NOTE
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1 Per esempio, quest’anno, lo spagnuolo Tiempo de amor, il francese Bande à; pari, il Vidas secas e l’italiano Sedotta e abbandonata, rimbalzati a Locarno rispettivamente da Valladolid, da Berlino e da Cannes; l’americano The best man, passato a Locarno da Cannes, via Karlovy Vary...

2 Eccoli, in ordine alfabetico di nazioni. I numeri in corsivo si riferiscono ai cortometraggi; i titoli chiusi in parentesi quadre sono dei film presentati fuori concorso.
ARGENTINA (1): Primero yo (Il primo sono io), di F. Ayala. - BELGIO (1). - BRASILE (2): Deus e o diabo na terra do sol (Dio e il diavolo nella terra del sole), di GI. Rocha; Vidas secas (Vite aride), di N. Pereira dos Santos, premio O.C.I.C. ex aequo. - CANADÀ (1) – CECOSLOVACCHIA (1 + 1): Krik (Il primo grido), di J. Jires. – COLOMBIA (1). – FRANCIA (3 + 2): Cent mille dollars au soleil (Centomila dollari al sole), di H. Verneuil; Les parapluies de Cherbourg (Gli ombrelli di Cherbourg), di J. Demy, Palma d’oro, e Premio O.C.I.C. ex aequo; La peau douce (La pelle dolce), di Fr. Truffaut. – GERMANIA (2 + 1): Die Tote von Beverly Hills (La morta di Beverly Hills), di M. Pfleghar; The Visit (La visita), di B. Wicki. – GIAPPONE (2 + 1): Suna no onna (La donna della sabbia), di H. Teshigahara, premio della giuria; Taiheiyo hitoriboshi (Solo nell’Oceano Pacifico), di K. lchikawa. – GRECIA (1 + 1): Kokhina fanaria (Lanterne rosse), di V. Gheorgiades. - INDIA (1 + 1): Mujhe jeene do (Lasciatemi vivere), di M. Battaciarjee. • INGHILTERRA (1 + 1): The pumpkin eater (Il mangiazucche), di J. Clayton, premio ex aequo d’interpretazione femminile ad A. Bancroft. - IRAN (1). - ITALIA (2 [1] + 1): La donna scimmia, di M. Ferreri; Sedotta e abbandonata, di P. Germi, premio ex aequo d’interpretazione maschile a S. Urzì; [Le voci bianche, di P. Festa Campanile e M. Franciosa]. - IUGOSLAVIA ([1] + 1): [Skopje 1963, di V. Buiacic]. – OLANDA (1). – POLONIA (1): Pasazerka (La passeggera), di A. Munk. - R.A.U. (1 + 1): El leila el Akhira (L’ultima notte), di K. El Sheikh. - ROMANIA (1). - SENEGAL (1). – SPAGNA (1 + 1): La niña de Iuta (La ragazza in lutto), di Summers. – SVEZIA (1): Kvarteret Korpen (Il quartiere del corvo), di B. Widerberg. • UNGHERIA (1 + 2): Pacsirta (L’allodola), di L. Ranody, premio ex aequo d’,interpretazione maschile ad A. Pager. – U.R.S.S. (2): (La carovana bianca), di E. Ghenghelaia e T. Meliava; (Romanza a Mosca), di G. Danelia. - U.S.A. (2 [1] + 1): [The Fall of the Roman Empire (La caduta de/l’impero romano), di A. Mann]; One potato, two potato (Una patata, due patate), di L. Peerce, premio ex aequo d’interpretazione femminile a B. Barrie; The World of Henry Orient (La vita privata di lienry Orient), di G. Roy Hill.

3 Eccoli, con gli stessi criteri che i precedenti.
ARGENTINA (1 + 1): La herencia (L’eredità), di R. Alventosa. – AUSTRALIA (1). – BRASILE ([1]): [Vidas secas (Vite aride), di N. Pereira dos Santos]; CANADÀ (1): Trois femmes (Tre donne), di G. Dufaux – Cl. Perrou, P. Patri, G. Carie. – CECOSLOVACCHIA (2 + 2): Vysoka zed (Il grande muro), di K. Kachyna, Vela d’argento; Cerny petr (L’asso di picche), di M. Forman, Vela d’oro. – CINA COMUNISTA (1): Danze della nostra nazione, di Chu Chin-ming. – DANIMARCA (1 + 1): Cade uden Ende (Strada senza fine), di M. Vemmer. – FRANCIA (2 + 4): Bande à part (Banda a parte), di G. L. Godard; New York-sur-mer (Nuova York sul mare), di P. D. Gaisseau. – GERMANIA (1 + 1): Kennwort... Reiher (Parola d’ordine: airone), di Jugert. – GIAPPONE (1 + 1): Midareru (Desiderio), di M. Naruse, Vela d’argento per la migliore interpretazione maschile a H. Takamine. – INDIA (1): Go-daam (Il regalo di una mucca), di Tr. Jetly. – INGHILTERRA (1 + 1): Nothing but the best (La figlia del padrone), di Cl. Donner. – IRLANDA (1). - ISRAELE (1). - ITALIA (2 [2] + 1): La calda vita, di Fl. Vancini; Comizi d’amore, di P. P. Pasolini; [Le schiave esistono ancora, di M. Malenotti]; [Sedotta e abbandonata, di P. Germi]). - OLANDA (1). - PAKISTAN (1). – POLONIA (1 + 1): Naganiac (I battitori), di Cz. e E. Petelski, Premio speciale della giuria ex aequo. - PORTOGALLO (1 + 1): Os verdes annos (Gli anni verdi), di P. Rocha, Vela d’argento per la migliore opera prima. – SPAGNA (1): Tiempo de amor (Tempo d’amare), di J. Diamante. – SVEZIA (1). – SVIZZERA (1 + 4): Les apprentis (Gli apprendisti), di A. Tamer. – TURCHIA (1). – UNGHERIA (1): Nappali Sotetseg (Le tenebre del giorno), di Z. Fahri, Premio speciale della giuria ex aequo. - U.R.S.S. (1 + 1): Den Stchastia (Un giorno di felicità), di J. Kheifitz. – U.S.A. ([1] 4 + 2): [The best man (L’uomo migliore), di Fr. Schaffner]; Good neighbour Sam (Il buon vicino Sam), di D. Swift, Vela d’argento per la migliore interpretazione femminile a G. Kelly; Goodbye in the mirror (Addio nello specchio), di St. de Hirsch; Square roots of zero (Radice quadrata di zero), di D. W. Cannon; What a way to go (La signora e i suoi mariti), di Lee Thompson.

