Articolo estratto dal volume II del 1958 pubblicato su Google Libri.
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La produzione cinematografica giapponese in Italia è quasi del tutto sconosciuta. Eppure, per quantità essa è la prima del mondo – quasi il doppio di quella americana1 –, e per qualità non dovrebbe essere mediocre se da vari anni va mietendo premi su premi nelle competizioni internazionali2, e se critici e specialisti reduci da quelle sono tutt’altro che scarsi di lodi per i film premiati. Evidentemente premi e critica non riescono a vincere la diffidenza delle nostre case di distribuzione, che pensano di non correre rischi doppiando, poniamo, quelli americani, confezionati su misura sui gusti medi di spettatori mediocri, mentre temono delle reazioni del pubblico avanti a film solitamente lunghi, spesso o lenti o frenetici, dalle trame, almeno apparentemente, ingarbugliate, certamente non chiarite da una lingua inaccessibile e dalle fisonomie tutte rassomiglianti degli attori. E la loro diffidenza non cede neanche qualora i fatti la provino immotivata o eccessiva, per esempio avanti al buon successo di pubblico segnato dai film giapponesi – due soli, tra tanti premiati – giunti sui nostri schermi: Rasho-mon, nel 1952, e i Sette samurai, nel 1955; infatti, di dodici film stranieri presentati alla XVII Mostra veneziana (1956), otto, entro l’anno, venivano doppiati e programmati in Italia, e quattro no; tra questi quattro c’erano il pretenzioso Drakos, dell’esordiente Konduros, il retorico Bessmertnij garniwn, del militante sovietico Agranenko, e i due giapponesi Achasen chitai (= La strada della vergogna) e Biruma no tategoto (= L’arpa birmana), che, guarda caso, non solo non erano né pretenziosi né retorici, ma, a giudizio della giuria e di molta parte della critica, erano tra i migliori, se non addirittura i primi della competizione3.
Pare che, secondo i distributori, avessero l’inconveniente di trattare soggetti moderni, – per dirla alla giapponese: da gendai-geki, – e perciò di mancare di quell’esotismo che, secondo essi, spiegava il successo di Rasho-mon e dei Sette samurai: l’uno e l’altro medievali, in costume: da jidai-geki4; e se, ai primi di quest’anno, un distributore, finalmente, ha appagato la nostra attesa5 programmando L’Arpa birmana, non l’ha fatto senza un residuo di timorosa cautela; egli, infatti, l’ha messo in circolazione non doppiato in italiano, ma soltanto sovraimpresso...
Cauteloso o meno, noi ci congratuliamo con lui, e gli auguriamo che il film continui ad avere un’accoglienza di pubblico non meno favorevole di quella segnata dalle prime visioni, mentre siamo sicuri che il rinnovato unanime applauso della critica d’ogni colore6 l’abbia già persuaso di aver reso un segnalato servizio a quegli alti valori umani che sono l’arte, la cultura e la bontà. Per parte nostra, data l’altezza del tema che gli dà vita e lo splendore delle immagini in cui esso s’incarna, pur non osando dire L’Arpa birmana7 un capolavoro né film che respiri nel soprannaturale cristiano, la riteniamo opera di umanissima poesia, degna di essere rigustata nell’affettuoso studio personale; e, particolarmente in questo caso, siamo dolenti di sentirci, nella nostra condizione di occidentali, sprovvisti a gustarne tutta fa bellezza concettuale ed espressiva; infatti, ci sfugge il significato – religioso, culturale, di folklore e di linguaggio – di troppi particolari espressivi, necessari per averne una intellezione e darne un giudizio compiutamente obiettivi.
Unità tematica
Già nel racconto su cui si struttura, e molto più nelle immagini schermiche in cui esso si attua cinematograficamente, si avverte nell’Arpa birmana quella sostanziale unità del tema ispirativo senza la quale non si dà opera d’arte.
Quale esso sia non ci sembra dubbio. Non la condanna della guerra, secondo che hanno giudicato alcuni critici militanti8, o la solidarietà con i caduti per la patria; non l’esaltazione dell’amicizia, e neanche il sentimento della pietas verso i defunti in quanto tale. Questi ed altri motivi nobilissimi certamente risuonano nel film, ma per confluire in un tema più universale e più profondo, qual è la «celeste corrispondenza di amorosi sensi», che, armonizzando in un unico accordo quanto vive nel creato, lo fa bello e buono, di cui la guerra armata è la frattura più stridente, l’amicizia con i vivi e la pietà per i morti sono gli accordi più umani e profondi. Tant’è vero che della guerra è messa in luce più che altro l’assurda radicale disarmonia, chiunque ne sia l’attaccante e il colpito, in qualsivoglia plaga del mondo essi si scontrino, quali ne siano i motivi e gli scopi invocati: solo in un secondo momento, riflesso e logico, lo spettatore è portato a considerare l’assurdo morale che giapponesi, indiani e inglesi siano trasportati migliaia di chilometri lontani dalla loro patria, vivano per anni sradicati dalle toro case, non per conoscersi, non per parlarsi come esseri umani, ma per uccidersi, quando nessuno di essi ce l’ha contro l’altro, quando uno stesso umano sorriso e uno stesso umano dolore illumina o vela gli occhi di uomini l’un contro l’altro armati, e lo stesso canto fiorisce nei loro cuori. Il tema dell’amicizia poi accompagna il film, e più intensamente che non quello della guerra, ma non lo esaurisce: cede, infatti, a quello della pietà, per sublimarsi, insieme con esso, nell’idea poetica di un’armonia superiore, in cui confluiscono, integrandosi, tutti gli accordi particolari. Diremmo, insomma, che il tema dell’armonia dell’universo si sviluppa nell’Arpa birmana su tre piani via via più immateriali; il primo, al livello della natura fisica: la «bella d’erbe famiglia e d’animali» del Foscolo; l’altro, al livello dei sentimenti umani; il terzo, ad un livello iperumano, non nel senso che vi si neghi o vi s’ignori l’uomo e quanto ne agita l’animo, bensì in quanto l’uomo è colto in relazione a qualcosa che lo supera, da cui egli stesso dipende ed a cui tende.
