Articolo estratto dal volume III del 1971 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Dal 14 al 18 luglio, in Lussemburgo, si è svolto il 9º Congresso mondiale dell’Union Catholique Internationale de la Presse (UCIP). Vi hanno preso parte, provenienti da una cinquantina di paesi, 250 giornalisti cattolici, di cui una sessantina del Terzo Mondo. Lodarne l’organizzazione, perfetta, non è semplice convenienza, ma dovere. Un merito tutto speciale va riconosciuto al Comitato Esecutivo del Benelux, che ne ha assunta e portata tutta la responsabilità; al Centro Europeo, che ha messo a disposizione dei congressisti la sede, splendida, ed i suoi servizi tecnici, perfetti; e soprattutto al dinamico segretario generale dell’UCIP, mons. Jesús lribarren1, ideatore ed animatore del metodo di lavoro, nuovo ed efficientissimo. A differenza, infatti, dei precedenti Congressi dell’UCIP, che comportavano soltanto relazioni e conferenze avanti a congressisti molto numerosi ma semplici ascoltatori, in questo di Lussemburgo i congressisti, selezionati in numerus clausus, hanno potuto portare il loro vivo contributo alla discussione ed alle conclusioni delle relazioni – ridotte a tre fondamentali –, suddividendosi in quattro carrefours, rispettivamente: dell’Asia e Africa; dell’America Latina, Spagna e Portogallo; della Germania, Austria e Svizzera tedesca; degli altri Paesi.
In questa relazione sommaria sorvolo sulle cerimonie, le gite ed altri dati di contorno; come pure sulle riunioni del Consiglio dell’UCIP e sull’Assemblea Generale delle sue Federazioni2; e mi limito e riferire sulle relazioni ed i documenti riguardanti il Congresso propriamente detto, accompagnandoli con qualche impressione e commento del tutto personale.
Tema e scopi del Congresso
Tema del Congresso è stato L’opinione pubblica nella Chiesa. Introducendolo, il presidente dell’UCIP, Jean Gélamur, ha rilevato la posizione del tutto particolare nella quale si trovano i giornalisti cattolici per giudicare la funzione ed i rischi dell’opinione pubblica, così nella vita sociale come in quella ecclesiale, soprattutto oggi quando l’evoluzione tecnologica e la dinamica democratica ne stanno potenziando e rivoluzionando vie strumenti ed impatto. In particolare – partendo dalle affermazioni di principio della recente istruzione postconciliare Communio et progressio, e del notissimo passo di Pio XII sull’opinione nella Chiesa (del 1950), e commentando alcuni testi del padre Gabel e dello stesso lribarren – l’oratore ha rilevato l’urgenza di passare dai principi alla loro applicazione nella prassi.
Ma questo passaggio – egli ha affermato – si presenta particolarmente laborioso quando si tratti dell’opinione in un contesto ecclesiale. Da una parte, infatti, occorre tener conto della concezione politica della società nella quale la Chiesa si trovi ad operare, del crescente pluralismo ideologico in un mondo sempre più opinabile, dell’erosione che i valori di autorità vi hanno subito, e della funzione d’informazione opinionale propria dei mass media, ed in particolare della stampa d’informazione; nonché, su piano teologico, della missione profetica di tutto il popolo di Dio. Dall’altra parte non va dimenticata la missione magisteriale della Chiesa ed, in essa, della gerarchia; il suo compito di portare gli uomini alla comunione tramite la comunicazione. Di qui il difficile accordo tra conveniente o doverosa contestazione ed ordine stabilito; tra critica – sia come fenomeno sia come contenuto –, magari da parte di una “Chiesa sotterranea”, e doveroso ossequio alle istituzioni (si è detto anche: tra ortodossia ed ortoprassia); di qui anche, nelle tensioni tra autorità ed opinione, il pericolo o di falsare alla radice l’opinione interferendo sull’informazione e sulla pubblicizzazione di essa, o di potenziarne indebitamente la pressione sociale, confondendo i rapporti d’interflusso tra opinioni qualificate, di specialisti, ed opinioni rese – anche mediante l’uso dei mass media – “di massa”. Ma – ha continuato l’oratore – scopo del Congresso non è chiarire ed approfondire concetti leggi e dinamica dell’opinione, o di precisare e sviluppare la dottrina circa l’opinione pubblica della Chiesa, bensì – mettendo in comune i risultati di inchieste specifiche da noi condotte sull’argomento nei diversi paesi del mondo – di rispondere, per via induttiva, da giornalisti, a tre questioni: 1) Come e per quali vie si manifesti oggi l’opinione pubblica nella Chiesa; 2) In quale misura e condizioni noi giornalisti, di fatto, possiamo formarla e parteciparvi; 3) Quale sia l’interdipendenza tra opinione nella Chiesa ed opinione pubblica tout court; e ciò nel duplice intento: di precisare a noi stessi lo stato odierno dell’opinione pubblica nella Chiesa e, se possibile, di offrire validi elementi di giudizio alla gerarchia ecclesiastica3.
