NOTE
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1 Questa Associazione Cattolica Internazionale, che oggi federa quarantadue Uffici nazionali del cinema, fu infatti istituita a Bruxelles nel 1928. Per notizie complete e recenti cfr Revue Internationale du Cinéma, 1965, n. 89, p. 10.

2 Eccone i titoli in ordine alfabetico di nazioni: CECOSLOVACCHIA: Navrat Ztraceneho Syna (Il ritorno del figlio prodigo), di Eval Schorm. – FRANCIA: Play Time (Tempo di divertimento), di Jacques Tati; O salto, di Christian de Chalonge (Venezia 1967); Le vieil homme et l’enfant, di Claude Berri (Berlino 1967). – GERMANIA OCC.: Paarungen (Giuochi satanici), di Michael Verhoeven. – GIAPPONE: Joi-uchi (Ribellione), di Masaki Kobayashi: «Spiga d’oro»; Sekishun (I tre volti dell’amore), di Naburu Nakamura (Berlino 1967). – INDIA: Charulata (La donna sola), di Satyajit Ray (premio O.C.I.C. ed Orso d’argento per la migliore regia, Berlino 1965). – INGHILTERRA: Privilege, di Peter Watkins (Cannes 1967): «Labaro d’oro». – ITALIA: A ciascuno il suo, di Elio Petri (Cannes 1967). – MESSICO: Los caifanes, di Juan Ibafiez. – POLONIA: Bariera, di Jerzy Skolimowski (Gran Premio Bergamo 1966). – SPAGNA: La piel quemada (La pelle abbronzata), di José Maria Forn. – SVEZIA: Prinsessan (La principessa), di Ake Falk. – UNGHERIA: Apa (Padre), di Istvan Szabo (1° premio ex aequo a Mosca 1967; Locarno 1967); Tizezer Nap (Diecimila soli), di Ferenc Kosa (Cannes 1967). – U.S.A.: Elmer Gantry (Il figlio di Giuda), di Richard Brooks (1960); Mikey One, di Arthur Penn (Venezia 1965).

3 Eccone i titoli, sempre in ordine alfabetico di nazioni: FRANCIA: Le franciscain de Bourges, di Claude Autant-Lara (1968); Léon Morin pretre, di Jean-Pierre MeIville (.1961). – ITALIA: Don Camilla, di Julien Duvivier (1952). – GERMANIA Occ.: Der Pfarrer von Kirchfeld, di Hans Deppe (1967). – MESSICO: Nazarín, di Luis Buñuel (,1959). – POLONIA: Matka Joanna od Aniolov, di Jerzy Kawalerovicz (1961). – U.S.A.: Boys Town, di Norman Taurog (1938); I confess, di Alfred Hitchcock (1953); On the Waterfront, di Elia Kazan (1954).

4 Per Matka Joanna od Aniolov, cfr Sugli schermi il caso Surin (Civ. Catt. 1965, II, 21-34).

5 Cfr Confusioni e calunnie in un film «pacifista» (Civ. Catt. 1961, IV, 449-463).

6 Cfr PEDRO RODRIGO, Conversaciones de Cine de Valladolid, Madrid 1965 (Civ. Catt. 1967, II, 484).

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Articolo estratto dal volume II del 1968 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Valladolid, cuore della Vecchia Castiglia. Riaffiorano i ricordi scolastici: Cristoforo Colombo, che vi morì; il Cervantes, che ci visse in povertà e vi scrisse la prima parte del Don Quijote; Fernando d’Aragona ed Isabella di Castilla, che vi si sposarono, avviando così la Spagna all’unità nazionale; Filippo II, che vi nacque; i due Torquemada... E riaffiorano cari ricordi domestici: il Suarez, che insegnò nella sua celebre università; il Rodriguez, che vi ebbe la sua casa familiare; il ven. Bernardo de Hoyos, che vi ricevette la «Grande promessa»...

