Articolo estratto dal volume II del 1975 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Alla recente promulgazione del Decreto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede "Sulla vigilanza dei Pastori della Chiesa riguardo ai libri”1, non si esclude che più di uno, anche tra cattolici, abbia esclamato, con disappunto e meraviglia: “Risuscita, dunque, in questo post-Concilio, il medievale Imprimatur ecclesiastico? ".
Con disappunto: paventandone pericoli per una conquistata post-conciliare libertà d’indagine e di espressione, soprattutto da parte dei teologi2; e con meraviglia: perché, forse, indotto a credere che l’Imprimatur fosse stato, almeno di fatto, abolito, sia dalla Notificazione con la quale la stessa Sacra Congregazione, il 14 giugno 19663, dichiarava che l’Indice dei libri proibiti cessava di avere valore di legge ecclesiastica, per conservare soltanto un valore morale; sia dal vistoso aumento dei libri pubblicati in questo decennio, anche da case editrici cattoliche, privi dell’Imprimatur, pur trattando materie ed argomenti per i quali il canone 1385 del Codice di diritto canonico espressamente lo esigeva.
Queste note sommarie vorrebbero rilevare la vera portata delle nuove norme, inquadrandole nel mezzo millennio, ormai, di evoluzione della disciplina ecclesiastica sulla stampa, di cui esse segnano l’odierno punto di arrivo, caratterizzata da una costante preoccupazione pastorale, pur attenta all’evolversi culturale e psicologico dei tempi.
Prima di Gutenberg
In apertura, il Decreto di cui trattiamo, riafferma, con la Dei verbum (n. 10), che “l’ufficio d’interpretare autenticamente la parola di Dio scritta e trasmessa è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa”; quindi precisa che, “per conservare e difendere l’integrità delle verità di fede e dei costumi, compete ai Pastori della Chiesa il dovere e il diritto di vigilare affinché la fede ed i costumi dei fedeli non siano danneggiati dagli scritti”.
Questo loro nativo dovere e diritto i Pastori della Chiesa, per circa tredici secoli, l’hanno esercitato come richiedevano e permettevano “gli scritti” di allora, soltanto manoscritti; perciò rari, e più veicoli di idee che divulgatori di costumi. Quindi quasi esclusivamente in difesa della fede contro le eresie4, e poco o nulla a tutela della condotta morale dei fedeli5; inoltre, quasi soltanto con interventi repressivi a pubblicazione avvenuta degli scritti; vale a dire: proibizione di leggerli e di conservarli, e – rimedio radicale, cui si è fatto ricorso sin dai tempi apostolici (cfr Rogo di libri magici in Atti degli Apostoli 19,18-19) – la loro distruzione col fuoco.
Molto si è scritto su questa prassi “oscurantista” della Chiesa, circa la cui efficacia, del resto, l’esperienza millenaria lascia alquanto dubbiosi. Ma è da notare che la Chiesa la mutuò pari pari dalla corrente prassi penale romana, e che non manca un esempio d’intervento pontificio sollecito del valore, almeno “documentario”, degli scritti eretici! Risale al Concilio Romano II, del 745, dove il prete Deneardo presentò uno scritto di Aldeberto, già condannato da san Bonifacio. Riferiscono gli Atti6:
“Non appena terminata la lettura di questo scritto sacrilego, il santissimo e beatissimo papa Zaccaria disse: ’Santissimi fratelli: che cosa rispondete a ciò?’ Ed i santissimi vescovi e venerabili presbiteri risposero: ’L’unica cosa da fare è che tutti gli scritti che ci sono stati letti vengano buttati in un fascio nel fuoco, e che i loro autori vengano colpiti da anatema [...]’. E il santissimo e beatissimo papa Zaccaria disse: ’La decisione delle vostre santità, di bruciare tutti gli scritti, è ottima. Però è meglio conservarli nel nostro archivio a sua condanna e perpetua vergogna’”.
In quel torno di tempo, allo stesso scopo, in campo laico si ricorreva ad argomenti forse più efficaci, ma meno simpatici. Statuivano infatti, nel 712, le Leggi dei Visigoti7:
“Concedere attenzione alle scritture di quelli dei quali non è lecito accettare l’interpretazione, è indizio di empietà piuttosto che di religione. Perciò, se qualcuno leggerà quei libri degli ebrei nei quali si propone una dottrina falsa contro la legge di Cristo, o ne accetterà le dottrine, oppure li nasconderà in casa, venga raso in pubblico e venga flagellato con cento colpi. Quindi venga fatto giurare che non ardirà più ritenere presso di sé siffatti libri e dottrine, né di concedere ad essi attenzione, o di leggerli per studiarli. Che se, dopo aver giurato, osasse qualche violazione, di nuovo rasato riceva altre cento frustate e, privato dei suoi averi, venga punito con l’esilio perpetuo”.
A parte le frustate, le rasature e i roghi, è da credere che molti scritti non sarebbero stati oggetto di dannose controversie e di condanne nella Chiesa se i loro autori, prima di pubblicarli, ne avessero sollecitata la revisione da persone illuminate e prudenti. Esempio illustre di questa prassi di umiltà pastorale fu il grande vescovo di Milano sant’Ambrogio; il quale, inviando, come era solito, alcuni suoi scritti al vescovo di Piacenza, san Sabino, ne sollecitava la revisione in questi termini8:
“Mi hai rimandato gli scritti, che col tuo giudizio mi saranno più cari. Perciò te ne invio degli altri, non per amore di un giudizio favorevole, ma per amore di quella verità che mi hai promesso e che ti ho chiesto; preferisco infatti essere corretto dalla tua critica, se qualcosa lo merita, prima che venga pubblicata senza poi la possibilità di toglierla dalla circolazione, piuttosto che essere approvato da te e poi censurato da altri [...].
