Articolo estratto dal volume IV del 1961 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Uno dei segni dell’avvilente infantilismo mentale verso cui i moderni mezzi della comunicazione sociale, e specialmente il cinema, se male usati, avviano le masse, è l’artificiosa semplificazione dei molti problemi, complessi ed anche complessissimi, che accompagnano la vita umana individuale ed associata, angustiano le menti dei dotti, di rado esaurendone l’indagine scientifica. E, specie per il cinema, è facile comprenderne le ragioni. Già il suo stesso linguaggio, di immagini in movimento e non di parole, si presta più a configurare ed a comunicare cose, fatti e stati d’animo individui, che a formulare concetti ed a trattare di sfumature e di correlazioni tra gli stessi. Subentra, poi, la produzione cinematografica, che, quando è feudo di regimi politici, stagna negli slogan e negli schematismi manichei propri di tutte le ideologie di forza, timorose d’ogni attività dell’intelligenza, mentre, quando è in mano dell’industria privata, fatalmente tende a sodisfare più le impreteribili istanze economiche dei finanziatori che quelle disarmate della cultura. C’è infine, il carattere di divertimento di masse, assunto dalla massima parte della produzione; ora, chi si reca allo spettacolo per divertirsi, vale a dire per evadere dalle cure quotidiane dell’esistenza, ovviamente non va in cerca di sottili ragionamenti, bensì di stereotipi di tutto riposo – di qua tutto il bene e di là tutto il male, come nei Western –, mentre il fatto che i film abbiano sempre fame di masse, li fa di necessità adeguare a queste, riducendo formulazioni e soluzioni di problemi a livelli mentali tanto più culturalmente bassi quanto più ampie ed eterogenee siano le masse da essi appetite.
In queste considerazioni ci andavamo confermando dopo la proiezione del film di Autant-Lara Tu ne tueras pas, alla recente mostra d’arte cinematografica di Venezia; e nelle stesse siamo tornati in questi giorni leggendo i giudizi infantilmente semplicisti che sullo stesso film sono stati dati da certa stampa, a sostegno delle polemiche artjficiosamente suscitate intorno ad esso da chi vi ha ben concreti interessi. Giacché, se, per le molte ragioni di principio, e per i diversissimi dati di fatto nei quali concretamente essa può configurarsi, c’è una questione morale complessa, questa è quella della cosiddetta «obiezione di coscienza». Orbene, l’Autant-Lara, ed i suoi due soliti sceneggiatori J. Aurenche e P. Bost, mentre la complicano con personaggi diversi, con casi limite e con circostanze paradossali, poi hanno tutta l’aria di sollecitare dal pubblico un’adesione in blocco alla loro tesi, quasi che fosse possibile e lecito semplificarla nelle ovvie, nelle onestissime e nelle doverose aspirazioni di ogni uomo dabbene: «Via la guerra! Venga la pace!».
Per introdurre il lettore nel labirinto ideologico e passionale di questo film gliene forniamo la trama narrativa, desumendola dalla sceneggiatura originale, che abbiamo sott’occhio. Su di essa sarà più facile porre un po’ d’ordine di concetti e di giudizi, e delucidare le principali questioni poste e mal risolte dal film.
Il soggetto
Titoli di testa, accompagnati dalla trenodia L’amour et la guerre, dell’Aznavour. Alla periferia di una città tedesca della zona di occupazione francese, ventidue seminaristi giuocano al pallone. Un tedesco sulla trentina – l’ex tenente Stein – si avvicina ad uno dei due portieri – l’ex suo dipendente, sergente Adler – e, preoccupato, gli mostra avviso di giornale in cui si chiedono notizie intorno ai tedeschi responsabili dell’uccisione di tre franchi tiratori francesi, alla quale loro due hanno preso parte, e gli propone di evitare con la fuga il probabile arresto. La sera stessa Stein si reca dal superiore del seminario e, in presenza di Adler, gli chiede i mezzi per la fuga sua e del suo complice. Ma invano, perché questi, su consiglio dello stesso superiore, che lo rassicura della sua innocenza, in quanto semplice esecutore di un ordine, decide di consegnarsi alla giustizia francese; come fa, dopo aver rivestito l’uniforme militare.
A questo punto l’azione si porta a Parigi, dove, alle nove di mattina di un giorno di dicembre, Jean-François Cordier, ventunenne di leva, si presenta alla caserma Mirabeau. Assegnatagli dal magazziniere una uniforme di recluta, egli la rifiuta. Mandato dal capitano, dice di non volerla vestire perché obiettore di coscienza. Inviato dal capitato al comandante, riconferma il suo rifiuto. Alle dodici è chiuso in guardina, e dopo qualche ora è inviato all’ospedale psichiatrico. Quivi il, maggiore medico cerca di convincerlo di farsi passare per malato, ma invano; visitatolo; e trovatolo sanissimo, lo rimanda in caserma, dove il colonnello, avanti ad una corte marziale, gli ingiunge formalmente di vestire l’uniforme; avutone per tre volte un rifiuto, lo rimanda in prigione in attesa del processo.