4 A parte tutto, questa evasione sistematica dalla realtà quotidiana più bruciante dovrebbe porre grossi problemi ai critici marxisti ed al loro e realismo socialista, come canone artistico, se non fossero usi a saltare ben altre contraddizioni ed a ingoiare rospi ben più grossi.

5 Non parliamo del – sembra – pregevole Kennwort... Reiher, di R. Jugert, perché l’abbiamo perduto, in quanto proiettato dopo mezzanotte, dopo un altro lungometraggio in programma. Si direbbe che se Deus impossibilia non iubet, qualche volta ai critici chiedono cose impossibili gli organizzatori dei festival.

6 E. LAURA, in Bianco e nero, 1964, nn. 4-5, p. 48.

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Articolo estratto dal volume III del 1964 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

I festival cinematografici, si sa, hanno fame di pubblico e di critici. Ora, per convogliare e stipare pubblico e critici nei festival parsimoniosamente concessi dalle democrazie d’oltrecortina occorrono e bastano cartoline precetto; per attirarli, invece, agli innumerevoli festival dei paesi capitalisti bisogna ricorrere agli allettamenti turistici. Perciò questi si installano in località di richiamo, preferibilmente balneari.

Cominciò la mostra di Venezia, nata per prolungare la stagione estiva del Lido; segui il festival di Cannes, sorto per anticipare quella primaverile della Croisette, sulla Costa Azzurra; quindi quello di Locarno, che approfitta del Lago Maggiore, e quello di San Sebastian, col richiamo della Conca d’oro, avanti al Golfo di Biscaglia; ed ancora quelli dei Mar del Plata e di Buenos Aires, di S. Francisco e di Vancouver, affacciati rispettivamente sugli oceani Atlantico e Pacifico. E le eccezioni confermano la regola: per esempio il festival di Berlino, che, per tutta attrattiva, da tre anni mostra i quarantadue chilometri del «muro», gloriosa «opera del regime» comunista.

Tuttavia, per mostre e festival cinematografici, le belle spiagge di laghi, di mari e di oceani, con annessi divertimenti borghesi e scandalucci mondani, nonché i muri, non bastano. Pare che occorrano anche i film; vale a dire quelle opere d’ingegno o di arte che, a differenza delle bellezze paesaggistiche, elargite una volta per sempre da madre natura, nei nostri paesi borghesi, da una stagione all’altra, possono abbondare, come possono scarseggiare o mancare del tutto. Infatti, non sempre le Muse si degnano scendere dal Parnaso e largheggiare dei loro favori presso i meschini mortali che non dispongano né dell’ideologia né dell’apparato marxisti, i quali nei felici paesi d’oltre cortina funzionano da succursale sempre in servizio dell’Olimpo e delle Muse eliconie. Ne consegue che, mentre oltrecortina ogni festival riesce un trionfo, al di qua della stessa, ai rari anni delle vacche grasse seguono molto spesso quelli delle vacche magre, ed anche magrissime, dato che sono troppi i festival a contendersi i rari pezzi buoni, o meno mediocri. Càpita, perciò, che alle selve di bandiere che sempre li addobbano – una bandiera per ogni nazione rappresentata, magari con trenta metri di pellicola – possano corrispondere programmi tanto enfiati quanto poco sostanziosi, come certi decoratissimi banchetti del tempo di guerra; oppure che i film passino da un festival all’altro, come minestre riscaldate1. Fatto sta che la stagione 1964, giudicandola da Cannes e da Locarno, qualitativamente è risultata di magra. Le bandiere che, per quindici giorni (29 aprile-13 maggio), hanno garrito al mistral della Provenza sul Palais della Croisette, sono state ben ventiquattro; e ben ventisette sono stati i lungometraggi in programma2. Ma, capolavori, niente; e di film da festival, proprio ad essere di manica larga, sì e no cinque: il brasiliano Vidas secas, il cecosìovacco Krik, il francese Les parapluies de Cherbourg, il giapponese Suna no onna, e l’U.S.A. One potato, two potato. In quanto a Locarno, tra le ventisette nazioni rappresentate e i ventotto lungometraggi programmati in dieci giorni (23 luglio – 2 agosto)3, l’inventario non risulta, più consolatorio. Per contare i pochi film che hanno in qualche modo spiccato nel grigiore generale – per esempio il giapponese Midareru, ed i già visti Vidas secas e The best man - bastano ed avanzano le dita di una mano.

Condanneremo perciò i festival ed i loro organizzatori? – Sì, se si tratta di denunciare il loro rovinoso e ridicolo moltiplicarsi senza differenziazioni che li caratterizzino; no, se il denunciarne la mediocrità dei contenuti significhi necessariamente chiamarne in causa gli organizzatori, i quali non possono esporre oro se la produzione corrente offre solo rame e ferro, e che, tutto sommato, finiscono col provvedere ai critici ed al pubblico i dati necessari per giudicare almeno le costanti e le varianti della produzione.

