Articolo estratto dal volume IV del 1963 pubblicato su Google Libri.
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Che Siegfried Kracauer sia studioso di cinema, di storia e di sociologia tra i più diligenti documentati e metodici, non è dubbio. Già il suo From Caligari to Hitler Io provava; e questo suo ultimo volume1 lo conferma ad abundantiam, con la bibliografia ricca, precisa ed aggiornata, con le sessantun illustrazioni scelte con particolare cura di significato e di esemplarità, col suo continuo e minuto appoggiare affermazioni e teorie ad autori e ad opere filmiche, nonché a note di lodabile precisione filologica, e, finalmente, con i frequenti rimandi dall’uno all’altro dei numerosi capitoli e sottocapitoli, sezioni e paragrafi, in cui il volume si articola.
Invece, che questo suo ultimo volume sia di agevole lettura, lo contestiamo, tanto è lo stento provato nel percorrere il quasi mezzo migliaio di pagine, composte con caratteri fitti e minuti, e zeppe di cose accatastate come in un magazzino, riempito sino al colmo e sino all’ultimo angolino. Fatto sta che, ad impresa terminata, il coraggioso lettore si volta indietro e guata, traendo il respiro di sollievo di chi esce fuor del pelago alla riva, e di rammarico dello studioso rimasto deluso.
Infatti, ad apertura di volume le promesse ci sembravano molte. Dopo tanta editoria cinematografica, per la maggior parte denutrita di pensiero e di cultura, e troppo spesso enfiata di interessi effimeri e di teorie nate morte, «Vuoi vedere — ci siamo detti — che è venuta fuori la tanto attesa opera definitiva (o quasi) sul cinema, quale strumento di comunicazione, forma di arte, prodotto caratteristico della nostra civiltà e fattore della stessa, realtà tecnica ed economica, etica e politica...: insomma, sul “tutto cinema”?». Oltre al nome del Kracauer, ci rendevano fiduciosi il volume ponderoso e le sue sostanziose cinque pagine di Indice-Sommario.
Si apre questo con un primo capitolo, fondamentale, sulla fotografia: sua storia e sue quattro qualità specifiche, vale a dire: affinità con la realtà immediata, predilezione per i fatti casuali, rifiuto di limiti nell’evocazione dell’infinito, ed affinità coll’indefinito spaziotemporale proustiano. Col Capitolo II passa al cinema: proprietà naturali del mezzo (comuni alla fotografia) e proprietà tecniche, con conseguenti e contrastanti tendenze: realistica (Lumière) e creativa (Méliès). Il Capitolo III è sull’affermazione della realtà fisica da parte del cinema, e la sua duplice funzione di registrarla e di rivelarla; ed il Capitolo IV è sulle inclinazioni particolari della macchina da presa, che ne aggiungono, alle quattro della fotografia, una quinta, detta del «fluire della vita». I cinque capitoli che vanno dal V al IX sono dedicati ai campi di azione ed elementi del cinema, vale a dire, rispettivamente: alla Storia e fantasia, all’Attore (qualità, funzioni e tipi), al Dialogo e sonoro, alla Musica (funzioni fisiologiche ed estetiche), e finalmente allo Spettatore (effetti fisio-psico-sociali, e soddisfazioni). Col Cap. X comincia una lunga digressione intorno ai meccanismi ill1temi ed esterni del cinema (Composizione), trattandovisi via via del Cinema sperimentale (Cap. X), del Documentario e del film sull’arte (Cap. XI), del Soggetto teatrale (caratteristiche e tentativi di adattamento: Cap. XII), della Struttura a storia spontanea e ad episodi di vita (Cap. XIV) e, finalmente, dei Problemi di contenuti: cinematografici e non-cinematografici. Quindi, riprendendo il discorso interrotto, il Capitolo XVI ed ultimo è dedicato ad un Epilogo molto impegnato, a carattere filosofico-sociologico, sul quale torneremo subito.