Nel carcere militare, Cordier s’incontra con Adler. Stupore di Cordier nel sapere come Adler, cristiano e sacerdote, abbia potuto uccidere un uomo; stupore di Adler nel sapere come Cordier, cristiano e cattolico, possa rifiutare l’ubbidienza alla legge di leva. Durante la messa comune domenicale, Adler, mentre serve all’altare, rivive la tragedia di quattro anni prima. Officine Spidel di Parigi: 24 agosto 1944. L’esercito tedesco è in ritirata. Il maggiore Baumann, cui Adler fa da segretario, sta smontando il suo ufficio. Mentre spoglia le sue carte, dal tenente Stein gli vengono portati dinanzi tre giovani francesi colti con le armi in mano. Applicando la legge di guerra, egli, dopo averli resi confessi, li condanna sommariamente a morte, ed ordina allo stesso Stein di scegliere i tre esecutori. Nella terna, Stein mette anche il seminarista Adler. Sulle prime, questi rifiuta; poi, su richiamo del maggiore, che gli fa presente le conseguenze del suo persistere nel rifiuto, si piega, e, in un sotterraneo, solo col suo giovane condannato cattolico, dopo aver recitato con lui il Pater Noster, sotto le furiose pressioni di Stein, gli scarica addosso il mitragliatore, quindi finisce di ucciderlo sfracellandogli il cranio col calcio dello stesso...
La messa è finita. I carcerati si radunano nel cortile per fare gli auguri al generale tedesco, che compie settant’anni. Nella breve cerimonia, il vegliardo loda Adler come ottimo sacerdote ed ottimo soldato, mentre, contro Cordier, sostiene che chi rifiuta di eseguire un ordine militare merita la fucilazione. Cordier reagisce, ed è posto in cella di rigore, quando Adler è mandato ad attendere il giorno della sentenza in una casa religiosa.
Al tribunale le due cause vengono abbinate. Adler vi arriva spalleggiato dai suoi seminaristi; Cordier accompagnato dai genitori e da un prete operaio. Nell’anticamera, sotto gli occhi di Cordier, Adler depone la divisa militare e veste la talare; entra in tribunale, e viene assolto, in quanto esecutore di un ordine. A sua volta Cordier viene interrogato, rifiuta la testimonianza del prete operaio, anzi rinnega la Chiesa ed ogni religione, professandosi obiettore di coscienza soltanto perché la guerra è stupida; e viene condannato a due anni di prigione, rinnovabili tante volte quante egli persisterà nel rifiuto. I due escono dal tribunale. Al primo, libero, fanno le congratulazioni le sue vesti nere; al secondo, nel cellulare, la madre grida: Jean-François, je suis fière de toi! E riprende la trenodia dell’Aznavour.
1. Coscienza e legge
La prima, e più generale, questione che sorge, derivata dallo stesso termine «obiettore di coscienza», è quella dei rapporti tra coscienza e legge. Essa si può formulare in questi termini generali (essendo quello del servizio militare soltanto un caso particolare): «Può, o deve, un uomo ubbidire a qualsiasi legge dell’autorità costituita, o, invece, gli è lecito rifiutare l’ubbidienza quando la coscienza gli dice di doverlo fare?». La risposta, in etica naturale ed in morale cattolica, è indubbia. L’uomo oggettivamente è tenuto ad ubbidire alle leggi giuste, vale a dire emanate dalla legittima autorità e non in contrasto con leggi superiori ed impreteribili, quali quella naturale e divino-positiva; soggettivamente poi l’uomo è tenuto a seguire la sua coscienza, vale a dire l’ultimo giudizio pratico circa la liceità o illiceità dell’azione; tuttavia egli è anche tenuto a far di tutto perché questo suo giudizio soggettivo non discordi dalla norma oggettiva.
Ne consegue: 1) che, in caso di conflitto tra coscienza retta ed illuminata e legge ingiusta, ogni uomo – soldato o meno, poco importa – può e deve essere obiettore di coscienza, vale a dire rifiutare di eseguire un illecito morale, anche rischiando le più gravi conseguenze. In questo senso l’obiezione di coscienza si fonda sulla consegna di Gesù: «Date a Cesare quel che è di Cesare, ed a Dio quel che è di Dio» (Mt 22,21), ed obiettori di coscienza devono considerarsi i martiri, che la Chiesa onora come eroi e santi. 2) Ne consegue anche, però, che, per rifiutarsi lecitamente ad un ordine, deve constare della illiceità; dello stesso, cosa, per lo più, tutt’altro che agevole ai singoli sudditi, specie se sprovveduti della formazione culturale necessaria a misurare i limiti del bene comune entro i quali deve muoversi il legislatore. 3) Ne consegue, infine, che l’autorità costituita, finché può presumere dell’onestà delle sue leggi, può lecitamente perseguire penalmente chi le violi, anche se questi sia in perfetta buona fede. Dio, infatti, giudica la coscienza degli uomini, a Lui solo pervia, mentre l’autorità umana non può giudicare che gli atti esterni, secondo che siano conformi o meno a norme oggettivamente controllabili. Del resto, la stessa coscienza soggettiva, regolando la condotta privata e pubblica dei cittadini, ha un’incidenza nell’ordine morale e nel bene pubblico, che l’autorità civile non può non tutelare.