La Lettera della Segreteria di Stato
Invece, com’è nella prassi, un apporto dottrinale al Congresso l’ha recato la Lettera inviata, a nome di Paolo VI, dal Segretario di Stato, cardinale J. Villot4. Rilevato che si tratta di “argomento delicato e difficile, carico di conseguenze positive, oppure negative, secondo come venga affrontato e risolto” (n. 1), la Lettera, rifacendosi a precedenti affermazioni del Magistero (n. 5), rivendica un suo posto alla pubblica opinione nella Chiesa (nn. 2-4), come “luogo ideale e garanzia di libertà”, ed in quanto animata, sì, di Spirito Santo, ma “insieme vero corpo sociale”.
“Se la Chiesa fosse una società semplicemente umana, con un aspetto sociale non solo distinto ma separato dal suo contesto divino, la questione dell’opinione pubblica vi si porrebbe negli stessi termini con cui si pone nella società civile; se, al contrario, la Chiesa non fosse un corpo sociale visibile, la sua vita non avrebbe nessun rilievo nella storia ed il fenomeno dell’opinione non vi troverebbe spazio. Ora, nella società che Cristo ha istituito come società spirituale e visibile [...] tutti i membri concorrono all’opera della salvezza nella diversità armonica delle proprie responsabilità. Ne consegue, nella vita quotidiana del Popolo di Dio, uno scambio di pensieri e di energie, di proposte e di esperienze, che, spesso sotto l’impulso dello Spirito Santo, nasce dall’intelligenza e dalla libera volontà dei suoi membri, tanto nell’esercizio del ministero pastorale quanto in quello delle attività proprie del laicato. Può dunque affermarsi che, in fatto e in diritto, l’esistenza dell’opinione pubblica nella Chiesa inerisce alla sua stessa natura” (nn. 3 e 4).
La Lettera passa a precisare (n. 6) il campo ed il soggetto proprio dell’opinione pubblica nella Chiesa. Soggetto ne è il Popolo di Dio; il campo: tutta la vita ecclesiale. Ci sono, ovviamente
“delle verità alle quali è necessario aderire. Ma le stesse formulazioni dottrinali e le stesse scelte pratiche della gerarchia sono maturate anche grazie al contributo del Popolo di Dio [...]. Del resto, molti eventi concernono la vita della Chiesa [...]: la diffusione della loro notizia e l’interesse che suscitano sono fattori importanti di opinione pubblica. Inoltre, la vita concreta della Chiesa si connette con dati di fatto che sfuggono al suo influsso, la valutazione dei quali richiede un’attenzione seria e costante. Qui ancora l’opinione pubblica può apportare un aiuto insostituibile, illuminando situazioni e portandole a conoscenza della gerarchia ecclesiastica specialmente per tramite dei laici impegnati nelle attività temporali” (nn. 7-9).
Ci sono però delle condizioni da tener presenti (n. 10). Così, non si dà, nella Chiesa, sana opinione, sia essa pubblica o no, che non “abbia come punto di partenza e di arrivo il deposito della fede e della legge morale, contenuto nella Tradizione e nella Scrittura, autenticamente interpretati dal Magistero vivo, non necessariamente solenne” (n. 11). Né vanno dimenticate le direttive disciplinari della competente autorità ecclesiastica (n. 12), sicché il dialogo – come auspica l’Ecclesiam suam – si svolga armonicamente nell’ubbidienza (n. 13): il che prova che il problema delle “rette opinioni pubbliche” posto dall’Inter mirifica va trattato e risolto in maniera, non identica, bensì analoga a come si pone nella società civile (n. 14).
L’opinione pubblica nella Chiesa – prosegue la Lettera – non deve essere concepita come concorrenziale rispetto al Magistero: i limiti che può trovare in esso ne sono garanzia di rettitudine, non ostacoli arbitrari (n. 15); del resto, rispetto al dogma, ai principi morali ed alla disciplina della Chiesa, le opinioni, per quanto diffuse e dinamiche, non sono necessariamente criterio di verità (n. 16), mentre lo stesso legittimo pluralismo d’opinioni deve avere sempre come mira ultima il vero ed il bene oggettivo (n. 17).
“Fuori di questo quadro possono, certo, esserci opinioni, pubbliche o meno, nella Chiesa: ma sarebbe difficile qualificarle come sane rette e legittime. Soprattutto nel caso di opinioni che intacchino l’integrità del dogma e dei principi morali, bisognerebbe riconoscere che, purtroppo, non si è più in quell’opinione pubblica di cui la Chiesa ha bisogno (per alimentare il dialogo tra i suoi membri: condizione di progresso de suo pensiero e della sua azione (Communio et progressio n. 115). Anzi, ci si dovrebbe chiedere se, in questo caso, si possa ancora parlare di opinione pubblica nella Chiesa, o non, piuttosto, di opinioni che si pongono esse stesse, col loro contenuto, fuori della Chiesa di Cristo. Inoltre, anche in alcune opinioni in sé legittime, l’impegno e la franchezza nell’esprimerle deve tener presente la prudenza cristiana (ivi, n. 118) [...]; ed occorre ricordare che il diritto all’informazione non esclude né il rispetto di legittime zone di segreto e di discrezione, né il tatto richiesto dalla sicurezza dovuta alle persone ed alle coscienze (ivi, n. 121)” (nn. 19 e 20).