“A te l’esaminarlo liberamente, e vedere minuziosamente che cosa ci sia da correggere [...]. Infatti, a parte la nebbia dell’imprudenza che ci attornia, non so come i propri scritti ci ingannano e sfuggono all’esame; e, come i propri figli piacciono anche se sono sgraziati, così i propri scritti, anche non belli, solleticano lo scrittore. Per lo più si scrive con poca prudenza, si accettano [le critiche] di malavoglia, e quel che si pubblica è oscuro [...].
“Fatti perciò, con animo benevolo, critico scaltro; esamina tutto, tormenta le espressioni, per vedere se c’è in esse [...] la schiettezza della fede e la sobrietà della espressione. Nota se qualche termine non è ben misurato e ponderato, tale cioè che l’avversario possa interpretarlo a suo modo [...]. Questo nostro scritto non verrà pubblicato se tu non te ne farai mallevadore; quando, invece, col tuo assenso dirai che può uscire, camminerà con i suoi piedi”.
Come si vede, si tratta di una revisione amichevole, privata; che non pregiudicava quella più autorevole che in quei secoli andavano via via prestando i Papi, così avviandone l’istituzionalizzazione. Nei documenti che ce ne restano se ne rilevano due varianti: quella esercitata, per così dire, d’ufficio da Roma, su richiesta o meno di terzi; e quella sollecitata dagli stessi autori.
Un esempio della prima variante è la lettera di san Gregorio Magno Sicut de eis, del 596, ad Atanasio, prete del monastero di San Mile in Asia Minore9, che viene citata come esempio d’intervento circa i libri da parte di Roma, valido anche per la Chiesa di Oriente (Costantinopoli):
”[...] Per toglierci ogni possibile ragione di dubbio, ci affrettammo a scrivere di te al santissimo già nostro fratello e coepiscopo Giovanni, vescovo di Costantinopoli, affinché con sue lettere ci desse notizie sul caso. E Giovanni, sollecitato da noi più volte, nella risposta c’informò che presso di te era stato trovato un volume contenente molte eresie, e che per questo egli aveva preso provvedimenti contro di te. E dato che, come giustificazione, pensò di farcelo avere, abbiamo dato una scorsa alle prime parti; e, trovativi manifesti veleni di perversità eretica, ne proibimmo la lettura [...]. Siccome tu hai ubbidito prontamente alla ingiunzione di non leggere quel volume [...] promettendo di non riprenderne la lettura [...], persuasi ormai che resterai saldo, con l’aiuto di Dio, nella fede cattolica, secondo la tua professione ti dichiariamo libero da ogni sospetto di eresia”.
Un esempio della seconda variante è la Prefazione con la quale Goffredo da Viterbo inviava il suo Pantheon (o Memoria Saeculorum) a Urbano III10; lo stile baroccamente aulico non nuoce alla sua ortodossa fiducia nel Magistero romano:
“Se guardo alla vetta della sacrosanta Chiesa madre nostra e considero la maestà della sua altezza, vedo subito che è necessario [...] che tutto da essa, come da fonte di giustizia, venga composto con regole di somma sapienza [...). Perciò, se uno compone un lavoro storico con nuovo metodo, ragione vuole che, prima che sia messo in pubblico, esso venga sottoposto all’esame apostolico; sicché, se viene giudicato degno di accettazione, venga approvato per suo mandato e giudizio, e così riceva forza e validità da colui al quale Dio ha commesso le cose terrene e celesti.
“Questa la ragione per cui, reverendissimo padre, ho deciso di sottoporre al vostro esame ed ho curato di presentare alla vostra grazia questo lavoretto – compendio in un volume, oltre che del Vecchio e del Nuovo Testamento, di tutte si può dire le storie –, frutto di lungo e diligente lavoro della mia pochezza: perché ad onore di Dio esso venga emendato o approvato dalla Santa Chiesa Romana; e se, con l’aiuto di Dio, esso sarà approvato, possa poi passare anche ad altre Chiese; e non solo i chierici, ma anche re e principi ricevano quest’opera dall’autorità di Vostra Santità”.
Col secolo XIV le cose cominciano a cambiare. Nelle grandi università, aumentata a dismisura la domanda di testi da parte degli studenti, moltiplicatosi di conseguenza il numero di copie che gli indaffarati scrivani dovevano ricavare dagli originali, si pensò di controllare l’ortodossia di questi per assicurare alla fonte quella delle copie. Ed ecco, nel 1366, i commissari di Urbano V decretare, per l’Università di Parigi, “che nessun professore o baccelliere addetto all’insegnamento, direttamente o indirettamente comunichi il suo testo a copiare ai librai-copisti prima che detto testo sia esaminato dal cancelliere e dai professori di detta facoltà [di teologia]”11; ed il Concilio di Oxford-Londra (1408-1409) (Doc. n. 85) ordinare che
“nessun opuscolo o passo, che Giovanni Wyclif abbia scritto in passato o di recente, o che egli possa scrivere in futuro, d’ora in poi non venga letto nelle scuole [...] se prima non sia stato esaminato [...]; da noi, e poi dai nostri successori, espressamente approvato; ed a nome ed autorità dell’università non sia stato dato a copiare ai librai; i quali, dopo un esatto confronto, lo cederanno agli acquirenti a giusto prezzo, restando l’originale custodito per sempre in un apposito archivio della stessa Università”.
