurle nell’opucolo che raccoglierà a parte questi due saggi.

26 Circostanza, questa, che dimostra quanto mai inconseguente (oltre che inutile, incivile ed igienicamente dannoso) il rimedio di «sputare sui personaggi della Dolce vita e non su Fellini», suggerito da Marmidone (L’Europeo, cit. p. 39) a giusta reprimenda dell’atto incivile seguito alla “prima” milanese del film.

27 Cfr C. GOZZI, Memorie inutili, parte II, cap. III.

28 Metamorfosi, VII, 20-21. Canzone in vita di Madonna Laura.

29 Pour le grand nombre des spectateurs passifs ou attirés par le snobisme et la curiosité malsaine, la peinture des moeurs est trop prolongé et trop suggestive pour ne pas devenir plus délétère que salubre. Etant donné le comportement assez strictement révélateur du public hétérogène des salles obscures, il est à redouter qu’un tel spectacle ne suscite dans la masse des spectateurs plus de reflexes de connivence et d’imitation, que de vraie et de vigoureuse réprobation...; pour un large public physiquement adulte mais mentalement terre à terre et imperméable au valeurs cachées, un film plutôt dangereux où, à tous les moins, stérile (Choisir, cit., pp. 21 e 22). Ciò vale, ci sembra, anche nell’ipotesi, che opiniamo insostenibile, che la maggioranza del pubblico sia già al corrente di certi orrori; ipotesi che, per Milano, è parzialmente ventilata da Letture (cit., p. 220): «Le azioni, che questo film potrebbe insegnare, purtroppo non sono del tutto nuove per il grosso pubblico delle sale cinematografiche italiane»; e, per Parigi, più categoricamente, per quanto mediante una domanda retorica, da J.L. Tallenay (cit. p. 37): Il raconte la vie des personnage dont la vie est ignoble, et ceux qui n’ont pas été touchés par la pourriture d’un certain monde ne tireraient aucun profit à aller le voir. Mais qui donc n’a pas été touché par cette pourriture?

30 L’Europeo, cit. p. 41..

31 Vita, cit. p. 39.

32 Choisir, cit. p. 20.

33 Choisir, cit. p. 20.

34 Letture, cit. p. 212.

35 Filmcritica, cit. p. 85-87.

36 T. KEZICH, La dolce vita di Fellini, cit. pp. 122 ss. (Ed altrove, come abbiamo visto, lo giudica «Film di una persona smarrita, disperata, confusa»)

37 Ivi, pp. 16 e 79.

38 J.L. TALLENAY, cit.; R. RÉGENT, in Revue des deux mondes, cit. p. 740; M.M., in Esprit, 1960, nn. 7/8, p. 1283. – J. LEGAY (Le revue nouvelle, n. 7, p. 90) conclude paradossalmente: Peut-être la leçon d’espérance la plus profonde de ce film, c’est que la vie puisse continue, après tant d’abandons!

39 G. MOSCON, cit.

40 Filmcritica, cit. p. 75.

41 L. ZORZI, cit. p. 108.

42 V. SPINAZZOLA, in Nuova generazione, 21 febbr. E Letture, nella Chiarificazione: «Nella Dolce vita la contrapposizione del bene, il Cristo e Paolina, pallida e impotente. Lo struggimento di quel bene estraneo ai protagonisti veri della “dolce vita”, non tutti lo potranno bene afferrare e lasciar fermentare in sé. Molti non percepiranno tale salutare nostalgia, seppure non assorbiranno un senso di desolazione, quasi che quello sia un mondo di predeterminati e inghiottiti dal male» (cit. p. 530).

43 Letture, cit.. p. 212. Così anche G. CATTIVELLI (Libertà, 6 febbr.): «In questo cabotaggio di contraddizioni oscilla Marcello, volta a volta nauseato e riattratto dall’ambiente in cui vive: nei momenti di nausea cerca occasioni per evaderne, ed esse ai concretizzano in incontri, persone, esperienze che potrebbero aiutarlo a salvarsi o a perdersi definitivamente».

44 Bianco e Nero, cit. p. 11.

45 Schermi, cit. p. 59.

46 Filmcritica, cit. p. 76.

47 Una volta tanto andiamo d’accordo con A.C. JEMOLO (La Stampa, 6 luglio 1960), quando scrive: «La moralità di un’opera, in particolare di un film, sta in definitiva nell’effetto che produce». –  È istruttivo conoscere come i comunisti intendono sfruttare per i loro scopi la Dolce vita. Riportiamo uno squarcio dell’opuscolo curato e distribuito dal Comitato centrale della Federazione giovanile comunista italiana sul film di Fellini, opuscolo notevole per onestà polemica non meno che per pregi di grammatica e di ortografia: «Il grande pregio di questo film, che noi vorremmo sottolineare ai circoli ed ai gruppi della gioventù comunista, ai fini di realizzare una serie di iniziative politiche, è il dibattito... che si è sviluppato intorno ad esso... È logico quindi,... la proiezione di un film che non si limita solo a descrivere il fallimento morale di una classe dirigente ma ne traccia sullo schermo la nullità ideale e sociale... “Negativo o positivo questo film?” questa domanda è stata posta da molti; attorno a questo interrogativo si deve muovere la nostra iniziativa allo scopo di portare avanti la lotta unitamente a molti giovani operai, studenti ed intellettuali cattolici (che hanno ritenuto l’opera di Fellini coraggiosa e positiva) la lotta contro la destra clericale e fascista... Il materiale di documentazione che vi alleghiamo ha lo scopo... di richiamare l’attenzione di tutte le nostre organizzazioni sulla necessità di promuovere subito delle iniziative: dibattiti, incontri tra studenti, operai e giornalisti per discutere il film, lancio di referendum con l’ausilio dei settimanali democratici locali, conferenze ecc... Tra l’altro si dovrà tener presente che tra alcune settimane, all’or quando il film passerà alle seconde visioni, migliaia di giovani e di ragazze delle nostre città e provincia avranno possibilità di vederlo e quindi di discuterne e di interessarsi al dibattito in corso».

48 Oltre che gratuite illazioni. «Mai, come in questa circostanza — scrive M. LIVERANI — s’era rivelata una così profonda diversità di vedute nel mondo cattolico italiano di fronte ad un’opera cinematografica. E si ha motivo di credere (?!) che questo diverso atteggiamento dinanzi ad un film che ha destato tanto scalpore non sia che una manifestazione di più accentuati contrasti nell’ambito della Chiesa» (Paese Sera, 12 febbr.). Cfr anche R. RENZI, Paradossi di una reazione, in Cinema nuovo, 1960, n. 145, pp. 203-204.

49 S. AGOSTINO, Discorso sui due ciechi, cap. XV, n. 17: MIGNE, P.L. 38, 548.

50 Rivista del Cinematografo (1960, febbr., p. 38) pubblicava: «La Commissione di revisione del C.C.C., che aveva emesso il giudizio preventivo sconsigliato, ha classificato il film La dolce vita, escluso. Il Nuovo cittadino di Genova del 14 febbraio pubblicava: — Si conferma che il C.C.C., il quale formula le classifiche per un giudizio morale dei film affinché in tale materia i cattolici possano avere un equilibrato orientamento, ha classificato il film La dolce vita: escluso per tutti. Siamo anche informati che tale classifica è stata pienamente approvata dal Presidente della Commissione Episcopale per l’Alta direzione dell’A.C., dalla quale il Centro dipende —».

51 G.L.R., Il Tempo, 14 febbr.

52 D. FABBRI, Il Paese, 11 febbr.

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Articolo estratto dal volume IV del 1960 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Il polverio degli equivoci alzatosi intorno alla portata tematica ed ai valori artistici e religiosi della Dolce vita è poca cosa rispetto al polverone sollevato intorno ai suoi valori strettamente morali, vale a dire intorno alle sue possibilità concrete di illuminare e muovere gli spettatori verso una concezione ed una pratica morale o immorale della esistenza umana. Infatti, l’opposizione dei giudizi si è rivelata non solo tra quanti si rifanno a contrarie concezioni della morale, ma anche tra cattolici, i quali, essendo doppiamente tutelati da una dottrina e da una disciplina comuni, si poteva presumere che dovessero trovarsi tutti d’accordo almeno sull’essenziale. Invece...

