NOTE
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1 Il volume risente di questa impostazione originaria, riservando un interesse tutto particolare per le cose del Napoletano; per esempio alle pagine 27 ss., 43.

2 PASQUALE LOPEZ, Sul libro a stampa e le origini della censura ecclesiastica, Napoli, Luigi Regina, 1972, 133. L. 3.500.

3 Tra le lacune: a 15 non si precisa chi abbia visto la stampa “come il prodotto del demonio”.
Diremmo sviste l’Innocenzo VII di p. 65, probabilmente da correggersi in Innocenzo VIII, come è ben detto nelle pagine 63 e 67; ed anche l’affermazione che l’Indice di Paolo IV, del 1558, condannasse “tutti i libri anonimi”. Salvo errore, l’ultima serie di esso riguardava “i titoli dei libri che – per lo più scritti da eretici anonimi – sono pieni di dottrine pestifere”: che è tutt’altra cosa. Improprietà terminologica diremmo il parlare di “informazione” in senso odierno ai tempi di Enrico VIII (p. 26); di “spirito di libero esame” che avrebbe “caratterizzato la cultura umanistica-rinascimentale”, e che avrebbe subìto “un pesante arresto” nella prima metà del ’500 (p. 57); di “ideologia religiosa” e di “tolleranza e intolleranza” nel ’400 e nel ’500 (pp. 65 e 94).
Tra le discordanze: nelle pagine 14 e 36 l’Autore dà Leone X come uno dei papi fautori della libera cultura, quando poi a pagina 73 cita (e non esattamente) l’Inter sollicitudines, con cui lo stesso Papa conferma l’obbligo dell’Imprimatur già fissato da Innocenzo VIII. Lo stesso rilievo, forse, va fatto per Sisto IV e per l’arcivescovo di Magonza Bertoldo di Henneberg, che l’Autore, e giustamente, dà come prove del favorevole atteggiamento del mondo ecclesiastico verso la stampa, però quasi in opposizione alla futura grande “reazione” ecclesiastica contro la stessa (p. 33), quando poi la “reazione” di tutti e due è ricordata dall’Autore a p. 65.

4 Checché ne dicano l’Aubenas e il Ricard, citati dal Nostro (p. 33), non sembra sostenibile che sia occorsa “l’esperienza di una generazione” per far comprendere i pericoli che la stampa poteva comportare per la fede. Dato e non concesso che la lettera citata dell’Occo valga quale prova “del clima di tolleranza nella quale si viveva”, essa è del 1487, cioè dello stesso anno dell’Inter multiplices di Innocenzo VIII, ed è posteriore all’ordinanza dell’arcivescovo di Magonza Etsi mortalem, del 1486 e del breve di Sisto IV Accepimus litteras vestros, del 1479.

5 Nota opportunamente l’Autore (p. 102, Nota 121): “I polemisti cattolici erano generalmente poco inclini all’uso della lingua volgare. Essi sentivano un certo fastidio ad abbandonare il latino per il volgare, che ritenevano poco adatto alla esposizione di argomenti religiosi. Ne è un esempio Ambrogio Caterino, il quale, allorché nel 1544 si decise ad usare l’italiano, si rammaricò di dover fare come i protestanti, che ’cercano genti carnali et idiote, capaci a esser ingannate et scrivono in lingua volgare [...] scritti appositi per educare e semplici et poco cauti, et accender più humana curiosita’. Egli, insomma, anche se si piegò, non poté fare a meno di considerare l’uso del volgare una ’fastidiosissima faccenda’ [...]. L’atteggiamento del Caterino non meraviglia se pensiamo che ancora nel 1546 molti Padri conciliari sostengono la perniciosita dell’uso della lingua volgare per la Sacra Scrittura, opinione decisamente sostenuta dal più letto controversista tedesco, il Cochlaeus, nel suo An expediat laicis legere novi Testamenti libros lingua vernacula (pubblicato nel 1523)”.
E, aggiungiamo noi, opinione coraggiosamente superata dal vescovo di Londra Cuthbert Tunstall, che nel 1527 così scriveva a Tommaso Moro (Lettera «Quia nuper» del 7 marzo 1527): “Dopo che la Chiesa di Dio in Germania è stata attaccata dagli eretici. recentemente si sono aggiunti alcuni figli dell’iniquità che [...], si adoperano per introdurre in questo paese la vecchia e condannata eresia di Wyclif e di Lutero, traducendo nella nostra lingua e stampando in gran copia ogni loro più perverso scritto [...]. Di qui il grande timore di una rovina totale della verità cattolica qualora uomini buoni ed eruditi non affrontino coraggiosamente la malvagità di uomini tanto perversi. Ora, la via migliore per raggiungere lo scopo è che la verità cattolica ricorra alla lingua volgare per confutare queste fallaci dottrine ed, insieme, per mostrarsi in tutta la sua luce. Così avverrà che quanti non sono familiari con le scienze sacre, maneggiando insieme e questi libri eretici e quelli cattolici che li confutano, possano, o cogliere da se stessi la verità. o essere bene ammoniti ed istruiti da altri di maggiore ingegno. Ora tu, fratello carissimo, che nella lingua volgare, come nel latino, ti puoi dire un altro Demostene [...], se puoi rubare qualche ritaglio di tempo alle tue occupazioni, non potrai usarlo meglio che scrivendo qualcosa in volgare, che smascheri ai semplici ed incolti la subdola malignità degli eretici [...]”.

