NOTE
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1 Cfr M. BESSI – LO DUCA, Georges Méliès, Parigi 1945. Lumière lui dit textuellement: Jeune, homme, remerciez-moi. Cette invention n’est pas á vendre; mais, pour vous, elle serait la ruine. Elle peut être exploitée quelque temps comme une curiosité scientifique: en déhors de clea elle n’a aucun avenir commercial.

2 Preceduti da una breve presentazione di Georges Sadoul e seguiti dall’inaugurazione di una stele commemorativa del grande inventore, il 29 aprile nel Palais des Festivals vennero proiettati di Luigi Lumière: lmages de la Côte d’Azur (1895-1900), Images de Paris (1896-1900), lmages du monde (1896-1900); di Georges Méliès: Voyage dans la lune (1902), e di Thomas Edison-Porter: The great Train Robbery (1903) e Mariage de Poupées (1905).

3 Secondo il calendario delle manifestazioni cinematografiche 1955 si dànno dieci festivals riconosciuti dalla F.I.A.P.F. (Federazione Internazionale Associazioni Produttori Film). Li diamo in ordine di anzianità indicandone l’anno di nascita: Mostra d’arte di Venezia (1932), Festival di Cannes (1946), Locarno, in Svizzera (1946), Marianske Lazne, in Cecosìovacchia (1948), Punta del Este, nell’Uruguay (1951), Cortina d’Ampezzo (1952), Berlino (1951), Durban, nell’Unione Sudafricana (1955), Edinburgh, in Inghilterra (1947), San Sebastian, in Spagna (1953). Solo le competizioni di Venezia e di Cannes sono riconosciute come ufficiali internazionali; le altre hanno o un carattere locale (per esempio Punta del Este, per l’America del Sud), o di categoria (per esempio Knokke-le-Zoute, in Belgio, per il film sperimentale e poetico, Cortina d’Ampezzo per quello sportivo, San Sebastian per quello a colori).
Si comprendono le difficoltà che la produzione annuale provi nel provvederli tutti di buoni film, e perciò l’impressione di scarso valore artistico e commerciale che critici e pubblico riportano spesso dai troppo numerosi festivals, che si dividono il non abbondante buono che c’è nelle annate buone; di qui la recente drastica determinazione della F.I.A.P.F. di accordare la propria collaborazione ad una sola manifestazione internazionale e non per due anni consecutivi alla stessa manifestazione; il che equivale ad un non cortese invito a Venezia e a Cannes perché, da annuali che sono, diventino biennali e si alternino, pena la morte per asfissia. Ma c’è chi pensa che non questa sia la via giusta, e suggerisce quella di una maggiore differenziazione delle due competizioni annuali, riservando a Venezia il carattere di mostra d’arte e a Cannes quella di festival commerciale.

4 Eccone l’elenco in ordine alfabetico (I lunghi metraggi sono preceduti da un asterisco e seguiti dal nome del regista; quelli in cinemascope sono seguiti da due asterischi, quelli in colore dal segno #). 1) AUSTRALIA: * Jedda ** #. – 2) AUSTRIA: Der Schatz des Abendlandes (I tesoro dell’Occidente) #. – 3) BELGIO: Dock #; Pierre Roman Desfosses #. – 4) BOLIVIA: La ciudad bianca (La città bianca). – 5) BRASILE: * O samba fantastico, di J. Manzon e R. Penin; A esperança terna. – 6) BULGARIA: * Gueroite na Chipka (Gli eroi di Cipka) #, di S. Vusiliev. – 7) CANADÀ: Blinkiti Blank #; Bush Doctor (Il medico del nord). – 8) CECOSLOVACCHIA: * Psohlavci (I e «teste di cane»), di Martin Frič; Opici cisar (Il re delle scimmie) #; Les adilentures du brave soldat Cheik #. – 9) DANIMARCA: Le comte de ma vie (La vita di Andenen); L’intrépide soldat de plomb (Il soldatino di piombo) #. – 10) EGITTO: * Hayaa aw mout (Tra la vita e la morte), di Kamal el Cheikh. – 11) FRANCIA: lmages préhistoriques (Pitture preistoriche) #; * Du rififi chez les hommes (Complicazioni tra gli uomini), di Jules Dassin; L’homme dans la lumière (L’uomo e la luce); Grande pêche (Pesca grande); Le dossier noir (La cartella nera), di André Cayatte; De sable et de feu (Di sabbia e di fuoco) – 12) GERMANIA: Ludwig II (Luigi II di Baviera) #, di Helmut Käutner; * Die Mücke (La mosca), di Walter Reisch. – 13) GIAPPONE: * Chikamatzu Monogatari (Gli amanti crocifissi), di Kenji Mizoguchi; * Onna no koyomi (Il calendario delle donne), di Seji Hisamatsu; 2’ 21” 6; * Sen Hime (La principessa Mille) #. – 14) GRECIA: * Stella, di Michael Cacoyannia. – 15) INDIA: Symphony of Life (Inno alla vita); * Biraj Bahu; * Boot Polish (Il piccolo lustrascarpe), di Prakash Arora; The golden River (Il fiume d’oro). – 16) INGHILTERRA: Bow Bells (Londra canta); * The End of the Affair (Vivere un grande amore), di Edward Dmytryk, * A Kid for two Fartings (Il bambino e il liocorno) #, di Carol Reed; Black on White (Nero su bianco). – 17) ISRAELE: * Hill 24 doesn’t answer (La collina 24 non risponde), di Thorold Dickinson; Les trésors de la Mer Rouge (I Tesori del Mar Rosso) **. – 18) ITALlA: * L’oro di Napoli, di Vittorio De Sica; La processionaria del pino #; L’isola di fuoco ** #; * Il segno di Venere, di Dino Risi; Italia K2 ** #; Piazze d’Italia ** #; * Continente perduto ** #, di Marcello Baldi e Mario Fantin. – 19) MAROCCO: Les jardiniers d’Allah (I giardinieri di Allah) #. – 20) MESSICO: Un extraño en la escalera (Uno straniero sulla scala), di Tulio Demicheli; * Raices (Radici), di Benito Alazraki. – 21) NORVEGIA: * Del Brenne, i Natt (La fiamma), di Arne Skouens; Host (Autunno) #; Jakten over Sporen (La capra e il treno) #. – 22) OLANDA: Op de Spitsen (Sulle punte); The Story of the Light (Storia della luce) #. – 23) POLONIA: Niedzielny Poranek (Una domenica mattina) #; Cyrk (Il circo) #. – 24) PORTOGALLO: Arte popular portuguesa (Artigianato portoghese). - 25) RUMENIA: In cantec si dans (Canti e balli) # – 26) SPAGNA: * Marcelino pan y vino, di Ladislao Vajda. – 27) SVEZIA: Bronsalder (L’età del bronzo). – 28) SVIZZERA: Pulsschlag der Zeit (Il battito del tempo); Nos forits (Le nostre foreste). – 29) TUNISIA: Trois coquillages (Tre conchiglie) #. – 30) UNGHERIA: Aggtelek #; * Liliomfi #, di Karoly Makk. – 31) UNIONE SUDAFRICANA: Guardians of the Soil (Difendiamo la nostra terra) #; Tickets, please (Biglietti, prego) #. – 32) U.R.S.S.: Romeo e Giulietta **, di Arnchtam e L. Lawroski; Ostrov Sakaline (L’isola Sakalin) #. * Bolchaia Srmia (La grande famiglia) #, di J. Heifitz; Zolotaia Antilopa (L’antilope d’oro) #. – 33) U.S.A.: Tuna Clipper Ship (La pesca del tonno) ** #; * Bad Day at Black Rock (Un uomo è passato) ** #, di John Sturges; When Magoo flew (Quando Magoo volava) ** #; Wie die Jungen sungen (Se tutti i ragazzi...);* Marty, di Delbert Mann; * The country Girl (Una ragazza di campagna), di Georges Seaton; * East of Eden (All’est dell’Eden) ** #, di Elia Kazan.

5 Per i lungometraggi: Palma d’oro a Marty, per l’insieme dei suoi pregi, e in particolare per la sceneggiatura, la regia e l’interpretazione degli attori E. Borgnine e B. Blair; premio speciale a Continente perduto, per la bellezza e poesia delle immagini e il pregevole impiego del suono ; a East of Eden per il migliore film drammatico; a Romeo e Giulietta per il miglior film lirico; a Spencer Tracy per il migliore attore in Bad Day at Black Rock; a Bolchaia Semia per il miglior complesso di attori. Premio per il miglior regista ex aequo a S. Vassiliev e a J. Dassin per Gueroita na Chipka e Du rififi chez: les hommes. Menzioni speciali alla ballerina Galina Ulanova e ai cineasti italiani di Continente perduto; premi speciali ai bambini Baby Naaz e Pablito Calvo di Boot Polish e Marcelino pan y vino. La giuria era composta da: Marcel Achard, A. Dignimont, J. Pierre Frogerais, J. Nery, Marcel Pagnol: tutti della Francia; J. M. Bardem (Spagna), Léopold Lindtberg (Svizzera), Anatole Litvak (U.S.A.), Isa Miranda (Italia), Léonard Mosley (Inghilterra), Serge Yutkevic (U.R.S.S.). — Benché, a detta del comunicato stampa, le decisioni della giuria siano state prese all’unanimità, non ne passano inosservate alcune inesplicabili incongruenze. Segnaliamo, tra le altre, il nessun riconoscimento dato all’ottima selezione inglese e a due suoi ottimi interpreti: il piccolo Jonathan Ashmore e la grande Deborah Kerr; la scarsa attenzione prestata a East of Eden e a Marcelino pan y vino.
Per i cortometraggi: Premio per il miglior documentario da schermo panoramico a Isola di fuoco, per la sua intensità drammatica; a Blinkiti Blank, per il miglior cartone animato; Secondo premio a Grande Pêche; menzione speciale a Zolotaia Antilopa. La giuria era composta da: J. Doniol-Valcroze, Marce! Ichac e Jean Perdrix (tutti di Francia), Herman van der Horst (Olanda), Karl Korn (Germania).