La lettera si avvia alla conclusione richiamando alcuni principi di deontologia (nn. 20 e 21), diretti specialmente ai giornalisti cattolici (n. 22), e precisando l’apporto che gli stessi possono conferire alla soluzione teologica e pastorale di tutta la questione, nonché all’assolvimento del compito di guide spirituali del Popolo di Dio proprio dei vescovi (n. 23). Prima poi della conclusione (nn. 25 e 26), un paragrafo (n. 24) è dedicato alla stampa cattolica nel Terzo Mondo:
“Mi sia permesso rivolgervi un appello particolare a favore dei paesi meno provvisti di personale ben preparato e di mezzi materiali, dove la Chiesa necessita di una stampa che, all’interno, rinsaldi la vita delle comunità, chiarendo ai membri la propria missione e, all’esterno, faccia intendere la sua voce. Che la vostra parola, che la vostra penna non frustrino mai – sfoggiando una critica corrosiva e demolitrice delle certezze della fede e seminatrice di divisioni – le aspirazioni buone e generose delle giovani cristianità. Al contrario: apportate il vostro generoso e fraterno aiuto tecnico e finanziario a sostegno della loro stampa ed al perfezionamento dei loro giornalisti”.
Le relazioni
Come s’è detto, le tre Relazioni fondamentali del Congresso non hanno avuto carattere dottrinale, ma di rapporti-resoconti di inchieste mondiali svolte, in circa un anno e mezzo, dalle federazioni nazionali5 o regionali dell’UCIP. Nell’insieme i dati raccolti sono risultati abbastanza indicativi di situazioni comuni nella Chiesa, anche se insufficienti per rilievi totali ed esaurienti sulla situazione mondiale, e non sempre comparabili tra loro, data la diversità dei criteri con i quali sono stati raccolti. Qui, per il poco spazio di cui dispongo, ne riporto soltanto alcuni dati essenziali e le conclusioni.
Il primo relatore, il dott. Konrad Kraemer, di Bonn, ha riferito sul primo capitolo dell’inchiesta: La stampa in quanto formatrice dell’opinione pubblica nella Chiesa. Partendo dai dati forniti da 17 paesi o regioni6, egli è giunto a questi sette rilievi:
1. Manca qualsiasi accordo sul termine e sulla res “opinione pubblica”. 2) Nella grande stampa neutra l’informazione religiosa e sulla Chiesa è, in generale, superficiale, ed attenta più che altro al sensazionale; scarsa è l’informazione sull’azione sociale e culturale della Chiesa. 3) Un po’ meglio vanno le cose nelle grandi agenzie di stampa neutre, internazionali (Associated Press, Reuter...) e nazionali (France Presse, ANSA...), e meglio andrebbero se più vi abbondassero i giornalisti qualificati e se, in qualche paese, diminuissero le pressioni politiche; le prestazioni invece delle agenzie cattoliche (se ne contano undici) sono generalmente ostacolate dalla scarsità di informazioni da parte della gerarchia, e dalla scarsezza di personale e di mezzi tecnici ed economici. 4) In generale, l’impatto della stampa confessionale non cattolica e della stampa ideologica (atea o marxista) sull’opinione pubblica nella Chiesa risulta piuttosto scarso. 5) Mancano dati sufficienti per misurare l’influsso della stampa cattolica di tendenza (“progressisti”, “integristi”...). 6) In genere, l’influsso “colonianistico” della stampa cattolica oltre frontiera (per esempio, tra gli immigrati) va calando; permane, invece, ancora rilevante l’influsso delle agenzie di stampa neutre e dei grandi giornali europei e americani sulla stampa dell’Africa e dell’Asia. 7) La rapidità con cui su piano mondiale si divulgano anche le discussioni e le controversie religiose è un fatto che non può essere ignorato; però la qualità d’influsso (deleterio o salutare?) sull’opinione pubblica nella Chiesa dipende da fattori sociali ed ecclesiali complessi e diversi.
A questi rilievi il Relatore ha fatto seguire, tra le altre, queste indicazioni pratiche:
1) In un mondo in cui la presenza efficace della Chiesa dipende in gran parte dall’immagine opinionale che ne forniscono i mass media, è interesse della Chiesa creare, per quanto sta in essa, le condizioni necessarie perché l’immagine di sé risponda il più possibile alla realtà; perciò deve fornire, in termini comprensibili, un’informazione vera ampia ed esatta sulle sue attività e sui suoi eventi problemi ed obiettivi; e deve curarne la massima diffusione.