Costanti e varianti

Così, tra Cannes e Locarno – ma pare che anche Berlino non contraddica – abbiamo potuto rilevare la ripresa del cinema U.S.A., che molti davano per spacciato; però ripresa di una macchina che macina dollari a palate ma consuma cultura ed arte col contagocce, con lo scopo di duplicare e triplicare i primi e finire di estraniare il mondo da ogni serio interesse umano, intontendolo nel sopore dell’evasione. Contro, infatti, tre commedie brillanti – The world of Henri Orient, Good neighbour Sam e What a way to go - e contro il fumettone «storico» The Fall of the Roman Empire e due sconclusionati pasticci degli indipendenti St. de Hirsch e D. W. Cannon, appena due film che affrontino, con impegno culturale e morale e con una certa dignità di forma, problemi di uomini e non di fantocci: l’onesto One potato, two potato, sul razzismo negro negli Stati Uniti, e The best man, interessante rivelazione del buono e del marcio della democrazia americana nello spaccato di (non tanto) ipotetiche elezioni presidenziali.

Nei paesi d’oltrecortina, manco a dirlo, vige una produzione di regime, carceraria, dove di tutto si tratta meno che dei carcerieri e dei carcerati. I film russi, quando non fanno la réclame (goffa) di Mosca, del suo sopramercato e della sua metropolitana – che starebbero al comunismo come le piramidi d’Egitto alle democrazie faraoniche –, e quando non inneggiano al benessere raggiunto dagli onesti «compagni», che ormai avrebbero poco o nulla da invidiare ai borghesi capitalisti (Romanza a Mosca e Den stchastia), evadono verso le pecorelle della Carovana bianca. Quelli poi delle colonie russe, non potendo parlare del cancro che li rode, ripiegano o sulla critica, sì, della società locale, ma di prima della «liberazione» marxista (l’ungherese Pacsirta), o verso l’innocuo bozzetto deamicisiano e la caricatura di giovanotti più tonti che problematici (i cecosìovacchi Vysoka zed e Cerni petr), o continuano ad attingere all’inesauribile pozzo dei fatti di guerra, con annessi campi di concentramento, ebrei, resistenti... (i polacchi, eccellenti, Pasazerka e Naganiacz, l’ungherese, confuso, Nappali Sotetseg), o anche, pur raccontando cose odierne e di casa propria (l’ottimo Krik, di J. Jires), lo fanno ignorando deliberatamente ogni circostanza politica locale”4.

Come prevedibile, questi film si concedono la battuta antireligiosa di rito. Cosi Romanza a Mosca dimostra che le chiese, come no?, sono ancora aperte al culto, ma che le frequentano donnette borghesucce e stupidine, le quali, invece che biascicarvi inutili preghiere, farebbero meglio a badare ai loro cani arrabbiati. In Den stchastia due contadini, ripresi da una zelante perché portano una croce sulla tomba di un «compagno» morto edificantemente da ateo, fanno ammenda onorevole della foro colpa banchettando pasolinianamente sulla suddetta croce. In Cerny petr si oppone la religione delle Madonne oleografiche all’arte della Venere del Giorgione, facendola salutare con una sonora bestemmia da parte di un personaggio che ne gusta l’ambigua nudità con occhi non propriamente artistici...

Sempre sulla linea delle costanti e delle variabili, la produzione tedesca, con Die Tote von Beverly Hills, di B. Wicki, si è mostrata, ancora una volta, crassa di un humour che non si potrebbe immaginare più pesante; nonché facile al compromesso commerciale nel tradurre sullo schermo il forte dramma di Dürrenmatt The visit (che, tra parentesi, può considerarsi tedesco soltanto secondo l’alchimia politica delle co-produzioni, essendo stato girato da un regista svizzero-austriaco, a Cinecittà, con scenografo francese, con attori francesi, italiani, tedeschi, svedesi ed americani, e con capitali U.S.A)5.

A proposito poi della Francia, i due festival hanno avuto il merito di confermare la (sembra) definitiva sgonfiatura di quel bluff stilistico-politico-commerciale che ha fatto tanto chiasso come nouvelle vague. Infatti, i film di G.-L. Godard e di Fr. Truffaut hanno deluso, oltre che rispetto ai precedenti film dei due ex terribili stroncatori e rivoluzionari dello schermo, anche rispetto alla produzione corrente e conservatrice. Nessuno, ovviamente, nega che i due registi, patiti di cineteche, abbiano nel sangue il cinema; che maneggino la macchina con padronanza assoluta; che, rimanendo sempre attaccati al materiale umano, riescano a concentrare in esso ogni interesse, facendone partecipare anche gli oggetti più comuni del mondo fisico, i quali, in funzione dei personaggi, vengono ad assumere sembianze e significati pregnanti; che, soprattutto, abolendo i tempi morti, e variando a piacere, anche mediante l’uso frequente di ellissi, i rapporti spazio-tempo, sappiano stringere il loro narrare, o piuttosto il loro mostrare, in ritmi tesi e frenetici, ed indurre lo spettatore a caratteristiche ambiguità d’interpretazione... Ma il primo, con Bande à part, ricalca stancamente i moduli del suo, pure discutibile, A bout de souffle, senza riuscire ad interessarci al suo giuoco gratuito; e il secondo, con La peau douce, ricalca lo sfruttato schema del triangolo lui-lei-l’altra, con l’unica impennata di un finale quanto mai improbabile («lei» ammazza «lui» a fucilate in un ristorante, dopo avergli buttato in faccia le foto dell’«altra»!), a detta dello stesso Truffaut, appiccicato lì - come, del resto, il titolo anodino del film – «perché non gliene veniva in mente un altro».