Le prime ore vanno in ammirare e gustare il molto che resta dello splendore regale della città, già una delle più celebrate capitali europee: i palazzi, sulle cui facciate stratificano gli stili musulmano, romanico, gotico, barocco: pagine della storia culturale e civile spagnuola; le chiese grandi come cattedrali, interrotte come per ripensamenti senza seguito: dai pilastri e gli archi enormi, come di ponti o di fortezze, e sul nudo delle pareti in penombra il fiammeggiare dei retablos: trionfi di santi e di «misteri» in legno policromo e dorato... E vanno, le ore, anche in osservare questo popolo sano fecondo e gentile, capace di armonizzare la tecnica, il commercio e le novità del costume irrompenti, con le più solide tradizioni di umanesimo culturale e di civiltà cristiana... Ma per poco; perché siamo approdati a Valladolid non come turisti, ma per riferire, almeno una volta, sulle sue «Settimane Cinematografiche».

Quando cominciarono, nel 1956, si qualificarono «del cinema religioso». Ma la produzione mondiale si dimostrò incapace di offrire film a tema o ad argomento religiosi sufficienti per allestire ogni anno un decoroso programma, mentre la mentalità moderna si andava sempre più aprendosi verso problemi e valori umani non strettamente «religiosi». Perciò opportunamente gli organizzatori presto ne aggiornarono la dizione in quella più comprensiva di «Settimana Cinematografica Internazionale del cinema religioso e di valori umani», sotto la quale la Fédération Internationale des Associations des Producteurs de Film (F.I.A.F.) l’ha ufficialmente ammessa tra i «festival specializzati».

Oltre a questo ambito ,riconoscimento, l’edizione di quest’anno ha presentato due novità. La sezione culturale-retrospettiva, invece che ad un autore particolare – come avveniva in passato – è stata consacrata ad un tema comune, e precisamente al sacerdote sullo schermo ed al posto delle tradizionali «conversazioni-lezioni», – sotto l’egida dell’O.C.I.C., che così ha celebrato il suo quarantesimo di vita1 – ha organizzato tre tavole rotonde tra professionisti del cinema.

Queste brevi note presenteranno appunto questi ,tre aspetti della «Settimana»: il festival-concorso di film recenti; la retrospettiva culturale; le tavole rotonde.

Il festival-concorso

Non contando i cortometraggi, Valladolid ha schierato 13 nazioni e 18 film, per la maggior parte provenienti da altri festival, più o meno recenti; ed uno, Elmer Gantry, di Brooks, addirittura del 19602. In compenso, ha dato in prima mondiale l’atteso Play Time, di Tati. Il livello artistico medio è stato discreto. Grazie al buon gusto degli organizzatori, ci sono stati risparmiati i predicozzi strappalacrime, che per molti sono sinonimo di film «edificanti», nonché le pietose oleografie, che altri scambiano per film «religiosi». Tra le punte più alte: l’epico-rituale-tragico Joi-uchi, di Kobayashi; il delicatissimo Charulata, di Ray, ed, in parte, Tizezer Nap, di Kosa. Tra le più basse: il maniacale Paarungen, di Verhoeven, il turistico-pubblicitario Sakishun, di Nakamura, il grottesco-pretenzioso-felliniano Los caifanes, di lbañez, il tonitruante già ricordato Elmer Gantry, e, nonostante il premio concessogli, il convenzionale e piatto La piel quemada, di Forn.

Né sono mancati i film ermetici, smembrati, da saggio registico, che disorientano il pubblico – «che voleva dire?» –, e, anche se non abbiamo l’umiltà di confessarlo, mettono in soggezione, noi critici - «dormivo io, o delirava lui?» –: quali Bariera, di Skolimowski, e Mikey One, di Penn. Ma, pensiamone bene e diciamo pure che sono segno dell’evolversi della comunicazione filmica in forme più consentanee alla psicologia scombinata ed alle inquietudini sociologiche dell’uomo d’oggi; nonché, forse, espediente, nei paesi a libertà vigilata, per dire in simboli allusivi quel che sarebbe pericolo comunicare chiamando le cose col loro nome.