6 Lo svizzero Pulsschlag der Zeit, l’olandese Op de Spitsen e il brasiliano O samba fantastico, per chiarezza di luci ed incisività di particolari reggono bene il confronto con la tradizionale chiarezza della fotografia svedese: le ricostruzioni di interni, buone per dosaggio di luci e naturalezza di scenografie, dello spagnuolo Marcelino pan y vino e del giapponese Onna no koyomi, gli esterni drammatici e suggestivi dell’israelita Hill 24 doesn’t answer e del greco Stella non sfigurano troppo se confrontati col francese Du rififi chez les hommes, con l’inglese The End of the Affair e con l’americano Marty; per sapiente impiego del colore il romeno In cantec si dans, il bulgaro Gueroite na Chipka e il tunisino Trois coquillages non hanno troppo da invidiare all’inglese A Kid for two Fartings e ai russi Giulietta e Romeo e Bolchaia Semia; per la cura della ricostruzione storica l’ambizioso Ludwig II, presentato dalla Germania, emula il giapponese Sen hime; e finalmente, quanto all’impiego di una tecnica novissima come il cinemascope con relativo sonoro stereofonico, gli italiani, messi solo ora a contatto con questi nuovi sistemi, hanno saputo darci con Continente perduto ed Isola di fuoco qualcosa che degnamente regge il confronto con gli americani, pure degnissimi, Tuna Clipper Ship, Bad Day at Black Rock e l’ottimo East of Eden.

7 Ci permettiamo di dubitare dell’opportunità di accumularne tanti a Cannes, dove manifestamente servono unicamente ad accentuare l’internazionalità della competizione, dando modo di parteciparvi a molte nazioni che non sono in grado di produrre lungometraggi: ed avanziamo la proposta di tornare a rimandarli tutti, o quasi, a qualche festival specializzato ad hoc, sull’esempio di quanto si è fatto per qualche anno a Venezia.

8 Sotto questo rispetto vincono ogni concorrenza gli Stati Uniti d’America. La loro industria cinematografica, la prima del mondo, è uno dei più colossali e sicuri cespiti di ricchezza, succhiata si può dire da tutto il mondo, rispetto alle cui cifre sono trascurabile cosa quelle delle elemosine poi da essi elargite alle nazioni meno abbienti. Valga un solo dato: al Giappone, con la fine delle ostilità, gli Stati Uniti imposero l’importazione e lo sfruttamento di milleduecento loro film ogni anno. A dieci anni dalla fine della guerra questo stato di cose dura immutato, con quali conseguenze economiche, culturali e morali pensino i lettori.

9 L’U.R.S.S. non fa mistero di questa sua volontà di propaganda. Così si esprime Sergio Yutkevic, membro della giuria, in Ciné Inofrmation France-U.R.S.S. (Supplément n. 116 de la revue France-U.R.S.S.), tutto irto di aculei contro le censure europee: Nous ennemis font à nos films le reproche de “propagande”. Oui, nous reconnaissons avec fierté que nous voulons, avant tout, utiliser l’écran pour faire une propagande en faveur de celte splendeur qu’apportent aux hommes la paix, l’amitié, le travail et la création. Et nous souhaitons que notre recontre renforce encore cette cordiale et sincère sympathie que, de longue date, nourrissent l’un pour l’autre, nos deux peuples.

10 In Continente perduto, girato da italiani nella Malesia, gli indigeni, tutti sempre, pregano, in una vita ch’è un unico atto di culto; gli italiani si limitano a costatare quello «stato d’animo dell’uomo, una posizione dello spirito di fronte alla vita, di fronte al mondo visibile ed invisibile».

11 L’O.C.I.C. (Office Catholique International du Cinema) gli ha conferito una menzione specialissima, come a film «che restituisce nella loro freschezza, insieme con l’amore del cristiano per Cristo, i temi evangelici dello spirito dell’infanzia, del senso della comunità e del fervore anche nei compiti più umili».

12 Questo film ha riportato anche il premio dell’O.C.I.C. «per l’opera che, per ispirazione e qualità, meglio contribuisce al progresso spirituale e all’incremento dei valori umani».

13 Su tale coincidenza di valori morali, religiosi ed estetici, cfr le pertinenti osservazioni di G. L. RONDI in Consuntivo di Cannes (La Fiera Letteraria, 22 maggio 1955, p. 6), e, particolarmente a proposito di Marty, sulla Rivista del cimematografo, 1955, n. 6, p. 19: «Qui, allora, ritrovi, felicissima, la conferma di quanto veniamo sostenendo da tempo sui veri valori del neorealismo. Questo film, infatti, non è stato certo premiato dalla giuria di Cannes per gli stessi motivi che gli hanno valso il premio dell’O.C.I.C., ma è evidentissimo che quei motivi sono l’esatto presupposto di quegli altri, cosi come i personaggi di Marty sono “naturali” perché sono “soprannaturali”: questo profondo aderire alla realtà umana, infatti, che è il segreto spirituale del film, diventa nello stesso momento anche il segreto della sua validità estetica e tanto più vedi sincera la ricerca di questa realtà (in tutte le sue “dimensioni”) e tanto più la vedi espressa in compiuta concretezza poetica... C’è una verità poetica nata dall’ispirazione che ha saputo, con perfetta conseguenza “crearli” (i personaggi) così come li aveva “trovati” nel quotidiano divenire della migliore realtà contemporanea, quella costruita su solide basi cristiane».

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Articolo estratto dal volume III del 1955 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Due profezie sbagliate

Sessant’anni fa, il 13 febbraio 1895, il trentenne Luigi Lumière brevettava «un apparecchio capace di riprendere e proiettare immagini cronofotografiche»; il 22 marzo seguente a Lione, Rue de Rennes 44, egli l’adoperava per proiettare in privato il suo primo film, lungo appena diciassette metri, L’uscita degli operai dalla fabbrica Lumière; in novembre ripeteva l’esperimento alla Sorbona e il 28 dicembre dello stesso anno lo presentava al primo pubblico pagante nel Salon Indien di Parigi, Boulevard des Capucines 14. Il proprietario, signor Clément Maurice, temendo di rimetterci, rifiutò di affittargli il locale per un anno dietro la ricompensa del venti per cento sugli incassi, e preferì fissarla a trenta franchi il giorno, osservando che la curiosità del pubblico per quelle fotografie animate si sarebbe presto esaurita; invece uno dei suoi attoniti spettatori, Giorgio Méliès, intuì l’importanza dell’invenzione e si offri a comprarla a un prezzo favoloso; ma Antonio Lumière, a nome dei due figli, gliela rifiutò dicendogli: «Giovanotto, ringraziatemi! Se accettassi la vostra offerta vi rovinerei; quest’invenzione, se per qualche tempo farà un po’ di chiasso come una curiosità scientifica, poi non avrà alcun successo commerciale...»1.

Orbene, per dimostrargli errata la previsione bastarono al Maurice pochi giorni di spettacolo, vedere il pubblico far ressa avanti al Cinématographe Lumière e gli incassi salire ai duemila franchi giornalieri; e quanto fosse errata la profezia di papà Lumière oggi lo vediamo tutti coi nostri occhi, e in particolare l’abbiamo potuto considerare quanti abbiamo preso parte all’ottavo festival internazionale cinematografico di Cannes, che con una retrospettiva appunto dei primi film di Lumière, di Méliès e di Edison (Porter) ha commemorato i sessant’anni del cinema2. Le traballanti immagini e gli scatti epilettoidi dei personaggi di quei cimeli, proiettati in quel luogo e a quel pubblico, più che muoverci a riso ci portarono a considerare tutta la vertiginosa evoluzione segnata dal cinema e, in gran parte per esso, dal mondo. Appena sessant’anni e siamo arrivati alle centosettemila sale, con cinquantasei milioni di posti disseminati per tutta la terra; i trentacinque clienti, che nel 1895 passarono incantati mezz’ora al buio nel Salon Indien, sono diventati i dodici miliardi che ogni anno passano ipnotizzati ore e ore al cinema, divenuto ormai per milioni di uomini una necessità di vita come il mangiare e il fumare; le immagini, già mute, hanno acquistato prima la voce e poi il colore, ed ormai balzano, rilevate e mostruose, dagli schermi panoramici, mentre, non più legate a ormai superati limiti di spazio, già raggiano dai dipoli trasmittenti e penetrano nelle case, invadenti, prepotenti ed orgogliose di un mondo che non resiste loro; il danaro turbina veloce e copioso intorno al sempre più bizarro ed estroso mondo dei divi, facendo del cinema la terza industria del mondo dopo quelle delle armi e degli alimentari; da volgare spettacolo di baraccone è diventato prima divertimento delle masse, poi arma principe di propaganda, violento agitatore di problemi e di rivendicazioni, denunciatore di piaghe private e sociali, mezzo didattico, espressione di arte, strumento di cultura; inoltre, per la tecnica in cui si fonda la sua essenza di immagine-movimento, tutta suggestione iporazionale, si è fatto livellatore ed esaltatore di coscienze, diffusore di idee incontrollate, creatore di stati d’animo inconsci, inesausto distributore di sogni e di illusioni, capriccioso e disumano creatore di straricchi e di dissestati, formidabile foggiatore dell’opinione pubblica, concorrente ed usurpatore della scuola e della Chiesa e, dunque, forse il più violento, diffuso ed insostituibile creatore, e insieme terribile creatura, di questa nostra paradossale civiltà limite.

