Articolo estratto dal volume IV del 1957 pubblicato su Google Libri.
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Il romanzo Le Christ recrucifié, dello scrittore greco Nikos Kazantzaki, sta segnando un franco successo nella repubblica delle lettere. Alle lodi unanimi della critica pare che si accompagni il buon esito commerciale, se già, a poco più di un anno dal suo primo contatto col pubblico, avvenuto nel 1955, è seguita quest’anno una ristampa del volume, e già circolano le versioni che lo divulghino tra quanti non leggono il greco, in cui fu scritto, o il francese, in cui fu subito mirabilmente tradotto1. Da quando, poi, il decimo festival di Cannes ha lanciato l’atteso film di J. Dassin: Celui qui doit mourir, che deriva il suo soggetto appunto dal racconto del Kazantzaki, tutto fa prevedere che romanzo e film si apriranno l’un l’altro larga strada nel mondo.
Tuttavia temiamo che, se lettori, spettatori e critici si troveranno sostanzialmente d’accordo nell’indicare i valori estetici che rendono artisticamente valide le due opere, non si avrà la stessa concordanza di giudizi nel rilevare i motivi che ne fondano la validità ideologica e morale, sicché, specialmente per il film, non è escluso che cristiani e marxisti, cattolici e laicisti, abbonderanno sì in lodi, ma per motivi tra loro contrari. Intanto, già allo stesso recente festival di Cannes ne abbiamo avuto una prova; mentre, infatti, il film vi arrivava incondizionatamente lodato, per i suoi valori morali e religiosi, da ecclesiastici qualificati come il padre H. Holstein S.I., dell’Istituto Cattolico di Parigi, e l’abbé Marion, rettore di S. Luigi dei Francesi in Roma, e poi la giuria dell’Office Catholique International du Cinéma (O.C.I.C.) lo condecorava di una menzione onorevole, spettatori e critici laicisti e marxistoidi lo hanno applaudito, con battimani e nella stampa, come una condanna di quanti hanno opté pour le Vatican contre les prêtres ouvriers (Jaegher), e trionfalmente definendolo totalement chrétien, c’est-à-dire totalement anticlérical (S. Dubreuilh). Motivi, questi, per cui crediamo utile consacrare qualche pagina prima al romanzo e poi al film derivatone, per avviare i lettori a giudicare sull’oggettività o meno di alcuni elementi che paiono rendere ambivalenti o equivoche le due opere.
L’azione del romanzo si svolge a Licovrissi, borgo dell’Asia Minore, intorno al 1920-’22. La popolazione, tutta di greci e ortodossi, vi è guidata da notabili della stessa stirpe e religione - il pope Grigoris e il ricco possidente Patriarcheas -, i quali, unicamente solleciti del benessere e del quieto vivere, hanno instaurato con l’agha, un maomettano pervertito e feroce, che vi rappresenta l’autorità turca, rapporti di compromessa arrendevolezza, se non proprio di amicizia. Ora, nella settimana di Pasqua, secondo una ricorrenza settennale, vi vengono eletti i personaggi incaricati di rappresentare la passione del Signore per l’anno seguente, e precisamente il pastore Manolios come Gesù Cristo, il postino-venditore ambulante Jannakos, Michelis, figlio del ricco Patriarcheas, e il barista Kostandis rispettivamente come apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo, il sellaio Panayotis come Giuda e la donna pubblica Katerina come Maria Maddalena. Ma un avvenimento inatteso porta, oltre ai designati, anche i due rappresentanti dell’autorità religiosa e politica, cioè il pope e l’agha, nei rispettivi ruoli di Caifa e di Pilato, a rappresentare nel modo più tragico e vero la passione di Gesù. Un popolo di affamati e di pezzenti, con alla testa il loro pope Fotis, a lungo ramingo dal villaggio distrutto ed incendiato dai turchi, chiede ospitalità ai ricchi licovrissioti; ma il pope Grigoris atterrisce i suoi fedeli indicando loro come caso di colera la morte avvenuta per fame di uno dei fuggiaschi, e così li forza a negare la carità richiesta. Vistasi respinta anche la supplica di poter coltivare i campi lasciati incolti dai licovrissioti, la miseranda carovana di profughi si ritira sulla Sarakina, petrosa e diruta montagna alle spalle del villaggio, ove, negli stenti più eroici, cerca di costruire un