Articolo estratto dal volume III del 1961 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Fondando le sue illazioni su argomenti che sappiamo inesistenti1, il direttore di una nota Rassegna di varia umanità 2 insiste nel far rientrare Fellini ed il suo ultimo film nell’ambito del cattolicismo, sia pure putrefatto; quindi intona un solenne De profundis sui cattolici, a suo giudizio defunti alla vera cultura da almeno tre secoli, fasciando intendere che nella vera cultura vivono soltanto i laici e, modestia a parte, anche la «diabolica» rivista che ne propugna gli ideali.
Ma tre pagine appresso, G.M., collaboratore ordinario della rivista, s’incarica di smentirlo. Nella Piccola introduzione polemica con cui abborda l’argomento Censura cinematografica e buon costume, con la più ingenua sicurezza G.M. enuncia queste novità:
1) «Già allora (cioè nel 1500) il modo di vivere dei giovani sollevava aspri commenti: del resto nello stesso Vangelo (Mt 11,16-18) risuonano parole scorate: “A chi assomiglierò questa generazione?... Abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto”». – Egli ignora che passo del Vangelo da lui riportato non ha nulla che fare con la corruzione dei giovani palestinesi di duemila anni fa. Gesù, infatti, con quel detto istituiva semplicemente un paragone tra un giuoco di ragazzi d’allora, simulanti i balli nuziali e le prefiche funebri del loro tempo, ed il perverso modo di comportarsi dei farisei e scribi, i quali tanto condannavano la sua vita “normale” quanto avevano condannato quella austerissima del Battista. Se, dunque, nelle parole di Gesù c’è, come c’è, lo scoramento, esso non è per il modo di vivere dei giovani, bensì per il malanimo mostrato verso di lui dai farisei e dagli scribi..
2) «Comunque — continua il Nostro — nessuno degli antichi moralisti ha mai potuto provare che la decadenza dei costumi fosse causata da spettacoli o libri: ed anzi, contro il loro preteso potere di corrompimento vale il consiglio dell’apostolo san Paolo: “Provate ogni cosa e ritenete il bene”» (1Ts 5,21). – Lasciamo lì, ché ci porterebbe troppo per le lunghe, il singolare rimprovero mosso a tutti i moralisti antichi (quali? di quando?...) rei, niente di meno, di non aver «provato» i danni morali prodotti dagli spettacoli e dai libri, quasi che toccasse ai moralisti provare i danni, e non piuttosto esortare ad evitarli; e ci atteniamo al passo scritturistico. G.M. lo usa quasi che in esso san Paolo avallasse come moralmente innocui tutti gli spettacoli e tutte le letture, anche qui ignorando che il «Provate» del versetto in questione non significa affatto «Sperimentate voi stessi di persona», bensì «Sottoponete a prova, vagliate»; e che ivi l’«ogni cosa», secondo l’esegesi più comune e probabile, si riferisce ai carismi («Non spregiate le profezie», aveva scritto l’Apostolo immediatamente prima); in ogni caso non si riferisce per nulla agli spettacoli ed alle letture. Del resto, anche se il «provare ogni cosa» avesse in questo luogo di san Paolo il valore di una norma generale, la sua portata pratica viene definita non solo dal «ritenete il bene», riportato da G.M.; bensì anche dall’«astenetevi da ogni specie di male», che G.M. trascura di trascrivere. Ma poi, che tra le «specie di male», ai tempi di san Paolo i cristiani includessero i libri cattivi, G.M. poteva persuadersene andando al versetto 19 del capitolo 19 degli Atti degli Apostoli, dove lo storico narra che, nell’anno 51 di Cristo, vale a dire un anno prima che san Paolo scrivesse a quei di Tessalonica, in Efeso, dove il santo aveva predicato, «molti di quelli che erano andati dietro ad arti vane, portarono i loro libri, e li bruciarono in presenza di tutti; e calcolato il valore di essi trovarono che assommava a cinquantamila danari».
3. «D’altronde – incalza il Nostro, passando con non miglior fortuna dall’esegesi alla storia –, fino a quando i vescovi del Concilio di Trento non inventarono la censura della stampa, nessuno aveva mai pensato che ai libri dovessero farsi risalire i mali del mondo». – Tre cantonate in tre righe. Prima: perché, in realtà, il Tridentino si pose, sì, la questione dei libri proibiti, ma di fatto, la commissione dei vescovi incaricata di trattarla3, per la mole del lavoro non riuscì a portare a termine il suo compito, sicché, nell’ultima sessione del Concilio4, rimise la cosa al Papa. Il risultato fu che l’Indice venne pubblicato da Pio IV, e soltanto il 24 marzo 1564, vale a dire più di tre mesi dopo la chiusura del Concilio. Seconda: perché in ogni caso, i vescovi del Concilio di Trento non «inventarono» affatto la censura sulla stampa. Infatti, se si tratta di un Indice vero e proprio, il primo esteso a tutta la Chiesa risale al papa Paolo IV (anni 1557-1561), l’opera del quale, tuttavia, era stata preceduta da almeno una decina di Indici particolari di diocesi e di altre regioni ecclesiastiche. Che se, invece, si tratta di regolamentazione ecclesiastica in materia di stampa in generale, allora bisogna risalire a mezzo secolo prima della fine del Tridentino, vale a dire a Leone X ed al Concilio Lateranense V5; anzi, addirittura al 1501, anno in cui il papa Alessandro VI, col decreto Inter multiplices, formulava per tutta la Chiesa dei provvedimenti, molti dei quali da più anni si andavano prendendo qua e là per l’Europa dopo l’invenzione della stampa. Terza: perché questi interventi della Chiesa, anteriori al Concilio di Trento, potranno evidentemente, da uno non cattolico, essere criticati come arbitrari o inutili, non certo però addotti come prova circa il pensiero della Chiesa, quasi che questa non reputasse i libri cattivi responsabili, almeno parzialmente, dei mali morali del mondo, soprattutto se G.M. prende cura di rilevare che quei tempestivi interventi ecclesiastici circa i libri stampati non facevano altro che seguire la prassi costantemente seguita dalla Chiesa rispetto ai libri dannosi non stampati, su su per secoli e secoli sino al bel falò di libri magici riportato negli Atti degli Apostoli.
Potremmo continuare a rilevare tutti gli altri abbagli presi da G.M. sia nell’Introduzione polemica sia nelle quattro postille giuridiche che la seguono. Ma ci sembrano sufficienti questi primi tre, che abbiamo commentato, per concludere che certi direttori di laiche orchestre dovrebbero andare assai più cauti prima d’intonare il De Profundis sulla defunta cultura dei cattolici.
1 Cfr Dopo la Dolce vita, I: Tra realtà arte e religione (Civ. Catt. 1960, III, 602 ss.).
2 Belfagor, 1961, n. 3, pp. 370 ss.
3 Sessione 18ª, del 26 febbraio 1562.
4 Sessione 25ª, del 4 dicembre 1563.
5 Bolla Inter graves sollicitudines, del 25 maggio 1515.