Ma, ovviamente, se a Valladolid si è tenuto il dovuto conto dei valori formali, l’attenzione maggiore è andata ai «messaggi», espliciti o impliciti, dei film, o almeno alla visione del mondo e dell’esistenza umana da essi offerta. E, come prevedibile, si è avuta conferma della doppia funzione sociologico-etica del cinema della società odierna: di modellatore di essa e, prima di tutto, di suo documento e specchio. Infatti, quale posto vi ha la religione? Come fattore fondamentale e risolutivo, o almeno di qualche rilievo, dei problemi dell’esistenza umana: più nullo che scarso; anche quando – come nei film di ambiente italiano, portoghese e spagnuolo – era naturale aspettarselo, se non altro, come elemento di contorno. Qua e là qualche sacerdote, un Crocefisso, il Pater noster (imposto ad un ebreo!), un matrimonio «religioso» (quello sarcastico di A ciascuno il suol): relitti di una religione svitalizzata, mitologica, estranea all’uomo. Tuttavia con due eccezioni.

La prima è venuta dai film della Polonia e della Cecosìovacchia: Il ritorno del figlio prodigo, che adombra nella parabola evangelica una via di risoluzione all’angoscia suicida di un giovane, al quale la vita, benché abbia dato «tutto» – salute, benessere economico, cultura, affetti – ormai non dice più nulla; e Bariera, che ambienta in un Sabato Santo le esperienze deludenti di un altro giovane, contrappuntando le sue vanificate aspirazioni personali e sociali col – nostalgico? speranzoso? mistico? – canto dell’Alleluia pasquale. Due accenni, sembra, particolarmente significativi, data la ventennale esperienza materialistica imposta alle giovani generazioni di quei paesi proprio come soluzione radicale di tutti i problemi della vita.

L’altra eccezione riguarda l’inglese Privilege (e, un po’, anche l’americano Elmer Gantry). Neanche in questi la religione viene ipotizzata come valore; tuttavia vi si ripudia una forma di religione spuria, a base di predicatori istrionici e di isterismi collettivi, di parate spettacolari e di miracoli magici, e, soprattutto, di santa bottega. È poco; ma quest’incontro inopinato dello schermo «laico» col Vangelo – del Cristo che si rifiuta al Tentatore del deserto, che scaccia i mercanti dal tempio, che lega la vittoria del suo Regno allo scandalo della croce – deve far pensare, specialmente quanti, chiamati a comunicare il Suo annuncio della salvezza, sono oggi tentati di diffonderlo con i metodi suggestivi, ma in definitiva effimeri, delle «ideologie». Come s’è detto, tutti i film in cartello avrebbero dovuto proporre qualche valore, almeno genericamente, umano. Ma, anche sotto questo aspetto, essi sono stati documento della crisi etica del nostro tempo. In una buona metà, per cogliere qualche valore genuino c’è voluta molta buona volontà; o perché resta ambiguo il loro significato profondo, o perché i problemi umani vi entrano, sì, ma come mero pretesto di spettacolo, oppure perché, posto che ci siano, emergono a fatica dalle troppo abbondanti e gratuitamente suggestive situazioni narrative e figurative non proprio «umanissime».