2) Dato che la Chiesa non può attendersi che tutti i media profani si prestino ad un’informazione oggettiva e neutra sulla Chiesa, essa deve poter disporre di mezzi d’informazione A questo scopo deve, in misura molto maggiore di quella finora praticata, investire e coordinare i mezzi economici occorrenti per formare professionisti competenti e responsabili, per approntare strumentazioni tecniche moderne ed organismi amministrativi efficienti.
3) Per assicurare efficacia su piano mondiale occorre che l’informazione cattolica si imposti a respiro internazionale; inoltre occorre che non si limiti ad eventi ed interessi strettamente ecclesiali, ma si estenda ai valori ed interessi generali: quali la dignità e libertà umana, la giustizia sociale, l’unità familiare e la pace tra le nazioni.
4) Anche per questo motivo la Chiesa deve impegnare tutti i mezzi di cui dispone per far rispettare introdurre e garantire in tutto il mondo la libertà legale d’informazione e di espressione nella stampa.
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Secondo relatore è stato il sig. Georges Hourdin, direttore delle edizioni La vie catholique (Francia), che ha riferito sui risultati del secondo capitolo dell’inchiesta: La stampa cattolica in quanto riflesso dell’opinione pubblica nella Chiesa. Rilevato quanto sulla informazione opinione e dialogo nella Chiesa si dice nell’Inter mirifica e nella Communio et progressio, nonché negli scritti “profetici” del p. Emile Gabel7, egli ha così precisato i compiti e le necessità della stampa e dei giornalisti cattolici:
“La stampa cattolica deve far circolare, come sangue generoso, le informazioni esatte e complete nell’interno della comunità ecclesiale; deve informare, nella libertà, i non credenti sulla vita della Chiesa, sul suo insegnamento e sul suo giudizio circa i fatti del mondo; deve, infine, informare la Chiesa sulle grandi correnti culturali e sugli eventi che caratterizzano un’epoca, per permettere ai singoli fedeli ed all’insieme della Chiesa di vedere come ‘dire’ e vivere il Vangelo.
Questo suppone che i giornalisti cattolici possano accedere alle fonti d’informazione, riferire fedelmente i fatti, commentarli liberamente: compito insieme necessario e difficile, soprattutto quando si tratta di rappresentare l’opinione pubblica nella Chiesa, o di pronunciare un giudizio cristiano sugli eventi del mondo. A questa difficoltà devono andare incontro: la legislazione civile, la comprensione della gerarchia, la fedeltà dei lettori”.
Il relatore disponeva di 28 risposte8, di cui: 3 di paesi a regime socialista, 2 di paesi dove la Chiesa cattolica conserva un influsso sulla legislazione civile, 6 di paesi democratico-pluralistici, e 16 di paesi in via di sviluppo (10 dell’Africa, 4 dell’America Latina e 2 dell’Asia). Egli le ha analizzate secondo le due categorie: ostacoli esterni alla stampa cattolica (civili, religiosi) ed ostacoli interni (scarsità di mezzi tecnici, incompresione del pubblico), notando:
“La pressione più importante, o almeno più vistosa, alla quale è sottoposta la stampa cattolica proviene dalla legislazione ufficiale qualora essa limiti qualche testata, oppure il diritto di espressione dei giornalisti. I mezzi che vengono messi in atto variano: dall’autocensura al bando puro e semplice di giornali non conformisti. Ma non è agevole distinguere le pressioni provenienti dall’esterno da quelle provenienti dall’interno, quelle causate dal malanimo di governi da quelle causate dalla ‘benevolenza’ di parte dell’episcopato. Certo è che ogni attentato alla libertà è contagioso. Analizzando le risposte appare il groviglio delle situazioni e le reciproche interdipendenze, si tratti di democrazie popolari, di democrazie pluralistiche, di paesi in via di sviluppo, o di paesi in cui la religione cattolica passa come ufficiale”.
Prima di indicare la traccia di discussione ai carrefours, l’oratore ha riassunto così i risultati generali dell’inchiesta:
“Salvo in qualche paese, la stampa cattolica – là dove esiste – non sembra fruire né della considerazione cui avrebbe diritto in ragione del suo contenuto, né del riconoscimento di quella libertà d’informazione e di espressione di cui necessita per compiere il proprio compito professionale nell’àmbito ecclesiale e rispetto ai lettori non credenti. Viene misconosciuta l’importanza e l’attualità del suo ruolo particolare, specialmente nella diminuzione continua della prassi domenicale. Sono ignorate le condizioni necessarie al soddisfacimento del suo compito. C’è chi crede che la funzione dei giornali cattolici sia esclusivamente quella di informare sulla vita ecclesiale, spirituale o ufficiale della Chiesa; altri pensano che sia quella di prolungare l’insegnamento ufficiale della Chiesa, ignorando le controversie che l’agitano e nascondendo ogni divergenza o debolezza dei suoi membri. ‘Ma — al dire del padre Gabel — non è il termometro che dà la febbre!’. Nessuna meraviglia perciò se la stampa cattolica, in queste condizioni, non riesca a soddisfare quel compito apostolico, di testimonianza e di animazione che le è proprio”.