Degli altri film delle selezioni francesi è presto detto. Un New York-sur-mer, pretenzioso campionario di luoghi comuni senza né estro né nerbo; un Cent mille dollars au solei[, grossa commedia spettacolare inficiata di un colonialismo duro a morire, e finalmente il melodramma a colori Les paraipluies de Cherbourg, aggraziato, sì, nonché commovente, anche perché tutto trepidamente cantato, ma troppo gracile e caduco per passare alla storia laureato in utroque, vogliamo dire onusto tanto della «laica» Palma d’oro di Cannes quanto dell’«ecclesiastico» (mezzo) Premio O.C.I.C.

Sulle altre produzioni, in una panoramica rapida e sommaria come questa, preferiamo sorvolare – non senza ricordare, tuttavia, il non disprezzabile, ma troppo povero, Vidas secas (brasiliano)-; per portare l’attenzione del lettore su due produzioni che, con titoli diversi, a nostro avviso, tanto a Cannes quanto a Locarno, hanno spiccato sulle altre; vogliamo dire quella italiana e quella giapponese.

Esportiamo inciviltà

Se aggiudicandosi, si può dire, tutti i primi premi dei festival dell’annata, nel 1963 l’Italia batté il record della produzione «artistica» assoluto, o almeno relativamente a quelle delle altre nazioni, stando a quanto quest’anno ha esportato a Cannes ed a Locarno, pare che nel 1964 voglia battere quello del malgusto e dell’inciviltà, aggiudicandosi di forza, data la mancanza di altri concorrenti dello stesso calibro, tutti i relativi primi premi, se i festival ne elargissero di questo tipo.

Sotto questo aspetto, il meno pesante è stato – tutto dire! – La calda vita, di ,Florestano Vancini: un film in cui la turpitudine del soggetto boccaccesco viene rincarata dalle nudità della povera protagonista, insistentemente promesse e furbescamente non concesse; il tutto camuffato, con un’ipocrisia che, almeno, il peccatore certaldese non conosceva, di «indagine umana», di «incomunicabilità dei giovani», e via mentendo.

Più triviale e volgare Le schiave esistono ancora, di M. Malenotti (meritamente ripudiato dal co-regista Folco Quilici), in cui l’ipocrisia mercantilistica (o malafede cinica?), raggiunge i limiti del grottesco. Il film, infatti, vorrebbe passare per «coraggiosa denuncia sulla tratta delle donne nel mondo odierno»; ma, a parte ,la nessuna attendibilità sociologica dell’insieme del materiale raffazzonato – nel quale tanto scarseggia il «documento» quanto diluvia la retorica del commento –, sporcizia, sesso e sadismo, degradazioni (più o meno compiaciute) delle «schiave» ed abiezione dei luridi mercanti, che ci lucrano sopra, e dei ripugnanti sceicchi-petrolieri, che ci sfoggiano prestigi di potere: tutto diviene volgare spettacolo e, in definitiva, – anche mediante il pimento di spogliarelli, di nudità e di danze del ventre, che rispetto alla presunta «coraggiosa inchiesta» è del tutto superfluo – funziona da lenocinio delle folle, a favore di quell’immoralità sessuale, individuale e sociale, che a parole si intenderebbe deplorare e denunciare.

Sedotta e abbandonata, di Germi, al quale è stato riservato l’onore di chiudere la rassegna locarnese, compie un altro passo avanti nella trivialità della trama, nella trivialità delle situazioni e del dialogo, nella volgarità del personaggio principale, che da capo a fondo del film sbraita, trasuda e nausea; ed a tanto maleodorante materia intercalando cose, persone ed istituzioni della religione cattolica – alla maniera, per intenderci, dell’Ape regina, di Marco Ferreri –: ognuno giudichi con quanto senso di civile convivenza, dato che, bene o male, si tratta di valori ancora sacri, non per un clan di boscimani – che, del resto, esigerebbe anch’esso un minimo di rispetto –, ma in una religione che è norma e ragione di vita per centinaia di milioni di uomini.

Gli stessi rilievi vanno mossi al film Le voci bianche, del duo Festa Campanile e Franciosa, che a sua volta, ha chiuso la rassegna di Cannes, con meritato disprezzo e dileggio da parte del pubblico, nonostante la presenza in cartellone di una mezza dozzina di attrici di richiamo. Si tratta, infatti, di un’altra e più sbardellata vicenda boccaccesca, questa volta in argomento degli evirati, che sostenevano le parti di soprano nei teatri e nelle cappelle della Roma del ’700, con gran rinforzo di cicisbei, di adultere e di invertiti, di nobili e di frati pervertiti ed ipocriti, e di cardinali dalla morale accomodante; insomma – per dirla con un critico, di solito non troppo severo – una pellicola «di trito erotismo, che cerca solo il consenso di platee in vena di gusti poco nobili», non privo «di doppi sensi checredevamo relegati a spettacoli di periferia»6.

Abbiamo nominato Marco Ferreri. Egli può essere considerato un maestro in questo genere profanatore. Orbene, non contento degli estremi raggiunti nell’Ape regina, a Cannes, con La donna scimmia ha rincarato la dose, creando un film che ritiene tutti i titoli per passare alla storia del cinema come monumento di malgusto e di cafoneria. Si direbbe che gli studi di veterinaria - per quali vie si arriva al cinema! – gli abbiano creato la deformazione professionale dell’inumano, tanto egli si compiace nel fisicamente anormale, nel moralmente mostruoso, tanto egli insiste nel distruggere e nell’irridere ogni valore umano. E non, si badi, alla maniera di Buñuel, che, per quanto radicale sovvertitore di ogni valore, lo è con una sua filosofia, con una sua passione e con una sua arte; bensì a freddo, per il gusto volgare di irridere e di profanare, per giunta, in termini barocchi e paradossali, senza che mai lo sfiori il dubbio della volgarità morale e della rozzezza culturale di siffatto mestiere.