Altro segno del tempo: abbondanti i film di denuncia o di scontento della società odierna, e di allarme per fa demolizione in essa praticata della persona umana. Tati l’ha fatto con la mano leggera della parodia ironica, pilotando il suo grottesco gregge di turisti USA attraverso una mostruosa Parigi-aeroporto: di cemento di alluminio e di vetri, di rumori di corse e di «ricordi» inutili; prodigio tecnico di pianificazione, ma irrisione alla cultura, avvilita a consumo di massa, e paradossale fattore di incomunicabilità tra ammassati. Ma in altri film l’uomo, svuotato e distrutto come persona, è stato chiamato in scena col volto sbarrato dell’angoscia. Ecco l’odio vendicativo dei vecchi coniugi di Paarungen, legati in una sartriana convivenza-inferno; la cupa nevrosi suicida dei Figlio prodigo, gli scherzi orridopuerili-cafoni dei Caifanes. Ecco la rovinosa disperazione del Beatpop Steve Shorter di Privilege, montato a mito, prima sadico, e poi «santo» di masse urlanti da uno staff politico-economico-religioso, che lo butta a mare non appena egli, in un risveglio di dignità umana, rifiuta di restare un «prodotto Steve». Ecco soprattutto la dissociazione psicologico-sociologica di Bariera e di Mikey One: l’uomo che si dibatte nell’incubo kafkiano, paventando di essere sacrificato al mito della collettività, eletto volta a volta a perseguitato e a persecutore (l’ebreo-fascista) a libito di un despota anonimo, oppure di finire schiacciato in massa informe come le mostruose presse di Chicago fanno con le auto usate.

Purtroppo, l’anche troppo facile denuncia del marcio e dell’inumano generalmente non procede oltre, forse per il vezzo tutto moderno di compiacersi nell’analisi dei propri guai, oppure perché manca il terreno solido su cui edificare, un punto fisso di riferimento. Come avviare, riparare, risalire? Tizezer Nap rimette la soluzione del conflitto persona-collettività e vecchi-giovani ad un (ambiguo) atto di fede-speranza marxista. Almeno cinque film, invece, ripiegano sull’evasione erotica; forse neanche derivandola da Freud, ma soltanto ipotizzando il rapporto amoroso come prima modestissima affermazione-esperienza «personale» possibile ad individui che la società ha svilito ad «oggetti-massa». Joi-uchi, invece, suggerisce prima la contestazione e poi la violenza armata contro il sistema; tuttavia con scarsa efficacia suasiva, perché la rivendicazione degli inalienabili ed intangibili diritti della persona umana – in casu: di una donna-madre, della cui vita affettiva dispone e manda il «signorotto» – viene anacronisticamente anticipata ed ambientata nel genere Jedai-geki (il medioevo giapponese), e così ridotta a spettacolo, peraltro splendido, di una carneficina ciclonica, giustiziere infuriato il solito Toshiro Mifune.

Tuttavia, consoliamoci: almeno tre film propongono qualcosa di positivo: la necessità dell’umana comprensione tra gli uomini. Lo fa, timidamente, O salto, documentando sulla sorte che attende i portoghesi che – dicono – a trecento il giorno, emigrano clandestinamente verso la Francia in cerca di lavoro. Usati, quelli che vi arrivano vivi, come braccia nella terra d’approdo, ma rifiutati come cittadini, finiscono, più miserabili di quanto siano partiti, nelle bidonvilles, dove solo un senso di solidarietà umana riesce a lenire la miseria fisica e morale ed a mantenere saldo un tenue filo di speranza. Lo fa, invece, fin troppo palesemente, Le vieil homme et l’enfant, accumulando sul «vecchio» (il gigionissimo Michel Simon!) tutti i pregiudizi e gli egoismi di un falso e ben pasciuto cristiano, per poi farli battere in breccia da un piccolo intimorito profugo ebreo. Quando, a guerra finita, l’ebreuccio partirà piangendo, il vecchio comprenderà che a questo mondo c’è ancora qualcuno e qualcosa da amare che sia più nobile dei cani.