Questa realtà onnipresente ed onnipotente del cinema, nata ed ingigantita in poco più di mezzo secolo, è innegabile. Ignorarla, oggi, non sarebbe segno d’intelligenza; disertarla o condannarla in blocco, come forse troppo avventatamente è stato fatto in passato, oggi sarebbe colpa imperdonabile in quelli che, per mandato umano o divino, combattono per le sorti spirituali e morali della civiltà; e appunto questo dovere, più che diritto, spiega la nostra presenza nei problemi del cinema e la costanza con cui ci proponiamo di tenerne al corrente i nostri lettori, ragguagliandoli su argomenti ed avvenimenti che solo qualche miope e ritardatario potrebbe giudicare sconvenienti ad un periodico di cultura e religioso come La Civiltà Cattolica; per esempio: sui festivals del cinema.

Proprio inutili i festivals?

Cinema, festivals, Lido di Venezia, Cannes... che ci vuole di più per suscitare immagini di feste chiassose e di divertimenti mondani? Nelle redazioni dei giornali i colleghi sospirano un: «Beato te!» al critico cinematografico che ogni anno parte per rappresentarvi il giornale, e nel mondo “per bene” i ben pensanti si affrettano a condannare cose e luoghi manifestamente vani e pericolosi; ma chi ne vive addentro tutta la realtà, bella o brutta che sia, non se la sente di essere tanto categorico nell’invidiare e nel condannare organizzatori e partecipanti di questi brillanti raduni.

È pacifico che gli interessi delle case produttrici cinematografiche e quelli turistici locali non coincidono sempre con le esigenze più elementari della morale, sicché certo non sono quelli i luoghi da mandarvi le novizie o i seminaristi ad impararvi la modestia cristiana, o i giovani ad apprendervi i valori essenziali della vita, né sono quelli gli avvenimenti più qualificati da mostrarsi ai poveri per convincerli che, finalmente, la c’è in questo mondo un po’ di giustizia sociale; tuttavia, nel loro insieme, questi festivals hanno una loro funzione economica, tecnica e di cultura, che ne giustifica l’esistenza. Passare in rassegna, raccolto in un suo luogo, per una o due settimane, il meglio di quanto tutte le nazioni producono nel cinema è per i produttori e per i noleggiatori di film, per i soggettisti e per i registi, per gli artisti e per i critici un aggiornarsi su tecniche e stili disparatissimi, gusti, correnti, influssi, nuove vie e declini, che influisce sia ad orientare la produzione avvenire, sia a determinare tempestivamente, attraverso la stampa, preferenze ed attese del pubblico. Le conferenze stampa di attori, di registi e di produttori, gli incontri occasionali tra critici e cineasti, e gli stessi numerosi e talvolta sontuosissimi cocktails offerti dalle delegazioni nazionali o da enti locali, per quanto chiari ne siano gli intenti di propaganda e di prestigio nazionale, se è vero che inter pocula non c’è lingua che non si sciolga e non c’è spigolo che non si smussi, sono preziose occasioni per iniziare conoscenze personali, che non di rado maturino in fattive collaborazioni professionali e in cordiali amicizie.

Ben vengano dunque i festivals, ma non si moltiplichino, né prolunghino troppo le loro assise per non accentuare troppo i loro richiami mondani e turistici a scapito di quelli professionali e culturali, e per non infierire oltre il ragionevole sulla resistenza dei critici e degli inviati della stampa, costretti a correre ogni anno da Venezia a Cannes, da Berlino a San Sebastian, da Locarno a Edinburgh, e magari da Durban in Africa a Punta del Este nell’Uruguay3, a cercarvi, dismembrato e sparso, quel poco di eccellente che ogni anno i produttori di tutto il mondo possono mettere insieme.

Che poi i festivals, anche a Cannes e al Lido di Venezia, non siano tutti sola e perenne baldoria, basta a dimostrarlo che raro è chi vi resista alla fatica improba che essi impongono a chi voglia assistervi coscienziosamente. Che farsi un’indigestione di film sia uno spasso se lo creda pure la servetta o il collegiale, i quali tutta la settimana sospirano le due ore di abbracci, di lacrime, di pistolettate e di languori del cinema domenicale; ma chi, oltre a vederne ogni giorno per mestiere, ne deve ingollare tanti in pochi giorni, presto ne resta più che sazio; perciò, appena può, ai festivals ci arriva in ritardo, o ne riparte prima della fine, e durante i giorni che ci sta, spesso, al chiuso della sala buia preferisce il sole radioso, l’aria limpida e il colorito viavai della Croisette, le acque turchine e le rocce rosse della Costa Azzurra e le colline della dolce Provenza. Ci vogliono proprio le esigenze del servizio o una più che salda coscienza professionale per durarla a lungo contro tante sollecitazioni di benessere, per quanto comode siano le poltroncine della grande sala del Palais des Festivals!

Tecnica ed arte

Nei quindici giorni effettivi di proiezioni avuti a Cannes, quest’anno abbiamo visti settantotto film, di cui trentadue lungometraggi e quarantasei cortometraggi, con la media di cinque film al giorno per cinque ore di proiezione. Le nazioni presenti alla competizione sono state trentatre4; premi distribuiti: una quindicina5, L’abbondanza dei premi non induca in errore il lettore, perché pare che il loro scopo, più che riconoscere una graduatoria di meriti reali, sia non scontentare le più grosse tra nazioni e produttori concorrenti. In realtà quest’anno a Cannes è mancato il capolavoro; ci sono state alcune cose buone, molte cose mediocri, sufficienti cose brutte: insomma abbiamo avuto quello che ci aspettavamo: il quadro esatto della produzione media mondiale.

Come prima impressione generale abbiamo notato un sempre più rapido livellamento mondiale nella tecnica e nel mestiere del cinema. Nazioni che nella produzione non vantano un grande passato, come il Canadà, l’Egitto, la Spagna, l’Ungheria; altre che ne sono quasi alle prime armi, come l’Australia, il Brasile, la Bolivia, la Bulgaria, la Grecia, Israele, la Norvegia, il Portogallo e l’Unione Sudafricana, e piccole nazioni che per ragioni di mercato si vedono preclusa la grande produzione, come il Belgio, il Marocco, l’Olanda, la Svizzera, la Tunisia, hanno mostrato che, quando ci si mettano, ormai tutte sono capaci d’imbastire film, che per qualità tecniche non distino sensibilmente da quelli di nazioni, le quali, ormai, nella produzione cinematografica vantano antiche tradizioni e saldissime strutture economiche6.

Questo, che non è che un aspetto del rapidissimo diffondersi dei mezzi tecnici nel mondo odierno, se da una parte ci fa piacere perché testimonia di un corrispondente rapidissimo colmarsi del vuoto, che per secoli ha diviso la maggioranza dell’umanità ignorante da una superba minoranza di conoscitori dei segreti della natura, dall’altra non lascia senz’apprensione quanti hanno a cuore le sorti spirituali dell’umanità. Essi vedono un’arma potente come il cinema affidata a cerchie sempre più vaste di uomini, più spinti da interessi economici, o comunque materialmente utilitari, che provvisti di proporzionata sensibilità poetica e senso di responsabilità morale; sicché, forse in nessun’altra attività umana come nel cinema essi auspicano quel supplemento di anima di cui, a detta di H. Daniel-Rops, abbisogna, per tornare umana, la ipertrofica corposità della odierna civiltà tecnica.

* * *

Esaminiamo, per esempio, sotto questo rispetto, la straordinaria sfilata dei cortometraggi presentataci a Cannes7.

Con lmages préhistoriques e Bronsalder siamo entrati nelle caverne preistoriche di Francia e di Spagna e tra le rocce levigate di Bohuslän in Svezia e vi abbiamo sorpreso i trogloditi, i cacciatori e i navigatori di tremila anni fa tracciarvi, con le prime figurazioni pittoriche, i ricordi delle loro imprese, dei loro amori e del loro culto; con Du sable et de feu e con Der Schatz des Abendlandes, illustranti il primo le vetrate colorate delle chiese francesi e il secondo i tesori usati nelle incoronazioni degli imperatori del sacro romano impero, ci siamo ripassata un po’ di storia e di arte religiosa medievale; con Le comte de ma vie e Black on White siamo stati edotti sulla vita dell’Andersen e sul più recente humour giornalistico inglese, mentre, passando per le creazioni primitivizzanti di Arte popular portuguesa, i due film A esperança eterna e Pierre Roman Desfosses ci hanno erudito sulle esperienze artistiche del brasiliano Lasar Segall e dell’omonimo bretone fondatore della scuola di pittura indigena nel Congo, dandoci modo di scorgere la sutura che raccorda la travagliata ed introversa arte moderna con quella immediata ed istintiva dei cavernicoli. Per la geografia e l’etnografia siamo stati serviti di tutto punto come per un esame di riparazione. Ostrov Sakaline ci ha mostrato per lungo e per largo l’isola di Sakhalin; Host ci ha detto come si colora l’autunno in Norvegia, Niedzielni Poranek come passa una domenica a Varsavia, e Bow Bells come trascorre un’incantevole giornata qualunque a Londra; con Dock, Golden River e Tickets, please, prima abbiamo scesa la Schelda dal Belgio al Mare del Nord, poi il Kaveri dal Melagirin Range alla Costa del Coromandel sul Bengala, e infine abbiamo risalito i più di 1.500 km. che separano Capetown da Pretoria nel Transvaal; gli effetti della degradazione meteorica nei monti dell’Unione Sudafricana non hanno più segreti per noi dopo che abbiamo visto Guardians of the Soil; non temiamo più interrogazioni su come vivano i portatori del Caracorum (Italia K2), su come lavorino i medici condotti nel Canadà (Bush Doctor), su come si balla in Tunisia (Trois coquillages) o in Romania (In cantec si dans); sulla pesca poi siamo ferratissimi da quando Tuna Clipper Ship ci ha fatto assistere alla pesca del tonno con l’amo praticata dagli Stati Uniti, e Grande Pêche ci ha accomunati con gli chalutiers francesi nella loro campagna annuale di pesca del merluzzo sui Banchi di Terranova, e Les trésors de la Mer Rouge, ci ha fornito una mirabolante dimostrazione di pesca subacquea; infine L’homme dans la lumière e The Story of Light ci hanno rinfrescato alcune nozioni di ottica e di elettrologia, pallide larve di quella che fu la nostra gloriosa cultura liceale...