6 Cfr Sisto IV, Breve «Accepimus litteras vestras» (17 marzo 1479), Innocenzo VIII, Editto «Etsi ad mortalem» (4 gennaio 1486), Concilio Lateranense V, Costituzione «Inter sollicitudines» (4 maggio 1515) – Nello stesso tempo, lo stesso Bertoldo (Lettera «Experti scandala») scriveva cosi ai suoi suffraganei: “Sapendo che si traducono in tedesco messali ed altri libri liturgici e della Sacra Scrittura, di difficile intelligenza, e che si stampano e si offrono in vendita al popolo [...], esortiamo vivamente la tua Paternità [...], perché reprima siffatte pericolose audacie; perché, se si lasceranno andare per le mani dei rozzi ed ignoranti (rudibus imperitisque hominibus) ’leggende’ corrotte della Sacra Scrittura, facilmente essi cadranno in errori gravissimi ed insolubili, il che sarebbe un esempio gravissimo nella vita cristiana, da evitare con ogni cura”.

7 L’esegesi che, in appoggio alla sua tesi, l’Autore fa a pagina 61 della lettera del Fichet al Goguin non sembra esatta. L’entusiasmo del Fichet, ritengo, non è per “la liberta di pensiero così sentita e vissuta nel ’400”, bensì soltanto per le possibilità tecniche dei caratteri di Gutenberg di trascrivere e conservare "tout ce qui se pense et se dit”: come lo stesso Autore deve ammettere nella pagina seguente.

8 Cfr questi documento estratti dall’Indice alfabetico sotto voce Bruciamento libri nel volume Comunicazione Comunione e Chiesa di E. BARAGLI. La documentazione non va oltre la prassi nella Chiesa; ma sarebbe stato agevole completarla con quella sulla prassi penale romana, nella quale quella ecclesiastica s’inserì. Ai sociologi appurarne l’efficacia, risalendo da quella ai falò recenti nazisti, e recentissimi della rivoluzione culturale di Mao:
Clemente XIII, Decreto «Ut primum» (3 settembre 1759),
Pio VI, Decreto «Divina Christi Domini» (20 settembre 1779), n. 2,
Innocenzo I, Lettera «Fraternitatis vestrae» (27 gennaio 417),
Sinodo di Toledo IV, «Adsumus, Domine Sancte Spiritus» (633),
Sinodo Lateranense, Condanna gli scritti dell’eresia monotelita (5 ottobre 649),
Sinodo Trullano (Quinisesto), Canoni su spettacoli, libri eretici, immagini (692),
Ervigio (re dei Visigoti), Censura dei libri scritti da ebrei (712),
Innocenzo III, Lettera «Cum ex injuncto» (12 luglio 1199),
Alessandro IV, Bolla «Romanus Pontifex» (5 ottobre 1256),
Bonifacio VIII, Contro immagini immorali e danze nelle chiese (1300),
Sinodo di Noyon, Canoni per una corretta comunicazione (26 luglio 1344),
Innocenzo VIII, Lettera «Experti scandala» (10 gennaio 1486),
Concilio di Trento, Sessione IV, Decreto «de editione et usu sacrorum librorum» (8 aprile 1546),
Sinodo di Colonia, Decreto «Qui libri Parochis et Concionatoribus sint vitandi» (1549),
Giulio III, Bolla «Cum, sicut nuper» (29 maggio 1554),
Clemente VIII, Decreto «Sanctissimus Dominus» (20 giugno 1602),
Paolo V, Lettera sulla questione «De auxiliis» (5 settembre 1607),
Benedetto XIV, Costituzione «Sollicita ac provida» (9 luglio 1753),
Bendetto XIV, Decreto «Cum ad nonnullos» (5 settembre 1757),
Clemente XIII, Lettera «Lecta Pastorali» (19 settembre 1764),
Pio VI, Decreto «Divina Christi Domini» (29 settembre 1779),
Pio VI, Concordato con Parma, Piacenza e Guastalla (29 luglio 1780),
Leone XII, Lettera enciclica «Ubi primum» (5 maggio 1824),
Pio X, Lettera «Paulopolim nuper» (18 dicembre 1910),
Pio XI, Discorso ai partecipanti alla Seconda Settimana d’Arte Sacra per il Clero (12 ottobre 1934),
Po XI, Discorso «Siamo ancora» (12 meggio 1936).