Rendono prevalentemente l’armonia della natura fisica le inquadrature dei cieli notturni striati di nubi, immote nella luce lunare, i campi lunghissimi, in cui la linea dell’orizzonte è data dalle foreste immense, o si confonde o con lo scintillare del mare aperto alla luce radente del tramonto, o col lento fluire delle acque di un fiume di cui non si scorge la riva. Ed i cieli notturni si dilatano in alti silenzi, e tra le fronde delle foreste cantano gli uccelli e filtrano i raggi del sole, e lo sciabordio sommesso delle onde accompagna il lento rollio del battello come se il mare respirasse. Ma la guerra, che è disordine, fracasso, violenza e sporchezza, al suo passaggio contamina tutto quel che di bello e di pulito è nella natura; ne copre l’armonia con gli urli rauchi degli ufficiali, dei combattenti, dei colpiti a morte, con lo sputare rabbioso delle mitragliatrici, gli schianti delle bombe e il rovinio di pietre, di polvere e di fumo che li accompagna; e quando è passata, dove già fioriva la vita, lascia un paesaggio lunare, forato da crateri sterili, e, seminati nei suoi monti e nelle sue valli, rigidi o disfatti, i morti, su cui calano, starnazzando e gracidando, i corvi e gli avvoltoi...
A rappresentare l’armonia sul piano dei sentimenti umani il regista ha scelto l’amicizia: forse il più bello e il più nobile che viva tra i mortali. Nel film i soldati di Inoue si vogliono bene: vanno, lavorano, si riposano, sognano, temono e sperano, più che dalla disciplina legati da una fraterna comunanza; e tutti vogliono bene a Mizushima. Temono per lui quando lo vedono allontanarsi, restano in ansia per la sua morte quanto lo sanno assente; lo pensano, lo cercano, sembra loro assurdo di poter tornare in patria senza di lui; tacciono addolorati quando lo credono morto, delusi, quando sembra loro di riconoscerlo e poi si accorgono di essersi ingannati; con due fulminee panoramiche i loro occhi vanno dal simulacro al bosco e dal bosco al simulacro, cercando da dove provengano i noti accordi, poi corrono, si agitano, tempestano intorno al simulacro di Kawa Kami, dove suppongono che l’amico si nasconda; con un grido incontenibile s’avventano per raggiungerlo, sicché a stento li trattiene la barriera di filo spinato, quando, cessato ogni dubbio, lo riconoscono; con uno struggente silenzio ne sentono il canto d’addio e poi lo vedono allontanarsi; singhiozzando ne ascoltano la lettera, sicché la sua perdita sembra che diminuisca la loro stessa gioia del ritorno in patria.
Questo filone armonico s’inizia con la prima sequenza e continua, si può dire, almeno soggettivamente per i commilitoni di Mizushima, fino a metà dell’ultima. Ma, per lo spettatore, già a mezzo il primo tempo si annuncia, timido, l’altro della pietà per i morti; indi si afferma, creando una suspense, che per Mizushima si scioglie psicologicamente e religiosamente nella sequenza delle sisters raccolte intorno alla tomba del giapponese ignoto e in quella del rubino birmano scoperto sulla riva del fiume, per Inoue nella sequenza del cinerario, e per tutto il reparto in quella del commiato avanti al simulacro giacente. Infatti, agli inizi, Mizushima non si distingue dai suoi commilitoni nel desiderare la patria. Casa, dolce casa, – canta con essi; «Voglio tornare in patria» –, afferma nella capanna del vecchio birmano; «Arrivederci a Mudon!» –, grida gioiosamente separandosi dai compagni; per raggiungere con minori rischi il campo ruba al bonzo gli abiti e si avvia. Il primo incontro con i morti sulla petraia dantesca gli provoca più che altro sbalordimento e ribrezzo: egli si tura il naso al loro lezzo e trasale all’improvviso gracchiare e sbattere di ali dei corvi. Sono giapponesi e si fa un dovere di bruciarne i resti: ma si rimette in cammino con la decisione di chi è chiamato ad altre mete. Nella foresta altri morti – tanti! – gli si fanno incontro: tra essi egli ne scorge uno ch’e sembra porgergli la fotografia della sposa e dei figli. L’angoscia lo assale, ma egli la domina: saluta militarmente e riprende il cammino. Sulla riva del fiume altri cumuli di salme disfatte lo attendono; egli, prima si arresta esterrefatto, poi corre, quasi impazzito, di qua e di là, fuggendo gli scheletri che affiorano dal fango e gli sbarrano il passo. «Ci sono salme insepolte di giapponesi e di stranieri dappertutto», – gli dice il pietoso che gli offre un passaggio – e Mizushima non resta, ma si fa traghettare verso Mudon. Nel buio notturno, già in vista delle luci del campo, cerca di dimenticare gli orrori visti e già pregusta la gioia dell’incontro: Domani, finalmente, come si meraviglieranno! – mormora nell’ascoltare la tromba che sembra invitarlo. Ma poi assiste, non visto, ad una cerimonia funebre di stranieri; quando il cappellano cattolico e le sisters si allontanano, egli avanza e, tra le croci, scorge il tumulo senza croce di colui al quale gli stranieri hanno pregato l’estremo riposo: è di un soldato giapponese ignoto: ormai la sua anima è matura per la decisione più ardua. Nella lunga notte, prostrato a terra, rivede tutto quello che l’ha atterrito, non vinto, nel suo cammino doloroso: ma i morti dei monti, delle foreste e del fango non lo atterriscono più; la commozione lo vince alla visione della tomba senza croce vegliata dalle croci straniere. Dalle tenebre notturne egli esce alla luce del mattino trasformato in un altro. Il ragazzo ha un bell’indicargli: «Il campo di Mudon è da quella parte!» – egli torna sui suoi passi. E allora che, attraversando il ponte, incontra i suoi compagni, che nasconde il volto, che procede oltre, a passo rapido, quasi fuggendo, ripetendosi: «No, non posso tornare in Giappone con quelli là!»; e ripassa il fiume, torna sulla riva dove già aveva impresso le orme del suo folle fuggire, e decisamente inizia il suo pietoso lavoro.