Ma quante pagine di poesia in sì voluminoso florilegio? Gustiamo un po’ della grazia del realismo britannico in Bow Bells, un senso di drammatica potenza nell’Isola di fuoco, un’iniziale umana partecipazione alla fatica dei nostri simili in Grande Peche, un certo buon gusto di disegni e di ritmi in Zolotaia Antilopa...: ma per il resto, quanto mestiere, quanta «illustrazione», quanta compiacenza calligrafica e ricerca di effettacci, quanto reportage commerciale e reclamistico e, qua e là, quanto deteriore dilettantismo! Non c’è dubbio: sottoposto, suo malgrado, a siffatta ripassata di nozioni, per quanto parziali, disorganiche, polemiche e addomesticate, lo spettatore si diverte, e qualcosa impara, come dalla lettura dei vari Digest e Selezioni, testi di cultura su misura dell’enciclopedica superficialità moderna; in più gli capita d’ammirare l’estremo ardimento con cui l’obiettivo ormai fruga e penetra in ogni regno della natura, riduce a un punto questa terra rendendone a portata di mano tutti i segreti e tutti gli aspetti, dimostrando per conseguenza le possibilità del cinema come sussidio didattico, specialmente nelle arti figurative e nelle scienze tecniche e descrittive. Egli può anche restare pensieroso ed orgoglioso della potenza suggestiva di questo nuovo linguaggio per immagini, della malia che vi aggiunge il colore e il suono, e del tentativo che esso fa di abolire la distanza tra la cultura teorica ed esperienza vissuta, tutte qualità che fanno del cinema un formidabile mezzo d’indagine e d’informazione... Ma quanto rara vi è la contemplazione del bello! Perché quanto rara vi è, non la riproduzione della realtà, bensì la sua interpretazione e ri-creazione in una tensione di sentimento, e d’immagini che lo esprimano! Fate invece che, anche in un documentario, il regista viva il suo stato di grazia, che oltre la realtà concreta e contingente dei fiumi e delle barche, dei vulcani e dei tori, delle bestie, delle piante, degli uomini e degli elementi, pervenga all’essenza delle cose e le tocchi in quello che esse hanno di universale e di assoluto, e la sua intuizione di valori eterni rivesta di forme e di ritmi, di colori e di suoni che esprimano validamente il suo verbo interiore, ed anche il pubblico di Cannes, piuttosto parsimonioso in questo genere di approvazioni, si sentirà tocco della bellezza dell’arte, ed applaudirà. Così nel 1954 accolse alcune delle migliori sequenze di The living Desert di Walt Disney; così quest’anno ha accompagnato con ininterrotti applausi tutta la proiezione del nostro Continente perduto.

Lotta d’idee

Altra netta impressione che a Cannes abbiamo avuta sul cinema sessantenne è il posto ch’esso oggi occupa nell’urto d’interessi e nella lotta delle idee che scuote il mondo.

Di alcuni film è palese la funzione didascalica preminente su quella del divertimento, e l’intento d’inculcare qualche cosa di utile a tutti, siano i vantaggi di una lingua comune per l’unione dei popoli europei (Wie di Jungen sungen...), il vituperio dell’accattonaggio e i meriti della laboriosità (Boot Polish), la cura che bisogna avere delle foreste (Nos forêts) e dell’humus vegetale (Guardians of the Soil); ma non l’apparente neutralità di questi e di molti altri argomenti dei film anche spettacolari, (per esempio le indecorose condizioni economiche della magistratura in Le dossier noir), non le bandiere di tutte le nazioni concorrenti, che sventolano allineate sul frontone del Palais e nel lungomare della Croisette, non le cortesie di prammatica che artisti, registi e delegazioni dei diversi paesi si scambiano, inducano lo spettatore a credere che la produzione cinematografica presentata, se non proprio innamorata di problemi di cultura e sociali, sia fondamentalmente disinteressata.

L’interesse comune a tutti naturalmente è quello economico8. Su questo si regge, si può dire, ogni festivai, ed in particolare quello di Cannes. Ma, inoltre, da parte di alcune nazioni affiora, più o meno ingenuo e goffo, quello del prestigio nazionale, ad uso interno ed esterno, con filmetti o filmoni retorici e magniloquenti, fratelli di latte di quelli che in Italia magnificarono le opere del regime, passabili ancora forse per nazioni giovincelle affette da rosolia nazionalistica, ma che fanno sorridere chi se l’è scosso di dosso e ne ricorda ancora il molestissimo prurito.

Hanno accusato tracce di siffatta infantile eruzione epitelica i documentari dell’Unione Sudafricana, del Marocco e del Brasile; comprensibili situazioni storiche della nuova nazione spiegano come in essa possa aver invece alquanto esagerato Israele con Les trésors de la Mer Rouge, un vistoso documentario, che prende pretesto da una spedizione di subacquei francesi nel Mar Rosso per ammannirci un polpettone propagandistico su quanto di bene ha fatto e fa Israele in Palestina, e specialmente col drammatico Hill 24 doesn’t answer: un buon film, invero, per impegno di sceneggiatura, di regia e di recitazione, ma radicalmente viziato dalla tesi polemica sotto l’aspetto politico, razziale, religioso e militare. Proprio la forzata difesa di una tesi aperta, che piega fatti, uomini e cose a dimostrare che tutto il bene è da una parte e tutto il male dall’altra, e che, per vizio di polemica, forzatamente semplifica i problemi, scegliendone ed eliminandone i termini secondo che fa comodo, lo fa scadere dal livello di arte a quello di deteriore propaganda partigiana.

Ma in questo mestiere si sono mostrati maestri, come era da prevedere, i paesi d’oltre cortina9. Che cosa fa il popolo della Polonia di domenica? Ride e fa all’amore (e non è vero che la religione sia perseguitata! Non l’avete vista quella monaca libera per la strada: cattivoni?). Che cosa fa il popolo in Romania? Ride, canta e balla. E il popolo dell’isola Sakhalin? Perbacco: balla, canta e ride. Ah, sì, lavora anche; ma il lavoro lassù non pesa come nei vostri disgraziati paesi capitalisti, perché lassù si lavora per la pace! E che si fa in Ungheria? Una commedia, Liliomfi, tanto per tenersi in esercizio, dà qualche stoccatina ai signori (di una volta), cólti ma stupidi, ed esalta la bontà e la furbizia dei «lavoratori» di tutti i tempi, ma Aggtelek rileva che nelle omonime grotte geologiche la più bella è stata dedicata alla pace. E in Russia, che si fa in Russia? Prima di tutto, con Zolotaia Antilopa, si condannano i capitalisti, che approfittano dei proletari e muoiono nell’oro; poi, con Bolchaia Semia, si dice che quest’orrore in U.R.S.S. non avviene più, perché in quel beato paese tutti hanno un lavoro, e nel lavoro trovano la loro ricchezza e la loro felicità, tanto che nella patriarcale famiglia Jurbine tutti sono sodisfatti quando le lamiere delle navi non si uniscono più con l’antiquata chiodatura, ma, viva Dio!, con la saldatura elettrica... Infine, anche in Russia si ride e si balla, si balla e si ride, come in Giulietta e Romeo, la tragedia shakespeariana ridotta a balletto. Noi ne abbiamo applaudito la coreografia, la scenografia, la musica e il colore, ma vi abbiamo visto il simbolo di quanto avviene oltre cortina: un enorme orso ballare perché gli arroventano il pavimento. Spettatori ignari del metodo, possono pure applaudire: ma il bestione piange sulla sua prigionia senza speranze. Feroci scherzi di un’ideologia che, non contenta di schiacciare le sue vittime, esige che esse muoiano ridendo!

L’eterno Assente...

Forse meno consapevole, ma non meno palese, si avverte un altro contrasto nella produzione cinematografica mondiale, secondo che i film riconoscano o no una realtà, la quale, una volta, nel mondo religioso e cristiano, era, ed oggi ancora dovrebbe essere, l’unica misura valida dei valori assoluti della vita umana: la fede e la morale naturali e cristiane. Infatti, se ancora nei film giapponesi e indiani, musulmani e israeliti, qualcuno prega, nei film europei, e in quelli che dell’Europa laica e scettica hanno assimilato tutto il desolato materialismo, Dio è il grande assente: nessuno prega, nessuno crede, nessuno spera10. Tutto si organizza come se egli non ci fosse e non avesse una risposta a tutti i problemi dell’umanità; ragion per cui, quando si ritrovano mal combinati e infelici, gli uomini o si limitano a costatare che le cose, ahimè, vanno male (Dossier noir), o cercano di dimenticare se stessi oggettivando la loro infelicità in artificiosi casi di psicanalisi (Der Brenner i Natt), o ricorrono a qualche surrogato, che riempia il vuoto infinito lasciato dal grande Assente; ed ecco Bad Day at Black Rock, in cui uomini che vivono ai margini della moralità vengono riportati nell’ordine morale dalla forza di una legge astratta, avulsa da qualunque trascendenza, e perciò monca, come il pseudo dio (Spencer Tracy) che la rappresenta; ecco A Kid for two Fartings, in cui la funzione di deus ex machina è affidata ad un favoloso liocorno, il quale sodisfa tutti i desideri onesti della gente, anzi punisce il male e premia il bene, ma in un clima di fiaba, il quale dimostra tanto infondato l’ottimismo che vuole ispirare quanto gratuita ed irreale è la potenza del favoloso animale.

In qualche film Dio e religione non sono del tutto assenti, ma, pur di non vederli trattati in quella maniera, noi, credenti e cattolici, avremmo preferito vederli ignorati; infatti o servono per far colore, come le pagode e le vacche nei racconti indiani, gli stregoni e gli amuleti in quelli africani; o sono occasione di profanazioni irriverenti e addirittura di bestemmie.