Era nella natura delle cose che, nel sec. XV, con l’invenzione della stampa, l’esame previo degli scritti evolvesse, da prassi occasionale e locale12, ad istituzione stabile ed universale per tutta la Chiesa.
Dopo Gutenberg
Giovanni Gensfleisch, detto Gutenberg, moriva nel 1468. Il primo documento ecclesiastico, che si conosca, in cui si faccia riferimento alla sua invenzione – contrariamente a quanto riteneva il Pastor assegnando la priorità all’Inter multiplices di Alessandro VI, di cui subito diremo – è il breve di Sisto IV Accepimus litteras, del 1479 (Doc. 89). Con esso il Papa, senza esplicitamente menzionare la censura previa, lodava lo zelo col quale il rettore ed i decani dell’Università di Colonia “avevano proibito la lettura, la stampa e la vendita dei libri infetti di eresia”, e, “affinché potessero condurre a buon fine quanto avevano iniziato di bene”, concedeva loro “licenza e facoltà di reprimere con censure ecclesiastiche, e con altri adeguati rimedi, gli stampatori [...] di siffatti libri”.
Non risulta quale uso abbia fatto quella Università di questa “licenza e facoltà”. Risulta, invece, l’uso fattone pochi anni dopo dall’arcivescovo di Magonza Bertoldo di Henneberg: istituendo – con tre Editti del 1486 (Docc. 90-91) – la prima commissione (diocesana) per l’Imprimatur. Con essi infatti conferiva l’incarico di revisori-censori agli “a noi diletti, dottori e maestri dell’Università degli Studi di questa nostra Magonza: Giovanni Bertram di Neunberg per la teologia, Alessandro Dietrich per il diritto, Teodorico di Mescede per la medicina, e Andrea Eler per le arti: tutti maestri e dottori di università approvati nella nostra città di Erfurt, ed a ciò designati”; comandando loro che
“nessuno nella nostra diocesi o nel nostro principato [...] stampi libri [...] se prima [...] non abbiano ottenuto il vostro visto[...]. A voi, dunque, nella cui prudenza e circospezione poniamo piena fiducia, con le presenti diamo l’incarico di esaminare il contenuto dei libri [...] da stampare [...] che vi saranno rimessi; e se vedrete che [...] causano errori e scandali, o che sono contro la morale, li rifiutate; a quelli, invece, che lascerete passare, almeno due di voi apponiate la vostra firma, sicché consti quali libri voi avete visionati ed approvati. Così compirete un servizio grato a Dio e giovevole al pubblico.
“Se qualcuno violerà questa nostra ordinanza [...] sappia che incorrerà ipso facto nella scomunica, inoltre nella confisca dei libri pubblicati e nella multa di cento fiorini d’oro da devolvere alla nostra Camera: dalla quale scomunica nessuno potrà assolverlo che non sia specificamente a ciò autorizzato”.
I tre Editti di Bertoldo di Henneberg codificavano in quattro punti la disciplina ecclesiastica circa gli scritti a stampa che l’anno appresso – 17 novembre 1587 – l’Inter multiplices di Innocenzo VIII (Doc. 92) avrebbe esteso a tutta la Chiesa: obbligatorio esame previo di tutti gli scritti destinati alla stampa; concessione della richiesta licenza di stampa (Imprimatur) solo agli scritti non contrari alla sana dottrina ed ai buoni costumi; sanzioni spirituali e pecuniarie a quanti stampassero contravvenendo a queste disposizioni; distruzione, normalmente col fuoco, degli scritti contrari alla fede ed ai buoni costumi. Confermata dall’omonima costituzione di Alessandro VI (1501: Doc. 94)13, e dall’Inter sollicitudines di Leone X (1515: Doc. 95)14; integrata poi, col Concilio di Trento, dall’istituzione dell’Indice dei libri proibiti (Docc. 113 e 115), questa disciplina – passando nelle costituzioni Sollicita ac provida di Benedetto XIV (1753: Doc. 154) ed Officiorum ac munerum di Leone XIII (1897: Doc. 275) e nel Codice di diritto canonico (1917: Doc. 323) – doveva perdurare, sostanzialmente immutata, sino al Vaticano II.
Limitandoci all’istituto dell’Imprimatur, nelle pagine che seguono vorremmo rilevare le costanti prettamente pastorali che l’hanno ispirato e, da cinque secoli a tutt’oggi, l’hanno mantenuto fermo nella Chiesa; ma che, insieme, ne hanno temperato l’applicazione: lentamente in passato, e radicalmente nelle Norme recenti15.
ll “Leitmotiv”: fede e costumi
È noto come nell’istituzione dell’Imprimatur in Germania16 influisse non poco il pregiudizio dell’arcivescovo Bertoldo sull’impossibilità
“della lingua tedesca di rendere quello che sommi scrittori, così greci come latini, avevano saputo scrivere in maniera sì eccellente sulle più alte verità cristiane e sulle scienze. Chi farà sì – egli chiedeva – che i rozzi gli ignoranti e le femminucce (rudibus atque indoctis hominibus, et femineo sexui), nelle cui mani finiranno i libri [tradotti in tedesco] della Sacra Scrittura, ne tirino fuori i veri sensi?” (n. 143).