Ma nel film di Autant-Lara nulla di tutto questo. Non un accenno alla legge naturale, alla legittima autorità, alla coscienza retta ed illuminata. Supposto anche che lo faccia in buona fede, il Cordier ha un bell’esclamare avanti al tribunale militare: Anarchiste, moi? Infatti, non il detestare la guerra, bensì il primato assoluto dato in linea di principio alle proprie opinioni contro ogni legge dell’autorità (an-arché; = senza autorità), è ciò che sovvertirebbe l’ordine sociale!
2. Coscienza e religione
Seconda questione: Quale valore morale si deve attribuire ad una obiezione di coscienza che escluda ogni motivo religioso, vale a dire di chi dichiara di non volerne sapere né della Chiesa, né di Dio? È agevole rispondere che ex absurdo sequitur quodlibet: cioè, da una premessa assurda segue quel che si vuole. In quella maniera che, negato il principio di non contraddizione è impossibile costruire un ordine logico e non ha più senso il distinguere il vero dal falso, così, negata l’esistenza di Dio, o la dipendenza dell’uomo da Lui, resta per sé impossibile ogni ordine morale con validità assoluta ed universale, quindi anche un rapportarsi a giuste o ingiuste norme naturali o positive, o almeno alla loro assoluta obbligatorietà in coscienza; e se, di fatto, seguendo ragione e coscienza, si pervenisse ad un qualche ordine morale senza Dio, ciò non avverrebbe senza contraddizione, almeno implicita, con le premesse ateistiche. Ridotta, infatti, la vita etica ad un insieme di libere convenzioni tra gli umani, lecito ed illecito, giusto e ingiusto si adeguano al libito e all’utile personale o sociale.
Ma, nella foga della sua tesi, a questi estremi conduce il suo eroe l’Autant-Lara. Prima lo dà come cristiano e cattolico, tanto esigente da abbandonare, disgustato, il collegio religioso nel quale veniva educato, perché quei religiosi «non erano santi!», e ciò, figurarsi, a sedici anni! Poi, nel processo, Cordier dichiara che egli non vuole più avere che fare con la Chiesa; indi che egli è contro la guerra semplicemente perché è una cosa stupida, e che Dio, in questa questione, non c’entra per nulla. Per soprassello, bestemmiando, alla fine se la prende direttamente con Lui: Après tout, s’Il [minuscolo nel testo] est contre, Lui [come sopra] aussi, qu’Il [idem] le dise. Mais une bonne fois! Et qu’on l’entende! Non sospettando neanche lontanamente che, in mancanza di una legge naturale scritta dallo stesso Dio nel cuore di tutti gli uomini, la stessa ridicola e blasfema richiesta potrebbe essere formulata anche da quelli – se ci sono – che difendono la guerra come necessaria e santa!
3. Guerra e coscienza
Supposto, col Cordier prima maniera, che l’obiettore di coscienza parta da premesse etiche e morali-religiose, la terza questione verte sulla liceità dell’uso della violenza, ed in particolare della guerra. Anche su ciò, al lume della ragione e della fede, e non di isterici sentimentalismi, o dei luoghi comuni della più ipocrita propaganda politica, l’etica naturale e la morale cristiana, pur deprecando le guerre come orrori indegni di uomini civili, negano che il ricorso alla forza sia, di per se stesso ed in ogni caso, illecito. In particolare ammettono – vim vi repellere omnia iura permittunt! – che è lecito al singolo difendere, anche con la forza, da un ingiusto aggressore, i diritti più sacri ed inalienabili, suoi o di altri di cui egli sia responsabile; e la stessa liceità viene unanimemente ammessa per le comunità umane ingiustamente aggredite nei loro beni essenziali, una volta esaurite le altre vie di difesa. Né vale ad inficiare questa norma morale l’apocalittico potere distruttore raggiunto dalle guerre moderne, specie se mediante armi atomiche. A parte le gravissime responsabilità che saranno calcolate da Dio e da tutta l’umanità sul conto dello scellerato aggressore, e la maggiore prudenza che sarà richiesta a chi sarà costretto a difendersi con armi sempre più terrificanti, restano dei valori per difendere i quali vale bene permettere (non volere!) la perdita della propria vita e dell’altrui, e perciò che è lecito difendere anche con una guerra1, sempre deprecabile.
Per Autant-Lara, però, le cose non vanno così.. Egli non ragiona, ma si abbandona al facile sentimento dei versi e delle note dell’Aznavour, roridi di madri piangenti, di eroi sotto terra, di rose svanite sulle tombe e di voli di cicogne, nonché di rondini; oppure urla terrorizzato: «La morte no, la morte no», quasi che la vita, magari disonorata, fosse il massimo dei beni, e la morte, magari meritoriamente affrontata e subìta, sia il massimo dei mali. Morale che, forse, potrà sembrare umanitariamente nobile, ma che non tarda a rivelare tutto il suo fondo di egoismo individualista2.
