NOTE
×

1 Cfr Civ. Catt. 1965, IV, 378.

2 N. TADDEI, Giudizio critico del film, Milano, «i 7», 1966, in-16º, L. 900.

3 Per esempio: a p. 225 ci sembra inesatto far dipendere «tutti gli Uffici Nazionali dalle Conferenze Episcopali»; ed inesatto affermare che il decreto Inter mirifica, al n. 9, per «competente autorità» intenda solo l’autorità ecclesiastica, come l’autore sembra affermare a p. 263. Opinando poi liberamente quanto l’autore, riteniamo che Fellini, oggettivamente, non abbia mai presentato «la Grazia soprannaturale e teologica come l’unica soluzione di autenticità nella vita contemporanea» (p. 256); e che, anche per non offrire ulteriori appigli a fastidiose polemiche di psicologi e sociologi, sarebbe bene smorzare un po’ là dove apoditticamente si afferma che «il film ipnotizza...: e ciò deriva proprio dalla tipica natura del linguaggio cinematografico» (p. 233). Infine, non ci sembra del tutto «evidente» che la rappresentazione di «un intimo atto coniugale» «sarebbe lecita, anzi buona, in un film di documentazione scientifica, riservato a soli specialisti medici che lo stanno studiando per particolari ragioni cliniche» (p. 241), anche le ragioni cliniche potendo trovare limiti morali non sormontabili quando si tratti di azioni di persone umane, e non di animali irragionevoli.

4 Perciò riteniamo senz’altro di essere quel «qualcuno che lo nega, riducendo tutto alla moralità dell’autore [diremmo meglio: dei promotori della comunicazione filmica] e dello spettatore» (p. 231).

5 Anche per la parola, il poeta lamentava: «Voce dal sen sfuggita – Più ritrattar non vale; – Non si trattien lo strale – Quando dall’arco uscì».

MENU

Articolo estratto dal volume II del 1967 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Dopo Lettura strutturale del film1, il padre Nazareno Taddei S.I. ci regala l’ottimo Giudizio critico del film2. Anche questo volumetto costituisce una presenza, nel suo genere, del tutto nuova nel settore della cultura cinematografica, impostando l’attività critica cinematografica non nell’approssimazione di un gusto dilettantistico o del mestiere corrente, o in affastellati dati filologici e di vacua erudizione, oppure di caduche obbedienze ideologiche e discutibili teorie sul cinema, in cui nomi di autori più o meno celebri tengano il posto di argomenti; ma sull’analisi oggettiva della comunicazione cinematografica (egli preferisce dire «del film come opera di linguaggio»), vale a dire: nel vivo del fenomeno tipico comunicativo di cui il film è espressione e termine.

Manuale teorico-pratico, dunque, per chi voglia esprimere giudizi fondati sui film, che si sviluppa in sei parti. Definita, nella prima, che cosa sia la critica cinematografica e rilevato quanto vi sia complesso un giudizio di valore, nelle cinque successive guida il lettore all’analisi e valutazione: strutturale, cinematografica (fotografia, sonoro, recitazione, scenografia e costumi, struttura), artistica, tematica e morale del film.

Sarebbe troppo lungo enumerare tutti i punti nei quali pensiero e metodo dell’autore ci trovano pienamente consenzienti. E lo faremmo molto volentieri, non fosse altro che per manifestare il piacere che proviamo nel vedere da lui sostenuti certi punti di vista che anche noi ci sforziamo di sostenere e di divulgare, contro tanta letteratura, trattatistica e di divulgazione, nozionale e polemica, che li ignora o li nega.