Lo fa, infine, in termini ideali, Charulata: dramma raccolto di una donna, che il marito, tutto preso da interessi giornalistici e politici, lascia trascinare le sue giornate nella più triste solitudine affettiva ed operativa. Quando, ospite inatteso, compare nella sua solitudine un giovane cognato, tutto estro poetico ed attenzioni per lei, la derelitta si sente come rinascere. Il cuore insensibilmente ne è preso, mentre la nuova esperienza affettiva suscita anche in lei insospettate doti creative e poetiche. Un brutto giorno il fallimento del giornale sottrae il marito al chiuso del suo mondo: allora anche lui si trova sperduto, e, troppo tardi, apre gli occhi sul dramma intimo nel quale ormai si dibatte la sua donna. Sulle prime si sente tradito, e fugge. Poi comprende i suoi torti, torna, e sulla soglia di casa la donna per prima gli avanza la mano del vicendevole perdono. Lei si aprirà agli interessi del marito e collaborerà al suo lavoro, mentre lui sarà capace e disposto ad amare, prima che fa politica ed il lavoro, la sua donna: e là dove l’egoismo avrebbe nutrito due amare solitudini, opererà nella gioia il mutuo donarsi e completarsi nell’amore.

Proprio una bella lezione di valori umani, offerta ai nostri paesi «cristiani» dall’India del grande Tagore, autore del soggetto, e dall’eccellente Satyajit Ray, che l’ha ricreato in immagini delicatamente poetiche, sociologicamente autentiche e psicologicamente vere.

Sacerdoti sullo schermo

O prima o dopo, l’argomento doveva affiorare nelle Settimane di Valladolid, non foss’altro per controllare in quale misura la presenza sullo schermo di personaggi, che di loro natura sono portatori e simbolo di valori religiosi ed umani, collimi, di fatto, nella storia del cinema, con film che siano realmente portatori degli stessi valori, o ,non, più frequentemente, che li osteggino, li neghino o li ignorino. Ma per un’esauriente indagine del genere non basterebbero certo una decina di film – quanti Valladolid ne ha potuti programmare3 -. Per giunta, occorrerebbe sceglierli tutti rappresentativi, sia degli stati d’animo con i quali il sacerdote è visto, approvato o criticato; sia delle situazioni e prestazioni, ordinarie e straordinarie, nelle quali la sua vocazione lo chiama; sia delle esperienze diverse, interiori ed esterne, alle quali l’evolversi dei tempi, della cultura, delle mentalità e dei costumi, oggi specialmente, l’espone; ed, anche per l’età cinematografica, occorrerebbe un criterio valido per confronti e deduzioni, e non contentarsi di pezzi sparsi negli ultimi quindici anni, con una strana puntata verso il 1938, anno di Città dei ragazzi.

His stantibus, e considerando anche che per qualche film già s’è fatta parola in questa sede4, mentre per altri un discorso esauriente sarebbe troppo lungo, riferendo di questa parte della Settimana di Valladolid, riserveremo poche parole soltanto ai due film che vi sono stati presentati in prima visione: il tedesco Der Pfarrer van Kirchfeld, ed il francese Le franciscain de Bourges.

Il primo è un mediocre film di confezione. Cura pedante dei particolari: buon colore, buona musica, belle scene di folklore, buoni paesaggi alpini: ma teatruccio convenzionale e piatto. Modello di film-melassa domenicale. Date le (probabili) buone intenzioni, forse a qualche (troppo) ingenuo sacerdote ed a qualche belloccia parrocchiana insegnerà un po’ di prudenza nel sorridere e sospirare, a sfogo dei foro cuori, tanto gemelli e tanto solitari...

Di buon livello tecnico, invece, l’ultimo film di Autant-Lara, che sa evitare, con sapienti ellissi, i grossi effettacci che il soggetto suggeriva: ma niente di più. Lo stesso colore, per confessione del regista, vi è usato non per necessità espressive, ma commerciali. Tutto il suo valore emotivo è nel contenuto umano: la storia, vera, dell’umile furbo e coraggioso laico francescano Alfred Stanke (anche i nomi sono veri), il quale, soldato tedesco presso il carcere-tortura di Bourges, cerca come può di opporsi alle efferatezze della Gestapo, curando i torturati ed illuminando di speranza cristiana gli ultimi momenti dei condannati a morte. Le efferate carneficine dei suoi connazionali lo portano addirittura a collaborare con i resistenti francesi; tuttavia, quando i tedeschi, nella débâcle della ritirata, diventano soltanto dei vinti in fuga, egli non dubiterà di elemosinare presso i francesi i conforti necessari per i suoi compagni d’armi. Uomini gli uni, uomini gli altri. Al di là delle razze, delle lingue e dell’opposizione dei fronti creati dalla maledetta guerra, per l’umile francescano (tuttora vivente) ci sono soltanto fratelli da comprendere, da perdonare, da amare.