4. Guerra e servizio militare
Tra le tante disinvolte sciocchezze che Autant-Lara fa dire al suo prete operaio abbé; Robert, c’è l’epifonema Bellum est omnino interdicendum (= La guerra va del tutto abolita), da lui addotto per provare che la Chiesa approva (tardivamente) l’obiezione di coscienza. Diciamo «da lui addotto a questo scopo» – perché è chiaro che all’epifonema stesso, ogni onesto, e la Chiesa per prima, non può non sottoscrivere –; infatti francamente non vediamo quale legame logico permetta di dedurre siffatta conseguenza dalla ineccepibile premessa; giacché, supposta anche l’illiceità delle guerre, o di una guerra, occorrerebbe dimostrare: 1) che ogni collaborazione, sotto ogni aspetto, ad un’azione illecita ed immorale sia illecita ed immorale; 2) che il servizio militare sia necessariamente, ed in tutte le sue prestazioni, collaborazione in atto alla guerra: cose che in dottrina ed in fatti sono lungi dall’essere provate. Infatti, mentre l’etica naturale e la morale cristiana insegnano che è sempre illecito concorrere nel male per sé e direttamente, insegnano pure che motivi proporzionatamente gravi possono rendere lecito un operare dal quale, oltre che un effetto buono, provenga anche una collaborazione al male, materiale e non direttamente voluta. La vita quotidiana è piena di esempi siffatti, perciò non è il caso che ci insistiamo. Applicando il principio generale alla guerra ed al servizio militare, chi mai, per esempio, taccerebbe d’illecito morale il lavoro di ramazza in caserma, o quello del vettovagliamento e della posta ai combattenti, o l’assistenza medica e religiosa prestata ai soldati nelle caserme, ed ai feriti negli ospedali?
Per Autant-Lara, invece, guerra e servizio militare fanno tutt’uno: sempre e tutta delittuosa è la prima, sempre e tutto delittuoso, in qualsiasi modo si esplichi, è il secondo. Il suo Cordier è costruito da capo a piedi per sventolare questa tesi estremista. Obiettore di coscienza, egli, infatti, non si fa prelevare, renitente, a domicilio, ma si presenta in caserma, sì da produrre chiasso intorno al suo caso, e di vessare tutti i gradi della gerarchia militare, dal magazziniere al capitano, al comandante, al maggiore, al colonnello ed alla sua corte marziale, quasi a denunciarli tutti, rei di lesa pace e di premeditati assassini. Egli punta il dito accusatore contro la divisa militare come tale. Conseguenti fino in fondo, regista e personaggio non si accorgono delle paradossali conseguenze che, per la stessa vita civile, si potrebbero dedurre dalle loro semplicistiche premesse; giacché, se, non il modo di usarla, ma il fatto stesso di portare un’arma capace di uccidere (perciò anche una fionda, un bastone...) costituisse un illecito morale, certamente essi provvederebbero soltanto di pistole ad acqua le forze di polizia, con evidenti vantaggi dei pacifici cittadini insidiati dai malviventi e dai facinorosi; mentre non proscioglierebbero dalla taccia di assassini potenziali tutti i cittadini che pagano le tasse, tUtti gli addetti alle comunicazioni pubbliche, tutti gli operatori economici, tutti gli studiosi, gli inventori e gli industriali, dai quali dipende il progresso tecnico: attività tutte che, già in tempo di pace, ma molto più in caso di guerra, senza dubbio alcuno vengono e verrebbero convogliate ad integrare il potenziale difensivo e offensivo della nazione.
5. Servizio militare, guerra e Chiesa cattolica
Ma dal Tu ne tueras pas non esce malconcia soltanto la divisa militare, bensì anche la veste talare del prete cattolico; e come la prima vi viene vituperata, in quanto esecranda senza appello sarebbe la casta dei guerraioli che la indossano e che la impongono, così la seconda viene dileggiata, in quanto degna di ogni disprezzo sarebbe la Chiesa cattolica, rea, prima di tutto, di approvare il servizio militare e di disapprovare, o di disinteressarsi, o di aver approvato soltanto tardivamente ed alla chetichella, gli obiettori di coscienza; poi, di non avere espresso tempestivamente e con tutta chiarezza il suo pensiero contro la guerra (colpa che viene addossata allo stesso Dio); infine, di assolvere e far assolvere un suo prete assassino.
È su queste tesi che il film, da pacifista che poteva sembrare, assume il più acceso tono anticlericale, anticristiano ed antireligioso, armeggiando in tale e tanta confusione di principi dottrinali e di fatti concreti, da far supporre negli autori o una monumentale ignoranza sull’argomento, o una non più onorifica faziosità. Noi – lo spazio non permettendoci di allargarci quanto sarebbe necessario per riordinare tale imbroglio3 –, ci limiteremo a poche precisazioni essenziali circa le due prime accuse, riservando alla terza, in cui la confusione è al colmo, un paragrafo a parte.
Cominciamo col rilevare che la morale cattolica non è mai stata molto entusiasta del servizio militare universale ed obbligatorio, fin da quando questo malanno fu regalato all’Europa ed al mondo dalla Francia napoleonica e rivoluzionaria; anzi, che, per mille ed una ragioni, intrinseche ed estrinseche, vale a dire inerenti e alla cosa in sé e al modo col quale veniva e viene attuata, non ha mancato di manifestare le sue apprensioni e le sue condanne in proposito; ed affin di ridurre gli sperperi, i pericoli ed i danni di un intollerabile militarismo che se ne alimenta, non ha cessato di richiamare le nazioni alla necessità di un progressivo, collettivo, radicale e realmente controllato disarmo. Tuttavia non ha mai preteso, né lo potrebbe, che una nazione si voti al suicidio, cioè a diventare preda del più forte e prepotente, restando disarmata in mezzo agli eventuali suoi assalitori armatissimi. L’armarsi, in questo caso, è, purtroppo, un guaio necessario, ed il servizio militare, nelle debite forme, una misura di doverosa prudenza.