Laicisti e cattolici

È noto che l’autorità ecclesiastica competente per l’Italia ha dato un giudizio morale nettamente negativo del film. Il Centro Cattolico Cinematografico, infatti, con una qualifica preventiva e provvisoria lo dichiarò “sconsigliato”, vale a dire «da considerarsi, o per la tesi, o per le scene, di contenuto negativo. Un cristiano cosciente, se non ha particolari e seri motivi per assistervi, deve astenersene»; passò poi, tre giorni dopo, a quello definitivo “escluso”, così motivandolo:

Il giudizio negativo è determinato dall’impostazione del lavoro, che è la presentazione di ambienti e di personaggi dove la dissolutezza è norma di vita. Non s’intende fare il processo alle intenzioni dell’autore: se abbia voluto, o meno, presentare la caricatura, con la conseguente condanna, di una società in putrefazione. Costatiamo però che nella Dolce vita non c’è speranza, non rimorso, non possibilità di redenzione. La descrizione minuziosa di tanto putridume, gli stridenti accostamenti tra il sacro e il libertinaggio, il frasario di alcuni personaggi, che una persona educata non solo non usa, ma evita per proprio decoro di sentire, sono i motivi obiettivi che hanno determinato il giudizio negativo1.

Questa motivazione veniva così sintetizzata in una sua pubblicazione ufficiale:

La condanna di una società, che presenta evidenti sintomi di disfacimento e di insensibilità morale, dovrebbe risultare dalla rappresentazione spietata di tutti gli aspetti del male. Questa impostazione, moralmente inaccettabile, determina un giudizio negativo. La descrizione insistente dell’immoralità, le volgari espressioni che compaiono nel dialogo, nonché scene scabrose impongono l’esclusione del film per ogni genere di pubblico2.

Marxisti e laicisti, com’era da aspettarsi, risposero con giudizi che non potevano essere più opposti. «Noi non abbiamo còlto nulla d’immorale nel film di Fellini», sentenziò M. Liverani; «Non si sa dove siano questi motivi di scandalo», aggiunse meravigliato A. Moravia; «Credo che questo film non potrà che esercitare un’azione benefica rispetto alla grande massa», dichiarò G. Della Volpe; per A. Frateili il film sembrò «moralissimo, addirittura puritano, cattolicissimo, addirittura ortodosso»; per A. Pietrangeli esso «attinge la moralità più alta»; per l’on. Alicata è «opera altamente morale, di coraggiosa ardita morale cristiana»; «Mi fa molto piacere — concluse per tutti P. P. Pasolini — che l’organo del Vaticano gridi “basta!”. Questo, per gli uomini di buona volontà, non può significare che “continua”»3.

Da parte cattolica il giudizio negativo del C.C.C. fu sostenuto da due energiche proteste della Presidenza della Giunta diocesana di A.C. di Roma e del Collegio dei Parroci dell’Urbe presso il ministro dello Spettacolo4, ed echeggiò, come ovvio, sull’Osservatore Romano e sui quotidiani d’Italia – per la verità con argomenti, rilievi e toni polemici non sempre felici –, nonché nella massima parte dei giudizi degli ecclesiastici intervistati5. Tuttavia, alcuni cattolici, laici ed ecclesiastici, espressero giudizi contrari. Ne riportiamo tre: il primo pubblicato da un critico noto come “nostro”, il secondo attribuito da un giornale marxista ad un nostro confratello, ed il terzo pubblicato su una nostra rivista, già ricordata.

«Mi sembra — scrive, tra l’altro, il primo — che il più alto elogio morale di questo film viene dal fatto innegabile che tutto il pubblico, sia favorevole che sfavorevole, esce dal cinema sconcertato, disorientato e non certo solleticato nei suoi istinti deteriori. Contro coloro che vogliono attentare alla libertà di espressione di questo film, bisogna avere il coraggio di dire che si tratta di un vero messaggio e di un vero ammonimento per chiunque abbia la sensibilità di preoccuparsi dei problemi incalzanti della nostra epoca»6.

«Dal punto di vista etico — avrebbe detto il secondo — La dolce vita non permette confusioni e debolezze di giudizio. Mai il cinema ha inserito nel peccato un senso sì profondo di amarezza, di noia, di sventura, di desolazione. Non c’è istante in cui i personaggi, così diversi e così affini, non manifestano l’interiore tortura di un’anima e la infinita noia della vita in cui si sono trovati ad agire e in cui sono stati travolti. È un film, a mio parere, che non può fare male a nessuno e che può far bene a tanti»7.

«Dal punto di vista della intrinseca moralità, sia assoluta, sia relativa La dolce vita può essere ritenuto un film sostanzialmente positivo, pur con tutte le sopraccennate riserve».

conclude il terzo, dopo aver distinto tra visibilità e moralità, e tra moralità assoluta, «determinata anzitutto dal contenuto tematico», e moralità relativa, «determinata dal potere obiettivo del film di: a) fornire idee, morali o immorali; b) creare delle suggestioni che interessano comunque il campo morale, e c) insegnare praticamente come si fa il bene e il male»8.

Escluso che la coincidenza materiale di questi giudizi con quelli espressi dai marxisti e dai laicisti possa spiegarsi con la coincidenza di premesse dottrinali tra i due sistemi morali radicalmente avversi, l’unica via utile per spiegarla, ed insieme per approdare ad un giudizio morale della Dolce vita, porta su una questione di fatto. Si tratta di appurare se tutti gli elementi fondamentali di esso rientrino in una concezione ed in una prassi di vita morale (bonum ex integra causa), o se anche uno solo di essi venga a contrastarvi (malum ex quocumque defectu), ovviamente dopo essersi messi su un terreno di morale cristiana e cattolica.

Giudice o partecipe?

Errerebbe chi troppo semplicisticamente – com’è avvenuto – deducesse dalla disonestà dei fatti raccontati l’immoralità del film che li racconta, come chi dall’immoralità di fatti e di personaggi trattati nei Promessi Sposi – signorotti che insidiano oneste popolane, parroci che, per paura di quelli, rifiutano la loro doverosa partecipazione ad un sacramento, principi che torturano le figlie perché si monachino, suore che trescano con scostumati e poi uccidono consorelle venute a notizia della loro sacrilega relazione... – ritenesse immorale un romanzo cristiano per antonomasia. Perché non vale tanto che cosa si racconta, o si rappresenta, quanto la maniera e l’animo con cui ciò si fa.

Quindi, si prenda pure il male morale ad argomento dell’opera d’arte, dato che esso fa purtroppo parte integrante della vita umana, e l’arte si rapporta appunto all’uomo concreto, e ad esso si dirige [379]9; ma, nota la morale cattolica, – luminosamente esposta dal magistero ecclesiastico proprio a proposito del cinema –, lo faccia osservando tutte le condizioni imposte, non tanto da norme positive e libere, quanto dal rispetto dovuto all’uomo [320], soggetto di diritti inalienabili e di doveri imprescindibili. Esse sono: 1) Non farne oggetto di spettacolo e di svago, ma di conoscenza, per chiederne alla filosofia e alla religione la spiegazione ed i rimedi [379]; 2) La rappresentazione del male non sia disonesta in sé, cioè: a) non faccia risaltare il male, almeno di fatto, come approvato [380, 383], b) o, peggio esaltato [387], c) né lo descriva in forme eccitanti e corrompitrici [380, 383, 387, 516]; 3) Né sia disonesta per le circostanze, vale a dire non venga mostrato a chi non è in grado di dominarlo e di resistergli [380, 383, 516]; 4) In ogni caso, non costituisca unica fonte di ispirazione del film [380], come avviene purtroppo nell’attitudine psichica di molti artisti, che subiscono un quasi irresistibile fascino del male [379]; 5) Né dia questa impressione con una pubblicità morbosa [574]. Soltanto a queste condizioni lo spettatore ne uscirà più lieto, più libero e migliore [343, 536], perché il conflitto, ed anche la temporanea vittoria del male, serviranno alla comprensione della vita, alla sua retta direzione, al controllo della propria condotta, al chiarimento e consolidamento nel giudizio e nell’azione [380, 383].