Tuttavia, anche se ormai non è più il fango tenace a trattenerlo presso i morti, la furia con cui si mette al lavoro dimostra che egli opera più spinto da animo agitato che da dedizione affettuosa. È a questo punto che il regista sublima le linee melodiche del film nel tema di un’esplicita religiosità. Ecco che, nel sotterrare, Mizushima scopre nel fango un rubino birmano. Ne ammira lo sfavillio, religiosamente lo stringe nel pugno, lo serra al petto: il suo volto si trasforma. Sembra che finalmente avverta la presenza dell’essere superiore che opera nella sua vita e lo sollecita a consacrarsi ad una missione, più che umana, religiosa. E l’accetta. D’ora in poi la divisa di bonzo, già indossata come espediente per aver salva la vita e la libertà, sarà la legittima livrea di uno che volontariamente s’è votato al culto di Dio prima che a quello dei morti. Continuerà, perciò, ad inumare i resti mortali dei suoi fratelli, ma soprattutto ad aiutare le più preziose anime, e dei morti e dei vivi, di cui il rubino è il simbolo. Quel che egli compie intorno ad esso, devotamente depositandolo nel tempio e poi seppellendolo dentro – si direbbe: nel cuore – di Kawa Kami, rende cinematograficamente ed insieme allegoricamente l’ideate per cui egli vivrà e che a parole descriverà ai suoi compagni: nell’organismo cosmico, in cui le cose, i corpi e le anime soffrono le disarmonie causatevi dall’egoismo e dall’irreligiosità degli uomini, egli darà un apporto di armonia mediante un suo contributo personale di amore, di preghiera e di sofferenza, e così non soltanto influirà a riportare la bellezza nella natura e la pace tra gli uomini, ma a fare approdare le anime a quel profondo porto della divinità, donde un giorno partirono esseri di luce e di vita, e dove solo potranno acquetare tutte le loro ansie ed estinguere la loro sete di felicità.
Merito del regista è aver descritto questo processo, arduo e tutto interiore, predisponendone, con linguaggio cinematografico, le necessarie premesse psicologiche. Il protagonista, infatti, appare subito un prescelto, diverso dai suoi compagni. A differenza di questi, soldati armati, pronti a difendersi e ad offendere, dalle passioni subitanee e dalle facce scavate ed angolose, egli quasi mai è in tenuta di guerra; è mite, riflessivo; ha lo sguardo dolce, ricco d’interiorità; nelle sue forme piuttosto piene perdura una certa grazia da adolescente, quasi a rilevarne la freschezza dell’anima; è straordinariamente incline alla musica ed avverte squisite risonanze interiori che sfuggono ai compagni. Per due volte, nelle prime sequenze, l’obiettivo ne inquadra il volto già segnato per l’alta vocazione che l’attende: un volto assorto, quando, solo tra i compagni che mangiano, ascolta la misteriosa risposta del vecchio birmano: — L’Imalaia? Ma il paradiso è nelle anime, e noi in esse dobbiamo cercarlo! —, e un volto da consacrato, mentre quelle dei compagni sono facce pronte alla lotta, quando, come se presiedesse un rito liturgico, accompagna il canto di pace degli opposti nemici. Perciò il ragazzetto birmano lo ammira, e i suoi commilitoni lo ammirano, e subiscono, senza comprenderlo, il senso di arcano che emana da lui, specialmente quando la divisa di bonzo l’ha definitivamente differenziato dagli altri. Come per i paesani, che, in controluce, estranei, lo osservano seppellire i cadaveri, per i suoi compagni Mizushima resta impervio. Espressivamente il regista oppone la loro mobilità, istintiva, tutta scatti e corse, alla riflessiva, e poi ieratica calma di Mizushima, la loro operosità esteriore alla sua contemplazione; col filo spinato che li divide, egli significa, sì, le barriere innalzate tra gli umani dalla guerra inumana, ma anche gli ostacoli che trattengono gli uomini comuni nella loro mediocrità, oltre i quali spaziano le anime più elette. Manifestamente Mizushima vive di esperienze che essi non possono capire. Nella sequenza della pagoda essi entrano nel luogo sacro, ma, a differenza dei fedeli, non pregano: osservano le architetture lucenti e le suppellettili sacre con la goffa curiosità di chi è poco pratico di templi e di religione; si sono tolti le scarpe, per convenienza; faranno il saluto militare: per disciplina; ma né le convenienze né la disciplina fanno incedere Mizushima in profondissimo raccoglimento: egli assolve il rito sacro assorto nell’atto più personale dell’uomo in colloquio con Chi lo trascende, e con la calma interiore di chi ha trovato nella religione l’approdo luminoso nei più angosciosi problemi dell’esistenza. E la nebbia in cui Mizushima si perde dopo l’ultimo commiato esprime il mistero che, per sempre, l’accompagnerà nel ricordo dei suoi amici.