De Sica, in L’oro di Napoli, ha dato un infelice esempio della prima maniera, mescolando in un’unica farandola Madonne, santi, chiese, frati, messe e funerali, alle avventure piccanti di pazzi, maniaci, donne perdute e moderne veneri steatopigie; esempi della seconda maniera hanno dato i due film messicani Raiees e Un extraño en la escalera: non privo di qualche valore formale il primo, ma plumbeo e blasfemo quanto, almeno in un episodio, trivialmente sensuale, fumettistico, reboante e truculento il secondo, il quale chiude un’interminabile pasticcio di esasperati Suspense e di fauneschi contorcimenti con l’apparizione inopinata di un ridicolo vecchietto, venditore di bibbie e di enciclopedie (?!), assunto a ruolo di angelo custode, e con una inattesa confessione con cui i due bei campioni della fauna terrestre si ricordano, finalmente, di essere «povera gente che Dio ama tanto...». Il pubblico ha riso di tanta idiozia; a noi veniva da piangere sorprendendo tanta abissale mancanza di senso religioso in un rappresentante del cattolicissimo Messico!

Grazie a Dio, ci sono state offerte graditissime eccezioni in due film, che hanno o posto, o vissuto come presupposto, il problema del trascendente rivelato.

Il primo è l’inglese The End of the Affair. Durante la seconda guerra mondiale, in Inghilterra, tra Maurizio Bendrix e Sarah Milles sorge una simpatia che presto diviene violenta e gelosa passione, tanto che l’uomo invita la donna a separarsi dal marito per convolare a nuove nozze. Una notte, dopo una violenta esplosione di un V1, che danneggia gravemente la casa, Sarah ritrova Bendrix immobile sotto le macerie; credendolo morto, prega Dio, cui non credeva, di ridargli la vita e fa voto di non incontrarlo più se il miracolo si compirà...: ed ecco che Bendrix le si presenta ferito ma vivo; Sarah si allontana da lui cominciando l’adempimento della sua gravosa promessa. Bendrix, che vede farsi assente l’oggetto della sua passione, incarica un detective privato di scoprirne fa causa. Sarah, intanto, sola nel suo sacrificio, cerca di uscire fuori dal problema di coscienza in cui il voto l’ha chiusa, consigliandosi con un sacerdote cattolico, prudente testimone del travaglio della grazia nell’anima sua, ed insieme ricorrendo ai consigli di un ateo, il quale quasi la persuade della non esistenza di Dio e quindi dell’inconsistenza del suo voto e della necessità di divorziare. L’azione precipita. Il marito finalmente comprende la natura del sentimento che lega Bendrix alla sua Sarah; Bendrix, cui il detective ha consegnato il diario intimo della donna, leggendolo, comprende tutto l’amore che essa ancora prova per lui ed insieme tutta la generosa fortezza con cui essa osserva il voto fatto. Incontrandola, la scongiura di romperlo: ma invano. Quando tenta ancora una volta di rivederla, apprende che Sarah, vinta dalla prova, è morta. Tornato a casa, trova l’ultima lettera con cui la donna manifesta tutta la sua gioia per la fede, ma con accenti che tradiscono ancora il suo amore. Le parole scuotono l’uomo ed aprono sul suo animo, fin allora sordo ad ogni richiamo che non fosse della passione, il primo spiraglio verso quei valori eterni che hanno condotto la donna alla sua duplice vittoria...

Il soggetto è tratto dall’omonimo romanzo di Graham Greene; regista n’è stato Edward Dmytryk, interpreti principali Deborah Kerr, van Johnson e John Mills: cinque nomi che potevano assicurare la validità piena di un film, ma che in realtà ci sono riusciti solo in parte. Esso ha i pregi e i difetti di un’opera letteraria e di tale autore: personaggi, situazioni e soluzioni psicologiche non sempre validi; una certa sproporzione tra la prima parte, prolissa, e la seconda, frettolosa e schematica nelle sue conclusioni; una troppo palese organizzazione a tesi, che artisticamente gli nuoce, nonostante la sua bontà intrinseca, come avviene nei film sovietici, viziati dalla tesi imposta dall’esterno; quanto al significato, poi, purtroppo il problema religioso è posto come un caso limite, legato ad una situazione paradossale, inoltre su piano di istinto e sensibilità piuttosto che su quello d’intelligenza illuminata; inoltre il problema risulta dissestato, perché l’interpretazione, del resto ottima, della Kerr, palesa più la violenza interiore della passione ostacolata dal voto, che il dramma spirituale intimo che possa tormentarla; quando invece questa e non quella, secondo lo schema narrativo del film, parrebbe dover essere l’idea ispiratrice.

Lo spagnolo Marcelino pan y vino narra la storia di un neonato rinvenuto sulla soglia di un povero convento di francescani e da questi allevato fino all’età di cinque anni. Fresche esperienze e gustose birichinate divertono fra Minestra e fra Campana, fra Malato, fra Portone e fra Battesimo (il bambino li chiama secondo i loro uffici...), ma insieme li impensieriscono per i pericoli che Marcellino, non sorvegliato, potrebbe incorrere. Per mettere dunque qualche limite alla sua spensierata libertà gli proibiscono di salire in una soffitta irta di falci, di seghe, di forconi e di altri strumenti di lavoro, e rafforzano la proibizione minacciandolo che, altrimenti, un omaccione che vi stava se lo sarebbe portato via. Ma la curiosità del piccolo presto vince il timore delle minacce e dell’ignoto. Salito, vi trova, pendente da una trave, un grande Crocifisso, scavato e smunto. Sulle prime se ne ritrae intimorito, poi si offre ad alleviarlo portandogli cibi e bevande. Presto pane e vino spariscono dalla tavola e dalla dispensa dei frati, con sorpresa di fra Minestra, il quale, sorvegliando Marcellino nei suoi maneggi, finalmente un giorno lo sorprende a colloquio col grande Cristo, sceso dalla croce a gradire le sue umili offerte. Gesù e Marcellino parlano del paradiso e delle loro mamme che già vi godono la felicità: il piccolo mostra il desiderio di andarle a vedere... Gli altri frati del convento, avvisati del colloquio che ogni giorno si ripete tra i loro due ospiti, accorrono giusto in tempo per vedere esaudita l’ingenua domanda: il Cristo, da lui sfamato e dissetato, ha fatto raggiungere a Marcellino la mamma sconosciuta...

Anche questo film aveva buoni numeri per riuscire. Innanzi tutto la natura del soggetto, ricca di situazioni-stimolo per una sensibilità poetica: la fragilità dell’infanzia posta a contatto con la pesante rudezza dei frati e insieme al centro affettivo dei loro cuori consacrati a Dio; le esperienze del mondo, tanto più fantastico quanto più umile, della semplicità francescana, viste attraverso le liete pupille di un bimbo, simili a quelle del Poverello che per primo ne trovò il segreto; l’inconsapevole vuoto di un’infanzia che non ha conosciuto i baci e gli amplessi di una mamma, l’innocenza spensierata di un ragazzetto di fronte alla tragica realtà di un Uomo fatto peccato...; poi la fonte in cui il soggetto stesso si trovava già trattato: il romanzo Marcelino, di J. M. Sanchez Silva, best-seller letterario spagnuolo; il regista Ladislao Vajda e gli interpreti principali Rafael Rivelles, col simpatico bambino Pablito Calvo...

Sul piano della tecnica, per fotografia, per felice ricostruzione di ambienti, equilibrio e fluidità di racconto, felice caratterizzazione di personaggi, immediatezza di effetti ottenuta con mezzi semplici, anzi scarni, si può dire che il film faccia onore alla produzione spagnuola, inserendola tra quelle di alto livello internazionale; lo stesso miracolo del Cristo, che accetta visibilmente prima le offerte e poi la richiesta del bambino, è trattato con una misura e un pudore insoliti in quella cinematografia; ma intanto non va esente da carenze e difetti, quali un certo convenzionalismo in alcuni personaggi minori, l’inutile e forse dannosa cornice di narratage iniziale e finale, e un insistere su premesse, come il particolare della costruzione del conventino, che hanno col racconto centrale un legame del tutto secondario. Anche sotto l’aspetto religioso innegabili ne sono i pregi; per esempio, la vita dei frati vi è colta nella sua giusta luce, il francescanesimo in specie vi è dato come veritiera sintesi di semplicità e di lavoro, di umiltà e di povertà, ma anche di una piena e salda umanità, che copre, come sotto una rozza corteccia, la freschissima linfa di una profonda fede e di una sostanziale pietà, mille miglia lontane dal francescanesimo di maniera in cui travia, poniamo, il nostro Rossellini. Purtroppo però, a nostro modesto parere, un difetto l’inficia: l’aria d’irreale che l’accompagna, non ostante l’asserita storicità delle fonti letterarie dai cui dipende. Sembra infatti di assistere alla recitazione di un bell’apologo o di uno di quegli ingenui racconti, che nei Fioretti o nel Novellino celano il loro incanto proprio nello sfumato dei loro contorni, incerti tra la realtà storica e la creazione poetica; e proprio come, dopo un bel racconto, ti senti più commosso per i valori estetici che convinto per quelli dottrinali, qui i profondi significati teologici e morali, che la vicenda poteva rilevare, sfuggono e si sperdono in una commozione generica ed indistinta. La presenza di un innocente bambino, frutto dell’amore, tra uomini che sembrano refrattari all’amore, la gustiamo come una felice trovata; una nota poetica è la ricerca di un affetto materno che accomuna il bambino all’Uomo crocifisso; un bel gesto è quello di Marcellino, che offre i suoi doni, e un bel gesto quello delle mani divine che ripetono la mistica fractio panis; un bel gesto quello del bambino, che avvicina al tavolino la vecchia poltrona perché Gesù vi prenda seduto il suo pasto, e gli toglie dal capo la corona di spine; finalmente un bel gesto l’abbandonarsi mortale di Marcellino sulla stessa vecchia poltrona ... Sì: per i frati, che, attraverso le lacrime, vi hanno visto tutte le altissime e saldissime realtà alle quali è ancorata la loro vita divinizzata dalla fede, dalla speranza e dall’amore, quei gesti, oltre che belli, sono veri; ma per lo spettatore questo trapasso non si opera. Anche qui la mancanza di una più profonda ed unitaria ispirazione ha menomato sia la piena validità artistica di un film, peraltro pregevole, sia la forza persuasiva del suo eccellente messaggio cristiano11.