villaggio per riiniziarvi una vita meno indegna di esseri umani, di greci e di cristiani. L’esempio della loro fede eroica e la turpissima condotta degli egoisti possidenti “convertono” i rozzi personaggi della passione, sicché essi affrontano le ire dei compaesani, sempre aizzati dai loro notabili, e parteggiano per i derelitti della montagna: il «Cristo» dandosi tutto a loro e rinunciando anche all’amore della fidanzata; la «Maddalena» cedendo ai poveretti la sua unica pecora e rifiutandosi a «Giuda», già suo assiduo adultero cliente; i tre «apostoli», dopo aver dato del proprio, anche saccheggiando, ad utile di quelli, i ben provvisti magazzini del pope e del Patriarcheas, e poi «Giovanni», in particolare, addirittura cedendo ad essi la proprietà e l’uso di tutti i suoi beni - casa, provviste e campi - ereditati alla morte del padre. Quest’ultima misura, che di diritto immette gli odiati fuggiaschi nelle case e nelle terre del villaggio, spinge il pope Grigoris, già esasperato dalla morte del fratello e della figlia unica, alle misure estreme. Egli prima fa dichiarare nullo il testamento pretestando la pazzia del testatario, poi, una volta invase le case e le terre dai nuovi legittimi proprietari, ricorre all’agha perché ristabilisca la pace nel paese mandando a morte il «Cristo», bolscevico e causa di tutte le sue disgrazie, e, vintane l’apatia mediante il più schifoso dei mercimoni, egli tesso, a furore di popolo e per mano del «Giuda», da lui espressamente benedetto, lo assassina.
A mistero compiuto, Fotis e la sua cenciosa carovana, seppelliscono sulla Sarakina la salma del «Cristo», e carichi delle loro iconi e delle ossa dei loro avi, riprendono l’esodo verso l’oriente.
Dato lo scopo della nostra ricerca, lasciamo da parte i pregi letterari che rifulgono nel romanzo e ci limitiamo a seguire le due linee ideologiche che lo strutturano saldamente: l’una sociale e l’altra religiosa, non tacendo, tuttavia, del calore di patria che lo scalda tutto.
E come poteva il Kazantzaki, greco di nascita, di cittadinanza e di tradizioni culturali, non vivere, nelle sue pagine, e non esaltare l’ellenismo come valore di libertà politica e di umana cultura? E di fatto, questa sua fede egli la traspira ambientando tutta l’azione in quella zona di Smirne che il trattato di Sèvres nel 1920 aveva sottratto alla Turchia ed attribuito alla Grecia, ma che nel 1922, per mano di Mustafa Kemal, la Turchia riconquistava con sanguinose azioni di guerra; inoltre accumulando ogni possibile mostruosità morale sulla figura dell’agha turco oppressore e, finalmente, enunciandolo apertamente almeno due volte per bocca del pope Fotis: «Noi siamo degli elleni! - dice infatti l’eroe profeta alle prime pagine. - Una grande razza, che non deve sparire... e non spariremo! Da migliaia di anni viviamo, e ne vivremo ancora migliaia» (33 e 34); e alla fine del volume egli ordina la definitiva ritirata ai suoi miserevoli seguaci dicendo loro: «Partiamo, in modo che i turchi non trovino neanche uno di noi a Licovrissi e sulla Sarakina. Siamo rimasti soli pochi greci nel mondo; ma, lo vogliano o no i nostri nemici, noi siamo il sale della terra. Bisogna, quindi, non farci distruggere!» (407)2. Ma si tratta di un interesse complementare, che si modula come in sottofondo e che non incrina affatto la salda unità del tema centrale, che è morale, sociale e religioso.
L’opposizione violenta tra due complessi societari, l’uno nella miseria e l’altro nell’abbondanza; l’uno costretto a tutti i rischi per uscire da una condizione men che umana, e che esige, come può, carità e giustizia da chi più detiene, l’altro che difende egoisticamente il suo quieto vivere fino a respingere con le armi i poveri quando questi tentano di entrare nel loro, e fino ad assassinare chi ha preso partito per essi; la chiara simpatia del romanziere per quelli che ingiustamente soffrono e la non meno chiara ed animosa sua condanna per quelli che ingiustamente godono, pongono a fuoco nel più drammatico dei modi il problema della distribuzione dei beni economici nella società umana e denunciano l’insofferenza per la più intollerabile ingiustizia che spesso vi trionfa.