Si verificano queste condizioni nella Dolce vita? Prima di suffragare la nostra opinione con alcuni rilievi analitici, rispondiamo che il film ci risulta ambiguo rispetto alla seconda condizione, e negativo rispetto alle altre quattro.

Che abbondino nel film le annotazioni sollecitanti nello spettatore un senso di disgusto per tanto male morale, ci sembra non dubbio: basti rilevare come tutti i suoi personaggi siano radicalmente tristi, annoiati, nonostante le lussuose esperienze di vizio che possono pagarsi; anzi, quel loro survoltare – ci si passi il termine tecnico – le passioni verso forme parossistiche, a cominciare dal linguaggio spavaldamente spudorato, è l’espressione appunto della loro noia angosciata. Inoltre, a dare un sapore amaro al tema sempre ricorrente della sessualità disordinata, nel film s’intercala il tema ugualmente ricorrente della morte: il tentato suicidio di Emma dopo l’avventura di Marcello con Maddalena e prima dell’esaltante incontro con Sylvia; i morti lasciati dal falso miracolo; la strage di Steiner e dei suoi bambini; il malore che coglie il padre di Marcello, il pesce morto... Infine, il regista vi esprime il proprio disgusto moltiplicando adatti particolari figurativi: la sordida scenografia del seminterrato dove Marcello e Maddalena scendono per consumare la loro passione; la casa vuota di ogni segno umano dove Marcello trova Emma avvelenata ed accasciata; la schiaffeggiatura violenta di Sylvia in cui termina il mito divino della star; lo spettacolo pietoso offerto da alcune raccolte umane che ricordano gli orridi dei quadri di Brueghel e di Bosch; la pioggia e la bufera che rabbiosamente non finiscono di flagellare, quasi a punirne il sacrilegio, gli isterici del “miracolo”; il quadrivio deserto e morto, inquadrato dall’alto, della fuga del padre; le luci e gli echi spettrali che accompagnano la notte dei nobili; la profanazione del salotto di Steiner morto, invaso da estranei e sconvolto dal vento; il ritmo sempre più trascinato dell’orgia finale; lo stanco ed inutile insistere di Marcello nello spargere piume e, finalmente, ancora la massa molle del pesce putrefatto, simbolo degli infrolliti che sono accorsi a vederlo...

Tuttavia, quante altre notazioni non vengono ad elidere il senso di disgusto prodotto da queste ed a sollecitare lo spettatore a compiacimenti di altra natura? Spesso, è vero, si tratta di suggestività figurative che si risolvono, almeno per i rarissimi esteti capaci di afferrarle, in libera bellezza di forme, senza residui di contenuti – per esempio: il volo del Cristo lavoratore, che proietta la sua ombra sugli acquedotti romani e sui muri calcinati della città nuova; il silenzio attonito prodotto dal subito interrompersi del flusso delle acque nella Fontana di Trevi intorno alla giunonica diva; la sottile nostalgica malinconia che accompagna gran parte dell’episodio del padre; molti particolari luministici e costumistici della notte dei nobili; il giuoco delle luci nella notte del “miracolo”; la variegata scenografia solare in cui si stempera la figuretta di Paolina... –. Ma altre volte si tratta di suggestioni di natura più dubbia. Si direbbe, allora, che venga meno in Fellini la chiarificazione artistica tra il poeta, contemplatore disinteressato, ed il provinciale inurbanato e viveur, che disprezza, sì, e condanna la vita ed il mondo cui ha approdato, ma solo a patto di continuare a vivere quella vita ed a godersi quel mondo, tanto gli sono ormai diventati necessari e dolci! «Sei uno e bino, e magari trino — gli scriveva Zavattini —; un poeta vero, ma qua dipendente là indipendente, la cui coscienza da un lato determina la fantasia e dall’altro se ne lascia determinare... La paura di perdere quei godimenti che hai contestato ai tuoi personaggi, ti scinde in due parti e succede come a Marcello nella riva del mare, che una parte non ode più l’altra»10. Si pensi, per esempio, al suo oscillare tra sequenze ed inquadrature immediate, documentaristiche, ed altre straordinariamente “effettate”, compiaciutamente surrealistiche; quel suo condensare nello spazio e nel tempo situazioni, personaggi e fatti abnormi di una “vita” già tanto abnorme, da rotocalco, dilatandone l’effetto di sbalordimento e la carica spettacolare più di quanto nella realtà essi non abbiano, così rivelando, non senza compiacersene, l’idea esaltata che di essa si fanno quelli che per lungo tempo se la sono dovuta immaginare per sentito dire. Si consideri quel suo costante immergere vicende personaggi nelle tenebre della notte, non certo per l’idea greca del giorno liberatore, bensì perché egli «vi si muove meno vincolato di quanto non lo sia dalla realtà oggettiva delle scene di giorno, e si libera alle ardite creazioni di effetti prospettici e volumetrici... tanto più spettacolari quanto più immaginari ed arbitrari»11; si pensi al mostruoso amalgama di fastosa opulenza, panica vitalità, pesante sensualità, eccentricità lussuosa, distinta corruzione, indifesa passionalità, disinvoltura di “mestiere” ed innocente trivialità, composto dal mondo, specialmente femminile, da lui selezionato, presentato e messo in azione con smodata abbondanza12, in una giostra senza fine, moltiplicandovi ambienti, situazioni, posture ed azioni oggettivamente quasi sempre sconvenienti ed invereconde, spesso scabrose ed ignobili, qualche volta dissolute e pressoché oscene13; si pensi, soprattutto, all’ambigua, se non equivoca, partecipazione del regista rispetto ai suoi personaggi, e soprattutto a Marcello, che, a detta anche di lui stesso, lo «rappresenta dalla testa ai piedi»14. Condanna, ma ne è attratto; fa mostra d’indignarsi, ma finisce coll’intenerirsi col peccatore, e un po’ anche col peccato; più che censore, diventa il fanciullino che è felice di scoprire, non importa che cosa; si schifa ed ironizza, ma poi si compiace e rimpiange. «Non è un processo — ha confessato ancora egli stesso — visto da un giudice, bensì da un complice... Questa ambiguità è presente in tutto il film...»15. «Sono abbastanza carogna con i miei personaggi: fino ad un certo punto complice, poi giudice»... «È come raccontare un amplesso nell’atto stesso di compierlo»16. Insomma, per dirla con una controfigura del film, si vede che «Fellini afferma che questa è una vita falsa, però si diverte a raccontarla; mi piace perché non è un moralista!17; e con un critico, che tutto vuol essere meno che moralista: «Non si creda... a La dolce vita come a un film tutto giocato sulle corde dell’angoscia e della disperazione. Pur facendone sentire l’interno vuoto, la celata disgregazione, Fellini ha reso di questo mondo... soprattutto il fasto e lo splendore... La parte dello spettacolo ha un peso determinante nell’economia del film»18. Sicché, in verità, come il titolo dice, per Fellini quella vita resta ancora “dolce”, cioè, tutto sommato, piacevole, e non “molle”, o, per antifrasi, amara, come è stato proposto da qualche esegeta molto benevolo!19. Non per nulla, nel vano tentativo di dimostrare che il suo film non è terrificante, egli si è richiamato a  «Giovenale: un classico, dove anche la satira è sempre trasfigurata dal viso gioioso della vita... È quello che ho tentato di dire, pur raccontando un film che è tutto un panorama di lutti e di rovine. Su queste rovine però c’è una luce così fastosa e così dorata che la vita è dolce, è dolce lo stesso anche se le macerie crollano, ti impediscono il cammino»20.

La riprova del pubblico

Riteniamo che l’eccezionale afflusso di pubblico segnato dalla Dolce vita confermi quanto andiamo rilevando. Ci volle tutta l’ingenua furberia di Fellini per farne le meraviglie in questi termini: «Il film sta ottenendo un successo di pubblico abnorme. La gente corre a vederlo credendo di trovarvi chissà che cosa... Alcuni ciò che non trovano lo inventano... Temo che molti vedano nella Dolce vita ciò che vogliono vedervi...»21; perché questo «chissà che cosa» è presto indovinato. Già escluso che nella massa abbia operato il richiamo dell’arte, si esclude parimente che abbia operato quello della moralità. Ha operato prevalentemente quello della curiosità morbosa. Ne ha dato atto lo stesso Fellini confessando: «La curiosità del pubblico per il mio film ha una punta di morbosità che non mi piace», aggiungendo, poi, tanto lealmente quanto tardivamente: «Il più turbato di tutti sono io, perché ho il presentimento di essermi preso una grossa responsabilità. Di qui in poi il mio discorso si farà più difficile ed impegnato»22.