Su queste considerazioni è chiaro che la Chiesa non può passare per lecita, né apertamente né alla chetichella – nel senso sopra considerato – l’obiezione di coscienza; fenomeno che, infatti, alligna prevalentemente sull’humus protestante; mentre, invece, non ha alcuna difficoltà, come già è stato fatto lodevolmente in molte nazioni4 – anche per venire incontro agli obiettori di coscienza di buona fede, nonché ai pavidi, cui, in ogni caso, mancherebbe il coraggio di impugnare un’arma sia pure per legittima difesa – che si dia ai cittadini l’opzione tra il servizio militare ed un servizio civile, magari più lungo5.
Riguardo poi all’altra accusa, secondo la quale né Dio né la Chiesa avrebbero condannato tempestivamente e senza ambagi la guerra, ci sia lecito ribattere che, in ogni caso, Dio ha già impresso nella natura umana razionale la legge morale, e che poi ha voluto confermarla anche col Decalogo; che, quindi, conoscendo legge naturale e rivelazione, la coscienza ha sufficienti elementi per giudicare della liceità o meno anche della guerra; mentre, riguardo alla Chiesa, non sarebbe stato eccessivamente difficile ad Autant-Lara, al suo Cordier ed al suo abbé Robert6, conoscerne il costante e tutt’altro che timoroso insegnamento se, invece di rifarsi alle confidenze di un innominato «molto intimo collaboratore di Pio XII», si fossero rivolti alle fonti ufficiali del suo magistero, quali sono i catechismi, i trattati dimorale, l’insegnamento dei vescovi, i discorsi e le encicliche dei Sommi Pontefici: fonti tutte ben provviste ed accessibili anche prima del 1914 e del 1939!7.
Ci avrebbero appreso, tra l’altro, che, a proposito di rispetto e di tutela della vita umana come bene di cui può disporre soltanto Dio, la morale cattolica si mostra tanto gelosa, da essere, da secoli, tacciata dai «laici» piuttosto come esagerata e perentoria che rilasciata e reticente. Non è forse la morale cattolica, che, contro il «punto d’onore» tanto difeso dai «laici», ha giudicato e giudica stupido ed illecito l’esporre la propria vita, ed anche soltanto la propria incolumità, col duello? Non è la morale cattolica che giudica sempre illecito il suicidio e l’eutanasia? Non è, oggi, quasi unici!, essa a muovere gravi riserve contro le omicide gare automobilistiche? E sulle ecatombi di milioni di nuovi esseri, che l’egoismo umano ogni anno uccide prima che vedano la luce, non è forse quasi sola la Chiesa cattolica ad elevare la sua voce d’incondizionata condanna? Dove sono i film che stimmatizzino tanta vergogna di individui e di intere nazioni? Eppure, questi omicidi, in un certo senso, non sono forse più esecrandi di quelli commessi nelle guerre guerreggiate, dato che si tratta di milioni di esseri, certamente innocenti, certamente indifesi ed uccisi proprio dai loro genitori? Gli è che per decidere a protestare certi coraggiosissimi difensori della vita umana occorre lo spettacolo eccezionale dei funghi atomici, oppure la visione diretta delle rovine materiali e delle sofferenze, quasi che in termini morali ed assoluti, il dolore fisico fosse male peggiore della morte, e ci corresse differenza essenziale, per un essere umano, tra il perdere la vita nel silenzio di pratiche illecite premeditate ed il perderla nel rovinio cieco di un bombardamento. Distorsioni di giudizio possibili solo quando la morale si fonda non sulle esigenze incontrovertibili della natura nella sua totalità umano-divina, ma sui fumi e sulle allucinazioni della fantasia e del sentimentalismo.
6. «Buon prete e buon soldato»?