Ma in siffatta umanissima sensibilità morale non c’è uomo mediocremente onesto che non si senta solidale col romanziere, sicché a torto un marxista tenterebbe di avocare alla sua ideologia la dottrina morale del romanzo; e se qualche battuta, presa fuori del suo contesto, potrebbe anche interpretarsi come afferente alla lotta di classe, alla necessaria e totale comunanza dei beni e ad altri dommi marxisti3, è indubbio che il romanzo, pur fortissimamente difendendo i diritti dei poveri e condannando l’egoismo dei ricchi, essenzialmente non insegna o loda nulla che travalichi i limiti dell’onesta morale sociale; e se fa in modo che il «Cristo» venga condannato come bolscevico, ha cura di precisare, senza equivoci di sorta, che si tratta di calunnia, inventata per impressionare l’agha, sensibile solo ad un accusa politica, e niente affatto di difesa o di simpatia verso gli ideali oggettivamente o storicamente rappresentati da quel titolo; alla stessa maniera che l’accusa di ambita regalità servì a strappare a Pilato la condanna di Cristo, senza affermare da parte dei sacerdoti e del popolo di Gerusalemme la benché minima simpatia per l’autorità straniera a difesa della quale aveva l’aria di essere formulata.
Ma l’elemento che radicalmente invalida qualsiasi interpretazione materialista del romanzo è la religiosità che l’anima. Lo rileggano attentamente, i materialisti, e se poi se la sentiranno di applaudire, e molto più se accetteranno l’ideale di vita sociale che vi si sostiene, non saremo certo noi, cristiani e cattolici, a rammaricarcene. Non solo, difatto, la religione cristiana impregna uomini e cose del romanzo, sicché i malvagi vi sono descritti come tali perché, aderendo ad una religione buona, non ne praticano i precetti, ma lo stesso problema sociale vi è sentito come essenzialmente religioso. Vi si condanna l’asserzione del pope Grigoris secondo la quale Dio avrebbe fatto i poveri e i ricchi, e, quindi, sovvertirebbe l’ordine voluto da Dio chi distruggesse la distinzione (247); vi si dice chiaramente che i poveri sono Gesù Cristo, e perciò si deve loro la giustizia e la carità, e che il libro di testo per la teoria e la pratica di queste virtù è il Vangelo e solo il Vangelo; che non soltanto i ricchi devono dare ai poveri, ma anche questi devono dare ai più poveri di loro, ma che se, in attesa che giustizia e carità vi trionfino, resteranno ancora su questo mondo poveri e sofferenti, questi, piuttosto che buttarsi a fare il male, si stimino beati, ed amino il dolore come un incomparabile dono di Dio (161), e tanto chi soffre nella povertà quanto chi i poveri soccorre come deve, vivano nella speranza del paradiso, nel timore dell’inferno (246 e 256), e in attesa di quella giustizia perfetta e definitiva che si attuerà solo nell’altro mondo.
A rafforzare questo fondo dottrinale viene il simbolismo dei personaggi della «passione», che nel romanzo vale molto più di un felice espediente letterario. Esso, infatti, sviluppa drammaticamente il pensiero paolino secondo il quale l’opera di Cristo non è terminata con la vita del Cristo storico, ma si prolunga nella vita della Chiesa dei credenti, suo corpo mistico; sicché la questione sociale s’inserisce come un particolare nella vicenda ben più vasta della redenzione e santificazione di tutta la famiglia umana, e i singoli uomini si fanno efficaci a togliere le ingiustizie che la rendano contraria al disegno di Dio solo se, prima di tutto, nell’onestà e nella santità vissute, piegano la loro vita personale a tutte le esigenze della fede cristiana, che a parole professano. Si esamini con quanto amore il Kazantzaki descrive il fermento che la dottrina di Cristo produce nell’animo dei suoi rozzi uomini e la progressiva, radicale loro intima trasformazione, sino a far loro rivestire interiormente, come per un nuovo battesimo, le virtù dei personaggi che sono chiamati a rappresentare, e allora si vedrà che la «rivoluzione sociale» da essi provocata non avrà nulla che fare col comunismo e moltissimo col cristianesimo.