Vero è che un giornale, il quale in questa occasione si è particolarmente distinto in falsità, gli ha attribuito la seguente strana rettifica: «La posizione del Centro Cattolico Cinematografico, la polemica dell’Osserva.tore Romano... stanno spingendo il pubblico a vedere nella Dolce vita un altro film. Sono loro, insomma, a creare una psicosi morbosa, rifornendo lo spettatore di una curiosità malsana»23. Ma egli sa benissimo che il richiamo morboso intorno al film è stato causato prima di tutto dal battage pubblicitario che ha prodotto la richiesta di esso, tutto congegnato di notizie, fotografie e cartelloni quasi soltanto di contenuto e di allusioni scandalistiche ed erotiche24; quindi dagli elementi stessi di cui il film, come abbiamo detto, ridonda, nonché dall’ambiente in cui esso si svolge, che è di richiamo irresistibile per le masse di spettatori che hanno fatto la fortuna di Totò e di B.B., e che accorrono, e “replicano”, con disappunto dei gestori, a film come Il bell’ Antonio e Les tricheurs, Europa di notte, Les amants..., ed in genere ai film che ammanniscono, o almeno promettono, larghe porzioni di esibizionismo e corruzione, di erotismo e di turpiloquio. Anzi, egli ed il produttore sanno benissimo che lo sfruttamento sistematico di quei tali richiami sul pubblico, dal punto di vista economico, costituiva l’asso nella manica contro gli alti rischi di un film di così alto costo; d’altra parte quegli stessi elementi deteriori erano tanto rilevanti che reazioni violente e scandali, se non proprio voluti, furono largamente previsti, tanto da porre il problema non tanto di come scapolare i pericoli di una censura di primo grado, quanto di non correre quelli disastrosi di un richiamo del film a programmazione già iniziata; perciò si è fatto ricorso ad un modo straordinario di sfruttamento, insieme intensivo ed estensivo, programmandolo simultaneamente in tutta Italia, ad alti prezzi nelle città chiave, ed a prezzi notevolmente minori, per quanto sempre alti, nelle città di provincia; tattica fruttuosamente riuscita; non senza il concorso di ingenue e pie pedine d’eccezione, scaltramente manovrate.

Se circa l’animo col quale il pubblico è accorso a vedere il film fosse restato qualche dubbio, ce lo saremmo tolto scorrendo i commenti della stampa, unanimi – se si eccettua un settore bene individuato di quella marxista – nell’individuare le deteriori determinanti di tale sintomatico fenomeno di massa25. Perciò riteniamo che La dolce vita costituisca quasi un test per lo studio del comportamento gregario e del gusto deteriore di certo nostro pubblico, quale da anni lo vanno guastando, insieme con altri strumenti, una produzione, una stampa ed una pubblicità cinematografiche che hanno raggiunto punte di ultracotante libertinaggio, ormai difficilmente superabili. 

Denunce utili, inutili, dannose

Abbiamo visto che nelle intenzioni del regista La dolce vita non è un film di denuncia; e possiamo tranquillamente ritenere che non lo sia stato neanche nelle intenzioni dei produttori, gente rassegnata, forse, a rischiare in denunce qualche biglietto da mille, non certo molte centinaia di migliaia! Tuttavia, abbiamo anche visto che da molti, critici e pubblico, in buona o mala fede, esso è stato preso e difeso per tale; quindi giudicato morale, anzi benefico, proprio per la violenza ed il coraggio con cui vi verrebbe smascherato il marcio. Allo stesso modo fu detto morale Les tricheurs, perché “denunciava” (non si sa bene che cosa ed a chi); furono detti di denuncia, quindi morali, nonostante i loro contenuti vitaioli e cantaridati, La legge, Hiroshima mon amour, Europa di notte; più recentemente La notte brava (vita di un gruppetto di turpi), Il bell’Antonio (storia di un incapace sessuale), Improvvisamente, l’estate scorsa (storia di un “capovolto”, di una cugina e di una madre), I piaceri del sabato notte (campionario di corrotti in ambienti di alta moda)... A maggior ragione furono difesi come morali, moralissimi, perché di denuncia sociale, tutti in blocco i film che i critici marxisti, vuoi aborigeni, vuoi esotici, seguendo una loro imperata estetica dei contenuti, identificarono col neorealismo italiano, in tal maniera asfissiando ed affossando quel che c’era di buono e di valido in quella scuola, stile o corrente che fosse, e poi, con la disinvoltura che li distingue, gettandone la colpa sui cattolici.

Orbene, dato e non concesso che La dolce vita voglia denunciare qualcosa, ci sia lecito esprimere alcune nostre modeste opinioni. Anzitutto diffidiamo del famoso coraggio occorso nel recente cinema italiano per sporgere certe denunce, specie nel caso di denunce generiche: nomi e cognomi, dati e fatti concreti impegnano responsabilità personali avanti al denunciato, e magari avanti ai tribunali, per evitare le quali è molto comoda, ma non molto eroica, la protesta di prammatica in fondo ai titoli di testa di tutti i film, anche di denuncia, che «i fatti e gli avvenimenti non hanno nessun riscontro con la realtà, essendo puramente immaginari». Diffidiamo molto delle denunce che hanno bersagliato prevalentemente le forme di immoralità erotica e sessuale, gravi, senza dubbio, anche nella società odierna, ma, forse, non tanto quanto altre meno spettacolari e cinematografiche. Diffidiamo moltissimo delle frequenti denunce delle sporcizie altrui quando i denuncianti ne risultavano pubblicamente essi per primi impeciati, e magari ci vivono in mezzo; dimostra più coraggio civile e più valore personale chi, magari nel segreto, seriamente si sforza di correggersi di un suo difetto che chi si dà a strombettare sulle miserie altrui26. Diffidiamo ancora più delle denunce di chi, denunciando, non solo non ci rimette di tasca propria, ma impingua il proprio portafoglio; se poi il denunziante, nel denunciare, adopera gli stessi mezzi illeciti e cede apertamente alle stesse miserie ch’egli fa oggetto di denuncia negli altri, ed anzi le incrementa, allora ci pare che, sul piano morale, la diffidenza debba mutarsi in aperta condanna. Ma poniamo pure che chi denuncia, o satireggia, abbia tutte le carte in regola per farlo; egli concluderebbe troppo semplicisticamente: «Il male esiste, dunque lo denuncio!». Perché c’è maniera e maniera di denunciare. Alcune maniere ottengono lo scopo inteso; molte, invece, sono più dannose che utili. Intanto occorre denunciare il male a chi, venendone a notizia, può o correggersi o correggerlo; perciò, secondo i casi: ai responsabili ed alle parti in causa; ai politici, ai magistrati, ai sociologi, ai moralisti, ai genitori, agli educatori... Tra tutte, quella degli spettacoli è la maniera meno adatta, perché chi vuole essere sermocinato per istruirsi, correggersi o correggere, se è credente, preferisce recarsi in chiesa, mentre invece chi si reca allo spettacolo generalmente ci va per divertirsi27; Il castigat ridendo mores a proposito della satira o del teatro ci sembra poco più di un bon mot del fu Jean de Santeuil, che non è stato provato vero, coi fatti, neanche dall’Opéra comique e la Comédie italienne, che l’assunsero come impresa blasonale. Riteniamo, in ogni caso, che quell’asserzione valga tanto meno per il cinema, ii quale, di sua natura, carica la denuncia, o la satira, di tutte le suggestioni proprie del linguaggio d’immagini, e con queste stesse suggestioni assale non solo le poche persone capaci di difendersene, ma la massa indifferenziata, quasi del tutto indifesa.