Adler, invece, nel film è costruito dalla testa ai piedi per fare da ombra cupissima alla luce splendente dell’eroico Cordier, ma a prezzo di un cumulo di circostanze confusionarie, se possibile, maggiore. Prima di tutto egli è dato sempre come «sacerdote», quando invece lo è – se lo è! – soltanto durante il processo, essendo egli, durante il servizio militare, solo un seminarista, forse neanche tonsurato, perciò, propriamente parlando, neanche «clero», bensì semplice laico in sottana. Ma, intanto, il trucchetto dell’ambiguità finisce con l’addossare al sacerdote, anzi ai sacerdoti tout court, l’infamia del suo eventuale assassinio. Poi egli, al contrario di Cordier, viene messo in condizioni tali per cui è quasi impossibile scusarne l’operato almeno con la sua buona fede. Infatti, l’azione che gli viene imperata – l’esecuzione di un partigiano – è quasi senza dubbio oggettivamente delittuosa. Però, mentre il rifiuto che, sulle prime, egli oppone può significare che in coscienza egli se ne renda conto, non si esclude che esso sia dettato, in tutto o in parte, da ripugnanza istintiva. Quindi la sua ubbidienza, sempre vile, perché determinata dalla paura della morte propria, non si sa se sia acquiescenza ad una legge che gli ripugna, ma che egli reputi in se stessa giusta, oppure cedimento di una coscienza in un illecito, conosciuto come tale. Sta di fatto, però, che l’accusa per cui egli viene portato avanti al tribunale, l’encomio del vecchio generale nazista che lo loda come «perfetto sacerdote e perfetto soldato», le ambigue parole che egli pronuncia a sua difesa, e lo stesso tenore della sentenza assolutoria8, fanno propendere lo spettatore verso l’ipotesi più delittuosa: quella cioè di uno che, come ecclesiastico, sapeva benissimo di eseguire un assassinio in tutta regola, ma che se l’è autorizzato a commettere in quanto convinto che un soldato deve ubbidire cecamente agli ordini, anche in quel caso9; cosa, naturalmente, che soltanto la morale cattolica, secondo Autant-Lara, insegnerebbe. Passiamo all’esecuzione. Su iniziativa del «prete», giustiziando e giustiziere recitano insieme il Pater Noster. La sequenza, oggettivamente, potrebbe ridondare a lode di Adler, come un atto di carità spirituale da lui prestato in extremis ad uno cui erano negati gli ultimi sacramenti; ma le circostanze concrete, in cui il regista la attua, inducono lo spettatore a giudicarla come una macabra esemplificazione del modo di agire appunto di quel mostro morale che sarebbe «un perfetto sacerdote e perfetto soldato»; tanto più che il regista rincara la dose del sarcasmo ipotizzando che il giustiziato non resti ucciso sotto la scarica, sicché il «prete» debba finirlo fracassandogli il cranio col calcio del mitragliatore, come si farebbe con un cane... In tal maniera psicologicamente aggredito, lo spettatore non potrà non condannarlo. Ed allora interviene la denuncia scandalizzata di Autant-Lara: – «Vedete? Eppure la Chiesa lo assolve!» –; ma ancora confondendo ed equivocando; perché, se assolvere significa rimettere, a nome di Dio, sempre misericordioso, la colpa ad un peccatore che si pente, è chiaro che la Chiesa non può non assolvere Adler, come qualsiasi altro delinquente; ma se assolvere significa giudicare onesto e permesso ciò che oggettivamente è disonesto e proibito, la Chiesa non lo assolve proprio per nulla: e chi afferma il contrario, la calunnia.
La Chiesa cattolica, infatti, non esime i suoi sacerdoti dalle leggi morali cui sono tenuti tutti i fedeli e tutti gli uomini; anzi, motivo sia del buon esempio, che essi sono tenuti a dare in convalida del loro insegnamento, sia della maggiore santità richiesta dal loro ministero sacro, ne urge l’osservanza anche con leggi positive più strette. In particolare, per esempio, nel suo diritto, esime i suoi chierici dal servizio militare obbligatorio, e ne domanda l’esenzione all’autorità civile competente; mentre là dove lo Stato lo esige anche da essi, fa di tutto perché si esplichi nei servizi di sanità; in ogni caso vieta loro quello volontario10. Che se poi il sacerdote delinque, non è vero affatto che la Chiesa lo esima dalla pena, anche là dove ne evochi il giudizio ai suoi tribunali, pur se, nel modo di applicare la pena, non dimentica il rispetto dovuto allo stato sacro clericale, e soprattutto sacerdotale, come appunto avviene nel film.
7. Fede del fedele ed esempio del sacerdote
Ultimo e più confusionario capitolo del film di Autant-Lara è quello dell’apostasia del suo Cordier. Il “soggetto” distribuitoci alla Mostra affermava che il giovanotto aveva ricevuto «una profonda educazione cattolica», che era «profondamente religioso», che «era la sua fede religiosa ad impedirgli di imparare ad uccidere». Nel film, poi, egli si dice cattolico ed ex alunno di un istituto religioso; inoltre l’abbé Robert afferma di averlo avuto per due anni aiutante in un’opera di prevenzione di ragazzi. Sennonché, ad un certo momento, il Cordier proclama di non essere più solidale con la Chiesa cattolica; anzi, come abbiamo visto, di non saper più che fare neanche di Dio11. Che cos’è che ha prodotto questa sua tanto radicale defezione?
Autant-Lara non lo dice. Presumibilmente c’entrano l’incontro con Adler; la disinvoltura con la quale il «prete» soldato, per tornaconto, è passato, sotto i suoi occhi, dalla divisa alla veste e dalla veste alla divisa; il daffare dei suoi seminaristi per animarlo verso una sentenza assolutoria, mentre non si curano affatto della causa sua di pacifista; il trucco furbastro escogitato dal tribunale di abbinare le due cause, in modo che la sentenza assolutoria del tedesco «prete» assassino – ma che ha ubbidito – preparasse quella di condanna del francese renitente – che ha disubbidito –; la «novità» comunicatagli dall’abbé Robert circa la tardiva, ed ormai non più rischiosa, approvazione agli obiettori di coscienza da parte della Chiesa, vilmente silenziosa negli anni 1914 e 1939...: ma si tratta di tutti scandali, o pseudoscandali, che non rendono né moralmente giustificabile, né psicologicamente plausibile una apostasia della Chiesa. A parte, infatti, il giudizio sul modo curioso di intendere la libertà di coscienza da parte del Cordier, – cioè pretendendo da tutti ogni rispetto alla sua isolata opinione ed alla buona fede della sua condotta, e poi giudicando liberamente, e severamente condannando, opinioni e condotte altrui –, chi mai gli ha insegnato che l’eventuale mala condotta di un sacerdote, ed anche di un gruppo di sacerdoti, coinvolga la responsabilità di tutto il clero? E chi mai gli ha insegnato che i motivi di credibilità della fede cristiana, e cattolica, si fondino sulla condotta morale dei suoi rappresentanti? Tanto varrebbe rinnegare ogni ordine giuridico perché più di un carabiniere o più di un giudice vengono meno al loro dovere; o dichiararsi avversi alla scienza medica ed al calcolo nelle costruzioni perché si sono venute a conoscere le malefatte di qualche medico e di qualche ingegnere... In ogni caso, perché poi voltarsi anche contro Dio?