Fare peggio era difficile, ma non impossibile. E c’è riuscito P. P. Pasolini con Comizi d’amore: un film inchiesta, come Le schiave esistono ancora, ma questa volta – ci scusiamo con i nostri lettori – sul sesso in Italia; e film di denuncia, come La donna scimmia, in cui però viene mostrato e dileggiato come fenomeno da baraccone tutto quel pubblico italiano, il quale, disgraziato!, «in tempi quando Marx e Freud hanno da un bel pezzo sistemato tutta la realtà umana» [sic!], nella vita sessuale, si attarda ancora su pudori ed inibizioni, comportandosi da troglodita inceppato nei suoi ridicoli tabù, e non da uomo e «compagno» illuminato dal credo materialista.

Confessiamo che raramente ci siamo trovati ad assistere ad uno spettacolo tanto penoso, e sotto l’aspetto morale-civile e sotto quello culturale. Ci si domanda come possa un uomo, che abbia un minimo di rispetto per se stesso e per gli umani con i quali vive, girare per l’Italia e, non in colloqui privati, bensì sulle spiagge, nelle piazze, nei treni, nei campi, nelle scuole, per le strade: andare interpellando pubblicamente signore e signorine, studentesse e ragazzi, soldati ed operai, contadine, ragazzetti e bambine, sul come nascono i figli, se il problema sessuale sia o no importante per loro, se piacerebbe loro essere un Don Giovanni e quante donne vorrebbero «conquistare» ogni giorno... e via di questo passo, scorrazzando dalle (insufficienti!) esperienze matrimoniali al (necessario!) divorzio, dall’amore (si capisce!) libero alla verginità (ridicola!), dalla prostituzione (non esageriamo!) all’omosessualità (un diritto come un altro dell’uomo e della donna moderni)...: il tutto, non per l’accogliere dati di studio personale in sede scientifica, bensì materiale di spettacolo, et quidem in un festival! E ci si domanda pure come un uomo che, in altri settori, non è estraneo alla cultura possa ritenere culturalmente e civilmente valida questa via per propagarla. Innanzitutto, in sede di comunicazione e di arte, è cinema questo? Poi, in sede sociologica, è proprio «cinema-verità?». A parte tutte le difficoltà teoriche di registrare col cinema «la verità», specialmente di fenomeni qualitativi interiori, che un uomo di una certa cultura pur dovrebbe conoscere prima di impugnare macchina e registratore a questo scopo, come può presumere il Pasolini un minimo di credibilità nella sua inchiesta, viziata com’è da capo a fondo da elementi condizionanti gli intervistati: a cominciare dalla persona stessa dell’intervistatore, proseguendo con la natura dell’argomento trattato, con la tendenziosità delle domande poste, con la non tipicità degli intervistati presi come campione, con la situazione di manifesta recitazione in cui questi vengono trovati o posti durante l’intervista, con la scelta arbitraria e l’artificiosa interpretazione dei dati in sede di montaggio e di missaggio... e via di questo passo?

A nostro avviso, e di quanti dispongono di un minimo di competenza in ricerche sociologiche, questa «inchiesta», in sede scientifica come in sede artistica, non vale un soldo; e le sue conclusioni valide possono essere soltanto due; vale a dire: la compassionevole presunzione di chi si crede autorizzato ed autorevole a mettere bocca su tutto per la semplice ragione di tenere in mano una macchina da presa ed un registratore, che possono appunto fotografare e registrare tutto; e l’umiliante rinnegamento, da parte di un uomo colto, proprio delle armi della cultura e dell’arte, per ripiegare sul dilettantismo più rozzo, e ciò allo scopo incivile di scardinare quel poco che resta di credenze, di costume, di tutele all’uomo odierno, le quali ancora lo distinguono dall’homo selvaticus, verso cui lo spinge la civiltà materialistica.

* * *

Sei film, sei vergogne: queste le opere di arte e di cultura esposte dall’Italia a Cannes e a Locarno; questo il tipo di merce che – rappresentanze diplomatiche aiutando – viene esportata dall’Italia a cura dell’Anica-Film: Unione nazionale per la diffusione del film italiano all’estero. Del bel servizio possiamo ringraziare i nostri cinematografari, per i quali, evidentemente, pecunia non olet; ed anche i compagni marxisti e la critica anticlericale, che non senza motivi li spalleggiano, forse in attesa dell’avvento di un cinema di Stato (marxista) che di punto in bianco ci imporrà la produzione per educande delle «democrazie popolari»

Meglio il Giappone

Rifacciamoci la bocca con la produzione giapponese, e precisamente con Midareru (Il desiderio), del vecchio Mikio Naruse, cui, secondo il nostro avviso, spettava la Vela d’oro di Locarno, a preferenza dell’anemico e caricaturale Cerny petr; e soprattutto con Suna no onna (La donna della sabbia), di Hiroshi Teshigahara, che possedeva tutti i titoli per essere laureato a Cannes, al posto del mieloso Les parapluies de Cherbourg.

