Articolo estratto dal volume III del 1957 pubblicato su Google Libri.
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Di ritorno dal decimo festival internazionale cinematografico di Cannes1, svoltosi dal 2 al 17 maggio di quest’anno, ci sentiamo più che mai convinti di due cose: 1) che «cinema» è un termine equivoco, usato per designare attività eterogenee; 2) che l’annuale convegno di Cannes si direbbe organizzato apposta per rendere più equivoco il termine e più eterogenea la realtà da esso significata.
Sì: per pochi poeti il cinema ancora è arte; quando fa loro comodo come usbergo contro il brando della censura, arte, e come tale intangibile, il cinema è detto anche da molti produttori, che in verità con le muse hanno scarsa dimestichezza, e cui dell’onorabilità di quelle signore per nulla cale; ed arte, ancora, almeno quest’anno, ha mostrato di crederla il suo comitato organizzatore, che ha nominato la giuria dei premi per i lungometraggi: basti dire che, chiamando a farne parte i sette ex presidenti delle nove edizioni precedenti, vi includeva ben cinque artisti e letterati dell’Accademia di Francia...2. Tuttavia, al tirar dei conti, è restato assodato che la principale preoccupazione di questo festival non è stata davvero quella artistica.
Basti soppesare il valore globale dei lungometraggi presentati – trentadue, compresi i due fuori concorso3 –, e i giudizi mirabolanti con cui la felucata giuria li ha vagliati. Solo cinque, malgrado alcuni loro difetti, ci sono sembrati affermarsi sul piano dell’arte; e sono: l’italiano Le notti di Cabiria, che volentieri avremmo visto onorato, oltre che di quello della migliore interpretazione femminile, che si è aggiudicato, anche del massimo premio del festival, essendo opera di alta poesia, non inferiore a La Strada (1954), malgrado qualche ridondanza di cui il regista non ha avuto il coraggio di liberarsi; i francesi Celui qui doit mourir e Un condamné à mort s’est échappé, opere vigorose ambedue: ricca di corali valori umani, ma forse un po’ gridata, la prima; essenziale, lucida, sofferta, – ma un po’ fredda la seconda; il polacco Kanal, potente per forza di linguaggio adeguato all’indicibile tragedia umana che vuole esprimere, ma che, col suo realismo insistito, non una sola volta sconfina, dall’arte, nello schifo e nel raccapricciante; e finalmente l’americano Friendly Persuasion: benché già sia più frutto di mestiere consumatissimo che d’arte vera e propria, tuttavia, per le felicissime notazioni d’ambiente, la simpatica costruzione dei personaggi, la superba recitazione, specialmente di Gary Cooper – cui pensiamo che di diritto spettasse il premio per la migliore interpretazione maschile –, e la fine ironia con cui, senza compromettersi, tratta il tema morale, merita di essere contato, sia pure come l’ultimo, tra i primi della classe. Contro questi cinque promovendi, uno con ottimi e gli altri con buoni voti, quasi una dozzina di film, a nostro giudizio, mancavano dei titoli richiesti per essere ammessi all’esame. Tra questi, quattro film di normale interesse turistico didattico, e nulla più: il giapponese Shiroi sammyaku, replica un po’ migliorata e un po’ peggiorata del Walt Disney seconda maniera; il danese Quivitoq, col suo puerile intreccio preso a pretesto per presentare sorprendenti bellissimi paesaggi nordici; il norvegese Same Jakki, men che mediocre documentario sulla vita dei lapponi e delle loro renne, e finalmente il noiosissimo, per quanto piissimo, Gotoma the Buddha, presentato dall’India. Eccezion fatta per quella del giapponese, si tratta di produzioni che dimostrano men che scarsa dimestichezza col linguaggio cinematografico; più che registi, i loro artefici si direbbero macchinisti ingenui, i quali si illudono che per fare del buon cinema basti avere sotto mano una buona macchina e belle cose da riprendere. Tuttavia i quattro se la cavano meno malvagiamente di otto altri, ai quali manca anche l’ingenuità che ci fa accettare quelli, sicché danno fuori opere pretenziose ed insopportabili per lo scompenso tra le troppe risorse del mezzo tecnico adoperato e l’elementarietà del racconto, tra la varietà e suggestività delle forme espressive già acquisite dal linguaggio del cinema e la vacuità dei sentimenti che dovrebbero animare situazioni e personaggi, retorici e non attendibili. È come adoperare una macchina calcolatrice elettronica per fare i conti della lavandaia. Motivo per cui, nelle interminabili ore di noia e di tortura a cui codeste sette otto pappolate ci hanno sottoposto, mentre ci sforzavamo di sopportarle per amor di Dio, sognavamo di una repubblica ideale in cui fosse interdetto l’uso della macchina da ripresa agli analfabeti cinematografici, o a quanti risultassero, previo esame di competenti, ancora immaturi per distinguere tra dolor di denti e commozione lirica, convulso da solletico e gaudio estetico, gli esclamativi, gli interrogativi, i punti di sospensione, le maiuscole, e la poesia.