È una vera incongruenza che tanti registi, produttori e critici, che impugnano un’arma come il cinema, così incidente sulle idee e sul costume della umanità tutta intera quanto forse non lo sono tutti gli altri strumenti approntati dalle tecniche moderne, ignorino le più elementari e fondamentali caratteristiche del suo operare psicologico, culturale e morale. Lo dimenticano, per esempio, a proposito di libertà di espressione e di censura in arte, come se le risonanze sociali e morali di un film fossero le stesse di quelle di una poesia o di un quadro! E lo dimenticano a proposito di denunce, quasi che la partecipazione viva ed acritica che vincola lo spettatore alla rappresentazione filmica di certe immoralità abbia qualche cosa in comune con la fredda pagina scritta o con la modica suggestione del teatro! Inoltre essi sono all’oscuro dei più elementari dati della psicologia umana. Quando operano in buona fede essi partono dal presupposto che gli uomini facciano il male soltanto per ignoranza; che, dunque, basta illuminarli ed istruirli per renderli onesti. Ma il presupposto, che riecheggia l’ottimismo naturalistico di Rousseau e di V. Hugo, è psicologicamente ingenuo e cieco: esso infatti ignora tutti i conflitti, di esperienza universale, tra il libito e il dovere, espressi già dal vecchio Orazio nel Video meliora proboque; deteriora sequor, e dal meno vecchio Petrarca nel parallelo Veggio ’l meglio ed al peggior m’appiglio! 28; ed è teologicamente inesatto, perché nega, o ignora, i dommi fondamentali cristiani del vulnus inferto alla natura umana dal peccato originale e del rimedio necessario della grazia, ricordati nelle due espressioni paoline: Non quod volo bonum hoc facio, sed quod nolo malum hoc ago! (Rm 7,19); Sufficit libi gratia, mea! (2Cor. 12,9).

Non saremo certo noi ad erigere l’ignoranza a valore assoluto e a valido metodo pedagogico; e se qualche educatore si attarda ancora in certe esagerate discipline dell’arcano noi non ci sentiamo autorizzati, né dalla cultura né dalia morale cattolica, a farcene mallevadori. Si dia, dunque, – magari mediante il cinema, dato che è attissimo a questo scopo – la necessaria istruzione a chi ne può profittare. Neghiamo, tuttavia, che sia necessario, ed educativo, dire tutto a tutti, anzi sosteniamo che è dannoso, quindi immorale, portare l’insegnamento – e, col cinema, l’iniziazione pratica – fino ai particolari del male morale, che una volta erano vergognosi segreti degli scostumati di mestiere. Ma questo ci pare che abbia fatto La dolce vita in Italia con centinaia di migliaia di cittadini non iniziati e di provinciali, e che questo continuerà a fare con milioni di popolani di tutti i paesetti mano mano che passerà dalle prime e seconde visioni alle terze ed alle quarte; tutta gente che, nella migliore delle ipotesi, ne ha riportato o ne riporterà un ulteriore ottundimento del pudore naturale e cristiano, prezioso segno e difesa della virtù. Perciò scrivevamo: «Esso costituisce un efficace contributo a far dilagare quel male che denuncerebbe»29.

Né crediamo che a Fellini sia lecito deliberatamente ignorare quanto il suo film va producendo. «lo ho presentato il problema nella forma più efficace; – avrebbe egli protestato in un momento, forse, di malumore; - ma perché dovrei trovare la soluzione? Sono forse un santo, o un capopartito? La soluzione la trovino gli altri, i pastori di anime e i riformatori della società. lo sono un regista e faccio i film»30. Questo, ci scusi, sarebbe il ragionamento del cuoco che dicesse: «lo ho preparato il pranzo più ricco di squisiti sapori. Ma perché dovrei preoccuparmi se sia o non sia indigesto o velenoso? Sono forse un altruista o un ispettore d’igiene? I digestivi e gli antidoti li trovino gli altri, i medici e i farmacisti...»; oppure il ragionamento dell’estroso nottambulo che dicesse: «Io nel buio mi diverto ad accendere dei bei falò sulla spiaggia: se qualcuno li prende per fari, e rompe sugli scogli, danno suo! Io mica sono un guardacoste!». «Forse che — ha ribattuto Fellini — nel gridare aiuto, chi affoga deve preoccuparsi dell’orecchio di chi passa per la strada?»31. Certo che no, rispondiamo noi; ma chi veramente, e non metaforicamente, affoga, e realmente, e non retoricamente, desidera essere salvato, lo grida, appunto «a chi passa per la strada», e non a milioni di spettatori convocati a divertirsi al modico prezzo di mille e passa lire a testa; e lo grida a chi presumibilmente può salvarlo, non a masse più che altro disposte a godersi il suo dibattersi nei gorghi come uno spettacolo e, magari, desiderose di concluderlo, come fa Marcello, con un, certo non leopardiano, «E naufragar m’è dolce in questo mare!». In ogni modo, la morale cattolica la pensa diversamente. Essa insegna, per esempio, che il primum non nocere vale anche in arte, dato che anche gli artisti hanno un’anima da salvare, e che anche gli artisti devono render conto delle anime altrui, da loro poste a repentaglio; inoltre, che non basta affatto la sincerità dell’artista per rendere innocua la sua opera. «Ecco precisamente — essa rileva — in che consiste la questione morale della Dolce vita. Si tratta di sapere se un cineasta, consapevole che ormai le sue opere sono attesissime da mezzo mondo, può esprimersi come gli pare e piace; e se, protestando le sue buone intenzioni, può ritenersi non responsabile degli effetti che i suoi film causeranno, una volta dati in pasto alle masse»32. Questione che, grazie a Dio, lo stesso Fellini, come abbiamo letto, non inutilmente ha sentito affiorare nel suo spirito.

Dov’è la speranza?

Prima di arrestare questa ormai lunga carrellata su alcuni problemi sociali e morali del cinema posti dalla Dolce vita, ci resta da vedere se essa almeno si redima fornendo allo spettatore, se non proprio i rimedi di tante mostruosità morali propalate, una luce di speranza ed un soffio di fiducia circa le possibilità e l’utilità di una lotta contro di esse; o se, invece, debba ritenersi moralmente dannoso anche perché si conclude dando per irresistibile e definitivo il trionfo del male.

Pure a questo proposito non sono mancate affermazioni contrastanti. A dir la verità, quelli che vi hanno scorto la presenza di una qualche speranza sono scarsi e, salvo il rispetto per ogni opinione, poco attendibili nelle loro ragioni. Un cattolico svizzero ce la scorge, per quanto tenue, ma la sostiene più interpretando cattolicamente il mondo di Fellini, passato per cattolico, che stando ai dati filmici33. «Non crediamo che il film possa definirsi pessimista», afferma ancora più cauta Letture, a conclusione di una minuziosa analisi strutturale e dei personaggi del film, rilevandovi qua e là scampoli di valori autentici, ricavati, però, come abbiamo visto, da valori tematici cristiani, che opiniamo infondati34. Anche per B. Rondi, collaboratore di Fellini, non è vero che il film finisca nella disperazione, perché, motiva egli acrobaticamente: «Il conflitto tra vita autentica e vita non autentica, dolce, e cioè falsamente attraente e non risolta, è offerto in tutta chiarezza allo spettatore, che è il solo a cui viene data fiducia perché accada un superamento»35. Paradosso per paradosso, secondo Fellini il film «lascia in letizia...: dà coraggio»; ma, qualche riga dopo, egli stesso si incarica di spiegarci di quale letizia e coraggio si tratti: «È tutto rotto. Non crediamo più a niente. E allora?»36.