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Presumibilmente, non ci sarà pescatore che, riuscito a trarre a riva la sciabica da siffatto mare magnum, non vi troverà molti pesci buoni, frammisti a pesciolini inutili ed a granchi, piccoli e grandi, incommestibili. Per conto nostro, almeno fino ad un certo punto, apprezziamo, per esempio, il Kracauer quando riporta il cinema alla realtà primaria dell’immagine, contro gli eccessi di poetiche e di estetiche formaliste (per esempio: quella del montaggio come «specifico» assoluto), e contro quelle più grossolane dei contenuti sociali; e, conseguentemente, quando richiama ,l’attenzione sulle componenti psicofisiologiche inerenti allo strumento – secondo le quali il cinema è sempre spettacolo –, che precedono, o almeno accompagnano, quelle intenzionali ed estetiche – secondo le quali esso può anche essere lezione ed opera d’arte –. Ed anche non ci dispiace del tutto quando egli critica il manifesto dell’asincronismo, oppure Eisenstein per la sua teoria sul montaggio e per il suo indulgere ai simboli; inoltre, giudichiamo fondato e giusto molto di quanto egli rileva, o ricorda, circa il teatro e l’attore rispetto allo schermo, circa la situazione patica propria dello spettatore cinematografico; e, in particolare, rileviamo la sua acutezza di osservazione in molti rilievi illuminanti circa singoli film, singoli registi e correnti (l’avant-garde, il cosiddetto neo-realismo italiano...): acutezza che, tutto sommato, consiglia di seguirlo più nelle sue doti di critica analitica che di teorizzatore e di sintesi.
Infatti, in queste pagine, quanto ingombro di roba sospetta ed indigesta! Qua esaltazioni anomale (per esempio, di un Hitchcock, e del film poliziesco; oppure di un Flaherty, salvato perché le sue «sono storie esili»!); là soluzioni di comodo favorevoli alla tesi (per esempio, nel trattare del dialogo nel film, o nell’ipotizzare soltanto film fotografici, et quidem soltanto in bianco e nero, come se il colore non facesse parte di quella realtà visibile da lui esclusivamente ammessa!). Ancora: in comune con altri critici, che suppliscono con l’erudizione affastellata il difetto di metafisica e di logica, qua «autorità» in funzione di argomenti, là citazioni al posto di ragionamenti, e, si badi bene, in un volume che vorrebbe porre un punto tanto fermo e definitivo quanto nuovo e rivoluzionario in una filmologia concepita come parte essenziale di una Weltanschauung totale! Insomma, come dicevamo, una mescolanza di verificato e di gratuito, di sostenibile e di refutabile, sia nei dati sia nel metodo, che rende impossibile, nel poco spazio di una recensione, sceverare tutto l’apporto culturalmente utile dall’abbondantissima zavorra di questo volume. Preferiamo, perciò, rinunciare all’esame dei particolari, per rifarci soltanto a tre questioni di fondo, afferenti ad un giudizio, sostanzialmente negativo, dell’opera.
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Cominciamo con l’osservare, pregiudizialmente, che, oggi come oggi, sembra ancora prematura qualsiasi teoria generale sul film; e ciò per due ragioni. Prima: perché il cinema, nonostante i suoi quasi settant’anni di vita pletorica ed intraprendente, probabilmente è da considerare ancora un embrione di quello che sarà, forse in un avvenire anche prossimo; secondo: perché siamo ancora lontani dal possedere un minimo necessario di certezze, diciamo pure scientifiche, circa la natura e la portata dei fatti e dei fenomeni – svariati, complessi e forse variabilissimi – di cui esso è, volta a volta, causa o effetto. Lo scompiglio causato nelle teorie dall’avvento del sonoro, il molto di caduco che oggi è dato rilevare in teorizzatori e in classificatori già assai autorevoli – mettiamo un Eisenstein, uno Spottiswoode, un May... – incalzati dall’affrancamento, per non dire dalla rivoluzionaria scapigliatura, tecnico-espressiva del cinema odierno; la gratuità da fantascienza che accompagna volumi «scientifici», e da molti critici presi sul serio, – poniamo di un Epstein e di un Morin –, per non parlare delle «revisioni» critiche con le quali tanto idealisti quanto marxisti di punta si sono dovuti adeguare a situazioni continuamente cangianti... dovrebbero aver consigliato prudenza, pazienza e calma ai troppo frettolosi teorizzatori; virtù preziose, in difetto delle quali essi corrono il pericolo, o di poggiare i loro «sistemi definitivi , sulla sabbia di premesse malsicure e di dati effimeri, o di sospenderle a filosofemi aprioristici: nell’un caso e nell’altro, a vederli durare, come questo del Kracauer, l’espace d’un matin.
Venendo ora a lui in particolare notiamo che, infatti, la sua costruzione è minata cosi nelle premesse, date come assiomatiche, come negli insufficienti passaggi logici, che lo portano a concludere nella validità assoluta ed esclusiva del «cinema fotografico».
Il suo primo ragionamento-pilastro è il seguente: il cinema è un derivato della fotografia; ma la fotografia è condizionata da una dipendenza necessitante rispetto alla realtà fisica; dunque, anche il cinema sarà tale solo se resterà fedele a questa dipendenza. Ragionamento che fa acqua da tutte le parti. Infatti: comincia con l’equivocare tra dipendenza storica del cinema dalla fotografia e dipendenza essenziale, quando non il Kracauer e non altri hanno ancora dimostrato – né mai lo potrebbero! – una necessaria ed assoluta dipendenza dell’uno dall’altra, e quando, anzi, non mancano ragioni valide di metterla in dubbio e di negarla.