Ma già nelle prime Costituzioni romane non c’è traccia di questi scrupoli. Più che delle versioni, esse si preoccupano dell’efficacia ambivalente della stampa come tale, dato che, “se il bene, tanto è più utile divino e grande quanto più è universale, così il male, tanto più è da credere peggiore ed abominando quanto più sia diffuso e copioso” (n. 152). Inoltre, esse tengono presenti non solo i rozzi e gli ignoranti, ma i lettori e i fedeli in genere, compresi i colti e gli eruditi. Valore sommo ed unico da tutelare vi è detta la salute delle anime; pericolo da ovviare in tutti i modi vi è che “ciò che salutarmente è stato inventato a gloria di Dio e ad incremento della fede, non degeneri e diventi nocivo alla salute dei fedeli” (Doc. 95).
E non diversamente nel Magistero posteriore, a proposito dell’Imprimatur. “Conservare e difendere nella stampa le verità di fede e l’integrità dei costumi” sarà il Leitmotiv delle Costituzioni di Pio IV, di Benedetto XIV e di Leone XIII, come lo è delle recenti Norme:
“2 - Per conservare e difendere l’integrità delle verità di fede e dei costumi, ai Pastori della Chiesa compete il dovere e il diritto di vigilare affinché la fede e i costumi dei fedeli non siano danneggiati dagli scritti; e perciò anche di esigere che la pubblicazione di scritti che riguardano la fede e i costumi siano sottoposti alla sua previa approvazione; ad essi compete anche disapprovare i libri e gli scritti che attaccano la retta fede o i buoni costumi”.
Quali scritti?
Fin dall’inizio, e per circa tre secoli e mezzo, tutti senza eccezione gli scritti furono assoggettati alla legge dell’Imprimatur. Un mitigamento – e soltanto per lo Stato Pontificio – si ebbe il 2 giugno 1848, quando Pio IX17 disponeva che
“in avvenire, sino a nuove disposizioni di questa Sede Apostolica, i censori ecclesiastici di questo Stato Pontificio dovranno prendere in considerazione soltanto gli scritti che riguardino le Sacre Scritture, la sacra teologia, la storia ecclesiastica, il diritto canonico, la teologia naturale, l’etica, e le altre discipline religiose e morali; ed, in genere, gli argomenti che tocchino direttamente la religione o la morale”.
A queste classi il Can. 1385, § 1 del C.I.C. aggiungeva: “I libri della Sacra Scrittura, ed anche le annotazioni e commenti ad essi [...]; i libri ed opuscoli di preghiera, di devozione o di dottrina e insegnamento religioso, morale, ascetico, mistico ed altri simili [...]; le immagini sacre”. Le nuove Norme, invece, riducono (artt. 2-4) alle tre seguenti le classi dei libri per i quali è obbligatoria (o raccomandata) l’approvazione dell’autorità ecclesiastica competente:
Libri di Sacra Scrittura: sia nelle lingue originali, o nelle traduzioni antiche (come la Volgata latina), sia nelle versioni in lingue moderne (per le quali si richiedono convenienti note esplicative). Questa approvazione, ovviamente, non vuole assoggettare la Parola di Dio all’Imprimatur, ma solo rilevare il compito del Magistero nel presentare e garantire il testo della Sacra Scrittura nella sua integrità e in armonia con la Sacra Tradizione, “dato che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non potere indipendentemente sussistere” (Dei verbum, n. 10)18.
Libri liturgici, e le loro versioni in lingue moderne: affinché, “anche se non errori veri e propri, non contengano elementi poco in armonia con l’autentica pietà cristiana e non diffondano forme di culto o di devozione” [...] “che inducano i fedeli in errore rispetto ai dogmi di fede, ed offrano ansa ai nemici della religione di calunniare la purezza della dottrina cattolica e la pietà più autentica”. Così già tre Decreti del S. Offizio del 1872, 1937 e 194219.
Libri di materie religiose e morali, in particolare di Sacra Scrittura, teologia, diritto canonico e storia ecclesiastica. L’art. 4 li distingue in due classi: da una parte i catechismi ed i testi per l’uso delle scuole, dalle elementari alle università; dall’altra i libri che non vengano usati come testi d’insegnamento, e gli scritti in genere che contengano qualcosa che riguardi in modo speciale la religione o l’onestà dei costumi; e, mentre per i primi “esige” l’approvazione della competente autorità ecclesiastica, per i secondi la “raccomanda”: la consiglia, quindi, non la impone.
Quali autori?
Le norme precedenti riguardavano la materia degli scritti; il seguente art. 5 riguarda piuttosto i loro autori: chierici, religiosi, laici. Le disposizioni già vigenti in proposito erano quelle del (sopra ricordato) can. 1385 del Codice di diritto canonico e del seguente can. 138620:
”§ I. È vietato ai chierici secolari senza il consenso dei loro ordinari, e ai religiosi senza il permesso del loro superiore maggiore e dell’ordinario del luogo, di pubblicare anche libri che trattino di cose profane, di scrivere in giornali, fogli o fascicoli periodici, oppure di dirigerli.
”§ 2. In giornali poi o in periodici che sogliono combattere la religione cattolica o la morale, non scrivano alcunché neanche i laici cattolici, a meno che vi sia una causa giusta e ragionevole, approvata dall’ordinario del luogo”.