Ad esprimere cinematograficamente e poeticamente questi temi il regista s’è giovato in maniera quanto mai funzionale della musica. I motivi altamente suggestivi da lui scelti raddoppiano in efficacia espressiva quando non commentano l’azione dall’esterno, ma ne entrano nel vivo e ne fanno parte integrante, il che si verifica quasi sempre. A parte, infatti, il motivo funebre, che accompagna i titoli di testa e torna altre due volte, quando o la scena o l’animo dei personaggi si riferiscono alla morte, e a parte le poche battute di Bach a religioso commento della lenta panoramica sul carnaio di michelangiolesca potenza, tutti gli altri temi esistono nell’azione stessa; sono i soldati a cantare il nostalgico motivo della patria Home, sweet home, l’allegro passatempo a canone, le devote quartine polifoniche avanti al simulacro giacente; sono le sisters a cantare l’inno religioso sulla tomba dell’ignoto giapponese, ed è Mizushima ad accompagnare con i suoi accordi i canti dei compagni e ad arpeggiare il suo solitario canto d’addio. La musica, così, diventa immagine che incarna i temi armonici sempre più alti del film: senza la musica manca l’anima alla foresta, all’amicizia, alla pietà; il canto pacifico dei soldati fa da contrappunto al fragore della guerra, accompagna e provoca l’amichevole comunanza tra gli uomini superando ogni odiosa divisione di fili spinati, ed avvia gli animi più rozzi ad intuire l’esistenza di valori più universali e più profondi di quanto non siano quelli che aduggiano la vita d’ogni giorno.
Altra felice intuizione del film è l’aver tradotto figurativamente nell’arpa birmana i motivi armonici della natura, degli uomini e dell’universo, non tanto scegliendola a simbolo, del resto quanto mai significativo – si tratta di un umile strumento, capace di prodigi solo che le sue corde disuguali consuonino secondo un ordine d’intelligenza e di sentimento –, quanto adoperandola come felicissimo materiale plastico, espressione piena e concreta del suo mondo poetico. L’arpa strumento fa un tutt’uno con Mizushima: identica n’è la missione. Con essa Mizushima soldato interpreta l’incanto della natura, solleva la fatica dei compagni e ne accompagna le nostalgie per le famiglie lontane; l’arpa e Mizushima s’innalzano sul carro di munizioni e ne impediscono l’esplosione; l’arpa e Mizushima troncano in bocca ai capitano Inoue l’ordine di attaccare gli inglesi e poi sostengono il canto di pace; l’arpa, invece, non può sonare nel ridotto dei fanatici, anzi viene gettata a terra: perciò invano Mizushima lega ad essa, condanna della violenza, il panno bianco della resa: la guerra compie la strage inumana, ed essa rotola, inutile, lungo la scoscesa montagna. Seguìta la “conversione” di Mizushima, l’arpa, in mano del consacrato, diventa quasi solo strumento di preghiera. Sì, s’accorderà ancora due volte al canto della patria terrena: Casa, dolce casa, ma senza più, da parte di Mizushima, la partecipazione di una volta; saranno pochi accordi accelerati, giusto per mostrare all’inesperto ragazzo come si maneggia, e un elaborato accompagnamento, diciamo cosi, d’ufficio, tanto per farsi riconoscere dai compagni e rendere loro l’ultimo fraterno servizio; la sua anima, invece, darà ancora calore agli accordi quando, dall’interno del simulacro, egli accompagnerà le loro devote quartine polifoniche e, soprattutto, nell’arpeggiare il canto dell’addio: anch’esso in quartine e dalla melodia espressivamente simile a quella della preghiera cantata dalle sisters, ascoltando la quale s’era maturata la sua vocazione. Fatto questo, l’arpa ha finito il suo compito, e tace; ormai, le melodie che sollecitano l’animo di Mizushima, entrato nella pace interiore, sono troppo alte e profonde per essere significate da essa9.