La verità è che, nel film, ad un certo momento, contrariamente a tutte le esigenze dello stile e della conseguenzialità psicologica, si è verificato un trapasso indebito dal personaggio Cordier – religioso, cristiano e cattolico – al regista Autant-Lara – anticattolico, anticristiano ed antireligioso12 –, il quale, per fas et nefas, ha assunto il ’tono d’invettiva di un pacifismo materialistico, sganciato da qualsiasi presupposto religioso, rendendo cosi vana ed inutile tutta la paradossale architettura narrativa e tipologica del suo film. A che, infatti, tante sottili questioni su quello che, a proposito del servizio militare, imperi o non imperi la legge civile, approvi o disapprovi la Chiesa, quando si voleva dimostrare che la guerra c’est trop bête, e che basta ed avanza questo per darsi lecitamente, anzi doverosamente, obiettore di coscienza?
Quest’ultima confusione, a nostro modesto parere, inficia tutto il film Tu ne tueras pas; dato che lo stesso Autant-Lara ha dichiarato che con esso non voleva fare opera d’arte, bensì soltanto difendere una tesi. Egli, come capita a chi si abbandona alla foga passionale e non alla guida della ragione, per voler dimostrare troppo non ha dimostrato nulla, ed in più è caduto egli stesso in un illecito morale. Col suo film, infatti, non solo non ha difeso il quinto comandamento: «Non ammazzare», ma ha offeso l’ottavo: «Non dire il falso», ed ha rinnegato la premessa che dà forza a tutto il Decalogo ed a tutte le leggi morali: «Io sono il Signore Dio tuo».
1 I soliti «amici della pace (rossa)» non si lasceranno sfuggire l’occasione di staccare dal contesto queste nostre affermazioni, per sbandierarle come prova della nostra morale guerrafondaia. Sappiamo in quale conto tenere i loro scandolezzati fervori. Sono di quelli che inneggiano al marxismo, il quale fa della violenza il suo credo; che plaudono alla Russia sovietica, la quale, in casa e fuori, si mantiene e si impone principalmente mediante la violenza e le guerre, e che oggi tiene tutto il mondo sotto l’incubo dei suoi delinquenziali scoppi atomici; che si sono fatti paladini della «resistenza», erigendola a mito ed a proprio monopolio, quando che cosa fu essa mai se non violenza e stragi opposte a violenza e stragi? A conferma, leggiamo tre critici marxisti su questo argomento: «Il film di Autant-Lara... ripropone in termini irrazionali ed astorici un pacifismo innegabilmente suggestivo, ma affatto sterile ed astratto... L’autore perviene ad una tesi... secondo la quale persino la Resistenza, e in genere la lotta per l’indipendenza e la libertà, dovrebbero escludere lo scontro delle armi, sia pure determinato dalla violenza dell’oppressione» (M. ARGENTIERI, in Vie Nuove, 2 sett. ’61). «Mentre ci piace l’anticonformismo con cui dissocia... l’obiezione di coscienza da moventi religiosi, rimaniamo un po’ sorpresi di fronte all’affermazione del principio della non violenza anche nel caso della guerra di liberazione, della resistenza contro l’oppressione, della lotta per la libertà» (Nuovo Spettatore Cinematografico, 1961, n. 24, p. 324). «In guerra... l’unico partito è di battersi, con tutti gli orrori che la violenza comporta, da una parte e dall’altra... I soldati sovietici sono miti anime, costretti ad uccidere da un imperativo categorico di ordine spirituale, per la felicità delle generazioni che verranno» (M. LIVERANI, in Paese Sera).
2 Alla domanda, se sia dovere dell’uomo combattere per la libertà, Autant-Lara avrebbe risposto: «Sicuramente, ma bisogna che il combattimento non diventi sciocco e stia entro certi limiti. Mi spiego: prima cosa un combattente non deve morire [?!], perché chi muore per la libertà non è più libero» [?!?!] (A. BONOMI).
3 Per una trattazione esauriente dell’argomento, A. MESSINEO, L’obiezione di coscienza, in Civ. Catt. 1950, I, 361-369; G. PERICO, Guerra moderna e coscienza individuale, in Aggiornamenti Sociali, marzo 1960, pp. 131-148, con ampia bibliografia nelle note. Vedi pure, a proposito della guerra giusta, S. LENER, Crimini di guerra, ed. Civiltà Cattolica, 1948.