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Il giornalista madrileno rev. José Luis Descalzo ha riferito sul terzo capitolo dell’inchiesta: Ruolo esercitato nell’opinione pubblica nella Chiesa dai giornalisti cattolici che operano in mezzi d’informazione neutri. Nella sua esposizione – più giornalisticamente briosa, ma meno sistematica delle altre – egli ha cominciato col notare due mutazioni causate dal Vaticano II nella pubblicistica cattolica: 1) i giornalisti cattolici s’interessano sempre di più, oltre che alla stampa cattolica (per “i pesci d’acquario”), a quella non cattolica (per i “pesci d’alto mare”); 2) i fatti e le persone della Chiesa cattolica fanno sempre più notizia anche nel mondo “neutro”.
“Di qui, in questi ultimi anni, un tipo nuovo di giornalista cattolico [...], molto diverso da quello del giornalista che operi nei media ecclesiastici. Egli, infatti: a) opera in sedi dove le notizie non prendono valore rispetto all’etica, alla predicazione o all’ortodossia, ma semplicemente dal loro ‘essere notizia’ [...]; b) Egli deve conservarsi al livello giornalistico dei suoi colleghi; deve quindi contare, non tanto sul suo valore personale religioso, quanto sulla qualità della sua informazione; c) Non solo è indipendente economicamente dalla gerarchia, ma la sua credibilità presso i lettori dipende da una manifesta sua effettiva indipendenza da essa; d) Egli si trova a risolvere ogni giorno la difficile impresa di ‘passare’, senza snaturarli, contenuti ‘religiosi’ con un linguaggio radicalmente secolarizzato”9.
Come ho già rilevato, l’esposto del Descalzo – data anche l’eterogeneità delle risposte e la differenza delle situazioni nel mondo – si presenta scarsamente sistematico; quindi anche difficile da sunteggiare. Mi limito perciò a riportare i punti da lui proposti alla discussione dei carrefours, che costituiscono – mi sembra – una buona traccia di deontologia giornalistica.
1) Assistiamo ad una trasformazione della funzione del giornalista cattolico. Senza misconoscere il suo lavoro nei media cattolici, sembra che in avvenire occorrerà parlare più di cattolici nella grande stampa, che di stampa cattolica fatta da cattolici per cattolici.
2) Nella stampa neutra il cattolico deve valorizzare l’informazione religiosa più come informazione che come religiosa, nella convinzione che l’oggettività è anche a servizio del carattere religioso della notizia.
3) Inoltre, nella stampa neutra il giornalista cattolico deve imporsi con la competenza professionale, e far sì che le sue informazioni religiose sostengano il confronto col peso informativo delle altre notizie.
4) Il compito del giornalista cattolico non si limita all’informazione religiosa. Ogni notizia è suscettibile di un “trattamento evangelico”. Va perciò corretta la tendenza di molti cattolici a mantenersi neutri perché operano nella stampa neutra.
5) Tuttavia oggi l’informatore religioso assume un ruolo tutto particolare [...]; di qui la necessità di ben prepararlo e di creargli intorno un ambiente confacente al suo compito.
6) Questo ruolo può essere svolto tanto da ecclesiastici quanto da laici [...], purché ci sia un’autentica vocazione giornalistica e non si prenda il giornale come una succursale del pulpito.
7) L’informatore religioso deve possedere una buona formazione teologica, sufficiente notizia dei fatti della Chiesa, amore profondo alla verità, e libertà per essere al suo servizio.
8) La gerarchia dovrà riservare il massimo rispetto alla libertà dell’informatore, nella convinzione che da essa dipende la sua onestà personale e la sua credibilità presso il pubblico. Perciò sempre eviterà di prenderlo come portavoce ufficiale della Chiesa o, tanto più, della gerarchia.
9) Questo giornalista farà il possibile per esprimere l’opinione pubblica della comunità cattolica, fedele alla sua missione di comunicare le opinioni di essa nella loro obiettività, e non solo le sue proprie opinioni personali.
10) Dato il loro ruolo di intermediari tra la gerarchia e la comunità in genere, di capitale importanza per la comunità cristiana è che sia loro aperto l’accesso alle fonti d’informazione della Chiesa ufficiale.
11) Il giornalista cattolico che operi nei media neutri [...], senza arroccarsi nell’apologetica, e nella certezza che ogni servizio alla verità è anche un servizio alla Chiesa, nelle sue informazioni sarà vivo esempio di quel dialogo che oggi la Chiesa intrattiene col mondo.
12) Con realistica oggettività l’informatore cattolico prenderà atto delle inevitabili servitù che il suo lavoro subisce nei media neutri. Farà perciò il possibile affinché il suo messaggio non si deformi per le condizioni concrete in cui si trova; da parte loro le autorità ecclesiastiche faranno il possibile per conoscere e comprendere questa sua situazione.
Verso una sintesi?