Tuttavia non ce la sentiremmo di negare con uguale decisione che il romanzo abbia una certa coloritura anticlericale; e non tanto per le parole che l’autore mette in bocca al suo «Cristo»: C’est vous les prêtres, qui avez crucifié le Christ; s’il redescendait sur terre, vous le crucif ierez de nouveau! (266)4, quanto per il suo eccessivo insistere nel costruire preti mostruosamente indegni e traditori del loro mandato di disciplina e di magistero; accanto all’odioso Grigoris, il ributtante e, per certi particolari, grottesco vescovo, caricaturalmente messo a contrasto con l’evangelico Fotis; il quale, poi, con le sue virtù eroiche, si presenta più con le caratteristiche di un antico profeta, o piuttosto di Mosè, condottiero del popolo verso la terra promessa, che con quelle di un mandato della Chiesa gerarchica fondata da Gesù Cristo. Il pensiero corre al romanzo immortale del nostro Manzoni, col quale questo del Kazantzaki ha molte analogie di temi e di personaggi. Anche nei Promessi sposi un prete agisce apertamente in contraddizione con la dottrina che è autorizzato ad insegnare e, per non inimicarsi potenti ingiusti, nega i loro diritti a poveri perseguitati; ma a bilanciare il vile tradimento di don Abbondio, il romanziere, intimamente cattolico, pone le luminose figure di fra Cristoforo e del grande Federico; inoltre egli si cura di rilevare che tutto quanto è valido nei suoi preti concorda e dipende essenzialmente da quella istituzione divina che è la Chiesa di Cristo, mentre nel romanzo del Kazantzaki tutti i valori sembrano rapportati direttamente al Vangelo, scavalcando ogni istituzione intermedia che lo garantisca e lo interpreti.
E non è questo l’unico punto che a noi cattolici riesca meno accettabile nel mondo religioso del romanzo. Per esempio, non gradiamo un certo fatalismo superstizioso che permea i suoi personaggi e ne guida le azioni, un certo manicheismo ed ebraismo che porta costantemente la bontà virtuosa a coincidere col benessere materiale, e la disgrazia con la colpa; così pure ci urtano le bugie messe, sia pure a fin di bene, in bocca del «Cristo» (191, 395) e del «san Giovanni» (307), nonché la facilità con cui i papi «prendono su di sé la responsabilità del peccato» (353, 381); tuttavia, per non aver l’aria di diminuire i valori essenziali del romanzo, ci affrettiamo a precisare che queste ed altre mende5, le quali del resto non sappiamo se attribuire ad una visione personale dell’autore o ad aberranti concezioni diffuse in qualche settore della Chiesa «ortodossa», e magari motivate dalla condotta indegna di alcuni membri di quel clero, non distruggono i valori morali del Le Christ recrucifié; esso, pertanto, nel tormentato mondo contemporaneo resta alto ed accorato messaggio di giustizia e di carità cristiana.
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Nel film di Dassin la componente del patriottismo come missione di civiltà scompare e restano solo, violentemente espressi nel linguaggio figurativo proprio del cinema e nel dialogato proprio del romanzo, i due temi sociale e religioso, semplificati, e forse impoveriti rispetto alla fonte letteraria, ma nell’insieme accettabili dalla sensibilità morale e religiosa cattolica. Abolita la caricaturale figura del vescovo, alquanto moderati nel Grigoris alcuni tratti più odiosi che lo caratterizzavano nel romanzo e non ignorato il contrasto tra bontà della dottrina da lui rappresentata e l’indegnità della sua condotta, ben lumeggiata l’ascetica ed eroica figura del pope Fotis posto a equilibrato contrasto col suo collega degenere, la critica e la stroncatura, più che contro il sacerdote come rappresentante di un’istituzione gerarchica, s’indirizza contro la separazione e l’opposizione peccaminosamente avvenuta tra la fede e le virtù della giustizia e della carità, che avrebbero dovuto informarla; sicché ci vuole tutta l’allergica idiosincrasia di laicisti “impegnati” fin sopra i capelli per vedervi un’esaltazione dell’anticlericalismo o, peggio, dell’irreligione.