Sed contra est..., che il produttore Rizzoli, dopo aver letto la sceneggiatura, in verità meno pesante del film, esclamò: «Ma qui non c’è speranza. È una storia che finisce senza un raggio di sole!»; e che L. Chiarini, consultato sulla stessa, vi rilevò «la mancata presenza di forze sane, di un personaggio che non fosse avviato ad un vicolo cieco». Vero è che Fellini obiettò di «non credere alla possibilità di una rapida palingenesi del mondo moderno: le inquietudini che percorrono La dolce vita rappresentano la massima apertura di ottimismo che mi è concessa. Se tentassi di affermare qualche cosa di diverso, di individuare con precisione delle forze sane, andrei contro le proprie convinzioni. Potrei anche farlo. Qualche volta ne sento, più che la tentazione, l’esigenza. Ma non sarei sincero. E la sincerità, per me, viene prima di ogni altra cosa»37: ma ciò, se gli fa onore come artista, conferma che al film manca ogni luce di speranza. Ed infatti, unanime, la critica l’ha giudicata vision d’ Apocalypse... ; oeuvre impitoyable, atroce, désespérée, quoi qu’en dise son auteur; ... plus triste encore qu’amère, plus marquée par le désespoir que par l’accusation 38; «corrosivo e non costruttivo»39, perché «si stacca da esso un senso di desolazione e di disperazione. Non si salva nulla. Il mondo che si descrive ignora la possibilità del distacco»40; vi si respira «l’atmosfera opaca ed oppressiva di una società nella quale si è spenta ogni luce ideale, di una civiltà sublunare e notturna non più rischiarata dai bagliori della grazia, per la quale è già cominciata l’Apocalisse»41. Anzi, la critica l’ha giudicato, in fatto di disperazione, un’eccezione rispetto agli altri film di Fellini, dato che il regista vi «abbandona a se stesso il protagonista senza alcuna possibilità di salvezza, come mai gli era accaduto di fare con i suoi precedenti personaggi»42

* * *

Riteniamo che quelli dei nostri lettori che hanno visto il film, ripensandoci a mente riposata, non potranno non condividere queste severe impressioni; per i (molti) altri, invece, che (lodevolmente) non lo avranno visto, occorre un supplemento di prova da parte nostra.

A chi prende il film come denuncia di uno stato di fatto, il male vi risulta troppo generalizzato. Ciò avviene dipendentemente dalla natura propria del linguaggio cinematografico, ma anche, come abbiamo rilevato, dall’uso sforzato che ne fa il regista. Situazioni e fatti vi subiscono un condensamento nell’intensità, nello spazio e nel tempo, che la realtà, per quanto brutta, grazie a Dio, è lontana dal verificare. Valga un particolare per tutti. Quanti, a Roma, abitando nei pressi di Via Veneto, ci passano di giorno e di notte, certamente non possono giurare che tutto quello che vi vedono sia proprio edificante; anzi hanno molti motivi di affermare che molto, decisamente, non lo è; tuttavia, riteniamo che del bailamme allucinato riprodotto nel film di Fellini, difficilmente ricorderanno di avervi visto la decima parte. Può essere che la realtà, qualche volta, vi sia anche peggiore; in ogni caso non lo è sempre, come dal film, invece, potrebbe dedursi. Ed anche lo fosse, Via Veneto non è tutta Roma; né tutta l’Italia. Ma fuori di Roma e fuori d’Italia, chi impedisce agli spettatori di concludere: «Ecco che cos’è Roma, ecco che cos’è l’Italia»? Non certo il film, che sotto questo aspetto manca di qualsiasi mezza tinta, di ogni correttivo. Quanto siamo lontani dal temperamento tra male e bene richiesto nel film ideale! Quanto lontani dal fiducioso realismo di Gesù, che nel campo del mondo additava, e vigorosa, la zizzania dell’inimicus, destinata al caminum ignis, ma anche, ed altrettanto vigoroso, il buon frumento destinato al Regnum Patris! (Mt 13,37 ss.).

Altro rilievo. Delle centinaia di personaggi di cui brulica la composizione felliniana, se qualcuno si salva per qualche residuo di valore umano – di religiosi, come abbiamo visto, non se ne parla –, esso si sperde nell’universale marasma. Le persone che pigramente “esistono” nella Dolce vita sono le macerie di una catastrofe già avvenuta, relitti di un naufragio universale. Ha qualche rilievo soltanto la sorridente figuretta di Paolina; ma anch’essa, come subito vedremo, non alimenta un filo di speranza; anzi disillude rompendolo. La nessuna apertura in cui si dimena, vuota e disperata, questa massa dannata appare inequivocabile soprattutto nel progressivo ed ineluttabile scadimento di Marcello, che, come abbiamo visto, mentre costituisce il connettivo di tutto il film, ne è anche la chiave psicologica, fungendo da transfert per Fellini. È stato notato che ognuno degli episodi del film è per Marcello una situazione nuova, in cui gli si offre una possibilità e una proposta di scelta; ma tutti, senza eccezione, si concludono con un rifiuto. «Si trova davanti ad una porta aperta che gli permetterebbe di uscire dall’inautenticità della sua vita concreta, ma ogni volta si arresta come se non avesse la forza di fare un passo»43. Di questi richiami, i due più aperti e suasivi sono appunto quelli che si chiudono più tragicamente ed irrevocabilmente: il falso richiamo di Steiner, gli dà il tracollo; il richiamo non compreso di Paola dimostra che il tracollo avvenuto è definitivo.

Steiner rappresenta per Marcello un ideale quasi perfetto. In lui Marcello vede l’uomo cólto, che si astrae dalla cronaca dei rotocalchi per rifugiarsi nei fatti delle antiche civiltà, l’esteta che gusta, solitario e solenne, le armonie geometriche di Bach, l’uomo fortunato negli affetti familiari, concretizzati da una casa meravigliosa, da una moglie bella e da due bambini splendidi; soprattutto Steiner è l’uomo delle certezze raggiunte, che già vivendo nella quiete dello spirito, può richiamare lui dal naufragio imminente, ricordandogli l’impegno di scrittore che lo aveva spinto dalla provincia a Roma. Ma Steiner crudelmente lo disillude uccidendosi, assurdamente, dopo aver fatto strage dei suoi bambini. Unico faro per Marcello, proprio per questo Fellini ha «voluto che ad un certo momento della storia questo faro si spegnesse di colpo»44. Perché egli fa che Steiner si uccida? Perché Steiner non è sicuro di nulla; perché paventa il domani ignoto; perché non vuole che i suoi figli debbano subirlo, e patire la sua stessa angoscia. Spento il faro, per Marcello è il buio morale totale; ormai egli ha forza soltanto per cedere ai ripetuti richiami dei suoi compagni di dissoluzione.

Resta Paolina. Trascuriamo pure il fatto che Fellini l’ha costruita volutamente ambigua45; dato anche e non concesso, d’accordo con C.. Bo, che «tutti gli spettatori siano in grado di capire e di cogliere il senso nascosto della favola» moralistica in essa simboleggiato46, resta vero che l’ultima sequenza, in cui avviene il secondo ed ultimo incontro con essa, segna l’abdicazione definitiva di Marcello alla lotta. Due richiami lo sollecitano. Da una parte Paola, verso una vita pulita, di redenzione; dall’altra gli sporcaccioni, verso la solita vita dolce-amara. Ma per quanto la ragazza insista nell’invitarlo, con la voce, con i gesti, col sorriso, Marcello non riesce a intenderla. L’esile voce è coperta dalla risacca fragorosa, i gesti gli riescono incomprensibili. Resta il riso primaverile...: ma anche se egli, non stordito dai fumi della recente orgia, si arrendesse al suo fascino, un largo corso d’acqua è li a sbarrargli la via verso la salvezza. Invece, senza resistenze, insieme attratto, disgustato e rassegnato, egli segue, nell’alba livida, la solita triste compagnia, verso una nuova giornata di stravizi. Così, il simbolo eloquente del pesce morto, ingombrante e putrescente, conclude e giudica, senza speranza di ritorni, la Dolce vita.

Fondato su questi dati di fatto, il nostro giudizio sul film, sotto l’aspetto morale, è, nell’insieme, negativo. Né ci sembra molto illuminante e pertinente, a proposito di esso, la distinzione tra moralità e visibilità, benché in astratto essa sia, forse, sostenibile; prima di tutto perché, a rigore, il giudizio di moralità riguarda le azioni umane e non gli oggetti dell’uomo; poi perché un film come La dolce vita, essendo essenzialmente spettacolo, desumerebbe la sua eventuale qualifica di moralità appunto dalla sua visibilità rispetto al pubblico concreto, al quale viene di sua natura destinato e presentato. Ora, di fatto, il film è stato prodotto, girato e programmato proprio in vista di grandi masse, non preparate a comprenderne gli eventuali elementi buoni, preparatissime ad similarne quelli deteriori 47.

Le nostre responsabilità

L’umiliante fenomeno di gregarismo causato dalla Dolce vita non deve passare senza amari richiami per noi cattolici. Sarebbe inutile nascondere le nostre responsabilità; giova anzi ricordarcele, per agire meglio in casi di film simili, che certamente si ripeteranno.