Già quanto son venuto sunteggiando, e molto più gli apporti dei carrefours ed il bilancio conclusivo tracciatone da mons. Iribarren, fornirebbero esorbitante materia a rilievi e commenti. Mi è necessario, perciò, ancora una volta limitarmi al massimo.
Sotto l’aspetto pastorale-pratico il Congresso non poteva riuscire più fruttuoso; non foss’altro che per i contatti personali, esemplarmente aperti e cordiali, tra 250 professionisti, tutti animati dallo stesso ideale, ma provenienti da contesti socio-culturali e politici differenti, alle prese quindi con problemi professionali e pastorali identici nel fondo, ma diversissimi nelle impostazioni pratiche e negli scopi immediati. Il fatto, poi, che un buon quinto di essi provenisse da paesi in via di sviluppo ha fortemente polarizzato attenzione ed interessi verso la soluzione pratica di uno dei problemi più urgenti della Chiesa postconciliare; quello di dare una voce, ed i mezzi indispensabili per una cultura autonoma, non colonizzata, alle masse – cattoliche o meno – del Terzo Mondo10.
Se il Congresso, com’era nei suoi propositi, fosse restato esclusivamente ai rilievi statistici ed alle formulazioni pratiche, il suo bilancio consuntivo potrebbe chiudersi qui. Ma, di fatto, circa l’opinione pubblica nella Chiesa, esso si è allargato al campo dottrinale o, almeno, a proposte pratiche, discussioni ed anche dissensi, che supponevano determinate scelte dottrinali. E, sotto questo aspetto, il bilancio segna molte incertezze e notevoli confusioni.
Penso che la causa prima sia da ricercarsi nella deficiente precisazione di termini e di concetti fondamentali in argomento. Come del resto ha notato lo stesso primo relatore, opinione e opinione pubblica si possono intendere in molte maniere, e molto diverse; e così di fatto è avvenuto, tanto nel questionario e nelle risposte quanto nelle relazioni e nei carrefours. Lo stesso si deve dire per “opinione pubblica nella Chiesa”, nessuno avendo precisato i rapporti tra “pubblico” e “popolo di Dio”, ed, anzi, in molti interventi essendosi alluso ad un “Popolo di Dio” distinto, se non separato, dalla gerarchia; onde il falso dilemma: “Opinione pubblica: a servizio del Popolo di Dio, oppure della gerarchia?”. Imprecisata è rimasta anche l’aggettivazione “retta”, “buona”, ecc. riferita all’opinione pubblica (nella Chiesa), passandosi, nei vari interventi, dai “contenuti” alla dinamica ed alle condizioni in cui le opinioni (pubbliche) si formano. E soprattutto è mancata una precisazione sulle differenze tra opinione pubblica fatto sociologico, diritto della società umana in generale, ed opinione pubblica come fatto anche teologico: col rischio, quindi, di trasporre univocamente, e non analogicamente, le caratteristiche, le modalità e le funzioni della prima alle opinioni in quella società unica, sui generis, che è la Chiesa.
Altra fonte di imprecisioni e di confusioni dottrinali e pratiche è stata, mi sembra, l’impostazione polemica che l’argomento è andato assumendo, specialmente nei carrefours, a detrimento di quel più fiducioso dialogo tra stampa e gerarchia che si sarebbe desiderato; impostazione causata, credo, da una tal quale – comprensibilissima, ma pregiudiziale – “deformazione professionale” delle parti in causa. Se, infatti, i giornalisti, non sempre a torto, rimproverano a molto mondo ecclesiastico una (preconciliare) deformazione autoritaria e segretariesca, la quale, a proposito di opinioni e di informazione nella Chiesa, lo porta, soprattutto nella prassi quotidiana con essi, ad ignorare quello che – specialmente con la Communio et progressio – il Magistero ha largamente concesso; è pur vero che anch’essi, i giornalisti, spesso dànno l’impressione di voler tirare un po’ troppo la coperta dalla parte loro.
Così, nel Congresso, non si è forse un po’ mitizzata la figura e la missione della stampa identificandola tout court con l’opinione pubblica?11. Ed è stato sempre ed esclusivamente il diritto dei recettori all’informazione ad ispirare ai giornalisti richieste e denunce, fino, praticamente, a disconoscere nell’autorità ogni diritto e dovere di segretezza e di prudenza? Non ha giocato, forse, un po’ questa deformazione nel far parlare dell’opinione pubblica in termini soltanto, o prevalentemente, di concorrente – se non anche di antagonista – rispetto all’autorità ed al magistero? Non si è forse esagerato quando, a proposito di interventi dell’autorità, i giornali ed i giornalisti – come avviene nella stampa specializzata – sono stati dati sempre e soltanto come vittime del loro dovere12? E non sarebbe segno di deformazione professionale se, rispetto al magistero, invalesse tra i giornalisti cattolici il criterio di accoglierlo soltanto col beneficio dell’inventario: citandone esclusivamente i documenti ed i brani che si giudichino atti a sostenere la propria visione – forse parziale e semplicistica – circa l’opinione e l’informazione nella Chiesa, sorvolando, invece, o direttamente impugnandone – come qualcuno ha proposto nel Congresso13 – altri, afferenti, forse, ad una visione del problema più totale e più complessa?