9 Valga per tutti il decreto del Concilio Ecumenico di Costanza, del 1415 (Condanna di John Wyclif): "[...] questo santo sinodo [...] con questo decreto riprova in perpetuo e condanna [...] i libri di Giovanni Wyclif, e ne proibisce a tutti i fedeli la lettura, l’insegnamento, l’esposizione, la citazione, salvo che questa si faccia per confutarli [...], sotto pena di anatema [...]; ed ordina che detti libri, trattati, volumi ed opuscoli vengano pubblicamente dati alle fiamme, come già stabilì il sinodo romano”.

10 Il 27 ottobre 1266 Clemente IV così scriveva a Guglielmo di Amore (Lettera «Si circa veritatis»): “Abbiamo cominciato a scorrere il nuovo scritto che ci hai inviato [...]. Però, siccome non l’abbiamo letto tutto, non possiamo risponderti altro che devi armare la tua mente di prudente attenzione, affinché, sotto l’apparenza di bene, non ti seduca quello che, per nascondersi, si presenta come angelo di luce. Quando l’avremo letto, e l’avremo passato ad altri che amano e comprendono la verità, secondo il nostro giudizio disporremo le norme da impartirti”.
E, per un esempio di metodica censura preventiva degli scritti nella Chiesa (sia pure nestoriana) nel secolo IX, cfr la Costituzione sinodale del patriarca nestoriano Timoteo.

11 Nel 1231 Gregorio IX scriveva all’Università di Parigi (Lettera «Ab Aegyptiis argentea»): “Nun vengano usati i libri di filosofia naturale [di Aristotele], che per giusti motivi furono condannati dal Concilio Provinciale (di Parigi, del 1209), finché non siano esaminati e purgati da ogni traccia di errore”.

12 L’Autore, che gentilmente ha rivisto il manoscritto, ha giudicato non fondati alcuni nostri rilievi. Dopo un diligente controllo, li abbiamo mantenuti, attenuandone alcuni.

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Articolo estratto dal volume III del 1974 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Càpita. Un autore si propone di svolgere un argomento particolare. Serio e coscienzioso, comincia con inquadrarlo nel suo contesto storico, ed a risalirne i precedenti; e, ad un certo momento, s’avvede che la materia gli è cresciuta tra le mani, e la pubblica a parte, pur continuando ad elaborare l’opera maggiore. È ciò che è capitato al Lopez, che, preparando uno studio sulle origini e sullo sviluppo della censura ecclesiastica nella Napoli vicereale1, pubblica, intanto, questo saggio a sé stante Sul libro a stampa e le origini della censura ecclesiastica in generale2.

Il saggio, che si sviluppa in due parti – I: La stampa e il libro prima della censura preventiva; II: Inizi e sviluppo della censura ecclesiastica –, appartiene all’editoria colta, anzi erudita. Basti rilevare le otto fitte pagine dell’Indice bibliografico (più di duecento titoli, tutti consultati dall’Autore), ed il ricco apparato delle note in appoggio al testo, di un’esattezza esemplari. Tuttavia, nella sua chiarezza di esposizione, è accessibilissimo anche a non specialisti che s’interessino all’argomento. Il quale non è affatto d’interesse meramente storico-erudito, ma tocca uno dei punti principali e, non soltanto oggi, più controversi della dottrina e prassi magisteriale della Chiesa, con riflessi non indifferenti anche nell’evoluzione dottrinale-pratica di questo post-Concilio. Il saggio ben merita, perciò, qualche pagina di commento e di precisazioni.

* * *

Merito del Lopez è l’aver ampiamente documentato la svolta socio-culturale causata dalla invenzione di Gutenberg al declinare del Medio Evo; l’accoglienza, sul principio, favorevolissima riservata ad essa dal mondo ecclesiastico; l’uso tutto moderno fattone da Lutero e dai suoi Riformati per la diffusione dell’eresia, anche in Italia: i tentativi di repressione messi in atto, con uguale intemperanza, dagli stessi Riformati e dalle autorità ecclesiastiche cattoliche; gli interessi, prima economici, degli stampatori e dei librai, e poi anche politici, dei principi (a cominciare da Venezia e dalla Francia), che presto vennero ad interferire con la prassi censoria della Chiesa. Vari punti però del suo saggio, a nostro avviso, andrebbero riveduti, per essere eventualmente rettificati nell’opera maggiore.

Sorvoliamo su alcune lacune, sviste, improprietà terminologiche ed affermazioni, si direbbero, discordi3; e rileviamo alcune mende, ci pare, d’impostazione generale del saggio.

Tale, intanto, diremmo quella di presentare e trattare la questione della censura dei libri implicandola con quella del decadimento morale e disciplinare della Chiesa dei secoli XV e XVI, e della invocata e non attuata sua riforma. Stando, infatti, ai documenti è certo che quella calamitosa condizione non influì, né in bene né in male, sulla nascente disciplina censoria, se non forse – cosa che anche l’Autore rileva – sulla sua scarsa applicazione ed osservanza; ed è anche certo che le ragioni e gli interessi che tempestivamente mossero le autorità ecclesiastiche ad intervenire4 furono esclusivamente quelli della fede e dell’ortodossia cattolica.