Tuttavia a noi sembra che anche nel film qualche particolare strida o con la dottrina cattolica o, almeno, con la sensibilità di alcuni strati di cattolici particolarmente solleciti del rispetto dovuto alle cose più sacre. Ci riferiamo alla relazione amorosa che nel film sollecita il «Cristo» verso la «Maddalena», e all’ambigua, se non aberrante, soluzione del problema della violenza.
Circa il primo particolare, mentre da una parte lo giudichiamo capace di produrre suggestioni poco rispettose della persona santissima di Nostro Signore, d’altra parte lo troviamo del tutto inutile nell’economia del film; perciò preferiamo ad esso il racconto del romanzo, rispetto al quale il film introduce una variante, oltre che inutile, dannosa. Con molto più felice intuito il Kazantzaki porta il Manolios, una volta eletto «Gesù», non solo a non cedere ad amori disonesti, ma anche a rinunciare all’amore che onestamente fin allora aveva coltivato.
Nel rilevare il secondo particolare ci sentiamo oltremodo perplessi, scorgendovi un’altra inutile e dannosa variante in confronto del romanzo, e una possibile mancanza di rispetto questo volta contro la dottrina di Gesù. Il romanzo, infatti, è fondamentalmente una condanna della violenza. Mentre Grigoris, come abbiamo visto, ne propugna l’uso indiscriminato, il suo antagonista Fotis, a parte poche battute che, fuori del contesto, indurrebbero ad inferire qualche incertezza nel suo pensiero ortodosso (329, 341), sia pure sostenendo lecita la legittima difesa della propria persona e dei propri beni, piuttosto che ricorrere alla violenza aperta, e ai danni che ogni guerra, anche se giusta, comporta, almeno nella fine del romanzo6, preferisce lasciare sgombro il campo e riprendere il doloroso cammino dei miti perseguitati per la giustizia; e Manolios, dal canto suo, pur conducendo i suoi reietti ad occupare quanto è diventato legalmente loro, li esorta senza ambagi ad evitare la guerra: Nous avons le droit pour nous. Mais, s’ils veulent à tout prix la bagarre, nous ne nous battrons pas avec eux; ce sont nos frères! Egli tenta, naturalmente, le vie legali per la difesa del diritto: Nous irons trouver l’agha, c’est lui qui gouverne le village, il tranchera; et, puisque les vigne; sont maintenant à nous, il ne peut pas ne pas nous donner raison ... Ma quando l’autorità politica viene meno al suo dovere, il «Cristo» preferisce vincere il malvagio offrendosi egli stesso spontaneamente alla morte e rivivendo fino in fondo la realtà del Cristo storico, di cui egli è simbolo e continuazione7.
Il film di Dassin, invece, finisce col diventare un’apologia della violenza, sia pure ridotta al caso limite della guerra santa, o quasi. In realtà, fatta proporre dal pope Fotis una molto dubbia, ma comoda (al Dassin) esegesi dell’evangelico: Non veni pacem mittere sed gladium! (Mt 10,34), egli, a suo arbitrio sostanzialmente mutando la finale del romanzo, fa che Manolios non si offra spontaneamente alla morte, ma venga arrestato mentre tenta di strappare una mitragliatrice ai soldati turchi, comandati dall’agha a reprimere la sedizione dei sarakinioti8; una nota politico religiosa viene così a motivare la morte del «Cristo», e viene anche a giustificare l’imprevista condotta di Fotis, il quale, esaurita la pazienza, loda ed incoraggia i suoi «apostoli» barricatisi a difesa dei diritti dei sarakinioti, e poi, baciato il Vangelo, imbraccia anch’egli il fucile contro gli oppressori; sicché il film, che si poteva chiudere con un chapliniano allontanarsi di un popolo, per una lunghissima strada, verso orizzonti lontani (come appunto bene comincia), termina di fatto alla Eisenstein con una panoramica di bocche di fucili volte verso lo spettatore, quasi ad ammonirlo di che cosa lo attenda, se egli si trovasse da parte dei turchi e dei ricchi egoisti, allorquando, esauriti i mezzi legali, gli straccioni si trovassero nella necessità di passare alla violenza. Soluzione che, senza dubbio, si avvantaggia di un finale cinematograficamente più ovvio e drammatico, ma a prezzo dell’unità tematica del film, il quale cosi, rispetto al romanzo, finisce moralmente ambiguo ed artisticamente fratturato.