Inoltre, con un’ingenuità per lo meno inattesa in uno al quale è doveroso supporre siano familiari tutti i procedimenti foto-cinematografici – da quelli più elementari, inerenti all’invenzione dei Niepce-Daguerre e dei Lumière, a quelli complessissimi, che vanno sotto il termine improprio di trucchi – il Kracauer sembra attribuire alla macchina da presa un’oggettività assoluta rispetto alla realtà fisica, che, invece, è fuori delle sue possibilità. Infatti, essenzialmente impotente, come ogni altro strumento ,registratore, ad esaurire tutti gli aspetti della realtà fisica, la macchina da presa è forzata a sceglierne alcuni, tanto sotto l’ambito quantitativo (inquadratura-spazio, sequenza-tempo...), quanto sotto quello qualitativo (bidimensionalità, proporzioni di campi e di piani, relazioni spazio-temporali nei fenomeni di movimento, colore...); di conseguenza, le rappresentazioni che riesce a darne, anche come semplice strumento registratore, non possono non essere che quelle di una realtà parziale, filtrata, sui generis.
Infine, anche dato e non concesso che la macchina cinematografica possa agevolmente funzionare quale fedele strumento registratore della realtà fisica – alla stregua, poniamo, di un sismografo rispetto alle scosse telluriche, o di un fonografo rispetto alle onde sonore, anche complessissime, come di un concerto – resterebbe sempre da dimostrare che la stessa macchina lo debba necessariamente e sempre, quando, invece, è di esperienza comune l’uso fattone in funzione di strumento di espressione e di comunicazione intenzionale da parte di soggetti attivi della stessa comunicazione, i quali, a ciò fare, o impugnano la macchina e ne traggono essi stessi le immagini visivo-sonore che loro occorrono, oppure usano di immagini visive e sonore, in qualsiasi modo ottenute, scelte, manipolate e montate, in funzione di segno. Ovviamente, in questo secondo caso, il rapporto immagine-realtà fisica, sempre che continui a sussistere, resta del tutto soccombente rispetto a quello, prevalente, tra immagine-segno e fatti di coscienza significati, vale a dire tra immagine filmica ed intellezioni-volizioni-stati di animo dell’autore, che con quelle immagini intenda esprimersi e comunicare.
Partendo da questi concetti, agevole sarebbe confutare una per una tutte le illazioni secondarie fondate dal Kracauer sul suo malfermo primo ragionamento-pilastro, quali, per esempio: l’esclusione di ogni artificio – avvertire la contraddizione in termini! – dall’espressione artistica, quindi lo svilimento del montaggio come mezzo espressivo, la preferenza concessa alla corrente «realtà-Lumière», rispetto a quella «fantasia-Méliès», il metodo critico di un rigorismo fenomenologico tanto meno utilmente applicabile all’opera d’arte quanto più fondato sui due dogmi insostenibili del rapporto necessitante tra qualità estetiche ed uso delle qualità proprie allo strumento scelto, e di un’arte cinematografica sui iuris e discordante, almeno rispetto all’uso degli strumenti espressivi, dall’arte in genere... Ma preferiamo venire al secondo ragionamento-pilastro del Nostro, al quale il primo è rigidamente legato.
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Esposto, motivato e documentato per lungo e per largo nelle trentaquattro pagine dell’Epilogo, intitolato Cap. XVI, Il cinema nel nostro tempo, più o meno in forma si può sintetizzare ,nei passaggi seguenti: 1) L’uomo moderno vive tra le rovine delle antiche e comuni fedi-ideologie: credenze, religioni, culture, etiche, costumi...; 2) Per supplire al vuoto ideologico seguito al dissolversi di queste norme e di valori, le due vie proposte e tentate – l’anti-intellettualistica e la liberale – si sono dimostrate inefficaci; 3) Infatti, l’anti-intellettualistica ha fatto ricorso a nuovi miti (partito, psicanalisi, ecc.), che, tutto sommato, si sono rivelati più instabili e più feraci di inconvenienti di quelli tramontati; 4) Mentre quella liberale ha puntato tutto sulla scienza e sul progresso tecnologico: valori che, portando l’uomo ad un eccesso di astrazione concettuale ed operativa, lungi dall’integrarlo nella realtà-totale, hanno finito con lo straniarlo del tutto da essa; 5) Questi due coefficienti condizionanti l’uomo moderno sono interagenti; infatti, se il dissolversi delle fedi-ideologie l’hanno chiuso nell’astrattezza, questa oggi gli impedisce di riaccedere a quelle; 6) Occorre, dunque, cominciare con liberarsi dall’astrattezza, «riscattando la realtà fisica» dall’abiezione cui l’hanno condannata e miti e scienza; 7) Mezzo particolarmente attrezzato a questo scopo è il cinema-fotografico, dato che realizza la più completa esperienza umana dei dati fisici della realtà; 8) E se, usandone integralmente, non approderemo più alle certezze ideologiche di una volta, poco male! Non foss’altro, avremo la possibilità di trovare qualcosa di straordinariamente importante per se stesso; vale a dire questo mondo fisico che ci appartiene, non esclusa l’esperienza estetica, appunto come suprema e completa e esperienza delle cose»...