In una cittadina a sud di Tokio, la vedova Reiko da diciott’anni manda avanti una modesta bottega, proprietà della famiglia del marito mortole in guerra, resistendo sempre più a stento alla concorrenza di un supermercato aperto nelle vicinanze. A carico della famiglia pende anche il giovane Koji, fratello minore del marito, il quale, da poco laureato, inesplicabilmente si è fatto licenziare dal posto occupato presso una società, e passa le giornate bighellonando. Un giorno che Reiko, più stanca e preoccupata del solito, si decide a rimproverare al cognato la sua condotta ed a richiamarlo alle sue responsabilità di uomo, ha la sorpresa di sentirsi dichiarare dal giovane che egli è innamorato di lei, e che, se ha abbandonato il posto, lo ha fatto soltanto per viverle vicino; infine, che è disposto, sì, a lavorare per la famiglia, ma aprendo anch’egli un supermercato per gestirlo insieme con lei. Reiko, turbata, rifiuta, anche quando sua sorella la spinge a risposarsi per assicurare il suo avvenire economico; anzi, quando ha l’impressione che la famiglia voglia disfarsi di lei, disegna addirittura di lasciare negozio e città e ritornarsene al suo paese. Il progetto è da lei attuato quando, a seguito del licenziamento di un commesso, il cognato Kojj si mette a lavorare nella bottega con un rimpegno che, per lei, è la più chiara prova, sia pur muta, di amore. Ma, una volta sul treno, ha una nuova sorpresa: Koji l’ha seguita, dice, per tenerle compagnia soltanto durante il viaggio. Pur inquieta, perché anch’essa ormai sente di amarlo, Reiko ne accetta le attenzioni, e con lui scende a mezzo il viaggio, per trascorrere la notte in una locanda. Ma quivi, temendo di se stessa, si impone di evitare l’irreparabile e costringe il cognato ad abbandonarla. Koji cerca di dimenticare la passione bevendo, e, semiubriaco, telefonato a Reiko ,l’ultimo addio, si avvia verso la montagna. All’alba viene trovato morto ai piedi di una roccia.

Non vorremmo esagerare, dando Midareru per un capolavoro. Intanto il soggetto non brilla per originalità; poi il conflitto economico creato dal supermercato risulta in gran parte superfluo rispetto a quello psicologico, e lega ben poco con questo, sicché la prima parte del film ristagna nel predisporre le condizioni ambientali del vero conflitto, che si sviluppa e risolve nella seconda. Ma questa è quasi perfetta, e le sue due sequenze del viaggio in treno e della notte tragica sono gioielli. Il ritmo lento come di elegia, la fotografia morbida, gli esterni montani gelidi e ovattati di silenzio, il commento musicale largamente modulato si accordano con la superba, e pur controllatissima, interpretazione dei due protagonisti, nel partecipare allo spettatore un dramma tutto intimo, come compresso e sentito solo per echi, fino allo scoppio finale della corsa disperata della donna dietro il cadavere dell’amato, trasportato a valle. Per finezza di analisi, per delicatezza di tocco nello sfumarne la passione forte e pudica, come non ricordare, nella Reiko di Naruse, i patetici ritratti femminili del grande Mizoguchi?

Di tutt’altro impianto e stile il film del giovane Teshigahara, a proposito del quale, un po’ troppo frettolosamente, è stato rievocato il mondo disperato di Sartre e di Kafka. Si giudichi dal soggetto, derivato da un romanzo di Kobo Abe.

Un giorno di estate un giovane maestro, che ha l’hobby dell’entomologia, si avventura in sperdute dune di sabbia alla scoperta di un insetto cui dare il suo nome. Riuscitagli vana la ricerca, e mancato l’autobus del ritorno, a sera si propone di passare in qualche riparo la notte per continuare le ricerche l’indomani; ed ecco che affiorano e gli vengono incontro certi strani abitanti del luogo, che gli offrono alloggio in un tugurio di tavole infossato tra le dune, per raggiungere il quale lo calano con una corda. Vi trova una giovane vedova, che presto giudica non menù allucinante del posto e della casa che abita. Essa, infatti, passa gran parte della notte a spalare la sabbia, che continuamente frana dalle ripe del cratere sulla casa, e che filtrando per le fessure minaccia di seppellirla. Pensano poi i misteriosi uomini del villaggio a sollevarla con la fune e scaricarla all’esterno, in cambio del servizio, con la stessa fune, calando alla donna viveri ed acqua.

Passata alla peggio la notte, il giovane fa per andarsene; ma lo coglie la mala sorpresa che la corda è stata ritirata. Vane sono le sue grida di richiamo, e vani gli sforzi per inerpicarsi sulle sabbie fluide dei pendii. in trappola. Naturalmente non si rassegna, e cerca di forzare gli abitanti a tirarnelo fuori legando la donna ed impedendole di spalare la sabbia. Però deve desistere perché quelli, non vedendo più arrivare le sporte di sabbia, tagliano ai due i viveri e l’acqua. Allora gli è giocoforza sciogliere la donna e mettersi anche lui a spalare. Ma, di nascosto, si fabbrica una corda ed un gancio, ed una notte, lanciandoli dal tetto della casa sul ciglio dell’imbuto, riesce a fuggire. Tuttavia invano, perché, impantanatosi nelle sabbie mobili, viene ripreso dagli abitanti e ricalato nella fossa. Qui, non rassegnato alla malasorte, si abbrutisce nell’ozio e nel lavoro coatto e sfoga la sua rabbia e la sua lussuria sulla donna, che nella forzata convivenza insieme lo attira e lo imbestialisce. Ed avviene che dopo mesi e stagioni, maturato il tempo, il parto della donna si presenta difficile. Questa volta, solleciti, gli stessi abitanti sollevano la donna alla bocca dell’imbuto per ricoverarla nel villaggio, e, nella fretta, si dimenticano di ritirare la corda. L’uomo ne approfitta per salire anche lui. Potrebbe ormai fuggire, ritornare al mare aperto, a Tokio, ma non lo fa, e ricala tranquillo. Ormai il tugurio in fondo all’imbuto non gli è più una prigione, dato che vi abita la donna che gli ha dato un figlio, e la sabbia che lo circonda non è più sterile, dato che in fondo al mastello, che egli aveva adattato come trappola di uccelli, inopinatamente è affiorata, limpida e fresca, l’acqua potabile.