4 «Non sempre l’atteggiamento delle leggi, nei confronti degli obiettori, è di condanna o di intransigenza. In alcuni Stati, anzi, viene loro riservato per legge un trattamento particolare; cosi negli Stati Uniti, nell’Olanda, nel Canadà, nell’Australia, nella Nuova Zelanda, nella Danimarca, nella Svezia, nell’Inghilterra, nella Norvegia. Il Belgio e la Svizzera, pur non avendo dato all’obiezione il riconoscimento ufficiale, hanno assunto nei suoi confronti un atteggiamento di evidente tolleranza. Nella Germania, nell’Irlanda e nel Giappone, un articolo della stessa Costituzione prevede che nessun cittadino sarà costretto a prestare servizio militare contro coscienza. Per lo più queste legislazioni prevedono per gli obiettori una organizzazione di servizi civili speciali, ai quali vengono addetti in cambio della vita militare» (Aggiornamenti Sociali, cit., pp. 133-134).
5 Cosa che, grazie a Dio, nel film, anche invocata dal Cordier: A vingt ans, on fait son service militaire. Moi pas... Mais je veux bien servir mon pays, et même, si on veut, pour un durée plus longue, dans des conditions plus dures que celles du service militaire.
6 Il quale, per fortuna, mette le mani avanti, e protesta di non essere più teologo del presidente del tribunale; ma invano: prima, perché, sacerdote, avrebbe dovuto studiare teologia; poi perché i suoi spropositi rivelano la sua ignoranza non della teologia, ma del catechismo.
7 Altra fonte cui l’abbé Robert, debole teologo, ricorre per conoscere il pensiero della Chiesa è «l’Association Pax Chrisri... Il s’agit d’un mouvement très important, et qui rayonne dans le monde entier... [qui] a conclu ses travaux – écouttez-moi bien – en prévoyant [?!] pour les consciences catholiques fidèles [?!] l’objection de conscience généralisé [?!]. C’est nouveau, ça! Tu ne le savais pas, hein? Eh bien, c’est. le dernier message de l’Église. Jean-François, je te l’apporte!» E, non meno scarso teologo di lui, il Cordier gli risponde: «C’est en 14 qu’elle aurait dû dire ça au monde... En 14 et en 39».
8 «Monsieur le Président: l’acte qu’on me reproche m’a été ordonné... Comme homme et comme prêtre, j’ai souffert et je souffre encore... Mais, comme soldat, je n’ai rien à mi, reprocher». – Le Président: «Adler Rudolf, est-il coupable d’avoir, le 24 août 1944... commis un acte contraire aux lois de la guerre?... Il est acquitté à l’unanimité des voix».
9 Di questa confusione si rende conto anche un critico laico come il BIRAGHI, che, a proposito, scrive su Il Messaggero: «Il crimine di Adler è davvero imperdonabile? O non è vero, piuttosto, che qualunque tribunale, giudicante anche in base a leggi non militari, ma semplicemente morali, avrebbe finito per assolverlo, qualunque fosse l’uniforme indossata al momento del processo?».
10 Cosi il Diritto Canonico: Can. 121: «Clerici omnes a servitio militari, a muneribus... a statu clericali alienis, immunes sunt». Can. 141: «Saecularem militiam ne capessant voluntarii...: neve intestinis bellis et ordinis publici perturbationibus opem quoquo modo ferant. Clericus minor qui... sponte sua militiae nomen dederit, ipso iure e statu clericali decidit».
11 Je ne veux plus aucun secours de Église... Si je le suis [chrétien], c’est malgré moi... Je suis contre la guerre parce que c’et trop bête, un point, c’est tout... Il n’y a pas besoin de Dieu pour ça...
12 Tra i critici che hanno rilevato il carattere antireligioso ed anticlericale del film ricordiamo G.B. CAVALLARO (L’Avvenire d’Italia): «Non mette tanto in discussione la guerra e la liceità del dichiararsi obiettore di coscienza, quanto la posizione della Chiesa rispetto alla guerra ed all’obbedienza politica allo Stato, quando le sue leggi urtino la coscienza morale posta in ogni individuo... Pone sotto accusa soprattutto la Chiesa cattolica perché... non dà tanta concretezza specifica al comandamento “non ammazzare”, da obbligare i suoi fedeli a non sporcarsi ma le mani di sangue». E. LAURA (Il Popolo): «La tesi del regista è chiara: Vi sono dei cattolici che traggono dalla propria religione motivo per opporsi alla guerra, ma quando lo fanno fino in fondo devono arrivare alla crisi religiosa, perché la Chiesa è ambigua». L. PESTELLI (La Stampa): «Per far risaltare la sua tesi, il regista ha cercato un’antitesi che gli conviene, l’ha trovata nell’inviso clero, l’ha esasperata a dispetto del verosimile». T. CHIARETTI (Il Paese): «È la prima volta si ha il coraggio di portare sullo schermo senza infingimenti e giravolte il problema della posizione della Chiesa cattolica rispetto alla guerra». L. BAERBESI (L’Arena): «In polemica sia contro il militarismo ottuso, sia contro il dissenso ipocrita fra la pratica di una confessione religiosa ed i suoi principi». E. FABRI (Journal de Genève): «J’ai le sentiment quit Autant-Lara s’est laissé entrainer par un anticléricalism foncier et qui n’ésite pas à prêter à qui port la soutane tous les sentiments les moins nobles». A. LANOCITA (Corriere della Sera): «È un’opera che irride ai preti... La polemica antimilitarista diventa anticlericale: si presuppone che i preti antepongano l’ubbidienza all’autorità all’ubbidienza al credo».