Personalmente ritengo che, a superare o a ridurre siffatta situazione, urge che da parte del clero, a tutti i livelli, si proceda ad una elementare iniziazione circa i problemi reali dell’opinione e dell’informazione, specialmente giornalistica; e che da parte dei giornalisti si passi dal contenzioso alla sintesi, riducendo con un’illuminata esegesi le – io ritengo – apparenti contraddizioni del magistero, com’è di norma procedere con qualsiasi testo che si supponga redatto da autori competenti e responsabili.
Ma occorre, a questo scopo, che, insieme, sociologi teologi e pubblicisti mettano a punto le necessarie precisazioni teologiche, proprio partendo dagli ormai numerosi documenti del magistero, conciliari e non conciliari. E ciò anche col concorso dell’UCIP, che fin dal 1965 a Stoccarda, e poi anche a Berlino nel 1968, decideva di “Creare un gruppo di lavoro, allo scopo di approfondire la ricerca teologica sull’informazione”.
Merito del Congresso di Lussemburgo-’71 è l’aver dimostrato l’impreteribile urgenza di questa impresa. Perciò anche per questo occorre essere grati a quanti l’hanno organizzato e sostenuto, alla Santa Sede che vi ha fatto udire la propria voce, a tutti i professionisti che vi hanno preso parte con spirito di servizio verso la verità e verso la Chiesa.
1 I nostri lettori ne conoscono già l’eccellente studio El derecho a la verdad (Madrid 1968; Civ. Catt. 1969 I 198). Cfr anche Giornalisti cattolici e gerarchia ecclesiastica (in Civ. Catt. 1971 I 263 ss.).
2 L’UCIP al presente comprende quattro Federazioni professionali internazionali, cioè: dei quotidiani e periodici cattolici; dei giornalisti cattolici; delle agenzie cattoliche di stampa; degli insegnanti e studiosi di scienze e tecniche dell’informazione.
Con le elezioni svoltesi durante il Congresso, presidente della prima federazione è risultato l’uruguaiano Cesar Luis Aguiar; della seconda, il belga Louis Meerts; della terza, il tedesco Konrad Kraemer; della quarta, lo spagnuolo Angel Benito. A presidente e a segretano generale dell’UCIP sono stati riconfermati, rispettivamente, il francese Jean Gélamur ed il basco lesús lribarren. Tra i giornalisti italiani fanno parte del consiglio generale dell’UCIP: l’on. Flaminio Piccoli, confermato segretario della federazione cattolica internazionale dei giornalisti; il dott. Italo Montini, segretario aggiunto della stessa federazione; e don Giuseppe Venturini, segretario della federazione cattolica internazionale dei periodici.
3 Ed aggiungeva: “Ci auguriamo che il Congresso ci faccia avanzare in due direzioni complementari; vale a dire: in un’indagine più metodica delle correnti di opinioni nella Chiesa, resa possibile dalle odierne avanzate tecniche analitiche; e in una migliore conoscenza del modo in cui la Gerarchia, nelle sue decisioni, deve o può tener conto, e di fatto ne tenga, delle correnti di opinione. A questo scopo si possono indicare due approcci: quello analitico-sociologico dei Case studies; e quello della ricerca teorica circa le istituzioni occorrenti – per esempio: un istituto di opinione pubblica –, e circa le strutture e le vie da predisporre per uno sviluppo del dialogo e dell’informazione nella Chiesa”. A questo scopo, egli ricordava parte del memorandum trasmesso dal 3º Congresso mondiale dei Laici (17 ottobre 1967) al Sinodo dei vescovi: “...Occorre predisporre le vie di comunicazione necessarie per sviluppare un approfondito processo di consultazione e d’informazione: la vita della Chiesa non potrà che arricchirsene, e la sua presenza nel mondo diverrà più efficace”.
4 Indirizzata al Jean Gélamur, presidente dell’UCIP, reca la data: 25 giugno 1971. Nel Congresso, ad apertura dei lavori, è stata letta da mons. Andrea Deskur, segretario della Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali. Duole ricordarlo, ma – come a Berlino 1968 – è stata accolta con non eccessivo entusiasmo da gran parte dei congressisti, anzi con esplicite riserve: forse occasionate più dalla forma che dal contenuto. L’originale francese è uscito nell’Osservatore Romano del 15 luglio.
5 Notevolissimo il contributo L’informazione religiosa nella stampa italiana, approntato dall’IRADES (Istituto Ricerche Applicate Documentazione e Studi), per conto dell’UCSI (Unione Cattolica Stampa Italiana), sul quale mi riprometto di poter dare ai nostri lettori più ampia notizia. E stato un vero peccato che esso, giunto al Congresso fuori tempo utile, non abbia potuto essere utilizzato dai relatori.