Queste, ed altre analisi che si potrebbero continuare, non esauriscono le corrispondenze concettuali del film e non ne rendono tutto il senso di arcano che il tema esprime toccando più che sentimentalmente l’animo dello spettatore. Non che il racconto svanisca nel vago dell’allegoria: esso si svolge in un tempo ben definito e scaturisce tutto dalla realtà più concreta. C’è la Birmania con le sue foreste, le sue pagode, i suoi torelli aggiogati alle rozze carrette, i suoi scrosci di pioggia e i suoi abitanti gentili e pii; c’è la guerra con i suoi orrori icasticamente rappresentati, il campo recinto di filo spinato e le tracce profonde dello sgombero; i soldati giapponesi non sono eroi e non sono vili, mezzo rozzi e mezzo sognatori, ora intrepidi come kamikaze e ora trepidi come amorosi cultori di fiori, borghesemente ritratti nell’ultima sequenza sul veristico ponte della nave...: ma, intanto, la vicenda si allarga in ampiezze epiche e sale a toni elegiaci, da canzone di gesta. V’influiscono, evidentemente, i motivi musicali da solennità liturgiche, il ritmo lentissimo dell’azione e del montaggio, alcune inquadrature di campi lunghissimi, soprattutto quella del fiume, dilatata in un fluidissimo sfumare di grigi; ma, crediamo, anche due felici espedienti narrativi: l’uno, di aver prolungata l’azione oltre la durata del film mediante la storia dei due pappagalli, l’altro, di aver partecipato il racconto non come se fosse visto direttamente dal regista o dallo spettatore, ma in gran parte soggettivato nella narrazione del capitano Inoue. Col primo resta allo spettatore l’impressione di una tensione psicologica ancora in atto, quasi figurandosi egli che, ancora oggi, il pappagallo restato presso Mizushima continui a tentarlo di abbandonare la sua missione col ricordargli la patria e gli amici lontani, mentre quello restato presso Inoue continui a ripetere a questi la risposta, della quale gli sfuggono i motivi più profondi; col secondo si verifica che lo spettatore, per quanto avvertito degli avvenimenti esterni che hanno “convertito” Mizushima, partecipi all’arcano che dà pensiero ad Inoue, il quale di quegli avvenimenti è all’oscuro. Egli aveva creduto morto Mizushima: «Sì, lo credo anch’io!» – aveva ammesso con i soldati che lo affermavano ucciso da eroe; «Eri tu! Fu una decisione grave e dolorosa!» – aveva detto salutando militarmente la cassetta, che supponeva contenesse le ceneri dell’amico. Invece il rubino gli aveva svelato che Mizushima viveva e che non sarebbe tornato mai in Giappone; e ne fu tanto certo che, quando i soldati lo riconobbero nel bonzo e gli si avventarono incontro, egli, da lontano, lo guardò senza muoversi, e quando ebbe la sua lettera non si affrettò affatto a leggerla, sicuro com’era ch’essa contenesse solo un addio irrevocabile. E la lettura lo conferma in quello che sa, ma non gli svela il mistero di quanto è avvenuto nell’animo di Mizushima; sicché, parallela a quella che ce lo mostrava, di spalle, guardare il bonzo allontanarsi sul ponte, l’ultima sequenza inquadra il capitano appoggiato alla murata, lo sguardo fisso sul mare. Chi può sapere quant’è grande il mare? Chi può conoscere il cuore dell’uomo? Chi i segreti di Dio?
Due quesiti
Rilevati tanti e sì alti valori tematici e stilistici – e ad essi altri se ne potrebbero aggiungere, quali l’uso espressivo dei lunghi silenzi, l’eccellente affiatatissima interpretazione degli attori, i valori compositivi e pittorici delle immagini, dati dall’uso sapiente delle luci e da certe caratteristiche inquadrature spezzate in zone di luce e di ombra –, giudicheremo i film un capolavoro? – Francamente, come dicevamo iniziando, esitiamo.
Già in prima visione c’’intepidirono alquanto alcune lungaggini, specialmente nell’ultima sequenza, per quanto riconosciamo che essa è funzionale nell’economia del tema, nonché un certo confondersi e ristagnare delle linee narrative, impressione quasi certamente provocataci dal parlato incomprensibile; neanche poi in due visioni successive siamo riusciti a liberarci da un senso di architettato, di costruito. Rifacendoci al discorso col quale abbiamo cominciato circa le condizioni della produzione giapponese, sapevamo che altre sono le caratteristiche della quasi totalità dei film riservati al mercato interno, ed altre quelle dei rari prodotti destinati ai mercati europei ed americani; orbene, specialmente a motivo dei temi musicali, L’Arpa birmana ci è parso un po’ troppo palesemente “adeguato” ai gusti di chi doveva – si sperava – premiarlo, e dei pubblici verso i quali l’ambìto premio doveva facilitare l’accesso. Eccettuato, infatti, quello di monotone dissonanze, che viene sonato, del resto appena di passaggio, nella capanna del vecchio birmano, tutti gli altri sono o modulati secondo formule musicati occidentali, per lo più polifoniche (il motivo funebre, il canto a canone dei soldati e l’arpeggiato di addio di Mizushima), o desunti dalla polifonia religiosa anglosassone (i due cori religiosi: delle sisters e dei soldati avanti al simulacro giacente), o addirittura classici ed universali, – come quello desunto dalla Passione secondo san Matteo di Bach. Non c’è che dire: la scelta è stata quanto mai intelligente; ma si rimane col sospetto che l’intelligenza raziocinante abbia un po’ prevalso sulla fantasia creatrice.