Non è mancato chi ha sostenuto che l’ultima scena va letta in chiave simbolica e non su quanto materialmente dice; lo schierarsi del pope Fotis con i ribelli e il suo imbracciare il fucile contro i turchi non vorrebbe significare altro che una molto vigorosa condanna di quella pace a tutti i costi che è difesa dal pope Grigoris; simbologia che consonerebbe con quella della «passione», che regge tutto il racconto, e che giustificherebbe anche il tono piuttosto elevato del dialogo, superiore alla mentalità non colta dei personaggi popolari. Ma questa difesa ci pare più volenterosa che obiettiva. Prescindendo, infatti, dalla circostanza che tutto il film è già una condanna di quella pace a tutti i costi, sicché non c’era affatto bisogno di un supplemento di prova, sta il fatto che già in altri suoi film il regista francoamericano ha mostrato indubbie simpatie per il tema della violenza (si pensi, per esempio, a Brute force [1947], a The naked City [1948] e a Du rififi chez les hommes, [1954]), e che, egli stesso, commentando il film, ha sciolto un inno non equivoco alla violenza, per quanto intesa nel senso più nobile, ed infine, che alcune reminiscenze figurative di questa sua ultima opera si rifanno a due tra i più classici film che affrontano problemi sociali e li risolvono appunto con la violenza; intendiamo riferirci a Mat (1926), di Pudovchin, e al Bronenosetz Potiomkin (1925), di Eisenstein9.
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Ci conforta in queste nostre considerazioni la motivazione con la quale la giuria dell’O.C.I.C. a Cannes ha giustificato la menzione onorevole conferita a Celui qui doit mourir, insieme a Le notti di Cabiria, di F. Fellini; mentre, infatti, i due film vi vengono elogiati come «ricchi di qualità artistiche e morali, e per il coraggio col quale denunciano alcuni aspetti dell’egoismo umano, opponendo ad esso le virtù della giustizia e della carità cristiana», non vi si manca di rilevare «la complessità o l’ambiguità del loro significato». Motivazione e rilievi ignorati dal troppo corrivo censore di Concretezza, che avventatamente ha accusato le giurie dell’O.C.I.C. di poca «aderenza all’insegnamento pontificio» e di scarso e senso di responsabilità nei confronti delle... conseguenze sociali e morali del cinema»10.
1 Dall’ Î ΧριστÏς ξανασταυρωυεται, Paris, Plon, 1957, pp. 408. (I numeri tra parentesi nell’articolo rimandano a questo volume). In italiano l’ha pubblicato l’editore Mondadori, col titolo Cristo di nuovo in croce.
2 Al pope Fotis fa eco il «capitano«: «Noi elleni siamo una razza immortale. Ci cacciano, ci bruciano, ci scannano, ma noi resistiamo. Ci carichiamo delle iconi, delle masserizie e dei vangeli e ci mettiamo in cammino per impiantarci altrove!» (34); ma le sue parole valgono quel che valgono, essendo parole di un ubriaco.
3 Per esempio, a p. 146, il pope Fotis esclama: «Basta coll’ingiutizial Che tutti soffrano fa fame e il freddo, o che tutti abbiano da mangiare e da vestire!», dove manifestamente la prima alternativa conviene più al concetto marxista di giustizia che a quello della morale giusta; a p. 300, per bocca di Michelis, («san Giovanni»), Gesù affermerebbe categoricamente: Ce mond est injuste, malhonnête, sans pitié: il faut le jeter bas!, dove un lettore troppo corrivo potrebbe vedere predicata la lotta di classe; e finalmente a p. 308, dove il solito lettore frettoloso potrebbe vedere spuntare il sole della nuova società comunista profetizzato dalle altre parole del pope buono: «Quello che fino ad oggi è stato un sogno comincia a diventare realtà. Anche noi, finalmente, abbiamo campi ed alberi; ma noi li lavoreremo e li godremo in comune. Tra noi non ci saranno né ricchi né poveri. Ma tutti faranno una famiglia. Prepariamoci a mostrare come gli uomini devono vivere in società e come sulla terra può regnare la giustizia».