Le differenze sono notevoli. Le nuove Norme tacciono, infatti, degli scritti che non trattano di questioni religiose o morali; e, per quelli che ne trattano, ne “raccomandano vivamente” la previa approvazione ecclesiastica quando gli autori siano chierici o membri di istituti di perfezione – a meno che le Costituzioni non ve li obblighino -; mentre per gli autori laici detta approvazione vi resta semplicemente “raccomandata”21. Inoltre, circa i giornali e i periodici, la Norma al “sogliono combattere” del Canone aggiunge un “manifestamente”; e dai laici, per scrivervi, non richiede alcun permesso, ma solo “una giusta e plausibile ragione”, rimessa al loro giudizio; mentre per i chierici e i religiosi, fermo restando il necessario permesso ecclesiastico per scrivere in quei giornali e periodici “che manifestamente sogliono attaccare la religione cattolica o la morale”, la Norma non lo prescrive per scrivere negli altri.
Mitigamenti e innovazioni
La costituzione Apostolicae Sedis moderationi, di Pio IX (12 ottobre 1869)22, che procedeva ad una completa revisione delle censure ecclesiastiche da incorrersi latae sententiae e ipso facto, - “le quali, opportunamente irrogate nelle diverse epoche per tutelare la salute e la disciplina della Chiesa [...], s’erano gradatamente moltiplicate in gran numero” –, iniziava con questa considerazione:
“Conviene che nel suo governo la Sede Apostolica mantenga, sì, quanto è stato istituito dall’autorità di antiche leggi, ma in maniera che, se l’evolversi dei tempi e delle cose consigli di mitigare qualche cosa con prudenti provvedimenti, la stessa Sede Apostolica provveda con rimedi e cautele convenienti alla sua suprema potestà”.
Lo stesso principio ha ispirato i mitigamenti introdotti nella nuova legislazione sulla revisione ecclesiastica. Oltre all’abolizione del termine “censura” – ostico alla mentalità moderna, anche se la sua accezione, specie in latino, non sia necessariamente di biasimo e di repressione23 –, sono da notare tra essi la riduzione delle classi di libri per le quali la revisione è prescritta e, per alcune di esse, la riduzione dell’approvazione ecclesiastica da obbligatoria in facoltativa. Ed è da rilevare soprattutto l’implicita conferma dell’abrogazione del can. 2318, § 2 del C.I.C., già notificata dalla stessa S. Congregazione della Dottrina della Fede il 14 giugno 1966 (Doc. 705), secondo cui “gli autori e gli editori che senza la debita licenza facevano stampare i libri della Sacra Scrittura, oppure annotazioni e commenti ai medesimi, incorrevano ipso facto nella scomunica nemini reservata”24.
Una innovazione, invece, che non rientra tra i mitigamenti è quella che vieta che “nelle chiese e negli oratori siano esposti, venduti o distribuiti libri o altri scritti che trattino questioni religiose o morali, i quali non siano pubblicati con l’approvazione della competente autorità ecclesiastica” (art. 5). Le ragioni ne sono ovvie: la diffusione di libri e scritti in questi luoghi deve costituire una garanzia per i fedeli. A questo fine sembra anche ovvio che l’approvazione ottenuta debba risultare sugli stessi libri o scritti.
I competenti
Le nuove Norme introducono alcune innovazioni di rilievo circa i competenti a concedere il Nihil obstat e l’Imprimatur. Le principali sono due.
La prima riguarda l’Imprimatur. Mentre nel Codice di diritto canonico, competenti erano “o l’ordinario del luogo proprio dell’autore, o l’ordinario del luogo nel quale i libri e le immagini vengono editi, o l’ordinario del luogo nel quale sono stampati” (can. 1385, 2), nelle nuove Norme, esclusa la competenza di quest’ultimo, viene confermata – se non viene stabilito diversamente – quella dei primi due; ferma anche restando la disposizione che “se uno dei due negasse l’approvazione, all’autore non è lecito chiederla all’altro senza averlo informato del precedente diniego” (art 1).
La seconda riguarda i censori. Essa viene incontro alle diocesi che non ne dispongano di propri, utilizzando le maggiori possibilità di servizio comune che le Conferenze Episcopali hanno acquisito in questo post-Concilio. Recita l’art. 6:
“Salvo rimanendo il diritto di ogni ordinario di affidare, secondo la propria prudenza, il giudizio sui libri a persone di sua fiducia nelle singole regioni ecclesiastiche, la Conferenza Episcopale può redigere un elenco di censori, eminenti per scienza, retta dottrina e prudenza, che siano a disposizione delle Curie episcopali, o costituire una Commissione di censori che gli ordinari dei luoghi possano consultare”.
La sollecitudine pastorale della Chiesa
Con quali criteri i revisori esamineranno gli scritti loro commessi? E come impedire che revisioni partigiane non ostacolino il sano pluralismo nella Chiesa, e soprattutto quella necessaria libertà nella ricerca teologica, ammessa, ed anche più volte stimolata, dal Concilio e dal Magistero ordinario più recente25? – Vi provvede la regola aurea fissata nell’art. 6 delle Norme: “I revisori, nel compiere il proprio incarico, lasciata da parte ogni parzialità, abbiano soltanto presente la dottrina della Chiesa riguardo la fede e i costumi, così com’è proposta dal Magistero della Chiesa”26; soprattutto se i revisori, “eminenti per scienza, retta dottrina e prudenza”, come li vuole la stessa Norma, seguiranno le sapienti Regole dettate dal Papa Lambertini, che sino a quelle di Leone XIII guidarono i revisori dell’Indice.