Altre incertezze lasciano alcuni particolari narrativi, quali la missione di Mizushima presso la postazione giapponese e l’espediente dei due pappagalli, nonché certe reminiscenze stilistiche dreyeriane – il lento ritmare figurativo intorno al tema della morte, certo digradare di grigi e un caratteristico simboleggiare di candele... –, belle in se stesse, ma che sanno di letterariamente predisposto: non per nulla soggettista ne è stato Michio Takeyama, professore dell’Università di Tokio...
Ma forse le nostre perplessità sono causate più che altro da un eccesso di senso critico e dall’insufficiente comprensione che abbiamo potuto avere del film; motivo per cui, pur giudicandolo per conto nostro opera di umanissima poesia, lasciamo ad altri, più provveduti, di dare un giudizio definitivo circa la sua piena validità artistica, sempre che si trovi chi accetti di sciuparsi il godimento di un film che va contemplato, più che analizzato.
Purtroppo, pari e maggiori limiti troviamo nel definirne i valori morali e religiosi. Non c’è alcun dubbio che il film respiri in un clima saturo di religiosità. La simbologia del rubino e del suo venir sepolto nel cuore di un simulacro divino, l’attuarsi della “conversione” di Mizushima in una pagoda e in un’attività di preghiera, le argentee cupole di una pagoda che, dal mare, i soldati vedono svanire all’orizzonte come l’ultimo simbolo della Birmania, parlano chiaro. Ma in quale visione religiosa della vita si muove il regista e, per lui, Mizushima? Forse nello Shinto giapponese: “via a Dio” ispirata a un vago animismo, col suo culto politeistico della natura e degli antenati, secondo la quale le anime sopravvivono senza che oltretomba temano pene o sperino premi eterni, e che venera l’Augusto Gioiello (= mi tama), come viene detta l’anima dei kami, sempre presente, benché invisibile, nei templi? O, forse, in quella filosofia, più che religione, che è il buddismo indiano, secondo la quale l’ascesi contro ogni egoismo è la via alla pace interiore, e la morte è il dissolversi di un’unione transitoria tra le anime e i corpi, condizione per il passaggio ad unioni superiori? O il regista, consigliato dai motivi contingenti di cui sopra, non si è impegnato in verità di una religione particolare, ma ha scelto tra le varie religioni alcuni elementi che convenissero, o almeno non contraddicessero, alla cultura occidentale, fondamentalmente cristiana? – Confessiamo che non sappiamo rispondere10.
Riteniamo però di poter affermare che il film non respira il soprannaturale cristiano, ignorandone elementi tipici, quali la carità in Dio estesa fino all’amore dei nemici, la visione di Dio termine beatificante del viaggio terreno e, soprattutto, la vita divina in noi e l’unione individuale e sodale dell’umanità redenta in Cristo nostro fratello: verità tutte che sono insegnate da qualunque più elementare catechismo cattolico e vissute da quanti sono cattolici coerenti, per esempio da quella nostra brava popolana, che sul fronte di Salerno, senza arpa e senza “conversione”, maternamente praticò l’opera di pietà di Mizushima. Tuttavia riconosciamo che in nessuna parte del film si negano questi valori tipici e che, anzi, tutti i valori che esso pone in luce e in onore, nella loro ambiguità forse voluta, restano suscettibili di un’interpretazione soprannaturale e cristiana tutt’altro che forzata; tali sono: la contemplazione del creato, la condanna della guerra, il senso del dovere, l’esaltazione dell’amicizia e della comunanza umana, l’anelito agli affetti familiari, la pietà per i defunti, il richiamo alle realtà superiori, la preghiera come colloquiare con Dio e il valore personale e sociale dell’ascesi e del sacrificio volontario. Anzi, nella descrizione del processo ascetico che fa di Mizushima un eletto ad utile dell’umanità, noi cattolici ci troviamo più preparati a comprendere e a gustare la ricchezza ascetica, ed insieme poetica, di tutti i passaggi. Mizushima inizia il suo iter con l’essere derubato «dall’unica cosa che aveva»: «Sembri un cannibale», – gli osservano i compagni quando lo ritrovano denudato nella foresta; è disprezzato e colpito quale vigliacco da quelli cui egli vuole salvare la vita: «Temi la morte, traditore!» – lo apostrofano i testardi fanatici; rotolato ai piedi della montagna, annichilito, raccolto ed imboccato dal bonzo, impara che nulla vale quel che passa, e tutto l’Uno durevole: «Tutto è vano! E Birma e sempre Birma, il paese degli dèi!»; raso, e vestitosi di divise non sue, anche per lui non sarà l’abito a fare il monaco, ma l’ascesi più severa: nel suo andare egli dovrà gemere per i piedi sanguinanti, dovrà sentire i morsi del lungo digiuno («Dio, ho fame!»), soffrire la solitudine totale e, nella privazione di tutto, schiacciarsi, fatto terra, contro la terra: allora soltanto Dio lo farà capace di udire le melodie che orecchie umane non sono capaci di udire, allora solo le sue mani si piegheranno fruttuosamente alle opere di pietà e dalla sua figura ieratica i compagni vedranno rilucere il fascino del divino.