Altra menda è quella d’impostare – anticipando di quattro secoli la mentalità moderna – il problema della censura, e del giudizio che di essa deve darsi, sul suo contrasto o meno con la cultura umanistico-rinascimentale; quando invece la remora censoria si esercitò, non tanto a livello dei pochi dotti umanisti del tempo – molti dei quali, del resto, com’è noto, devoti ai nobili manoscritti, continuarono a disdegnare i rozzi libri a stampa –, quanto a livello della plebe – i rudes del vulgus, le mulierculae del foemineus sexus – a tutela della quale la censura continuò ad ostacolare le traduzioni in volgare dal latino e dal greco, e non solo delle Sacre Scritture5.

Scriveva Sisto IV – nel 1479 – all’Università di Colonia: “Con piacere abbiamo appreso con quanto zelo per la fede ortodossa e con quanta prudenza avete proibito la lettura, la stampa e la vendita dei libri infetti di eresia, ed avete represso l’ignoranza di donnette. Così ignoranti, giudicano di quello che non conoscono, si credono competenti nelle Scritture, cadono nei più gravi errori e diventano la rovina, non solo delle proprie anime, ma anche delle altre”.
E scriveva, nel 1486, Bertoldo di Henneberg: “Noi stessi abbiamo visto libri liturgici e scritti della nostra religione, tradotti dal latino in tedesco, nella mani del volgo, non senza disonore per la religione. E che dire dei libri di legge e di diritto ecclesiastico? Benché siano stati scritti con la massima precisione ed accuratezza, da persone espertissime ed eloquentissime, tuttavia, per la stessa complessità di questa scienza, ad essi basta appena l’età più veneranda dell’uomo più eloquente e sapiente.
“Ed ecco che alcuni ingenui, avventati ed ignoranti si mettono a tradurre i volumi di quest’arte: molti uomini, anche dotti, leggendoli, hanno dovuto confessare di averci poco capito, data la grande improprietà e stortura dei termini. E che dire, infine, delle opere delle altre scienze, nelle quali, per trovare più facilmente acquirenti, càpita che introducono passi spuri, oppure cambiano i titoli, attribuendo ad autori celebri le loro invenzioni.
“Quale che sia, buono o cattivo, il loro scopo, se amano la verità, dicano questi traduttori: sarà mai capace la lingua tedesca di rendere quello che i sommi scrittori, così greci come latini, hanno saputo scrivere in maniera sì eccellente sulle più alte verità cristiane e sulle scienze? Bisogna pur ammettere che la povertà della nostra lingua è del tutto insufficiente, e che essi saranno costretti a cavare dal loro cervello termini nuovi; oppure, se ne adottano di antichi, a modificarne il senso, e così a far temere un maggior pericolo a proposito della Sacra Scrittura. E chi farà sì che i rozzi, gli ignoranti e le femminucce, nelle cui mani finiranno i libri della Sacra Scrittura, ne tirino fuori i sensi veri? Prendiamo i Vangeli e le Lettere paoline: nessun uomo di giudizio negherà che essi suppongono molti complementi e paralleli con le altre Scritture.
“Ho parlato di ciò perché si tratta di cose ovvie. Ma che pensare di quelle che nella Chiesa cattolica sono argomento di acutissime discussioni tra gli scrittori? Ne potremmo ricordare molte, ma allo scopo basti quel poco che ne abbiamo accennato”.
E scriveva, nel 1515, Leone X: “Da molte voci è giunto alle orecchie nostre e di questa Sede Apostolica che alcuni tipografi, qua e là nel mondo, hanno osato stampare e vendere pubblicamente libri tradotti in latino dal greco, dall’ebraico, dall’arabo e dal caldeo, oppure scritti direttamente in latino o in volgare, che contengono errori, anche nella fede, e dannose asserzioni anche contro la religione cristiana [...]; dai quali libri i lettori, non solo non si edificano, ma vengono indotti in massimi errori, tanto nella fede quanto nella morale; sicché – come l’esperienza insegna – si sono verificati molti scandali, e maggiori se ne temono per l’avvenire”6.