Tuttavia, – a parte anche alcuni punti secondari3 –, la sesta ed ultima parte: Analisi e valutazione morale, ci lascia meno sodisfatti; non tanto perché ci sembra meno elaborata e maturata delle altre, quanto per due difetti, ci pare, d’impostazione. L’autore ha preferito, ed era suo diritto, prescindere, oltre che da altri aspetti, anche da quello psicologico-sociologico. Ora, se si può dire che ciò non implica inconvenienti di rilievo dal punto di vista artistico, dove il momento espressivo prevale di gran lunga su quello comunicativo, non si può dire altrettanto dal punto di vista morale, dove, prevalendo il momento comunicativo, attenzioni ed interessi non possono non tener massimo conto dei recettori, ai quali la comunicazione in atto, o di fatto, termina, o si deve ritenere, almeno confusamente, destinata.

Onde la necessità di includere nel giudizio morale di un film anche le condizioni e le risonanze psicologiche-sociologiche in essi rilevate o prevedibili. Anche il decreto Inter mirifica, proprio su piano morale, ha preferito, parlare, sì, di «contenuto, che secondo la natura propria di ciascuno strumento, viene comunicato» – quindi, nel nostro caso, del film, quale forma tipica e concreta di comunicazione –, ma non disgiuntamente da «tutti gli altri elementi e circostanze: di persone, di luogo, di tempo, ecc., in cui la stessa comunicazione avviene, e che possono alterarne, o addirittura mutarne, il valore morale» (n. 4).

Pur ammettendo che, in un certo senso, si possa parlare di «moralità interna» e «moralità esterna» del film quale opera a sé stante, e che si possa distinguere moralità da visibilità, crediamo che in pratica – ed il volumetto ha questo scopo – queste distinzioni giovino poco a chiarire norme e prassi di giudizio; anzi, che finiscano col far confusione, quando sembrasse che si dimentichi che rari sono i film che raggiungono il livello dell’arte, e rarissimi quelli che realizzano l’opera d’arte compiuta, giudicabile moralmente in base al livello di umanità e di autenticità che essa esprima; mentre, invece, il film, a differenza di altre forme d’espressione, in concreto e di norma nasce come comunicazione destinata a spettatori innumerevoli ed indifferenziati, per giunta condizionati dalla «situazione» propria dello spettacolo cinematografico.

Questo assumere il film quasi in astratto ed a sé stante giuoca, crediamo, uno scherzo all’autore, portandolo ad affermare che il film sia addirittura «soggetto di moralità». Ci perdoni, ma ciò ci pare proprio insostenibile4; e ciò proprio e prima di tutto sotto il «profilo speculativo» (p. 231).

Vero è che l’autore non sembra liberato da ogni dubbio circa questa sua affermazione; tant’è vero che la smorza scrivendo che e il film compie azioni tipicamente umane anche indipendentemente – in un certo senso – dall’autore che l’ha fatto» (ivi), e che «il film, non essendo persona, è soggetto di moralità solo per una sorte di trasposizione»; (p. 232), vale a dire, se comprendiamo bene, qualora si parli impropriamente e per traslato. Tuttavia, poi, insiste che è il film a fare, ad agire: «e questo suo agire è a volta a volta o affermare o negare o comunicare o influire, ecc.» (p. 231), e che se «nell’autore, realmente dicente col film, c’è la causalità efficiente dello strumento del dire, nel film c’è la concreta strumentalità del dire stesso. In altre parole, l’autore fa il film per poter dire e quindi “dice” per mezzo del film; il film, invece, “dice” di fatto» (p. 232).

E con ciò? Forse che, se una lettera o una telefonata consolino o amareggino un lettore o un ascoltatore lontano, attribuiremo meriti e colpe ai «mezzi» stessi, fatti, così, «soggetti di moralità», e non soltanto a chi per lettera o per telefono comunichi? Le azioni, e perciò le responsabilità morali, restano tutte e sole della causa efficiente personale principale, almeno finché lo strumento non sia, a sua volta, persona intelligente e libera: condizione che il film certamente non verifica.