Chi, cui sia familiare il vangelo di Gesù, non sorprende in siffatta progressione ascetica e mistica significativi accordi con gli insegnamenti del Maestro? Quid prodest homini... Qui non renuntiat omnibus quae possidet ... Nisi granum frumenti cadens in terram... Beati pacifici... Maria optimam partem elegit11. Li ha tenuti presenti il regista? Non sappiamo. Forse essi fanno parte di quella verità assoluta radicalmente raggiunta dalla vera poesia, per quella sostanziale identità che fa coincidere il bello col vero e col buono; o, forse, non sono altro che echi del cristianesimo, parzialmente assimilato, anche se inconsapevolmente, da molti che non lo conoscono o non lo professano. E pensare che tanto cinema italiano, col pretesto dell’arte, ha voluto ignorare non solo le altissime verità tipiche del cristianesimo, ma anche quelle umane di una religiosità purchessia; ed ha chiamato poesia non gli aneliti dell’uomo verso valori universali, ma il suo «pedinamento», concluso nella più materiale «terrestrità». Ringraziamo Kon Ichikawa, regista dell’Arpa birmana, il quale, con l’argomento dei fatti, ha dimostrato che, neorealismo o meno, per fare un bel film non occorre essere materialisti, ma solo poeti, e che la poesia non è necessariamente retorica quando parla delle anime e di Dio.
1 Nel 1957 il Giappone ha prodotto 443 film, contro i 300 degli Stati Uniti e i 270 dell’India; ma la media annuale di 400.
2 Aprì la serie Rasho-mon (= Nel bosco), Leone d’oro a Venezia 1951, Oscar 1952 per il migliore film straniero; seguirono Koshoku ichidai-onna (= La vita di O’Haru), Ugetsu monogatari, Shichinin no samurai (= I setti samurai), Sansho Dayu (= L’intendente Sancio), rispettivamente Leoni d’argento 1952, 1953 e 1954, La légende de Genij, premio per la fotografia a Cannes 1952, e Jigoku-mon (= La porta dell’inferno), gran premio a Cannes 1954 e Oscar 1955 per il miglior film straniero e per i costumi.
3 È noto che per un solo punto L’arpa birmana non si aggiudicò il Leone d’oro, che rimase non assegnato. Cfr F. DI GIAMMATTEO – G. CAVALLARO, Un leone d’oro, 1957, p. 194 ss.; La formula buona, in Civ. Catt. 1956, IV, 52 ss.
4 I termini jidai-geki e gendai-geki segnano le due grandi divisioni dei film giapponesi, secondo che i personaggi vi compaiono in costume o meno, vale a dire, secondo che trattano soggetti del medio evo giapponese (prima del 1868), o moderni (dopo tale data). Tra le due, gli iniziati distinguono una terza classe di film, di transizione, detta meiji mono. (Cfr SHINOBU e M. GIUGLARIS, Le cinéma japonais, Parigi 1956, pp. 147-148).
5 Da più parti, anche di contraria intonazione ideologica, n’era stato formulato l’augurio; così, per esempio, L. Chiarini terminava la sua presentazione del film sul Contemporaneo scrivendo: «È un film che sarebbe augurabile venisse proiettato in Italia», mentre la giuria della fondazione Giorgio Cini chiudeva la motivazione del premio San Giorgio conferito al film, augurandosi «che imprenditori intelligenti e generosi rendano accessibile questo nobile spettacolo al pubblico di tutto il mondo».
6 Riportiamo alcune recenti lodi della stampa a rincalzo di quelle uscite durante la Mostra veneziana: «Stupendo film... Le soluzioni narrative, più che coerenti e convincenti, di una rara potenza espressiva, spesso raggiungono la forza e l’illuminazione della poesia» (Avanti!); «Opera bella e nobile, la cui poesia spirituale rende un suono insolito» (Cinema nuovo); «Un’ala di poesia tiene sempre il film ad un tono altissimo... e porta sul piano della commozione estetica sentimenti profondi che in esso sono espressi» (Contemporaneo); «Film difficile, con pagine di grande bellezza... opera che gli amatori del buon cinema non si lasceranno sfuggire» (Corriere della Sera); «Opera nobilissima che anche il grosso pubblico dovrebbe apprezzare» (Corriere d’informazione); «Una delle opere più dense, originali, stimolanti che lo schermo ci abbia mostrato. Un’opera in cui.,. continuamente l’immagine... apre squarci di poetica illuminazione» (Epoca); «Opera nobile... dallo stile castigato, dal ritmo assorto» (Filmcritica); «Film con clima di universale poesia che dovrebbe essere inteso ed apprezzato da qualsiasi pubblico» (Giornale dello spettacolo); «Film di alto significato, umano e morale e di rara coerenza stilistica...: senza discussione un’opera d’arte» (Humanitas); «Film di valore, che... avrebbe potuto meritare il Leone d’oro... non assegnato» (L’Italia); «Autentica opera di poesia cinematografica validissima anche sul piano tematico e morale» (Letture); «Film nobilissimo... di puro godimento spirituale» (Messaggero); «Film fatto per essere contemplato... con un linguaggio tra i più alti e vigorosi» (Le missioni); «Film serio, sensibile, ricco di un intenso messaggio lirico ed umano, nonché di suggestive immagini... ma di stile modesto» (Momento sera); «Pagine di pacata e terribile beellezza... Il pubblico italiano merita film come questi che sono i frutti migliori di una grande cinematografia» (La notizia); «Film di tutta nobiltà, che se non tocca i vertici della poesia, in molti punti ci ai accosta» (Nuova stampa); «Poche volte la lirica occidentale ha espresso con tanta spontaneità e calore una sostanza così spiritualmente compiuta... Opera che si avvicina assai al capolavoro» (Oggi); «Un buon film, che tra le sue immagini contiene momenti di profonda commozione e di autentica poesia» (Il Paese); «L’assunto del film è nobile ed altrettanto nobile l’esecuzione» (Il Paese sera); «Un grande film... nobile esempio di un cinema non interlocutorio, sempre impegnato e centrato intorno ad un tema di viva e profonda spiritualità» (Il Popolo); «Film eccezionale, tutto pervaso di autentica poesia. Il livello artistico della realizzazione è insolitamente elevato» (Il Quotidiano); «Una delle opere più suggestive della cinematografia giapponese... in essa la compiutezza formale è espressione di un mondo morale e umano profondamente posseduto» (Rivista del cinematografo); «La regia ha saputo svolgere la vicenda con accenti veramente lirici ed ispirati» (Il Tempo); «Opera di eccelsa poesia» (Vita e pensiero); «Opera singolare, degna delle lodi più sincere» (Voce repubblicana); «Una delle più serie cose del cinema contemporaneo, un’opera da vedere e da applaudire... Non capolavoro... ma film di gran lunga superiore alla media» (l’Unità).