Discutibile, inoltre, ci sembra il giudizio storico che il Lopez dà circa l’introduzione della censura ecclesiastica sui libri a stampa. A parte il fatto che sarebbe stato opportuno distinguere tra censura preventiva, propriamente detta, resa più agevole (e necessaria) con l’introduzione della stampa di Gutenberg, e censura repressiva; e che non sempre nel saggio risulta chiaro se l’Autore riprovi, dell’una o dell’altra, il rigore, o non piuttosto la remissività: egli sembra ritenere che con esse la Chiesa sia passata bruscamente, non solo rispetto al libro tradizionale ma anche rispetto a quello a stampa, da un clima di illuminata tolleranza ad un regime di deplorevole intolleranza7; quando, invece, neanche nei primissimi documenti sulla stampa c’è traccia di siffatta brusca rottura. Anche in essi, infatti, vengono parallelamente rilevati tanto i vantaggi, culturali e spirituali, che la Chiesa se ne riprometteva, quanto i pericoli, soprattutto spirituali, che ne temeva. Valgano alcuni altri brani delle fonti già citate:

Così l’Etsi ad mortalem, di Bertoldo di Henneberg (4 genn. 1486): “Benché, con una specie di arte divina, si riesca a moltiplicare facilmente i codici di ogni scienza ad incremento dell’erudizione umana, ci risulta che alcuni, per cupidigia di lucro o di vacua fama, abusano di quest’arte, avvilendo in rovina e frode ciò che era stato dato per nobilitare la vita degli uomini”.
Così l’Inter multiplice, di Innocenzo VIII (17 nov. 1487), e poi di Alessandro VI (Inter multiplices del 1º genn. 1501): “Tra le molteplici cure della nostra sollecitudine, nel nostro ufficio pastorale, in primo luogo deve essere quella di far sì che, quanto nel nostro tempo s’inventa di utile e di lodevole, di conforme alla fede cattolica ed alla morale, non solo si conservi e si accresca, ma anche si passi ai posteri; mentre ciò che sia dannoso e condannabile ed empio sia tagliato e divelto, sicché non rispunti mai più: lasciando che si coltivi nel campo del Signore e nella vigna dell’Onnipotente soltanto ciò che può nutrire spiritualmente le menti dei fedeli, sradicando la zizzania e potando quanto è sterile oleastro.
“Rileviamo perciò che, come è evidente l’utilità che può arrecare al genere umano la diffusione di quanto fa parte della cultura e del sano vivere, sicché sia posto in luce e venga a notizia degli uomini, tanto di oggi quanto a venire: il che suole verificarsi specialmente con le lettere, per tramite delle quali le virtù, come legate insieme, vengono tramandate, conservate e diffuse ai lontani, così nello spazio come nel tempo; allo stesso modo deve giudicarsi dannosa ed al massimo nociva al genere umano la pubblicazione e la diffusione indiscriminata, tramite le lettere, di quanto è contrario alla sana dottrina, ai buoni costumi, e soprattutto di quanto è contrario alla vera religione. Se, infatti, il bene, tanto è più utile divino e grande quanto più è universale, così il male, tanto più è da credere peggiore ed abominando quanto più sia diffuso e copioso, soprattutto considerando che la mente dell’uomo, nella sua fragilità, si trova più incline al male che al bene.
“Ne segue che l’arte della stampa, com’è ritenuta utilissima perché facilita la moltiplicazione dei libri pregevoli ed utili, così diverrebbe dannosissima se chi l’ha nelle mani la usasse malamente, via via stampando ciò che è nocivo. Perciò è necessario che, con giusti rimedi, venga messo un freno[...]”.
E così l’Inter sollicitudines, di Leone X (4 maggio 1515): “Certo il progresso delle lettere, con la lettura dei libri, può facilmente ottenersi, e l’arte di stampare i libri, specialmente ai nostri giorni, con l’aiuto di Dio, inventata sviluppata e migliorata, ha già apportato molte utilità agli uomini, dato che con poca spesa si moltiplicano i libri, con i quali agevolmente le menti si esercitano nello studio delle lettere, e gli uomini – specialmente cattolici, dei quali la santa Chiesa Romana desidera che si moltiplichi il numero – possono facilmente impadronirsi di ogni lingua, sicché siano capaci di istruire nella religione anche gli infedeli, e così salutarmente aggregarli, con la dottrina della fede, alla famiglia dei fedeli. Vero è però [...].
“Noi pertanto, affinché ciò che salutarmente è stato inventato a gloria di Dio e ad incremento della fede e della cultura, non degeneri e diventi nocivo alla salute dei fedeli, abbiamo deciso di volgere la nostra attenzione alla stampa dei libri, sicché in avvenire le spine non crescano insieme con i semi buoni, e i veleni non si mescolino con le medicine”.

Tanto meno reggerebbe la tesi di una svolta della disciplina ecclesiastica dalla tolleranza, rispetto al libro manoscritto, all’oscurantismo, rispetto al libro a stampa. È noto, infatti, che, rispetto a quest’ultimo, essa, sin dai primi interventi, non romani e romani, si concretò in questi quattro punti, restati praticamente immutati sino al Codice di diritto canonico di Benedetto XV, ed al Vaticano II: 1) obbligatorio esame previo di tutti gli scritti destinati alla stampa; 2) concessione del permesso di stampa (Imprimatur) soltanto ai libri non contrari alla fede e alla morale cattolica; 3) pene spirituali e pecuniarie a quanti stampassero, commerciassero, leggessero e tenessero presso di sé libri contravvenenti a queste disposizioni; 4) distruzione degli stessi libri, normalmente col fuoco.