Un primo doveroso richiamo riguarda i cattolici che hanno fatto massa con i non cattolici recandosi a vedere il film; non certo perché ne ignorassero la inequivocabile qualifica morale datane dal Centro, ma, forse, appunto, per gregarismo (variante del rispetto umano), paura del complesso d’inferiorità rispetto a chi poteva dire «io l’ho visto», presunzione delle proprie forze morali, scarsa fiducia nella ragionevolezza del C.C.C. o, addirittura, aperto cedimento ad una curiosità scientemente morbosa. La Chiesa non può non deplorare questo comportamento; sia per il danno morale presumibilmente subìto da chi vi si è piegato, sia per lo spettacolo d’incoerenza nella fede che con esso si è dato ai nemici del nome cristiano, i quali non si sono lasciata sfuggire l’occasione per rilevarlo ed ironizzarvi sopra48 sia, soprattutto, perché questa è la condotta che ci vuole per svuotare le qualifiche del C.C.C. da uno dei foro scopi socialmente più importanti: intendendo queste, oltre che formare la coscienza del pubblico, determinare, col boicottaggio dei buoni, il calo della produzione cinematografica deteriore [202, 250, 536]. Notava già mestamente sant’Agostino ai suoi tempi: «Se i cristiani non andassero a teatro, le persone nel teatro sarebbero talmente poche che si vergognerebbero e tornerebbero a casa loro. Ma anche i cristiani ci vanno, portando un nome santo che li farà punire»49.

Un secondo rilievo riguarda i critici cattolici. Non tutti hanno corrisposto a quello che in siffatte occasioni la Chiesa attende da loro. C’è stato chi si è diffuso in ditirambi estetici del film trascurando quasi del tutto, o del tutto, di illuminare i suoi lettori sull’aspetto e i pericoli morali di esso [272], e, ancora più, di diffondere e di difendere la qualifica datane dal C.C.C. [286, 291]; altri, addirittura, senza alcun dubbio in buona fede, hanno creato le più deplorevoli confusioni, tra i fedeli, sulle quali, daccapo, non hanno mancato di tambureggiare i soliti avversari, la cui forza consiste appunto nella loro coalizione contro le divisioni del campo cattolico, assai più deleterie quando si avvertono tra maestri, tra membri del clero. Tre di essi in questa occasione si sono particolarmente distinti: l’uno sbandierando presunti avalli di porpore50; l’altro così terminando un suo pezzo: «l’accusa di immoralità scagliata con deciso vigore contro la Dolce vita ignora i molti, seri consensi che il film ha ottenuto da persone particolarmente qualificate a dare giudizi in sede morale»51, dimostrando di ignorare, egli per primo, che, per disposizione pontificia, l’unico, in ogni nazione, «particolarmente qualificato a dare giudizi in sede morale» sui film è il Centro Cattolico Cinematografico [248, 252, 280, 574]; il terzo avallando la scandalistica della Dolce vita col detto di Gesù: Necesse est ut scandala veniant!, col falsarne irriverentemente il significato, quasi che Gesù non l’avesse fatto precedere e seguire da due terribili minacce: Vae mundo a scandalis! e Veruntamen, vae homini illi per quem scandalum venit!, quindi, immediatamente dopo, non avesse insegnato l’unica disciplina lecita e doverosa ai suoi veri seguaci avanti agli scandali: «Se la tua mano..., se il tuo piede..., se il tuo occhio ti scandalizza...: abscide, proice, erue...: perché è meglio per te entrare nella vita eterna senza l’uso degli occhi, che, usando male di essi, finire nella geenna»! (Mt 18,7-9)52.

Un terzo ed ultimo rilievo potrebbe e dovrebbe farsi circa l’operato della censura. Ma ce ne asteniamo, perché la questione ci sembra troppo complessa per dipanarla con qualche battuta. Sarà, dunque, meglio tornarci sopra con più comodo.

Possano un maggior senso di responsabilità nei cineasti, una maggior chiarezza e saldezza di dottrina cattolica nei critici, un maggior uso di volenterosa disciplina da parte dei fedeli evitare in avvenire all’onestà battaglie perdute, come questa.

 

1 Il Quotidiano, 9 febbr.

2 Segnalazioni Cinematografiche, Roma 1960, vol. XLVII, p. 120.

3 Nell’ordine: Paese Sera, 13 febbr.; ivi; Filmcritica, febbr. 1960, n. 94, p. 77; Paese Sera, 12 febbr.; ivi; Paese Sera, 11 febbr.

4 Cfr il testo rispettivamente in Osservatore Romano e Quotidiano, 10 febbr.

5 Il direttore dell’Angelicum di Milano, padre A. ZUCCA, avrebbe detto: «Sono miserie che non è opportuno portare sullo schermo; ed è una vera vergogna giustificare la pellicola dicendo che essa riproduce la vita di oggi». Don U. Traversari, direttore di Vita Nuova, avrebbe osservato: «Come sacerdote escludo la visione ai giovani, perché, se si approda ad un eventuale risultato positivo, ciò avviene attraverso una troppo marcata descrizione del marcio... La negazione di ogni speranza mi è parsa troppo cupa...». «Noi propendiamo — ha scritto DON BEDESCHI — per un giudizio negativo, insanabile. Le nostre ragioni partono non tanto dal contenuto, ma dallo stile distaccato, narrativo, acritico, divertito, che Fellini ha voluto mantenere volutamente nella narrazione» (Vita, 1960, n. 8, p. 36).

6 G.L. RONDI, Il Tempo, 14 febbr.

7 Paese Sera, 12 febbr.

8 Letture, 1960, n. 3, p. 220.

9 I numeri in parentesi quadre nel testo rimandano ai numeri marginali del volume: E. BARAGLI, Cinema cattolico, Documenti della Santa Sede sul cinema, Roma 1959.

10 Filmcritica, cit. p. 140.

11 E. FINESTAURI, in Giornale dello spettacolo, 1960.

12 A questo proposito anche L. RUSSO nega «la catarsi attraverso la crudezza delle scene», ed aggiunge: «Ma anche nel seicento pomposo e barocco dei Promessi Sposi, avvenivano tante cose che l’altissimo Manzoni sapeva velare però con profonda verecondia... Questa la funzione dell’arte: il Pudore e la Pietas con la P maiuscola» (in Belfagor, 1960, n. 2, pp. 226, 227).

13 Perciò riteniamo un po’ eccessivo l’ottimismo col quale C. M. STAEHLIN scrive de palabras e imágines menos indicadas para colegiales, pero que no pueden ser tentación ni escándalo para un hombre normai... (Echos y dichos, 1960, giugno, p. 521). Forse con maggior pertinenza Letture (Chiarificazione, 1960, n. 7, p. 530) rileva «che l’immagine, e soprattutto quella a carica emotiva o addirittura erotica, resta ambigua, e di tale ambiguità non si può non tener conto. Il discorso quindi vale per quanto di male La dolce vita rappresenta, soprattutto in certi suoi punti culminanti, rappresentati a modo di realistica e laica confessione di particolari...».

14 L’Europeo, cit. p. 41.

15 Bianco e Nero, 1960, nn. 1/2, p. 7.

16 T. KEZICH, La dolce vita, cit. pp. 35, 46.

17 Ivi, p. 69.

18 M. MoLLANDINI, Schermi, cit. p. 17.

19 «Vuole essere la storia di quella vita “dolce”, cioè quel clima molle nel quale Marcello viene sempre più a trovarsi immerso, a mano a mano che si affievoliscono in lui le nobili aspirazioni con le quali era partito dalla città nativa» (Letture, cit. p. 209).

20 Schermi, cit. p. 36.

21 L’Europeo, cit. p. 43.

22 Vita, cit. p. 39, riportato in Il nostro tempo, 12 febbr. 1960. – Qualche mese dopo egli ripeteva: «Certo il caso mi ha fatto avvertito in maniera più precisa, con orgoglio e sgomento insieme, di quante responsabilità e di quale delicatezza debba essere provvisto chi fa il ... cantastorie, e chi parla a pubblici così vasti e così eterogenei, sovente distratti ed estremamente influenzabili...» (ivi, 14 luglio 1960).