Una sola visione del film, per giunta parlato in un giapponese scarsamente chiarito da didascalie sommarie, non permette di darne un giudizio compiuto, particolarmente arduo dato il genere allegorico e la simbologia di cui è ricco. Resta, tuttavia, l’impressione di un’opera affascinante, che tocca valori umani profondi ed universali, con mezzi espressivi pregnanti di sentimento, fatti stile.

Il vero entomologo, si direbbe, non è il personaggio del film, ma il regista, che sorprende ed isola, in un campo visivo neutro – la sabbia –, non un uomo ed una donna, ma la «coppia umana», e l’osserva, la scruta, la studia, non tanto sotto l’obiettivo di una macchina cinematografica quanto sotto quello di un microscopio, di cui le inquadrature seguono la tecnica: angolazioni a piombo con focali che tolgono ogni rilievo prospettico, composizioni scentrate come se l’obiettivo fosse immobile rispetto ai liberi spostamenti dell’oggetto in campo, trapassi rapidi da un piano all’altro, quasi per rotazione di obiettivi, abbondanza di primi, primissimi piani e di dettagli: sui pori della pelle, sui granelli di sabbia. Lo spettatore, presto superata l’inverosimiglianza della situazione di partenza dei due protagonisti, poggia anche lui l’occhio sull’oculare ed osserva come si comporta «l’uomo», scrutato, sezionato, ingrandito nei suoi istinti, nelle sue reazioni, nelle sue evoluzioni.

All’inizio si direbbe che il protagonista, «gettato a vivere» da un destino irrisore, sia l’espressione di un essere angosciato perché stretto dal duplice limite dello spazio – chiuso com’è in un pozzo di sabbia – e del tempo – costretto a rubare con la fatica ogni minuto di sopravvivenza; e di un essere disperato in una solitudine, non alleviata, anzi esasperata, dalla presenza dell’«altra»: causa, insieme, e testimone della sua rabbia impotente. Frustrato nei suoi desideri di libertà, ripiega nella più furiosa evasione dei sensi, quasi che la cieca animalità sia rimasta l’unica ragione della sua esistenza. E l’obiettivo segue i due poveri corpi nudi come lo farebbe su quelli di due vermi, la crudezza delle immagini portando lo spettatore (che sappia leggerle) non certo a compiacersene, bensì a commiserarne tutta la disperata miseria. A questo punto, tuttavia, la concezione che Teshigahara ha dell’uomo supera quella di disperata condanna, che è di Sartre e di Kafka. Il suo microscopio, infatti, scopre nella coppia umana, così malridotta, qualcosa che la distingue dagli insetti e ne riscatta l’angoscia di vivere. L’adattamento della donna ad una fatica apparentemente inutile si rivela un valore altamente umano. Essa, del proprio dolore ha fatto una ragione di solidarietà; spala, infatti, la sabbia, nella quale ha perduto il marito ed il figlio, perché sa che dalla sorte della sua casa dipende quella di tutto il villaggio. E presto anche nell’uomo – nuovo e meno rozzo Zampanò – spunta un’alba di liberante luce interiore. La sua furiosa animalità si nobilita in sentimento umano, fiorisce in attenzioni verso la donna, in trepidazione per il figlio. Così mutato ab intus, accetta liberamente le condizioni di vita, cui si era ribellato. Ormai il suo egoismo si è mutato in senso della famiglia, in solidarietà umana: l’acqua limpida, che è venuta a fecondare la sua fossa, dice che se anche il deserto di sabbia ormai fiorirà, è perché da sotto la dura scorza degli istinti ciechi è prima fiorita un’anima.

* * *

Ci si potrà rammaricare che nei due film giapponesi manchi qualsiasi apertura verso i valori religiosi, a dare dell’uomo la dimensione che solo lo spiega e lo nobilita totalmente. Quale enorme, distanza, tuttavia, su piano estetico ed etico, tra essi ed i prodotti volgari di altre nazioni, che pur vivono della linfa della civiltà cristiana, e che di alta arte e di vera umanità sono state maestre al mondo!

1 Per esempio, quest’anno, lo spagnuolo Tiempo de amor, il francese Bande à; pari, il Vidas secas e l’italiano Sedotta e abbandonata, rimbalzati a Locarno rispettivamente da Valladolid, da Berlino e da Cannes; l’americano The best man, passato a Locarno da Cannes, via Karlovy Vary...