Ora, come ho documentato altrove, almeno quest’ultima disposizione rientrava già nella prassi corrente... fin dai tempi apostolici8; ed anche la penultima, almeno per quanto riguarda le pene spirituali (scomunica), aveva trovato frequenti applicazioni anche prima della stampa di Gutenberg9. Né mancano esempi di esami previ, più o meno richiesti dagli stessi autori, di scritti prima della loro pubblicazione manoscritta10. Se poi ciò venne imposto per tutti i libri a stampa, fu soltanto perché, come s’è già detto, il nuovo procedimento tecnico lo rendeva, per la prima volta, possibile, e dunque, secondo l’autorità ecclesiastica, necessario. Anzi, neanche mancano esempi, anteriori al Concilio Tridentino, di quella expurgatio (il Donec corrigatur) che il Lopez (p. 114) giudica “innovazione di valore enorme” dell’Index del 156411.

In sintesi: l’intervento censorio (e repressivo) della Chiesa sulla stampa può, oggi, essere giudicato più o meno illuminato; resta però accertato che esso s’inserì, senza soluzioni di continuità, in una prassi da secoli pacifica nella Chiesa, unicamente sollecita dell’ortodossia della fede e della salute delle anime.

A questo punto sarebbe utile rilevare come gli stessi motivi abbiano poi guidato la condotta del Magistero Romano all’apparire dei più moderni strumenti della comunicazione sociale: il giornale, il cinema, la radio-televisione...; e come l’evoluzione socio-tecnologica dei tempi abbia ridotto sia l’applicabilità sia l’efficacia di ogni intervento censorio, non differentemente da quanto, in quattro secoli, è avvenuto per la stampa. Ma ciò esulerebbe dai limiti di una modesta recensione12.

1 Il volume risente di questa impostazione originaria, riservando un interesse tutto particolare per le cose del Napoletano; per esempio alle pagine 27 ss., 43.

2 PASQUALE LOPEZ, Sul libro a stampa e le origini della censura ecclesiastica, Napoli, Luigi Regina, 1972, 133. L. 3.500.

3 Tra le lacune: a 15 non si precisa chi abbia visto la stampa “come il prodotto del demonio”.
Diremmo sviste l’Innocenzo VII di p. 65, probabilmente da correggersi in Innocenzo VIII, come è ben detto nelle pagine 63 e 67; ed anche l’affermazione che l’Indice di Paolo IV, del 1558, condannasse “tutti i libri anonimi”. Salvo errore, l’ultima serie di esso riguardava “i titoli dei libri che – per lo più scritti da eretici anonimi – sono pieni di dottrine pestifere”: che è tutt’altra cosa. Improprietà terminologica diremmo il parlare di “informazione” in senso odierno ai tempi di Enrico VIII (p. 26); di “spirito di libero esame” che avrebbe “caratterizzato la cultura umanistica-rinascimentale”, e che avrebbe subìto “un pesante arresto” nella prima metà del ’500 (p. 57); di “ideologia religiosa” e di “tolleranza e intolleranza” nel ’400 e nel ’500 (pp. 65 e 94).
Tra le discordanze: nelle pagine 14 e 36 l’Autore dà Leone X come uno dei papi fautori della libera cultura, quando poi a pagina 73 cita (e non esattamente) l’Inter sollicitudines, con cui lo stesso Papa conferma l’obbligo dell’Imprimatur già fissato da Innocenzo VIII. Lo stesso rilievo, forse, va fatto per Sisto IV e per l’arcivescovo di Magonza Bertoldo di Henneberg, che l’Autore, e giustamente, dà come prove del favorevole atteggiamento del mondo ecclesiastico verso la stampa, però quasi in opposizione alla futura grande “reazione” ecclesiastica contro la stessa (p. 33), quando poi la “reazione” di tutti e due è ricordata dall’Autore a p. 65.

4 Checché ne dicano l’Aubenas e il Ricard, citati dal Nostro (p. 33), non sembra sostenibile che sia occorsa “l’esperienza di una generazione” per far comprendere i pericoli che la stampa poteva comportare per la fede. Dato e non concesso che la lettera citata dell’Occo valga quale prova “del clima di tolleranza nella quale si viveva”, essa è del 1487, cioè dello stesso anno dell’Inter multiplices di Innocenzo VIII, ed è posteriore all’ordinanza dell’arcivescovo di Magonza Etsi mortalem, del 1486 e del breve di Sisto IV Accepimus litteras vestros, del 1479.