7 Biruma no tategoto (L’arpa birmana), della Nikkatsu Corporation, 1956: Regista: Kon Ichikawa, soggetto di Michio Takeyama. Interpreti principali: Shoji Yasui (Mizushima), e Rentaro Mikuni (il capitano). Le più ampie recensioni sono apparse su Letture (febbraio 1957), di N. TADDEI; Humanitas (febbraio 1958), di A. PESCE, e Rivista del cinematografo (marzo 1958), di R. BUZZONETTI.
8 Così, forse, il presidente della giuria veneziana, J. Grittson, che ai mostrò «molto indeciso sul valore del film», perché riteneva «che la pace non vada ricercata attraverso il sentimento e la preghiera, o a suon di musica» (F. DI GIAMMATTEO, Un leone ’d’oro, cit., p. 156), e il critico del Momento sera, il quale acutamente vi ha trovato «le implicazioni antibellicistiche del soggetto... attenuate dal senso di eroica esaltazione sia dei caduti che dell’opera dei cappellani militari» (?!); nonché quello dell’Unità, che giudica «un po’ accomodante la soluzione mistica scelta da Mizushima», preferendo ad essa quella del regista, cui apparirebbe «più caldamente voluta e più giusta quella scelta dagli altri soldati».
9 A questo proposito riportiamo la motivazione del Premio San Giorgio, della Fondazione Giorgio Cini, per segnalare l’opera atta «a stimolare, con dignità artistica, sentimenti ed idee utili alla civiltà, intesa, secondo la formula evangetica, come capacità degli uomini di unum esse, di vivere ciascuno negli altri e per gli altri». «L’arpa birmana ha in comune con altri film il tema della guerra; ma i valori distruttivi e costruttivi della guerra ne emergono con una trasparenza a confronto maggiore. L’impressione di orrore più viva nel protagonista, di fronte all’individuo distrutto, l’inesausta sollecitudine dei suoi compagni per lui che non ritorna, la rinuncia di lui al sospirato ritorno per rimanere accanto a coloro che non possono ritornare, impongono alla mente dello spettatore, anche meno provveduto, la grandezza di quel fatto sociale in cui li consuma, come in un olocausto, la tremenda bestialità dell’uomo. Su di essa, fin dal principio, si stende la melodia dell’arpa birmana, come, al di là dei nembi dell’uragano, un cielo sereno, e dà al film una virtù musicale, che costituisce il segreto della sua dignità artistica e della sua potenza emotiva».
10 Per un tentativo d’interpretazione in senso buddista cfr A. PESCE, art. cit., 149 ss.
11 L’alta spiritualità del tema ne rende ostica la comprensione a quanti o sistematicamente negano tutto ciò che supera la materia, come i marxisti, o restano ai margini di una visione religiosa della vita umana, come i laicisti; perciò i loro giudizi sul film sono imbastiti di mistico e di metafisico come sinonimi di fantasia, di sogno e di evasione dal reale. Per il Paese Sera e il Corriere della Sera, Mizushima un e idealista; il Paese parla di «misticismo» e di «sentimenti dell’animo umano indifeso di fronte al destino avverso»; l’Avanti! scrive di «pacifismo umanitario e misticismo»; l’Unità; di «aria banalmente mistica» e di «soluzione mistica»; Filmcritica di «lirismo metafisico»; anche Cinema nuovo parla di «misticismo... di soluzione mistica»; A. BAZIN di «film metafisico», seguito a ruota dalla giuria di Venezia, che vi trovò il e conflitto di una vocazione metafisica e del doloroso richiamo dei sentimenti umani», mentre il sovietico F. ERMLER, della stessa giuria, parla di «misticismo equivoco» e di «falso eroe passivo». Un giudizio, invece, insolitamente spirituale, ne troviamo in V. PANDOLFI, Il cinema nella storia, p. 67 ss.