In ogni modo siamo gratissimi ai produttori inglesi e spagnuoli, che hanno osato, a Cannes, parlare esplicitamente di Dio e dei rapporti di amore che lo legano all’uomo, con due film che superano di molte misure altre produzioni, le quali la loro desolata sconoscenza di Dio provano con una compiaciuta conoscenza di quanto di più cupo si ritrova nell’uomo.

... e l’eterno presente

Dato che il cinema, oltre ad essere formatore del costume pubblico, ne è lo specchio fedele, un contrasto d’idee non dissimile da quello riscontrato circa il trascendente ci aspettavamo di trovarlo a Cannes sull’argomento dell’amore; con questa differenza, che mentre il primo nel cinema tende ad essere l’eterno assente, il secondo ne è ormai l’eterno presente.

Non saremo certo noi ad arricciare il naso nell’ascoltarne la canzone qualche volta monotona, perché siamo d’opinione che di amore, nonostante tutto, nel mondo ce n’è veramente molto poco, e pochissimo addirittura di quello limpido e fresco che Goethe riputava spettacolo degno degli dèi. Quello che condanniamo è lo spettacolo di un certo amore e la monotonia con cui e viene praticato nella vita e mostrato sugli schermi; spettacolo che, prima di immorale, ci sembra avvilente.

Sotto questo aspetto il campionario di Cannes ci ha offerto qualche luce e qualche ombra; inoltre molta volgarità e qualche sudiceria. Come qualificare altrimenti il comportamento di alcuni personaggi di Raiees e di Un extraño en la escalera, di Rififi chez les hommes e di Jedda? Come non bollare la tesi conclamata nel greco Stella, che il matrimonio sia la morte dell’amore e che perciò una proposta di matrimonio è motivo sufficiente per rifiutare l’amore dell’uomo che la fa? Apertamente in esso l’eroina asserisce che è meglio «amarsi come bestie selvagge», e preferisce affrontare la morte piuttosto che piegare la sua passione brada al matrimonio!

Pesanti di volgarità sono l’ungherese Liliomfi e gli italiani L’oro di Napoli e Il Segno di Venere. Qualche ombra vena i due film giapponesi Chikamatsu Monogatari (anticipazione, a parte l’adulterio, in chiave giapponese, dell’europeo Giulietta e Romeo) e Sem hime, dove l’amore è esaltato fuori della sua naturale aureola della famiglia e testimoniato fino col suicidio; tesi però l’una e l’altra poco suggestive dato il carattere leggendario delle due storie che ne trattano e la nota indipendenza della morale di quei popoli da quella cristiana. Nella produzione americana, che nell’insieme, come quella russa, lodevolmente non indulge in esibizionismi muliebri né su intrecci amorosi, qualche menda oscura Country Girl, in cui la protagonista, ammirabilmente impersonata da Grace Kelly, sembra in linea di massima non rifuggire dal divorzio; se, difatti, poi lo respinge è solo perché vinta dalla compassione che prova per il marito. Tre buone cose sull’amore coniugale ci vengono dall’India, dal Giappone e dall’America. L’India, con Biraj Bahu, un classico della letteratura indiana, ma raccontato in termini moderni, ci ha dato la storia di una povera donna, la quale, insidiata da un ricco scostumato, muore vicina al marito, contenta di esserglisi conservata fedele; nonostante le molte ingenuità di regia e di tecnica, la frammentarietà e la staticità delle sequenze e delle inquadrature, che a momenti fanno pensare a una serie di diapositive commentate da didascalie, la vicenda è riuscita gradita per un suo agreste sapore di freschezza e semplicità. Onna no koyomi ci ha trasportato nel Giappone moderno e ci ha esposto i casi di due sorelle orlane, che, per commemorare la morte dei genitori, si riuniscono ad altre tre sorelle sposate, e dalle confidenze di queste hanno modo di conoscere tutti i gravami che comportano il matrimonio e la vita di famiglia. La minore delle due sorelle ne subisce una crisi che quasi la convince che sposarsi è una pazzia; essa però la sormonta quando comprende i vantaggi che al matrimonio sono assicurati proprio dall’affetto del marito e dai figli, e persuasa che non c’è difficoltà che non possa essere superata dall’amore. Il racconto, tracciato nei limiti della proverbiale delicata affettuosità giapponese, oltre che come buona indagine di psicologia femminile, ha valore come visione fondamentalmente ottimistica della vita di famiglia e come documentario sull’adattamento della vita giapponese ai costumi europei. Peccato che il dialogo incessante, la scarsa azione e la monotonia delle situazioni ne riducano di molto l’efficacia persuasiva.

Invece omne tulit punctum l’americano Marty12, un film che nella sua semplicità dice tante cose. Intanto che per fare un bel film non occorrono miliardi, né organizzazioni colossali, né bellezze atomiche, né truculenti Suspense, ma prima e sopra tutto un’idea semplice, umana, profondamente sentita e semplicemente espressa. Infatti Marty non è stato girato a Hollywood, né da trust colossali, ma da una produzione indipendente; si giova di pochi scenari, quasi tutti ripresi dal naturale nel Bronx newyorkese, dove si muovono gli attori: tutta gente sconosciuta o quasi allo schermo. Il soggetto è semplicissimo: lui (Ernest Borgnine), impiegato in una macelleria, desidera sposarsi, ma per le sue goffe maniere, in parte frutto e in parte causa di un complesso d’inferiorità, in età alquanto matura è ancora spaiato; lei (Betsy Blair), più o meno nelle stesse condizioni, non si rassegna a fare perennemente tappezzeria. I due s’incontrano e, contro ogni speranza, s’intendono e si amano. Tutto qui, o quasi. Ma quanta verità umana! Quale concretezza di essenziale, quale sprezzo per ogni ridondanza retorica! Per sceneggiatura, regia ed interpretazione, aderenti alla realtà più profonda della vita quotidiana, vi abbiamo ritrovato, ma trasportato in U.S.A., lo spirito e l’anima che hanno fatto ammirare da tutto il mondo i più bei capolavori del nostro neorealismo. Il film ha una tesi, chiara e papale. Il valore immensamente superiore, in termini anche di felicità umana, dell’amore morale e cristiano tra due fidanzati, come preludio ad una felicità maggiore da raggiungere nella famiglia morale e cattolica, contrapposto all’amore sensuale in cui imbraga, sempre assetata e mai sazia, tanta parte della gioventù moderna. Questa tesi, moralmente e religiosamente valida, non imposta dal di fuori ma fatta tema ispiratore e poeticamente sentita, non solo non ha nociuto all’opera ma ne ha assicurata una validità artistica. Non diciamo di trovarci avanti a un capolavoro, ma ad un ottimo lavoro certamente sì. Gli americani, che l’hanno prima visto alla televisione, l’hanno apprezzato commossi; tradotto in cinema, pubblico e giuria di Cannes, dicesi di Cannes, l’hanno applaudito e gli hanno assegnato il gran premio: una modesta pellicola in bianco nero in concorrenza con diecine di colossi in cinemascope e a colori...

Parliamo di arte in Italia...

Questa ormai lunga panoramica sul festival di Cannes, che può sembrare prevalentemente contenutistica, rileva di fatto molti più valori e non-valori di quanto a prima vista non sembri.

Lungi da noi la pretesa di far coincidere il bello estetico col vero logico e con le migliori intenzioni morali e religiose dell’artista. Se lo tentassimo, verremmo clamorosamente sconfessati, prima che dalla teoria dell’estetica più razionale, dalla storia di questo sessantennio, popolata sia di film a tesi ottima, ma brutti, perché scarsamente ispirati e retoricamente espressi, sia di film ricchi di contenuto passionale e di vicende cariche di miserie umane, ma purificati da una visione superiore delle stesse miserie, e poeticamente espressi. Resta un fatto però che la divisione violenta operata dal laicismo nel credo e nella morale, tra i valori essenziali della vita umana e l’uomo, toglie il respiro prima che alle anime come entità eterne, all’arte come loro suprema espressione terrena.

Se lo spirito, laicizzato, non vede oltre quello che gli mostrano gli occhi animali, si ritrova confinato nel contingente, particolare e materiale, chiuso in se stesso; ma questo, in quanto tale, potrà essere oggetto di scienza, o bene economicamente fruibile, non di contemplazione artistica. Perché lo sia, bisogna che gli occhi dell’artista, ne sia egli cosciente o meno, si facciano capaci di vedervi qualche cosa che superi il particolare, e sia contemplabile ed esprimibile in termini di assoluto e d’infinito, legata in rapporto di effetto, partecipato ed esemplato, a causa partecipante ed esemplare, con l’unico ontologicamente infinito ed assoluto che è Dio. E dunque, la negazione teorica di questo rapporto certamente non sarà d’aiuto per l’artista, mentre la sua negazione pratica non potrà che mortificarne l’estro. Ma appena egli si abbandoni alla libera ispirazione, senza preconcetti settari che la deviino dalla contemplazione del bello che è anche vero, lo voglia o non lo voglia, troverà in fondo alla sua contemplazione Dio. Che se poi, accettando razionalmente o per fede quello a cui tende, Dio entri anche consapevolmente nella sua opera, questa non potrà non averne che un più largo e più profondo respiro. Il festival di Cannes, che nella più parte dei suoi film ha visto coincidere il culto della materia a non più che un brillante mestiere, ed invece il culto dello spirito con sinceri sprazzi di poesia, ne è la conferma sperimentale.