Primi tra questi ultimi della classe eleggiamo l’argentino La casa del angel, bolso romanzo d’appendice, che accompagna le forzature assurde della tesi con un più che discreto campionario di ombre, di inquadrature sghembe e di primi piani deformati, cari all’espressionismo tedesco e a certo cinema d’avanguardia; indi poniamo lo spagnuolo Faustina, reo di aver sprecato i ricchi mezzi del colore e del grande schermo, nonché di aver scomodato le venerande ombre di Goethe e di Lubitsch, per fornire magre dosi di comicità volgaruccia e di goffe suggestioni morali e religiose. Vengono poi il mediocrissimo bulgaro Semia, buono per far rimpiangere la novella di Tolstoi, cui si rifà senza averne l’aria, come il pretenzioso, opaco e disanimato Elokuu, della Finlandia, che spinge a rifarsi la bocca col romanzo di Sillampaa, da cui è stato, ahimè, derivato. Seguono il cecosìovacco Les enfants perdus, disuguale campione senza valore dell’oraziano desinit in piscem mulier formosa supernis; Moara cu noroc, della Romania, romanzo d’appendice, tanto caotico quanto gratuitamente fosco; il lento Rekava, del Ceylon, che ce l’ha messa tutta per rendere noiosa una peraltro non inintelligente indagine di costume; e infine il tormentoso ed esasperante Ila Ayn, col quale il Libano ha cercato di convincerci sugli inconvenienti dell’emigrazione, diluendo in tre chilometri di pellicola quanto con più efficacia e meno noia poteva esporci, salve le assurdità del lacrimato racconto, con una paginetta a stampa.
Volendo continuare sul filo del paragone festival-scuola, possiamo dire che i quindici film restanti hanno fornito la massa media della classe, composta di bravi, di bravini, di discreti e di passabili: alunni, insomma, ai quali un professore tipo direbbe: «Vedi che, se vuoi, puoi fare?!»4.
Spettacolari e di buon mestiere il giapponese Kome, pletorico e disuguale l’austriaco Sissi, die junge Kaiserin, ripetizione di una formula che va perdendo la sua freschezza originale; il tedesco Rose Bernd, macchinoso e pesante, malgrado la dignitosa prestazione di Raf Vallone e l’incanto di Maria Schell, piegata purtroppo anche questa volta, come nell’analogo Gervaise (1956), ad interpretare la parte dell’infelice e sacrificata protagonista; due film degli Stati Uniti: Funny Face, commerciale musical pregevole per qualche gustoso effetto di colore, qualche azzeccato spunto satirico e, per chi se li gusta, i virtuosismi di Fred Astaire; e il kolossal: Le tour du monde en 80 jours, altra briosa satira all’americana affogata nelle solite concessioni di gusto commerciale, e tuttavia redenta dai gustosissimi titoli di testa (in questo caso: di coda), che da soli si meritavano un premio speciale. Valori prevalentemente spettacolari hanno anche i due film russi: Don Chisciotte e Sorok pervyi; specialmente questo secondo, per un certo impeto narrativo, l’uso buono del colore, la buona caratterizzazione e recitazione dei personaggi, la felice fusione tra gli stati psicologici di questi e gli elementi della natura, l’uso spesso funzionale del grande schermo nonché la relativa – per i film russi – originalità del soggetto, se si riesce a vincere la riluttanza per il molto d’ideologia rossa che ancora ne struttura il sottofondo, col suo alternarsi di situazioni epiche e sentimentali, sino allo scontato finale tragico e romantico, procura due ore di spettacolo interessante e senza apprezzabili ristagni. Non possiamo dire lo stesso del presuntuoso Don Chisciotte: se si eccettuano poche sequenze di massa, in cui lo schermo panoramico si anima, e, per contrasto, alcune inquadrature di deserti petrosi, che esaltano la solitaria avventura dell’immortale coppia, il film dà l’impressione di voler strafare, ed altalenando tra un’interpretazione sbrigliata, in chiave comica, ed un’altra, magniloquente e in chiave tragica, del diroccato capolavoro di Cervantes, si trascina in lunghe pause di noia e addirittura di fastidio.