2 Eccoli, in ordine alfabetico di nazioni. I numeri in corsivo si riferiscono ai cortometraggi; i titoli chiusi in parentesi quadre sono dei film presentati fuori concorso.
ARGENTINA (1): Primero yo (Il primo sono io), di F. Ayala. - BELGIO (1). - BRASILE (2): Deus e o diabo na terra do sol (Dio e il diavolo nella terra del sole), di GI. Rocha; Vidas secas (Vite aride), di N. Pereira dos Santos, premio O.C.I.C. ex aequo. - CANADÀ (1) – CECOSLOVACCHIA (1 + 1): Krik (Il primo grido), di J. Jires. – COLOMBIA (1). – FRANCIA (3 + 2): Cent mille dollars au soleil (Centomila dollari al sole), di H. Verneuil; Les parapluies de Cherbourg (Gli ombrelli di Cherbourg), di J. Demy, Palma d’oro, e Premio O.C.I.C. ex aequo; La peau douce (La pelle dolce), di Fr. Truffaut. – GERMANIA (2 + 1): Die Tote von Beverly Hills (La morta di Beverly Hills), di M. Pfleghar; The Visit (La visita), di B. Wicki. – GIAPPONE (2 + 1): Suna no onna (La donna della sabbia), di H. Teshigahara, premio della giuria; Taiheiyo hitoriboshi (Solo nell’Oceano Pacifico), di K. lchikawa. – GRECIA (1 + 1): Kokhina fanaria (Lanterne rosse), di V. Gheorgiades. - INDIA (1 + 1): Mujhe jeene do (Lasciatemi vivere), di M. Battaciarjee. • INGHILTERRA (1 + 1): The pumpkin eater (Il mangiazucche), di J. Clayton, premio ex aequo d’interpretazione femminile ad A. Bancroft. - IRAN (1). - ITALIA (2 [1] + 1): La donna scimmia, di M. Ferreri; Sedotta e abbandonata, di P. Germi, premio ex aequo d’interpretazione maschile a S. Urzì; [Le voci bianche, di P. Festa Campanile e M. Franciosa]. - IUGOSLAVIA ([1] + 1): [Skopje 1963, di V. Buiacic]. – OLANDA (1). – POLONIA (1): Pasazerka (La passeggera), di A. Munk. - R.A.U. (1 + 1): El leila el Akhira (L’ultima notte), di K. El Sheikh. - ROMANIA (1). - SENEGAL (1). – SPAGNA (1 + 1): La niña de Iuta (La ragazza in lutto), di Summers. – SVEZIA (1): Kvarteret Korpen (Il quartiere del corvo), di B. Widerberg. • UNGHERIA (1 + 2): Pacsirta (L’allodola), di L. Ranody, premio ex aequo d’,interpretazione maschile ad A. Pager. – U.R.S.S. (2): (La carovana bianca), di E. Ghenghelaia e T. Meliava; (Romanza a Mosca), di G. Danelia. - U.S.A. (2 [1] + 1): [The Fall of the Roman Empire (La caduta de/l’impero romano), di A. Mann]; One potato, two potato (Una patata, due patate), di L. Peerce, premio ex aequo d’interpretazione femminile a B. Barrie; The World of Henry Orient (La vita privata di lienry Orient), di G. Roy Hill.

3 Eccoli, con gli stessi criteri che i precedenti.
ARGENTINA (1 + 1): La herencia (L’eredità), di R. Alventosa. – AUSTRALIA (1). – BRASILE ([1]): [Vidas secas (Vite aride), di N. Pereira dos Santos]; CANADÀ (1): Trois femmes (Tre donne), di G. Dufaux – Cl. Perrou, P. Patri, G. Carie. – CECOSLOVACCHIA (2 + 2): Vysoka zed (Il grande muro), di K. Kachyna, Vela d’argento; Cerny petr (L’asso di picche), di M. Forman, Vela d’oro. – CINA COMUNISTA (1): Danze della nostra nazione, di Chu Chin-ming. – DANIMARCA (1 + 1): Cade uden Ende (Strada senza fine), di M. Vemmer. – FRANCIA (2 + 4): Bande à part (Banda a parte), di G. L. Godard; New York-sur-mer (Nuova York sul mare), di P. D. Gaisseau. – GERMANIA (1 + 1): Kennwort... Reiher (Parola d’ordine: airone), di Jugert. – GIAPPONE (1 + 1): Midareru (Desiderio), di M. Naruse, Vela d’argento per la migliore interpretazione maschile a H. Takamine. – INDIA (1): Go-daam (Il regalo di una mucca), di Tr. Jetly. – INGHILTERRA (1 + 1): Nothing but the best (La figlia del padrone), di Cl. Donner. – IRLANDA (1). - ISRAELE (1). - ITALIA (2 [2] + 1): La calda vita, di Fl. Vancini; Comizi d’amore, di P. P. Pasolini; [Le schiave esistono ancora, di M. Malenotti]; [Sedotta e abbandonata, di P. Germi]). - OLANDA (1). - PAKISTAN (1). – POLONIA (1 + 1): Naganiac (I battitori), di Cz. e E. Petelski, Premio speciale della giuria ex aequo. - PORTOGALLO (1 + 1): Os verdes annos (Gli anni verdi), di P. Rocha, Vela d’argento per la migliore opera prima. – SPAGNA (1): Tiempo de amor (Tempo d’amare), di J. Diamante. – SVEZIA (1). – SVIZZERA (1 + 4): Les apprentis (Gli apprendisti), di A. Tamer. – TURCHIA (1). – UNGHERIA (1): Nappali Sotetseg (Le tenebre del giorno), di Z. Fahri, Premio speciale della giuria ex aequo. - U.R.S.S. (1 + 1): Den Stchastia (Un giorno di felicità), di J. Kheifitz. – U.S.A. ([1] 4 + 2): [The best man (L’uomo migliore), di Fr. Schaffner]; Good neighbour Sam (Il buon vicino Sam), di D. Swift, Vela d’argento per la migliore interpretazione femminile a G. Kelly; Goodbye in the mirror (Addio nello specchio), di St. de Hirsch; Square roots of zero (Radice quadrata di zero), di D. W. Cannon; What a way to go (La signora e i suoi mariti), di Lee Thompson.

4 A parte tutto, questa evasione sistematica dalla realtà quotidiana più bruciante dovrebbe porre grossi problemi ai critici marxisti ed al loro e realismo socialista, come canone artistico, se non fossero usi a saltare ben altre contraddizioni ed a ingoiare rospi ben più grossi.

5 Non parliamo del – sembra – pregevole Kennwort... Reiher, di R. Jugert, perché l’abbiamo perduto, in quanto proiettato dopo mezzanotte, dopo un altro lungometraggio in programma. Si direbbe che se Deus impossibilia non iubet, qualche volta ai critici chiedono cose impossibili gli organizzatori dei festival.

6 E. LAURA, in Bianco e nero, 1964, nn. 4-5, p. 48.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151