Non meno probante esperienza abbiamo avuto sul piano della morale. Già, se morale ed arte significano ambedue ordine, sia pure su piani distinti, a priori si poteva ritenere che l’una non potesse ostacolare l’altra, ma piuttosto giovarle. Alla stessa conclusione agevolmente poteva condurci un’indagine approfondita della spassionalità propria dell’una e dell’altra, contrarie ad ogni fruizione egoistica, e mortificate da ogni sfruttamento di oggetti utilizzati come fonti di piacere fini a se stessi. Ma a Cannes i fatti hanno dimostrato che uccidendo l’amore, quello vero, si uccide anche la poesia; che riducendolo da dono disinteressato a ricerca egoistica, da espansione di anime a sola fisica attrazione di sensi, l’artista resta con in sulla tavolozza molta passione ma poca umanità; allora: addio trasfigurazione fantastica di una realtà interiore, addio funzionalità di espressione viva ed immediata! Resta l’analisi psicologica di stati più o meno morbidi, un rigirarsi tra vicissitudini interiori tanto più vuote quanto più complicate, che obbligano ad un dialogo molto letterario e poco cinematografico. Allora il regista, che pur qualche cosa deve dire, per camuffare la vacuità interiore e rinforzare stimoli ormai esauriti dal lungo uso ed abuso, ricorre a teatralità magniloquenti e a montature melodrammatiche: retorica e non stile; e quando null’altro lo soccorre, fa appello a parate di plastiche procaci, che tutto hanno e tutto possono dire tranne che arte. Ed ecco allora i soliti film che prima di essere cattivi sono brutti; e sono cattivi proprio perché sono brutti e stupidi; ed ecco invece il senso di liberazione che apportano i film in cui l’amore è ancora qualcosa di bello, perché casto, cioè pienamente e profondamente umano13.

* * *

Prima di mettere punto vogliamo tentare, su questo metro, un giudizio della selezione italiana? Però, ahimè, non potrà essere molto lusinghiero!

Da due anni, dopo i trionfi che vi conobbe, l’Italia a Cannes è la grande sconfitta. Nel 1954 adoperò la formula: canzonette e macchiette napoletane in Carosello napoletano, più intreccio amoroso in Cronache di poveri amanti; quest’anno, visto che, con una certa dignità com’era, la formula non le aveva assicurato il successo, l’ha riadottata riveduta e notevolmente corrotta, presentando l’Oro di Napoli e Il segno di Venere. Quale figura ci faccia la religione, o piuttosto, la superstizione, l’abbiamo detto; resta a dire del come l’Italia abbia assicurata all’estero la sua fama di civiltà e di buon gusto. Ebbene: l’ha fatto esportando la teoria e la pratica del “pernaquio”, sfruttando senza misura l’anatomia teratologica delle nostre, chiamiamole, artiste, ed insegnando al mondo la tecnica più villana per abbordarle, già non invidiato privilegio dei beceri e dei lazzaroni, oggi adottata dai nostri esimi artisti, guidati dallo spigliato mestiere di Dino Risi e dalla consumata regia di Vittorio De Sica.

Quanto con questo genere di produzione ci guadagni l’arte s’intuisce; e s’intuisce anche più quanto ci guadagni in prestigio il nostro paese. Pare che nella produzione estera le opinioni sul nostro conto siano ancora divise; infatti, mentre la Grecia (Stella) dà un nome italiano ad una sua druda pervertita, e la Francia (Du rififi chez les hommes) fa passare per italiano il più perfetto scassinatore di casseforti; gli Stati Uniti (Marty) scelgono italiani e discendenti d’italiani per rappresentare ed ambientare una vicenda sana e religiosamente ineccepibile. La partita dunque si chiuderebbe alla pari se non arrivassimo proprio noi col nostro non invidiabile campionario di straccioni, di buffoni, di deficienti, di ladri, di ruffiani e di mascalzoni... Vero è che un’iscrizione ormai celebre, posta sul fastigio di un Palazzo della Civiltà, ci presenta al mondo come «un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasvolatori»; e noi, illusi, la trovavamo un po’ ampollosa ma fondamentalmente vera, dimostrata com’è dalle pagine uniche della nostra storia millenaria; e quel nostro vanto, forse perché scritto troppo in alto, ancora non è stato cancellato... Ma coraggio! Per dimostrarlo, oltre che ampolloso, falso, basterà, con le sovvenzioni governative, qualche altro annetto di attività di questo nostro cinema. Ai nostri cineasti, dunque, l’onore di portare a termine l’impresa, una delle meno gloriose tentate dal cinema nel suo sessantennio!

1 Cfr M. BESSI – LO DUCA, Georges Méliès, Parigi 1945. Lumière lui dit textuellement: Jeune, homme, remerciez-moi. Cette invention n’est pas á vendre; mais, pour vous, elle serait la ruine. Elle peut être exploitée quelque temps comme une curiosité scientifique: en déhors de clea elle n’a aucun avenir commercial.

2 Preceduti da una breve presentazione di Georges Sadoul e seguiti dall’inaugurazione di una stele commemorativa del grande inventore, il 29 aprile nel Palais des Festivals vennero proiettati di Luigi Lumière: lmages de la Côte d’Azur (1895-1900), Images de Paris (1896-1900), lmages du monde (1896-1900); di Georges Méliès: Voyage dans la lune (1902), e di Thomas Edison-Porter: The great Train Robbery (1903) e Mariage de Poupées (1905).

3 Secondo il calendario delle manifestazioni cinematografiche 1955 si dànno dieci festivals riconosciuti dalla F.I.A.P.F. (Federazione Internazionale Associazioni Produttori Film). Li diamo in ordine di anzianità indicandone l’anno di nascita: Mostra d’arte di Venezia (1932), Festival di Cannes (1946), Locarno, in Svizzera (1946), Marianske Lazne, in Cecosìovacchia (1948), Punta del Este, nell’Uruguay (1951), Cortina d’Ampezzo (1952), Berlino (1951), Durban, nell’Unione Sudafricana (1955), Edinburgh, in Inghilterra (1947), San Sebastian, in Spagna (1953). Solo le competizioni di Venezia e di Cannes sono riconosciute come ufficiali internazionali; le altre hanno o un carattere locale (per esempio Punta del Este, per l’America del Sud), o di categoria (per esempio Knokke-le-Zoute, in Belgio, per il film sperimentale e poetico, Cortina d’Ampezzo per quello sportivo, San Sebastian per quello a colori).
Si comprendono le difficoltà che la produzione annuale provi nel provvederli tutti di buoni film, e perciò l’impressione di scarso valore artistico e commerciale che critici e pubblico riportano spesso dai troppo numerosi festivals, che si dividono il non abbondante buono che c’è nelle annate buone; di qui la recente drastica determinazione della F.I.A.P.F. di accordare la propria collaborazione ad una sola manifestazione internazionale e non per due anni consecutivi alla stessa manifestazione; il che equivale ad un non cortese invito a Venezia e a Cannes perché, da annuali che sono, diventino biennali e si alternino, pena la morte per asfissia. Ma c’è chi pensa che non questa sia la via giusta, e suggerisce quella di una maggiore differenziazione delle due competizioni annuali, riservando a Venezia il carattere di mostra d’arte e a Cannes quella di festival commerciale.

4 Eccone l’elenco in ordine alfabetico (I lunghi metraggi sono preceduti da un asterisco e seguiti dal nome del regista; quelli in cinemascope sono seguiti da due asterischi, quelli in colore dal segno #). 1) AUSTRALIA: * Jedda ** #. – 2) AUSTRIA: Der Schatz des Abendlandes (I tesoro dell’Occidente) #. – 3) BELGIO: Dock #; Pierre Roman Desfosses #. – 4) BOLIVIA: La ciudad bianca (La città bianca). – 5) BRASILE: * O samba fantastico, di J. Manzon e R. Penin; A esperança terna. – 6) BULGARIA: * Gueroite na Chipka (Gli eroi di Cipka) #, di S. Vusiliev. – 7) CANADÀ: Blinkiti Blank #; Bush Doctor (Il medico del nord). – 8) CECOSLOVACCHIA: * Psohlavci (I e «teste di cane»), di Martin Frič; Opici cisar (Il re delle scimmie) #; Les adilentures du brave soldat Cheik #. – 9) DANIMARCA: Le comte de ma vie (La vita di Andenen); L’intrépide soldat de plomb (Il soldatino di piombo) #. – 10) EGITTO: * Hayaa aw mout (Tra la vita e la morte), di Kamal el Cheikh. – 11) FRANCIA: lmages préhistoriques (Pitture preistoriche) #; * Du rififi chez les hommes (Complicazioni tra gli uomini), di Jules Dassin; L’homme dans la lumière (L’uomo e la luce); Grande pêche (Pesca grande); Le dossier noir (La cartella nera), di André Cayatte; De sable et de feu (Di sabbia e di fuoco) – 12) GERMANIA: Ludwig II (Luigi II di Baviera) #, di Helmut Käutner; * Die Mücke (La mosca), di Walter Reisch. – 13) GIAPPONE: * Chikamatzu Monogatari (Gli amanti crocifissi), di Kenji Mizoguchi; * Onna no koyomi (Il calendario delle donne), di Seji Hisamatsu; 2’ 21” 6; * Sen Hime (La principessa Mille) #. – 14) GRECIA: * Stella, di Michael Cacoyannia. – 15) INDIA: Symphony of Life (Inno alla vita); * Biraj Bahu; * Boot Polish (Il piccolo lustrascarpe), di Prakash Arora; The golden River (Il fiume d’oro). – 16) INGHILTERRA: Bow Bells (Londra canta); * The End of the Affair (Vivere un grande amore), di Edward Dmytryk, * A Kid for two Fartings (Il bambino e il liocorno) #, di Carol Reed; Black on White (Nero su bianco). – 17) ISRAELE: * Hill 24 doesn’t answer (La collina 24 non risponde), di Thorold Dickinson; Les trésors de la Mer Rouge (I Tesori del Mar Rosso) **. – 18) ITALlA: * L’oro di Napoli, di Vittorio De Sica; La processionaria del pino #; L’isola di fuoco ** #; * Il segno di Venere, di Dino Risi; Italia K2 ** #; Piazze d’Italia ** #; * Continente perduto ** #, di Marcello Baldi e Mario Fantin. – 19) MAROCCO: Les jardiniers d’Allah (I giardinieri di Allah) #. – 20) MESSICO: Un extraño en la escalera (Uno straniero sulla scala), di Tulio Demicheli; * Raices (Radici), di Benito Alazraki. – 21) NORVEGIA: * Del Brenne, i Natt (La fiamma), di Arne Skouens; Host (Autunno) #; Jakten over Sporen (La capra e il treno) #. – 22) OLANDA: Op de Spitsen (Sulle punte); The Story of the Light (Storia della luce) #. – 23) POLONIA: Niedzielny Poranek (Una domenica mattina) #; Cyrk (Il circo) #. – 24) PORTOGALLO: Arte popular portuguesa (Artigianato portoghese). - 25) RUMENIA: In cantec si dans (Canti e balli) # – 26) SPAGNA: * Marcelino pan y vino, di Ladislao Vajda. – 27) SVEZIA: Bronsalder (L’età del bronzo). – 28) SVIZZERA: Pulsschlag der Zeit (Il battito del tempo); Nos forits (Le nostre foreste). – 29) TUNISIA: Trois coquillages (Tre conchiglie) #. – 30) UNGHERIA: Aggtelek #; * Liliomfi #, di Karoly Makk. – 31) UNIONE SUDAFRICANA: Guardians of the Soil (Difendiamo la nostra terra) #; Tickets, please (Biglietti, prego) #. – 32) U.R.S.S.: Romeo e Giulietta **, di Arnchtam e L. Lawroski; Ostrov Sakaline (L’isola Sakalin) #. * Bolchaia Srmia (La grande famiglia) #, di J. Heifitz; Zolotaia Antilopa (L’antilope d’oro) #. – 33) U.S.A.: Tuna Clipper Ship (La pesca del tonno) ** #; * Bad Day at Black Rock (Un uomo è passato) ** #, di John Sturges; When Magoo flew (Quando Magoo volava) ** #; Wie die Jungen sungen (Se tutti i ragazzi...);* Marty, di Delbert Mann; * The country Girl (Una ragazza di campagna), di Georges Seaton; * East of Eden (All’est dell’Eden) ** #, di Elia Kazan.