Ciò l’autore lo riconosce scrivendo: «Evidentemente, il film non è persona» (ivi); ma non senza passare poi ad argomenti, a suo dire, probantissimi. Soggiunge, infatti: «Che anche il film sia soggetto di moralità, al di là della moralità dell’autore, risulta tanto più evidente se si pensa... che il film dice e comunica anche se l’autore cambia pensiero, o non se ne interessa più, o muore» (p. 231); e che, anzi, «può succedere che il film dica qualcosa di diverso da quello che l’autore voleva dire o fare... indipendentemente dalle intenzioni dell’autore» (p. 232). Tutto vero. Ma, ancora una volta, responsabile morale di tutto, almeno in causa, resta sempre l’uomo, nella misura nella quale può e deve prevedere gli effetti – certi, probabili o possibili; prossimi e remoti – delle sue azioni, volendone o permettendone i buoni, permettendone o non impedendone i cattivi, oppure pentendosene quando accadesse l’irreparabile. Altrimenti dovremmo dire «soggetti di moralità» anche i giornali, i libri, i dischi, i manifesti; anzi anche i veleni, gli stupefacenti, i materiali fissili, i veicoli ed i prodotti di ogni genere, che, una volta trovati e messi – consapevolmente o incautamente – in circolazione, continuassero per loro conto a fare del male o del bene, anche ad «autore» ormai distratto, pentito o morto5.

Ci pare, perciò, che sia più prossimo al vero, ed anche più utile ai fini pratici-pastorali, ritenere che cinema e film rientrino – e come! – nella morale, quali oggetti di atti umani, ed atti umani essi stessi, ma che solo gli uomini ne siano i soggetti. Quindi, che, propriamente parlando, si possano e si debbano fare, a proposito di un film, tanti giudizi morali quante sono le azioni umane che lo rendano, o lo preparino ad essere, comunicazione in atto; e che, in ogni caso, non convenga prescindere dagli effetti, previsti o prevedibili, sugli spettatori, ai quali di sua natura il film venga destinato; vale a dire che, di regola, non si possa prescindere da considerazioni psicologico-sociologiche, soprattutto «di massa», anche trattandosi di opera d’arte.

1 Cfr Civ. Catt. 1965, IV, 378.

2 N. TADDEI, Giudizio critico del film, Milano, «i 7», 1966, in-16º, L. 900.

3 Per esempio: a p. 225 ci sembra inesatto far dipendere «tutti gli Uffici Nazionali dalle Conferenze Episcopali»; ed inesatto affermare che il decreto Inter mirifica, al n. 9, per «competente autorità» intenda solo l’autorità ecclesiastica, come l’autore sembra affermare a p. 263. Opinando poi liberamente quanto l’autore, riteniamo che Fellini, oggettivamente, non abbia mai presentato «la Grazia soprannaturale e teologica come l’unica soluzione di autenticità nella vita contemporanea» (p. 256); e che, anche per non offrire ulteriori appigli a fastidiose polemiche di psicologi e sociologi, sarebbe bene smorzare un po’ là dove apoditticamente si afferma che «il film ipnotizza...: e ciò deriva proprio dalla tipica natura del linguaggio cinematografico» (p. 233). Infine, non ci sembra del tutto «evidente» che la rappresentazione di «un intimo atto coniugale» «sarebbe lecita, anzi buona, in un film di documentazione scientifica, riservato a soli specialisti medici che lo stanno studiando per particolari ragioni cliniche» (p. 241), anche le ragioni cliniche potendo trovare limiti morali non sormontabili quando si tratti di azioni di persone umane, e non di animali irragionevoli.

4 Perciò riteniamo senz’altro di essere quel «qualcuno che lo nega, riducendo tutto alla moralità dell’autore [diremmo meglio: dei promotori della comunicazione filmica] e dello spettatore» (p. 231).

5 Anche per la parola, il poeta lamentava: «Voce dal sen sfuggita – Più ritrattar non vale; – Non si trattien lo strale – Quando dall’arco uscì».

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151