5 Nota opportunamente l’Autore (p. 102, Nota 121): “I polemisti cattolici erano generalmente poco inclini all’uso della lingua volgare. Essi sentivano un certo fastidio ad abbandonare il latino per il volgare, che ritenevano poco adatto alla esposizione di argomenti religiosi. Ne è un esempio Ambrogio Caterino, il quale, allorché nel 1544 si decise ad usare l’italiano, si rammaricò di dover fare come i protestanti, che ’cercano genti carnali et idiote, capaci a esser ingannate et scrivono in lingua volgare [...] scritti appositi per educare e semplici et poco cauti, et accender più humana curiosita’. Egli, insomma, anche se si piegò, non poté fare a meno di considerare l’uso del volgare una ’fastidiosissima faccenda’ [...]. L’atteggiamento del Caterino non meraviglia se pensiamo che ancora nel 1546 molti Padri conciliari sostengono la perniciosita dell’uso della lingua volgare per la Sacra Scrittura, opinione decisamente sostenuta dal più letto controversista tedesco, il Cochlaeus, nel suo An expediat laicis legere novi Testamenti libros lingua vernacula (pubblicato nel 1523)”.
E, aggiungiamo noi, opinione coraggiosamente superata dal vescovo di Londra Cuthbert Tunstall, che nel 1527 così scriveva a Tommaso Moro (Lettera «Quia nuper» del 7 marzo 1527): “Dopo che la Chiesa di Dio in Germania è stata attaccata dagli eretici. recentemente si sono aggiunti alcuni figli dell’iniquità che [...], si adoperano per introdurre in questo paese la vecchia e condannata eresia di Wyclif e di Lutero, traducendo nella nostra lingua e stampando in gran copia ogni loro più perverso scritto [...]. Di qui il grande timore di una rovina totale della verità cattolica qualora uomini buoni ed eruditi non affrontino coraggiosamente la malvagità di uomini tanto perversi. Ora, la via migliore per raggiungere lo scopo è che la verità cattolica ricorra alla lingua volgare per confutare queste fallaci dottrine ed, insieme, per mostrarsi in tutta la sua luce. Così avverrà che quanti non sono familiari con le scienze sacre, maneggiando insieme e questi libri eretici e quelli cattolici che li confutano, possano, o cogliere da se stessi la verità. o essere bene ammoniti ed istruiti da altri di maggiore ingegno. Ora tu, fratello carissimo, che nella lingua volgare, come nel latino, ti puoi dire un altro Demostene [...], se puoi rubare qualche ritaglio di tempo alle tue occupazioni, non potrai usarlo meglio che scrivendo qualcosa in volgare, che smascheri ai semplici ed incolti la subdola malignità degli eretici [...]”.

6 Cfr Sisto IV, Breve «Accepimus litteras vestras» (17 marzo 1479), Innocenzo VIII, Editto «Etsi ad mortalem» (4 gennaio 1486), Concilio Lateranense V, Costituzione «Inter sollicitudines» (4 maggio 1515) – Nello stesso tempo, lo stesso Bertoldo (Lettera «Experti scandala») scriveva cosi ai suoi suffraganei: “Sapendo che si traducono in tedesco messali ed altri libri liturgici e della Sacra Scrittura, di difficile intelligenza, e che si stampano e si offrono in vendita al popolo [...], esortiamo vivamente la tua Paternità [...], perché reprima siffatte pericolose audacie; perché, se si lasceranno andare per le mani dei rozzi ed ignoranti (rudibus imperitisque hominibus) ’leggende’ corrotte della Sacra Scrittura, facilmente essi cadranno in errori gravissimi ed insolubili, il che sarebbe un esempio gravissimo nella vita cristiana, da evitare con ogni cura”.

7 L’esegesi che, in appoggio alla sua tesi, l’Autore fa a pagina 61 della lettera del Fichet al Goguin non sembra esatta. L’entusiasmo del Fichet, ritengo, non è per “la liberta di pensiero così sentita e vissuta nel ’400”, bensì soltanto per le possibilità tecniche dei caratteri di Gutenberg di trascrivere e conservare "tout ce qui se pense et se dit”: come lo stesso Autore deve ammettere nella pagina seguente.