23 Paese Sera, 14 febbr.

24 E pare che lo stesso triste metodo venga usato fuori d’Italia. Per il Belgio scrive J. LEGAY (La revue nouvelle, 1960, n. 7, p. 861): Un battage publicitaire, axé sur un exhibitionnisme qui n’existe pas dans le film, a fait un tort considérable à cette oeuvre. On a excité une curiosité – parfois malsaine  – et le film a atteint des couches de spectateurs pour lesquels il n’était pas fait.

25 La mancanza di spazio non ci permette di riportare qui la probantissima documentazione, da noi raccolta, di due fonti di parte cattolica e di dodici di parte avversa. Ci riserviamo di riprodurle nell’opucolo che raccoglierà a parte questi due saggi.

26 Circostanza, questa, che dimostra quanto mai inconseguente (oltre che inutile, incivile ed igienicamente dannoso) il rimedio di «sputare sui personaggi della Dolce vita e non su Fellini», suggerito da Marmidone (L’Europeo, cit. p. 39) a giusta reprimenda dell’atto incivile seguito alla “prima” milanese del film.

27 Cfr C. GOZZI, Memorie inutili, parte II, cap. III.

28 Metamorfosi, VII, 20-21. Canzone in vita di Madonna Laura.

29 Pour le grand nombre des spectateurs passifs ou attirés par le snobisme et la curiosité malsaine, la peinture des moeurs est trop prolongé et trop suggestive pour ne pas devenir plus délétère que salubre. Etant donné le comportement assez strictement révélateur du public hétérogène des salles obscures, il est à redouter qu’un tel spectacle ne suscite dans la masse des spectateurs plus de reflexes de connivence et d’imitation, que de vraie et de vigoureuse réprobation...; pour un large public physiquement adulte mais mentalement terre à terre et imperméable au valeurs cachées, un film plutôt dangereux où, à tous les moins, stérile (Choisir, cit., pp. 21 e 22). Ciò vale, ci sembra, anche nell’ipotesi, che opiniamo insostenibile, che la maggioranza del pubblico sia già al corrente di certi orrori; ipotesi che, per Milano, è parzialmente ventilata da Letture (cit., p. 220): «Le azioni, che questo film potrebbe insegnare, purtroppo non sono del tutto nuove per il grosso pubblico delle sale cinematografiche italiane»; e, per Parigi, più categoricamente, per quanto mediante una domanda retorica, da J.L. Tallenay (cit. p. 37): Il raconte la vie des personnage dont la vie est ignoble, et ceux qui n’ont pas été touchés par la pourriture d’un certain monde ne tireraient aucun profit à aller le voir. Mais qui donc n’a pas été touché par cette pourriture?

30 L’Europeo, cit. p. 41..

31 Vita, cit. p. 39.

32 Choisir, cit. p. 20.

33 Choisir, cit. p. 20.

34 Letture, cit. p. 212.

35 Filmcritica, cit. p. 85-87.

36 T. KEZICH, La dolce vita di Fellini, cit. pp. 122 ss. (Ed altrove, come abbiamo visto, lo giudica «Film di una persona smarrita, disperata, confusa»)

37 Ivi, pp. 16 e 79.

38 J.L. TALLENAY, cit.; R. RÉGENT, in Revue des deux mondes, cit. p. 740; M.M., in Esprit, 1960, nn. 7/8, p. 1283. – J. LEGAY (Le revue nouvelle, n. 7, p. 90) conclude paradossalmente: Peut-être la leçon d’espérance la plus profonde de ce film, c’est que la vie puisse continue, après tant d’abandons!

39 G. MOSCON, cit.

40 Filmcritica, cit. p. 75.

41 L. ZORZI, cit. p. 108.

42 V. SPINAZZOLA, in Nuova generazione, 21 febbr. E Letture, nella Chiarificazione: «Nella Dolce vita la contrapposizione del bene, il Cristo e Paolina, pallida e impotente. Lo struggimento di quel bene estraneo ai protagonisti veri della “dolce vita”, non tutti lo potranno bene afferrare e lasciar fermentare in sé. Molti non percepiranno tale salutare nostalgia, seppure non assorbiranno un senso di desolazione, quasi che quello sia un mondo di predeterminati e inghiottiti dal male» (cit. p. 530).

43 Letture, cit.. p. 212. Così anche G. CATTIVELLI (Libertà, 6 febbr.): «In questo cabotaggio di contraddizioni oscilla Marcello, volta a volta nauseato e riattratto dall’ambiente in cui vive: nei momenti di nausea cerca occasioni per evaderne, ed esse ai concretizzano in incontri, persone, esperienze che potrebbero aiutarlo a salvarsi o a perdersi definitivamente».

44 Bianco e Nero, cit. p. 11.

45 Schermi, cit. p. 59.

46 Filmcritica, cit. p. 76.

47 Una volta tanto andiamo d’accordo con A.C. JEMOLO (La Stampa, 6 luglio 1960), quando scrive: «La moralità di un’opera, in particolare di un film, sta in definitiva nell’effetto che produce». –  È istruttivo conoscere come i comunisti intendono sfruttare per i loro scopi la Dolce vita. Riportiamo uno squarcio dell’opuscolo curato e distribuito dal Comitato centrale della Federazione giovanile comunista italiana sul film di Fellini, opuscolo notevole per onestà polemica non meno che per pregi di grammatica e di ortografia: «Il grande pregio di questo film, che noi vorremmo sottolineare ai circoli ed ai gruppi della gioventù comunista, ai fini di realizzare una serie di iniziative politiche, è il dibattito... che si è sviluppato intorno ad esso... È logico quindi,... la proiezione di un film che non si limita solo a descrivere il fallimento morale di una classe dirigente ma ne traccia sullo schermo la nullità ideale e sociale... “Negativo o positivo questo film?” questa domanda è stata posta da molti; attorno a questo interrogativo si deve muovere la nostra iniziativa allo scopo di portare avanti la lotta unitamente a molti giovani operai, studenti ed intellettuali cattolici (che hanno ritenuto l’opera di Fellini coraggiosa e positiva) la lotta contro la destra clericale e fascista... Il materiale di documentazione che vi alleghiamo ha lo scopo... di richiamare l’attenzione di tutte le nostre organizzazioni sulla necessità di promuovere subito delle iniziative: dibattiti, incontri tra studenti, operai e giornalisti per discutere il film, lancio di referendum con l’ausilio dei settimanali democratici locali, conferenze ecc... Tra l’altro si dovrà tener presente che tra alcune settimane, all’or quando il film passerà alle seconde visioni, migliaia di giovani e di ragazze delle nostre città e provincia avranno possibilità di vederlo e quindi di discuterne e di interessarsi al dibattito in corso».

48 Oltre che gratuite illazioni. «Mai, come in questa circostanza — scrive M. LIVERANI — s’era rivelata una così profonda diversità di vedute nel mondo cattolico italiano di fronte ad un’opera cinematografica. E si ha motivo di credere (?!) che questo diverso atteggiamento dinanzi ad un film che ha destato tanto scalpore non sia che una manifestazione di più accentuati contrasti nell’ambito della Chiesa» (Paese Sera, 12 febbr.). Cfr anche R. RENZI, Paradossi di una reazione, in Cinema nuovo, 1960, n. 145, pp. 203-204.

49 S. AGOSTINO, Discorso sui due ciechi, cap. XV, n. 17: MIGNE, P.L. 38, 548.

50 Rivista del Cinematografo (1960, febbr., p. 38) pubblicava: «La Commissione di revisione del C.C.C., che aveva emesso il giudizio preventivo sconsigliato, ha classificato il film La dolce vita, escluso. Il Nuovo cittadino di Genova del 14 febbraio pubblicava: — Si conferma che il C.C.C., il quale formula le classifiche per un giudizio morale dei film affinché in tale materia i cattolici possano avere un equilibrato orientamento, ha classificato il film La dolce vita: escluso per tutti. Siamo anche informati che tale classifica è stata pienamente approvata dal Presidente della Commissione Episcopale per l’Alta direzione dell’A.C., dalla quale il Centro dipende —».

51 G.L.R., Il Tempo, 14 febbr.

52 D. FABBRI, Il Paese, 11 febbr.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151