Ci sembra superfluo rilevare la gratuità di molte affermazioni e la disinvoltura di alcuni passaggi di questo ragionamento, dove, tra l’altro, si dà come universale e definitivo uno stato di cose e laico» che – con buona pace di Nietzsche e di Whitehead, di Freud e di Marx, di Spengler, di Durkheim, di Renan e di altri grossi calibri messi in postazione dal Nostro – per quanto diffuso e perdurante sia, grazie a Dio universale e definitivo non è; dove, reso omaggio al pregiudizio di un’opposizione irriducibile tra religione (fede) e scienza, si ignora, o si liquida, come anti-intellettualistica ed illusoria, l’unica valida proposta di certezza che all’uomo moderno è offerta dal realismo cristiano; dove, con evidenti petizioni di principio, si parte da premesse relativistiche per liberarsi dal disagio di un relativismo ideologico-scientifico-tecnologico, e, proprio per appagare richieste di assoluto, si indicano come assoluti mete e scopi essenzialmente immediati e caduchi, mentre arbitrariamente si dà come unica realtà quella fisica e, per giunta, si dànno come suoi valori prevalenti ed assoluti proprio i fenomeni ad essa più esteriori, quali le apparenze fotografabili ed il moto locale...
Sono considerazioni, l’enucleamento delle quali ci porterebbe troppo lontani dagli intenti di una recensione già prolissa. Preferiamo perciò concluderle con alcuni interrogativi più aderenti al mondo del cinema e della sua critica, sì maldestramente proiettato dal Kracauer in quello più universale della cultura e della filosofia.
Nell’abbondanza delle accuse mosse contro il cinema come fatto di (in)cultura, sia, a priori, da molti «intellettuali» e letterati affetti da deformazione professionale, sia, a posteriori, da quanti giudicano il cinema dallo stato miserando in cui spesso l’hanno ridotto l’industria, il mercantilismo ed il politicismo più ottusi, era proprio il caso che si portasse un non richiesto e sì massiccio contributo da parte di un autore noto come intellettuale e cineasta? Per reagire ai guasti che nella poetica e nella critica cinematografica arrecarono ed arrecano i non molto opposti fronti dell’idealismo e del marxismo, giustamente avversati dal Kracauer, era proprio il caso di escogitare, e di sostenerlo con tanto apparato di erudizione, un tanto indigesto esistenzialismo naturistico? Tra l’altro, come non accorgersi che con esso si ritorna addirittura alla preistoria dell’estetica? Addio, infatti, – almeno nel e per il cinema – all’arte espressione personale totale e creativa di sentimenti umani; e addio, anche, all’aristotelica arte-imitazione, ma di una Natura sorpresa nei suoi valori universali, nonché anche alla platonica imitazione individua della stessa, indegna perciò di cittadinanza onorata nella humana civitas! Ma, addirittura, arte identificata con la natura fisica, tutta e solo registrabile da un occhio di vetro, e volutamente agnostica di qualsiasi idea-visione, vuoi immanente vuoi trascendente, dato che si esige soltanto e tutta come percepita e sorpresa nel suo accadere casuale!
È proprio giusto proporre siffatta teoria come un «riscatto della realtà fisica», o non, piuttosto, si perviene con essa – certamente contro ogni intenzione del Kracauer – ad un ulteriore servaggio dell’uomo, mediante l’accreditamento di un nuovo mito, cento volte meno fascinoso e più volgare delle antiche fedi e della scienza-tecnologia, che dovrebbe surrogare?
1 SIEGFRIED KRACAUER, Film: ritorno alla realtà fisica (Milano, Il Saggiatore, 1962, pp. 524. L. 2.500); traduzione dell’originale edito a New York, dalla Oxford University Press nel 1960, sotto il titolo: Theory of Film; e quindi a Londra, nel 1961, da Dennis Dobson, sotto il titolo: Nature of Film (The Redemption of Physical Reality).