Da ateo confesso, Autant-Lara non comprende che tanto eroica e semplice bontà, e perciò anche il messaggio del suo film, si alimenta alla carità inesauribile di Cristo: ma sono i fatti che parlano. Al regista il merito di non averli travisati, sulla falsariga del meno mediocre ma più fazioso Tu ne tueras point5.

Le tavole rotonde

Anche circa quest’ultima parte della «Settimana» solo qualche rilievo sommario.

Come s’è detto, quest’anno per la prima volta, al posto delle collaudate «Conversazioni» vallisoletane6, si sono tenute tre «tavole rotonde». Un’innovazione, dunque, con tutti i rischi relativi. A conti fatti, non sembra che la formola sia da buttar via, atta com’è ad evitare superflui soliloqui accademici tra cattolici e tra teorici, ed a stabilire un dialogo fattivo con quelli che «fanno il cinema»: artisti, produttori, commercianti... Tutto sta nel come siffatti incontri si organizzano e si conducono!

Intanto, non sembra possibile discutere seriamente, tanto meno esaurire, in appena sei ore complessive, tre temi oceanici ed impegnativi – quali: il cinema come industria, il cinema come arte, il cinema come strumento di comunicazione sociale – posti sul tappeto appunto a Valladolid. Si potranno appena scambiare opinioni personali, che valgono quel che valgono, data anche l’esperienza tutta soggettiva e troppo settoriale che generalmente portano gli uomini «del mestiere»: di solito all’oscuro, se non anche diffidenti, del moltissimo che ne è stato scritto e discusso dai teorici anche serissimi. Meglio, dunque, sarebbe, quando si disponga di poco tempo, impostare le tavole rotonde su temi più pratici e limitati, riservando le questioni di fondo ad altre forme di dialogo più distese, nelle quali sia possibile non solo ai cattolici ed ai teorici confrontare e collaudare il proprio patrimonio dottrinale con le spicciole esperienze degli operatori, ma anche e soprattutto sia reso agevole a questi accedere ad una visione organica di valori estetico-culturali ed etico-sociali in cui inserire le loro scelte operative, o, almeno, di cui tener conto per comprendere le ragioni di critiche, di proposte e di sollecitazioni provenienti dal mondo cattolico, o dalla cultura in genere.

Altra indicazione che le Tavole Rotonde di Valladolid hanno dato modo di cogliere è quella della precedenza da dare al dialogo tra cattolici, prima che a quello ,tra cattolici e gli altri; tra teorici, prima che tra teorici ed operatori. S’è visto che viviamo in compartimenti stagni nazionali, ciascun gruppo persuaso che la propria forma culturale sia la cultura tout court e, ciononostante, inconsapevolmente estrapolando, generalizziamo ,teorie e problemi, universalizziamo situazioni e soluzioni. E s’è visto che viviamo in compartimenti stagni settoriali: già nell’ambito della filmologia, generalmente rapportata quasi soltanto all’arte; ma soprattutto rispetto all’insieme degli strumenti della comunicazione sociale, anche qui, poi, estendendo indebitamente quel che risulta più o meno accertato nel settore che ci è noto.

Per giunta, spesso, non solo non conveniamo nella terminologia, ma neanche sospettiamo di non convenire; perciò diamo l’impressione di dialogare tra sordi, magari riferendoci a comuni fonti del Magistero. Infine, stentiamo ancora ad uscire dalla fase culturale pionieristica e, diciamo pure, dilettantistica, poco distinguendo tra acquisito e più o meno probabile, tra necessario-perenne e contingente-transitorio, e troppo dipendendo da teorizzatori radicalmente non «nostri» o non seri, di cui il terreno sul quale ci muoviamo purtroppo abbonda.