5 Per i lungometraggi: Palma d’oro a Marty, per l’insieme dei suoi pregi, e in particolare per la sceneggiatura, la regia e l’interpretazione degli attori E. Borgnine e B. Blair; premio speciale a Continente perduto, per la bellezza e poesia delle immagini e il pregevole impiego del suono ; a East of Eden per il migliore film drammatico; a Romeo e Giulietta per il miglior film lirico; a Spencer Tracy per il migliore attore in Bad Day at Black Rock; a Bolchaia Semia per il miglior complesso di attori. Premio per il miglior regista ex aequo a S. Vassiliev e a J. Dassin per Gueroita na Chipka e Du rififi chez: les hommes. Menzioni speciali alla ballerina Galina Ulanova e ai cineasti italiani di Continente perduto; premi speciali ai bambini Baby Naaz e Pablito Calvo di Boot Polish e Marcelino pan y vino. La giuria era composta da: Marcel Achard, A. Dignimont, J. Pierre Frogerais, J. Nery, Marcel Pagnol: tutti della Francia; J. M. Bardem (Spagna), Léopold Lindtberg (Svizzera), Anatole Litvak (U.S.A.), Isa Miranda (Italia), Léonard Mosley (Inghilterra), Serge Yutkevic (U.R.S.S.). — Benché, a detta del comunicato stampa, le decisioni della giuria siano state prese all’unanimità, non ne passano inosservate alcune inesplicabili incongruenze. Segnaliamo, tra le altre, il nessun riconoscimento dato all’ottima selezione inglese e a due suoi ottimi interpreti: il piccolo Jonathan Ashmore e la grande Deborah Kerr; la scarsa attenzione prestata a East of Eden e a Marcelino pan y vino.
Per i cortometraggi: Premio per il miglior documentario da schermo panoramico a Isola di fuoco, per la sua intensità drammatica; a Blinkiti Blank, per il miglior cartone animato; Secondo premio a Grande Pêche; menzione speciale a Zolotaia Antilopa. La giuria era composta da: J. Doniol-Valcroze, Marce! Ichac e Jean Perdrix (tutti di Francia), Herman van der Horst (Olanda), Karl Korn (Germania).

6 Lo svizzero Pulsschlag der Zeit, l’olandese Op de Spitsen e il brasiliano O samba fantastico, per chiarezza di luci ed incisività di particolari reggono bene il confronto con la tradizionale chiarezza della fotografia svedese: le ricostruzioni di interni, buone per dosaggio di luci e naturalezza di scenografie, dello spagnuolo Marcelino pan y vino e del giapponese Onna no koyomi, gli esterni drammatici e suggestivi dell’israelita Hill 24 doesn’t answer e del greco Stella non sfigurano troppo se confrontati col francese Du rififi chez les hommes, con l’inglese The End of the Affair e con l’americano Marty; per sapiente impiego del colore il romeno In cantec si dans, il bulgaro Gueroite na Chipka e il tunisino Trois coquillages non hanno troppo da invidiare all’inglese A Kid for two Fartings e ai russi Giulietta e Romeo e Bolchaia Semia; per la cura della ricostruzione storica l’ambizioso Ludwig II, presentato dalla Germania, emula il giapponese Sen hime; e finalmente, quanto all’impiego di una tecnica novissima come il cinemascope con relativo sonoro stereofonico, gli italiani, messi solo ora a contatto con questi nuovi sistemi, hanno saputo darci con Continente perduto ed Isola di fuoco qualcosa che degnamente regge il confronto con gli americani, pure degnissimi, Tuna Clipper Ship, Bad Day at Black Rock e l’ottimo East of Eden.

7 Ci permettiamo di dubitare dell’opportunità di accumularne tanti a Cannes, dove manifestamente servono unicamente ad accentuare l’internazionalità della competizione, dando modo di parteciparvi a molte nazioni che non sono in grado di produrre lungometraggi: ed avanziamo la proposta di tornare a rimandarli tutti, o quasi, a qualche festival specializzato ad hoc, sull’esempio di quanto si è fatto per qualche anno a Venezia.

8 Sotto questo rispetto vincono ogni concorrenza gli Stati Uniti d’America. La loro industria cinematografica, la prima del mondo, è uno dei più colossali e sicuri cespiti di ricchezza, succhiata si può dire da tutto il mondo, rispetto alle cui cifre sono trascurabile cosa quelle delle elemosine poi da essi elargite alle nazioni meno abbienti. Valga un solo dato: al Giappone, con la fine delle ostilità, gli Stati Uniti imposero l’importazione e lo sfruttamento di milleduecento loro film ogni anno. A dieci anni dalla fine della guerra questo stato di cose dura immutato, con quali conseguenze economiche, culturali e morali pensino i lettori.

9 L’U.R.S.S. non fa mistero di questa sua volontà di propaganda. Così si esprime Sergio Yutkevic, membro della giuria, in Ciné Inofrmation France-U.R.S.S. (Supplément n. 116 de la revue France-U.R.S.S.), tutto irto di aculei contro le censure europee: Nous ennemis font à nos films le reproche de “propagande”. Oui, nous reconnaissons avec fierté que nous voulons, avant tout, utiliser l’écran pour faire une propagande en faveur de celte splendeur qu’apportent aux hommes la paix, l’amitié, le travail et la création. Et nous souhaitons que notre recontre renforce encore cette cordiale et sincère sympathie que, de longue date, nourrissent l’un pour l’autre, nos deux peuples.

10 In Continente perduto, girato da italiani nella Malesia, gli indigeni, tutti sempre, pregano, in una vita ch’è un unico atto di culto; gli italiani si limitano a costatare quello «stato d’animo dell’uomo, una posizione dello spirito di fronte alla vita, di fronte al mondo visibile ed invisibile».

11 L’O.C.I.C. (Office Catholique International du Cinema) gli ha conferito una menzione specialissima, come a film «che restituisce nella loro freschezza, insieme con l’amore del cristiano per Cristo, i temi evangelici dello spirito dell’infanzia, del senso della comunità e del fervore anche nei compiti più umili».

12 Questo film ha riportato anche il premio dell’O.C.I.C. «per l’opera che, per ispirazione e qualità, meglio contribuisce al progresso spirituale e all’incremento dei valori umani».

13 Su tale coincidenza di valori morali, religiosi ed estetici, cfr le pertinenti osservazioni di G. L. RONDI in Consuntivo di Cannes (La Fiera Letteraria, 22 maggio 1955, p. 6), e, particolarmente a proposito di Marty, sulla Rivista del cimematografo, 1955, n. 6, p. 19: «Qui, allora, ritrovi, felicissima, la conferma di quanto veniamo sostenendo da tempo sui veri valori del neorealismo. Questo film, infatti, non è stato certo premiato dalla giuria di Cannes per gli stessi motivi che gli hanno valso il premio dell’O.C.I.C., ma è evidentissimo che quei motivi sono l’esatto presupposto di quegli altri, cosi come i personaggi di Marty sono “naturali” perché sono “soprannaturali”: questo profondo aderire alla realtà umana, infatti, che è il segreto spirituale del film, diventa nello stesso momento anche il segreto della sua validità estetica e tanto più vedi sincera la ricerca di questa realtà (in tutte le sue “dimensioni”) e tanto più la vedi espressa in compiuta concretezza poetica... C’è una verità poetica nata dall’ispirazione che ha saputo, con perfetta conseguenza “crearli” (i personaggi) così come li aveva “trovati” nel quotidiano divenire della migliore realtà contemporanea, quella costruita su solide basi cristiane».

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151