4 Naturalmente, per la parte che purtroppo possono contenere di vero, noi sacerdoti faremo bene ad accettarle, e di fatto le accettiamo, come un invito ad un umile esame di co9eienza. Tuttavia troviamo più felici per completezza di verità teologica le parole parallele che il romanziere pone in bocca al pope Fotis: Celà aussi a été vain, Seigneur. Près de deux mille ans ont passé et, jusqu’à ce jour, on n’a pas cessé de te crucifier. Quand viendras-tu au monde, Seigneur, pour n’être plus crucifié, pour vivre avec nous éternellement? (406).
5 Le quali, a parte la non facile comprensione del tema, in sé complesso, rendono il volume non adatto a lettori immaturi e, in particolare, ai giovani. Specialmente questi difficilmente potranno subire senza danno alcune bestemmie proferite dai personaggi «buoni» e «cattivi», o alcune sequenze, dove la sensualità dei «cattivi» prende forme molto violente e suggestive.
A conferma, leggiamo una dichirazione che il Kazantzaki avrebbe fatto, secondo la quale, dei due popi, l’uno rappresenterebbe la fede ufficiale, l’altro la carità totale: deux conceptions du Christianisme. Mentre lasciamo alla responsabilità dell’intervistatore l’esattezza delle parole riportate, non possiamo non notare che, per noi cattolici, fede ufficiale e carità totale non sono deux conceptions du Christianisme, ma due elementi ugualmente necessari di esso; sicché, per attuare la buona novella portata da Gesù Cristo, non si tratta di scegliere tra fede ufficiale e carità totale, ma di attuare l’una e l’altra insieme, secondo la consegna di san Paolo: Veritatem facientes in caritate (Eph 4,15).
Per finire, non ci piace la confusione che sembra farsi tra precetti e consigli evangelici (295), anche se, corretta alla pagina seguente, si manifesta, forse, più improprietà di terminologia che erranza di dottrina.
6 Precisiamo in tal maniera perché, stando a quanto egli stesso confessa, Fotis non si è sempre regolato così. «Allora salii sul pulpito e gridai: Fratelli, figlioli, i greci sono arrivati! Tutti alle armi: uomini e donne, e ricacciamo i turchi fino in fondo all’inferno!» (35). Siccome il film finisce con quanto, invece, dal romanzo è raccontato all’inizio, questa violenza viene a rivestirvi un valore di tesi.
7 Non vale opporre l’affermazione di Jannakos: «Se Gesù Cristo ridiscendesse oggi sulla terra, non porterebbe più sulla spalla una croce, ma una latta di petrolio!» (362), perché manifestamente il romanziere si rifà al tratto parallelo del Vangelo in cui «Giacomo e Giovanni dissero al Signore: Vuoi che noi facciamo piovere fiamma dal cielo che li divori? Ma Egli, rivoltosi ad essi, li sgridò, dicendo: Non sapete di quale spirito siete. Il Figlio dell’uomo non è venuto per perdere gli uomini, ma a salvarli» (Lc 9,54 ss.).
8 Non è questa l’unica variante del film rispetto al romanzo. Per esempio, nel romanzo, senza sacramenti non muore Patriarchea, ma il «capitano», personaggio del tutto soppresso nel film; Manolios non ha (e ne guarisce) la balbuzie, ma la lebbra, malattia giudicata, forse, troppo compromettente per il film; la fidanzata di Manolios è la facile Lenio, e non la tenera e dolce figlia del pope Grigoris, e Manolios, lungi dal cedere a Katerina, piuttosto la converte; Katerina, da parte sua, muore per il popolo, sacrificatasi per esso, mentre nel film compare nelle ultime sequenze, piangente, sul cadavere di Manolios. E non parliamo delle parti soppresse, per esempio, l’uccisione del ragazzo dell’Agha e la barbara reazione di questi, o aggiunte. Molto cavallerescamente il romanziere ha giustificato la «fedeltà relativa» del regista dicendosi e perfettamente conscio della fondamentale differenza tra il fatto letterario e quello filmico, che esige una concezione talvolta veramente sinottica.
9 Abbiamo sorpreso, tra l’altro: gli occhiali del maestro ucciso, gli stivali dei turchi che scendono la scalinata e la panoramica delle bocche dei fucili spianati, che ricordano i paralleli occhiali del dottore morto, gli stivali dei cosacchi sulla scalinata Odessa e la panoramica dei cannoni a zero, del Poliomkin.
10 Ma questi premi dell’O.C.I.C.?, in Concretezza 1957, n. 20.