Realisticamente persuaso che “non è possibile togliere dal mondo ogni disputa – specialmente da quando, come diceva l’Ecclesiaste (12, 12): ’I libri si moltiplicano senza fine’ –, ed anche che ne possono derivare grandi utilità”, l’illuminato Pontefice notava tra l’altro:
“I – Si ricordino i revisori che, quando vengono loro dati libri in esame, non è loro compito e dovere far di tutto ed insistere perché essi vengano condannati; ma devono con diligente attenzione ed animo tranquillo esaminarli, e provvedere alla Congregazione le loro fedeli osservazioni ed oggettivi rilievi, affinché questa possa rettamente giudicare, e decidere secondo il merito se proscriverli ed emendarli, oppure anche ammetterli.
“II – [...] Può succedere che, per errore, venga affidato a qualcuno l’esame di un libro la cui materia non sia di sua competenza, e che il revisore o il consultore se ne avveda. Costui sappia che, né Dio né uomo alcuno gli addebiterà a colpa se egli quanto prima dichiarerà alla Congregazione [...] di non essere l’uomo indicato per l’argomento, e se chiederà che quel compito sia passato ad altri più idoneo; anzi [...].
“III – Sappia inoltre di essere chiamato a giudicare delle varie opinioni e sentenze contenute nei libri con animo scevro da ogni pregiudizio. Perciò si liberi da ogni propensione verso nazioni, famiglie, scuole o istituti; sgombri da sé ogni partigianeria, abbia occhi soltanto per la dottrina che è comune ai cattolici: contenuta nei decreti dei concili ecumenici, nelle costituzioni dei pontefici romani e nel consenso dei Padri ortodossi e nei dottori. Per il resto è pacifico che non poche opinioni sembrano più che certe ad una scuola, istituto o nazione, e tuttavia, senza alcun danno per la fede o per la religione, vengono rifiutate ed impugnate da altri cattolici che difendono le opposte, a saputa e col benestare della Sede Apostolica, che lascia ciascuna di quelle opinioni nel suo proprio grado di probabilità.
“IV – Altro punto di grande importanza: non si può dare un giudizio obiettivo del vero pensiero dell’autore se il libro non viene letto tutto in ogni sua parte; se non si confrontano tra di loro le cose disposte ed esposte in luoghi diversi; se non si considera attentamente nel suo insieme il pensiero e l’intenzione dell’autore. Perciò il giudizio su di lui va dato, non da una o dall’altra proposizione, avulsa ed indipendentemente dalle altre contenute nello stesso libro [...].
“V – Se poi a qualche autore, del resto noto come cattolico ed ottimo per religione e cultura, sfuggisse qualche espressione ambigua, equità vuole che, spiegato per quanto possibile, quanto da lui scritto venga preso nel senso accettabile”.
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Il potere civile compie un doveroso servizio quando tutela la salute fisica dei cittadini, segnalando e proibendo le medicine pericolose, i cibi adulterati e le acque inquinate; e si comporterebbero irrazionalmente i cittadini che, invece di essergliene grati, lo denunciassero quale oppressore delle proprie libertà di scelta. Uguale, anzi superiore servizio rendono ai fedeli i Pastori della Chiesa quando ne tutelano la salute spirituale e morale vigilando sulle pubblicazioni che potrebbero nuocere alla loro fede e alla loro vita morale27. Le nuove Norme non fanno che adattare all’evolversi culturale e psicologico dei tempi questa costante preoccupazione pastorale della Chiesa. Non possiamo non essergliene grati.
1 Per il testo, cfr L’Osservatore Romano, 10 aprile 1975; Civ. Catt. 1975 II 263-267.
2 Commenta R. ACKERMANN in La Croix del 10 aprile 1975: "Le décret déclare che le ’censeur’ ne doit se fonder, pour porter son jugement, que sur la doctrine de l’Eglise en matière de foi et de morale, telle qu’elle est proposée par le Magistère ecclésiastique. On devine que, interpretée trop strictement par les ’censeurs’, certe dernière clause risque de mener, tout comme par le passé, à; des controverses pénibles entre théologiens et évêques. Le progrès de la théologie et de la morale ne peut se faire que dans la cohérence avec la doctrine authentique de l’Eglise mais il ne se confond pas avec une répétition des convictions théologiques classiques. On ne peut sortir de cette impasse qu’en élaborant une véritable doctrine théologique du ’Magistère’, ce que les oecuménistes réclament d’ailleurs depuis longtemps. [...] Il est dommage que le décret mette davantage l’accent sur la censure comme moyen de conserve, la sùreté dà l’autre sa compétence, nécessairement limitée face à l’ampleur des problèmes théologiques et moraux d’aujourd’hui”.
3 Congregazione della Dottrina della Fede, Dichiarazione a riguardo dell’“Indice dei libri proibiti” (14 giugno 1966). – Il 15 novembre dello stesso anno, una risposta della stessa Congregazione dichiarava decaduto come legge ecclesiastica il can. 1399 (elenco di dodici classi di libri e stampe ipso iure prohibiti) ed abrogato il can. 2318 (scomunica ipso facto riservata in special modo alla Sede Apostolica contro i lettori ed editori di certe classi di libri).