Forse, è qui che gli incontri di Valladolid potrebbero dare il loro più qualificato contributo: agevolare ai cattolici ed ai teorici l’osmosi delle acquisizioni culturali e delle esperienze settoriali; concordare su di un minimo di terminologia comune; dare un impulso al maturare di vere competenze; incrementare una cultura nostra, liberata da ubbidienze che ne snaturano la serietà ed i compiti, anche apostolici e pastorali. Il dialogo con gli altri non potrà che avvantaggiarsene, come non potrà che avvantaggiarsene l’affermarsi ed il prestigio di un cinema portatore di valori religiosi ed umani.

1 Questa Associazione Cattolica Internazionale, che oggi federa quarantadue Uffici nazionali del cinema, fu infatti istituita a Bruxelles nel 1928. Per notizie complete e recenti cfr Revue Internationale du Cinéma, 1965, n. 89, p. 10.

2 Eccone i titoli in ordine alfabetico di nazioni: CECOSLOVACCHIA: Navrat Ztraceneho Syna (Il ritorno del figlio prodigo), di Eval Schorm. – FRANCIA: Play Time (Tempo di divertimento), di Jacques Tati; O salto, di Christian de Chalonge (Venezia 1967); Le vieil homme et l’enfant, di Claude Berri (Berlino 1967). – GERMANIA OCC.: Paarungen (Giuochi satanici), di Michael Verhoeven. – GIAPPONE: Joi-uchi (Ribellione), di Masaki Kobayashi: «Spiga d’oro»; Sekishun (I tre volti dell’amore), di Naburu Nakamura (Berlino 1967). – INDIA: Charulata (La donna sola), di Satyajit Ray (premio O.C.I.C. ed Orso d’argento per la migliore regia, Berlino 1965). – INGHILTERRA: Privilege, di Peter Watkins (Cannes 1967): «Labaro d’oro». – ITALIA: A ciascuno il suo, di Elio Petri (Cannes 1967). – MESSICO: Los caifanes, di Juan Ibafiez. – POLONIA: Bariera, di Jerzy Skolimowski (Gran Premio Bergamo 1966). – SPAGNA: La piel quemada (La pelle abbronzata), di José Maria Forn. – SVEZIA: Prinsessan (La principessa), di Ake Falk. – UNGHERIA: Apa (Padre), di Istvan Szabo (1° premio ex aequo a Mosca 1967; Locarno 1967); Tizezer Nap (Diecimila soli), di Ferenc Kosa (Cannes 1967). – U.S.A.: Elmer Gantry (Il figlio di Giuda), di Richard Brooks (1960); Mikey One, di Arthur Penn (Venezia 1965).

3 Eccone i titoli, sempre in ordine alfabetico di nazioni: FRANCIA: Le franciscain de Bourges, di Claude Autant-Lara (1968); Léon Morin pretre, di Jean-Pierre MeIville (.1961). – ITALIA: Don Camilla, di Julien Duvivier (1952). – GERMANIA Occ.: Der Pfarrer von Kirchfeld, di Hans Deppe (1967). – MESSICO: Nazarín, di Luis Buñuel (,1959). – POLONIA: Matka Joanna od Aniolov, di Jerzy Kawalerovicz (1961). – U.S.A.: Boys Town, di Norman Taurog (1938); I confess, di Alfred Hitchcock (1953); On the Waterfront, di Elia Kazan (1954).

4 Per Matka Joanna od Aniolov, cfr Sugli schermi il caso Surin (Civ. Catt. 1965, II, 21-34).

5 Cfr Confusioni e calunnie in un film «pacifista» (Civ. Catt. 1961, IV, 449-463).

6 Cfr PEDRO RODRIGO, Conversaciones de Cine de Valladolid, Madrid 1965 (Civ. Catt. 1967, II, 484).

In argomento

Mostre

n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151