8 Cfr questi documento estratti dall’Indice alfabetico sotto voce Bruciamento libri nel volume Comunicazione Comunione e Chiesa di E. BARAGLI. La documentazione non va oltre la prassi nella Chiesa; ma sarebbe stato agevole completarla con quella sulla prassi penale romana, nella quale quella ecclesiastica s’inserì. Ai sociologi appurarne l’efficacia, risalendo da quella ai falò recenti nazisti, e recentissimi della rivoluzione culturale di Mao:
Clemente XIII, Decreto «Ut primum» (3 settembre 1759),
Pio VI, Decreto «Divina Christi Domini» (20 settembre 1779), n. 2,
Innocenzo I, Lettera «Fraternitatis vestrae» (27 gennaio 417),
Sinodo di Toledo IV, «Adsumus, Domine Sancte Spiritus» (633),
Sinodo Lateranense, Condanna gli scritti dell’eresia monotelita (5 ottobre 649),
Sinodo Trullano (Quinisesto), Canoni su spettacoli, libri eretici, immagini (692),
Ervigio (re dei Visigoti), Censura dei libri scritti da ebrei (712),
Innocenzo III, Lettera «Cum ex injuncto» (12 luglio 1199),
Alessandro IV, Bolla «Romanus Pontifex» (5 ottobre 1256),
Bonifacio VIII, Contro immagini immorali e danze nelle chiese (1300),
Sinodo di Noyon, Canoni per una corretta comunicazione (26 luglio 1344),
Innocenzo VIII, Lettera «Experti scandala» (10 gennaio 1486),
Concilio di Trento, Sessione IV, Decreto «de editione et usu sacrorum librorum» (8 aprile 1546),
Sinodo di Colonia, Decreto «Qui libri Parochis et Concionatoribus sint vitandi» (1549),
Giulio III, Bolla «Cum, sicut nuper» (29 maggio 1554),
Clemente VIII, Decreto «Sanctissimus Dominus» (20 giugno 1602),
Paolo V, Lettera sulla questione «De auxiliis» (5 settembre 1607),
Benedetto XIV, Costituzione «Sollicita ac provida» (9 luglio 1753),
Bendetto XIV, Decreto «Cum ad nonnullos» (5 settembre 1757),
Clemente XIII, Lettera «Lecta Pastorali» (19 settembre 1764),
Pio VI, Decreto «Divina Christi Domini» (29 settembre 1779),
Pio VI, Concordato con Parma, Piacenza e Guastalla (29 luglio 1780),
Leone XII, Lettera enciclica «Ubi primum» (5 maggio 1824),
Pio X, Lettera «Paulopolim nuper» (18 dicembre 1910),
Pio XI, Discorso ai partecipanti alla Seconda Settimana d’Arte Sacra per il Clero (12 ottobre 1934),
Po XI, Discorso «Siamo ancora» (12 meggio 1936).

9 Valga per tutti il decreto del Concilio Ecumenico di Costanza, del 1415 (Condanna di John Wyclif): "[...] questo santo sinodo [...] con questo decreto riprova in perpetuo e condanna [...] i libri di Giovanni Wyclif, e ne proibisce a tutti i fedeli la lettura, l’insegnamento, l’esposizione, la citazione, salvo che questa si faccia per confutarli [...], sotto pena di anatema [...]; ed ordina che detti libri, trattati, volumi ed opuscoli vengano pubblicamente dati alle fiamme, come già stabilì il sinodo romano”.

10 Il 27 ottobre 1266 Clemente IV così scriveva a Guglielmo di Amore (Lettera «Si circa veritatis»): “Abbiamo cominciato a scorrere il nuovo scritto che ci hai inviato [...]. Però, siccome non l’abbiamo letto tutto, non possiamo risponderti altro che devi armare la tua mente di prudente attenzione, affinché, sotto l’apparenza di bene, non ti seduca quello che, per nascondersi, si presenta come angelo di luce. Quando l’avremo letto, e l’avremo passato ad altri che amano e comprendono la verità, secondo il nostro giudizio disporremo le norme da impartirti”.
E, per un esempio di metodica censura preventiva degli scritti nella Chiesa (sia pure nestoriana) nel secolo IX, cfr la Costituzione sinodale del patriarca nestoriano Timoteo.

11 Nel 1231 Gregorio IX scriveva all’Università di Parigi (Lettera «Ab Aegyptiis argentea»): “Nun vengano usati i libri di filosofia naturale [di Aristotele], che per giusti motivi furono condannati dal Concilio Provinciale (di Parigi, del 1209), finché non siano esaminati e purgati da ogni traccia di errore”.

12 L’Autore, che gentilmente ha rivisto il manoscritto, ha giudicato non fondati alcuni nostri rilievi. Dopo un diligente controllo, li abbiamo mantenuti, attenuandone alcuni.

In argomento

Magistero

n. 3195-3196, vol. III (1983), pp. 209-222
n. 3188, vol. II (1983), pp. 154-161
n. 3141, vol. II (1981), pp. 222-237
n. 2990, vol. I (1975), pp. 144-157
n. 2983, vol. IV (1974), pp. 36-48
n. 2950, vol. II (1973), pp. 347-358
n. 2951, vol. II (1973), pp. 425-438
n. 2952, vol. II (1973), pp. 547-559
n. 2911, vol. IV (1971), pp. 39-48
n. 2913, vol. IV (1971), pp. 235-253
n. 2882, vol. III (1970), pp. 154-160
n. 2859-2860, vol. III (1969), pp. 219-230
n. 2847, vol. I (1969), pp. 250-253
n. 2787-2788, vol. III (1966), pp. 314-315
n. 2702-2704, vol. I (1963), pp. 105-118, 313-325
n. 2636, vol. II (1960), pp. 124-39
n. 2612, vol. II (1959), pp. 113-124
n. 2605, vol. I (1959), pp. 66-69
n. 2555, vol. IV (1956), pp. 521-532
n. 2545, vol. III (1956), pp. 30-42
n. 2532, vol. IV (1955), pp. 601-609