4 Tra gli interventi, per un verso o per un altro più caratteristici, per il V citiamo le Constitutiones Apostolicae, attribuite al papa san Clemente; le condanne dei libri di Origene, prima da parte del vescovo di Alessandria Teofilo, poi da parte del papa Atanasio; di quelli di Pelagio, da parte del Concilio di Milevi e di Innocenzo I (Lettera «Fraternitatis vestrae»); di quelli nestoriani, da parte di san Cirillo d’Alessandria, dei Concili di Efeso e di Calcedonia (Condanna dei libri eretici del Sinodo di Calcedonia) e del papa Celestino (Lettera «Aliquantis diebus»); di scritti manichei e priscillianisti, da parte di san Leone Magno (Lettera «Quam laudabiliter»); e finalmente il Decretum Gelasianum, considerato il primo modello di "Indice” della Chiesa di Roma Seguono, tra gli altri, nei secoli successivi, gli interventi dei concili, locali o ecumenici:
- Sinodo Lateranense, Condanna gli scritti dell’eresia monotelita (649);
- Consilio di Nicea II, Canoni riguardanti la vita ecclesiale (787);
- Sinodo di Aquisgrana, Capitolare carolingia (789);
- Sinodo romano, Condanna degli scritti di Fozio contro papa Nicolò I (868);
- Sinodo di Tolosa, Canone XIV: «Ne laici habeant libros scripturae» (1229);
- Sinodo di Tarragona, Costituzione II: «... ne aliquis libros veteris vel novi testamenti in Romanico habeat» (1234);
- Sinodo di Béziers, Disposizioni contro gli eretici (1246)
e – quando ormai siamo alla vigilia dell’invenzione della stampa – Concilio di Costanza, Condanna di John Wyclif (1415).
5 Salvo sviste, l’unico cenno in proposito si trova nella raccolta degli argomenti da trattare nel Concilio di Lione (1274), curata da Umberto de Romanis per ordine di Gregorio X, nella quale è detto: “Nello studio delle lettere: bisogna provvedere, perché vi si leggono testi disonesti, che muovono a lascivia i giovani” (cfr Preparazione del Concilio di Lione II).
6 MANSI, Conciliorum nova et amplissima collectio, XII (Firenze, 1766), col. 378.
7 ZACCARIA, Storia polemica della proibizione dei libri, Roma, 1777, p. 61; che lo prende da PH. LABBE, Sacrosancta Concilia ad regiam editionem exacta, L. XII.
8 Lettera Remisisti mihi libellos (c. 390), in MIGNE, PL, 16, 1151.
9 MIGNE, PL, 77, 850. Altri esempi di questa variante: la lettera Fraternitatis vestrae, sugli scritti di Pelagio, che Innocenzo I inviava, nel 417, ai vescovi d’Africa Aurelio, Alipio, Agostino, Evodio e Possidio (ivi, 20, 596), e la lettera Sicut rationi congruit, con la quale sant’Ormisda, nel 520, rispondeva al vescovo africano Possessore, che l’aveva interpellato su un libro del vescovo Fausto di Riez (ivi, 63, 489).
10 Ivi 198, 877.
11 J. HILGERS, Der Index der verbotenen Bücher, Freiburg im Br., 1904, 404. – Quasi le stesse parole negli Statuti della facoltà teologica di Colonia, del 1398: "Item, quod lecturas suas sententiarum non communicabunt publice transcribendas, antequam per facultatem examinate fuerint et approbate”.
12 Pare che nella Chiesa nestoriana le cose siano andate molto più avanti e più presto. Scriveva, infatti, nell’820 il patriarca Timoteo I nella Costituzione sinodale: “Risale ad un’antica consuetudine, tuttora in vigore nella Chiesa, che nessuno [...] scriva libri senza il permesso ed il mandato di chi detiene il potere ed il governo di tutta la Chiesa. Ed a questa norma si sono attenuti quanti hanno composto commenti o trattati. Infatti, prima di divulgare i libri che componevano, e le esposizioni ed interpretazioni che elaboravano, li inviavano o li portavano essi stessi al Patriarca; il quale, se si riteneva capace in questo compito, esaminava i libri secondo la sua conoscenza e cultura, e, ad esame compiuto, se giudicava che gli scritti lo meritavano, li approvava e ne dava il benestare; se, invece, il Patriarca giudicava che non meritavano l’approvazione, li respingeva e condannava come contrari alle leggi ecclesiastiche [...]. Se poi il Patriarca, per difetto di competenza, non era in grado di darne un giudizio, demandava il compito a vescovi preparati e a dottori pratici della materia; quindi, su loro parere, decideva se i libri erano da accettare o da rifiutare. Ripeto: questa norma seguirono gli antichi, e questa vale anche ai nostri giorni”.
13 Questa Costituzione, che riprende quasi alla lettera quella di Innocenzo VIII, finì con l’essere ricordata dagli storici come il primo intervento legislativo della Chiesa in materia di stampa; ed a Anche perché, mentre la Costituzione di Innocenzo VIII aveva legiferato per tutta la Chiesa, quella di Alessandro VI si rivolgeva alle province di Colonia, Magonza, Treviri e Magdeburgo, dove l’arte della stampa era più fiorente.
14 Data l’autorità del Concilio Ecumenico Lateranense V, che l’approvò, il Magistero Romano posteriore preferirà riferirsi a questa Costituzione piuttosto che alle due che l’avevano preceduta.
15 Teniamo presente l’ottima spiegazione "A salvaguardia della fede e della libertà della ricerca” datane da “un esperto autorevole” in Oss. Rom. 10 aprile 1975.
16 Cfr E. BARAGLI, Nasce la censura ecclesiastica sulla stampa, in Civ. Catt. 1974 III 242 ss.
17 Epistola "In Sessione X”, in PII IX m. Acta, 1 (1854), 99 ss. – Lo stesso Pontefice dava le seguenti ragioni del provvedimento: “Ai nostri giorni l’avidità di scrivere e di leggere, ed il numero dei libri – e soprattutto dei periodici – va tanto aumentando da rendere quasi impossibile ai censori ecclesiastici esaminarli tutti con la diligenza che si richiede; inoltre, ha facilitato la via agli inganni di coloro che si sforzano di disseminare dottrine perverse e dannose alla Chiesa ed allo Stato con fogli, e soprattutto con opuscoli pubblicati alla macchia; sicché la loro impudenza arreca ai fedeli maggiore danno e scandalo, in quanto detti scritti vengono ritenuti come esaminati ed approvati secondo il prescritto dalle leggi vigenti”.