6 Vale a dire: Africa francofona, Africa anglofona, America Latina, Belgio, Canadà anglofono, Canadà francofono, Cecosìovacchia, Corea del Sud, Francia, Germania Federale, India, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Spagna, Ungheria, USA.
7 Sono staiti raccolti nel volume L’enjeu des media (Paris, Marne, 1971, 472), presentato, durante il Congresso, in una devota celebrazione dello Scomparso.
8 Lo stesso oratore così sunteggiava il questionario dell’inchiesta: “I giornalisti, nei giornali confessionali quali oggi esistono nei diversi paesi, sono in condizione di assolvere liberamente la loro missione di informatori? Nei diversi paesi la legislazione riconosce loro sufficiente libertà? In quale misura la gerarchia, il clero, i fedeli facilitano il loro compito? Sono sostenuti in spirito di tolleranza dai loro colleghi? Vengono bene informati da quelli che sono alle fonti dell’informazione religiosa?”
9 Fedele al suo stile spiritoso, giustamente il Descalzo concluderà che si tratta di un’impresa “nella quale, a differenza dei religiosi, il giornalista cattolico fa “voto d’imperfezione”; e che è quindi pacifico che egli, ogni giorno, si espone a sbagliare settanta volte sette, pur di restare fedele testimone dell’avanzamento, insieme mediocre e magnifico, di quella Chiesa di cui si sente parte”.
10 Cfr BARAGLI, La stampa cattolica nel Terzo Mondo, in Civ. Catt. 1971 II 352 ss.
11 Questo spiega l’uso di certi slogans o esempi, giornalisticamente brillanti ma, a ben ponderarli, non sempre convincenti. Tale, per esempio, lo slogan caro al p. Gabel: “Non è il termometro che dà la febbre!”, che sembra ignorare quali alte febbri opinionali possono dare quei “termometri” che sono la stampa e la radiotelevisione. Degno di attenzione, in questo senso, è anche il lamento, riportato dal Descalzo, di quel giornalista che diceva: “Non s’è mai udito un vescovo ordinare al proprio autista di riempire il serbatoio dell’auto con acqua benedetta. Perché mai a me si chiede di mettere acqua benedetta in tutte le notizie?”.
12 Questa l’impressione che si è avuta nel Congresso, per esempio, quando si è ricordata la soppressione di Signo e di Aun in Spagna, di Actualidad e di Deber nel Perù, del Regno in Italia, nonché gli interventi a carico del National Catholic Reporter (di Kansas City) e della Saint louis Review; ma soprattutto nelle ricorrenti denunce di una stampa cattolica “feudo” della gerarchia: denunce, mi sembra, giustificatissime là dove la gerarchia ignori, come spesso avviene, possibilità e necessità di una stampa d’informazione e di opinione-dialogo nella Chiesa, ma che sembrano troppo pretendere quando paiono negare il diritto alla gerarchia di avere anch’essa una propria stampa, ufficiale o di opinione che sia, o che paiono esigere dalla gerarchia che paghi con i suoi soldi una stampa da essa ritenuta non di “opinioni sane rette e legittime nella Chiesa”.
13 A proposito della Lettera inviata dal cardinale J. Villot al Congresso, riferisce Le Monde, del 20 luglio: “Pour rédiger sa lettre au congrès, le Vatican aurait-il imité; la procession d’Echternach, au Luxembourg, qui se fait deux pas en avant et un pas en arrière? C’est l’impression qu’ont eue, en tout cas, les membres de l’UCIP en lisant le texte [...]. Et ils ont demandé a Mgr Deskur, secrétaire de la commission pontificale pour les moyens de communication sociale, de le faire savoir à qui de droit. La plupart des congressistes ont jugé, en effet, que ce texte était en retrait par rapport au récent document du pape Communion et Progrès, accueilli très favorablement par la presse, catholique ou non. Mais c’est surtout, en fait, le ton de la lettre qui a choqué, dans la mesure où ce texte se présente comme une succession de portes, ouvertes pour étre aussitöt refermées d moitié”.
Nello stesso giorno, La Croix, sotto il titolo “Ne prendre en compre que l’Instruction pastorale”, informava che: “Le secrétaire général, au cours de la séance de cloture du Congrès, a fait écho aux crltiques faites par les groupes africain, asiatique, beige et germanophone au texte du message de Rome, età leur voeu de contribuer à la solution des contradictions ressenties entre ce texte et celui de l’instruction pastorale Communion et Propès. Il a demandé que Mgr Deskur [...] évoque cette situation à Rome. a suggére d’envoyer un télégramme au Pape le remerciant pour l’instruction pastorale ‘base théologique solide, ‘champ ouvert à l’opinion publique’, en passant sous silence tout autre document, et en formulant le voeu que ces principes passent dans les faits. ‘Ce sarait contradictoire d’envoyer autre choise... Je n’aime pas la contestation, je préfère l’adhésion’, a précisé Mgr lribarren”.