18 A proposito dell’Art. 2, n. 2 – “Le versioni della Sacra Scrittura, corredate delle convenienti spiegazioni, possono essere preparate dai fedeli cristiani cattolici e pubblicate anche in collaborazione con i fratelli separati, col consenso dell’ordinario del luogo” -, l’“Esperto autorevole” commenta: "È superfluo rilevarne l’importanza [...] se si considerano i tempi, ormai lontani, nei quali è stato promulgato il Codice di diritto canonico, si tratta di una grossa novità, che però non lo è più oggi, dopo diversi anni di attività del Segretariato per l’Unione dei cristiani”.
19 Cfr AAS, 29 (1937), 304; 34 (1942), 149. L’art. 3 aggiunge: “Anche i libri che propongono preci per l’orazione privata non siano pubblicati se non col permesso dell’Ordinario del luogo”.
20 Tra le altre fonti, cfr Leone XIII, Costituzione apostolica «Officiorum ac munerum» (25 gennaio 1897), nn. 22 e 42; e Pio X, Lettera enciclica «Pascendi dominici gregis» (8 settembre 1907), nn. 52-53.
21 Commenta ancora l’“Esperto autorevole”: “Si ritiene opportuno richiamare l’attenzione sulle implicanze di queste nuove disposizioni. Il lettore cattolico, che non sia molto preparato, dovrà avere la prudenza di consigliarsi con persone competenti e sicure, per non correre il pericolo di trovarsi tra le mani uno scritto in disaccordo con la dottrina cattolica o che offenda la morale. A meno che l’autore sia notoriamente conosciuto per la sua sana dottrina, oltre che per la sua specifica competenza. Lo scrittore cattolico, specialmente se ecclesiastico, se desidera rassicurare i suoi lettori, ci terrà a sottoporre il suo scritto all’approvazione della Chiesa, anche nel caso in cui non sia obbligatoria. Senza questa approvazione, l’opera è necessariamente sprovvista dell’autorevole garanzia della gerarchia’ (Oss. Rom., cit.).
22 Pii IX m. Acta, 5 (1871), 55.
23 Il latino "censura” - usato nel Titolo XXIII del Codice di diritto canonico: "De praevia censura librorum eorumque proibitione” –, da "censor” (conservato in queste Norme nell’accezione di “revisore”), per sé vale “giudizio, esame”; onde in Plinio il facere censuram dei vini (9.79.2) e, nello stesso Plinio (14.8.10) e in Orazio (2 Ep 2, 109), degli scritti di qualcuno.
24 Questa censura risaliva alla citata costituzione di Pio IX Apostolicae Sedis moderationi; la quale, tuttavia, rivolta com’era a tutta la Chiesa, già non prendeva più in considerazione l’anacronistica pena pecuniaria – risaliva al Concilio Lateranense V e a Bertoldo di Henneberg! – per i contravventori; comminata, invece, nello Stato Pontificio ancora nel 1848: “Confermiamo la pena pecuniaria [...], mitigandone tuttavia l’ammontare, sicché, anche nei casi più gravi, non superi la somma di cento scudi della moneta romana oggi in corso: somma che ordiniamo che sia devoluta ad usi pii, secondo la prudente designazione dei rispettivi ordinari”.
25 Per il Concilio, cfr Ad gentes, 22; Gaudium et spes, nn. 44, 54, 62. Per il Magistero ordinario, cfr, tra gli altri, l’Istruzione pastorale «Communio et progressio» e la Lettera al sig. Jean Gélamur, presidente UCIP inviata dalla Segreteria di Stato il 25 giugno 1971; ed anche PAOLO VI, Discorsi alla Commissione Teologica Internazionale, del 6 ott. 1969 e dell’11 ott. 1973 (AAS, 61 [1969], 713 ss.; 665 [1973], 555 ss.); Esortazione apostolica dell’8 dic. 1974 (Oss. Rom, 16-17 dic. 1974), ed anche le Proposizioni della Commissione Teologica Internazionale, dell’11 ott. 1972 (Civ. Catt. 1973 II 367 ss.).
26 La norma ricalca quella che la stessa Congregazione per la Dottrina della Fede ha stabilito per la propria prassi nelle Nuove norme per l’esame delle dottrine (n. 3) del 15 gennaio 1971: “Gli incaricati dei voti esaminano il testo autentico dell’autore per vedere se è in conformità con la Rivelazione e il Magistero della Chiesa, ed esprimono un giudizio sulla dottrina ivi contenuta, suggerendo eventuali provvedimenti”.
27 Recentemente, costretto ad intervenire pubblicamente contro il libro Les Fils déposédés, di Bernard Feillet, l’arcivescovo di Parigi card. Marty, notava; Si vous aviez soumis au préalable, comme je l’ai expressément demandé a tous, votre texte à l’Imprimatur, nous n’en serions pas là. L’Imprimatur est avant tout un service fraternel et un conseil pour les auteurs. Son utilité est manifeste pour le bien de la communauté tout entière (La Documentation Catholique, 15 febb. 1975, n. 1670, p. 194).