Buone pagine ed un certo vigore d’ispirazione hanno mostrato l’italiano Guendalina, ricco di felici notazioni psicologiche, per quanto frammentarie, sull’inquieta attesa dell’adolescenza moderna; l’americano Bachelor’s party, che, a nostro avviso, immeritamente è passato del tutto inosservato; se, infatti, soggettista, sceneggiatore e regista, gli stessi di Marty (1954), ne ripetono e ne sviluppano, un po’ esauriti, la formula evidentemente televisiva, non mancano al derelitto discendente alcune buone qualità d’indagine e di linguaggio che fecero la fortuna, meritatissima, del prototipo. Mettiamo anche in questa categoria l’ungherese Ket vallomas, volenteroso tentativo d’inserirsi nelle ansie sociali e nel linguaggio di certa corrente neorealista italiana, qui a proposito d’infanzia traviata; lo svedese Det sjunde inseglet, macabra ed apocalittica visione nordica, alla quale poco giova l’evidente ricordo della lugubre problematica e delle inquadrature di Dreyer. Niente più che corretto mestiere, infine, tanto nei registi quanto negli interpreti, raccomanda i due film inglesi High tide at noon e Yangtse incident; e niente più di buone pagine descrittive, intercalate da forzature di tardive tesi ideologiche, fanno il pregio del tedesco (orientale) Betrogen bis zum jüngsten Tag (con chiare reminiscenze del classico film di guerra di L. Milestone), e dello iugoslavo Dolina miru (con non meno chiare reminiscenze del nostrano Vivere in pace, 1946, e di Jeux interdits, 1952).
Orbene, come se l’è cavata la giuria? Essa ha assegnato il primo premio all’americano Friendly Persuasion, e il premio speciale ex aequo al polacco Kanal e allo svedese Sjunde inseglet, il che ha stuzzicato immediati maliziosi commenti da parte dei critici sul rispetto dovuto alla veneranda età degli immortali giurati e sulla loro indiscussa esperienza di cinema; quindi essa ha assegnato il premio speciale per il soggetto e la sceneggiatura al russo Sorok pervyi, con la motivazione: «Per la qualità umana e grandezza narrativa», che manifestamente, vaga com’è, abbisogna di un’esegesi, come l’altra: «Per la sua bellezza morale e plastica», con la quale la stessa giuria ha conferito la menzione onorevole all’indiano Gotoma the Buddha. Nulla da obiettare circa i due premi per la migliore regia e la migliore interpretazione femminile, assegnati rispettivamente al francese Robert Bresson e all’italiana Giulietta Masina, ma sonorissime reazioni – e sì che il pubblico di Cannes non è caldo come quello di Venezia! – hanno accolto il nome del negro Kitzmiller, del resto buon attore nel film iugoslavo Dolina miru, dato per il migliore interprete maschile...
Ma non mette conto continuare. Quanto si è riferito denota a sufficienza che le sollecitazioni alle quali hanno dovuto ubbidire i membri delle giurie non sono state artistiche, ma piuttosto diplomatiche. Gli è che il festival di Cannes nacque come espediente economico turistico per richiamare clienti sulla Cote d’Azur nella stagione bassa, e come tale vive. Ora, più sono le nazioni che vi partecipano – basta che una nazione invii un cortometraggio di duecento metri per contarne una di più – e più sono non solo le bandiere che per due settimane sventoleranno su frontone del Palais, bensì anche le delegazioni straniere e i clienti che affolleranno gli alberghi e i negozi della cittadina; così ancora: più numerosi saranno i film, e maggiore sarà sulla Croisette l’afflusso di produttori, distributori, registi, attori, attrici: o già dive o candidate tali; tutta gente che tira altra gente, ma che, se si sposta, non lo fa per sodisfare gli altri, bensì per guadagnarci. Bisogna dunque accontentarli tutti, quanto si può, altrimenti l’anno appresso le bandiere sul frontone si rarefaranno, e con esse tutto il resto. Dunque: sorrisi e porte aperte a tutti, anche agli scarabocchiatori e ai compilatori di reminiscenze altrui, purché facciano numero; e, per quanto si può, premi a tutti, soprattutto tra le produzioni maggiori; intanto, tra il pubblico, i patiti dell’arte sono eccezione, e non certo per essi si mette in moto la gran macchina del festival, bensì per guadagnarci essa. Bisogna dunque accontentarla tutta, fremente ed esaltata, intorno alle api regine del momento.
Quindi la fisonomia variegata del festival di Cannes. La cittadina si trasforma in una bugnereccia; dai bugni vanno e vengono gli sciami di api: vanitose regine in testa, codazzi di pecchioni ubriachi appresso, operaie e nutrici sopra, sotto, da tutte le parti, e vespe, e calabroni: tutti strepenti e rombanti, sotto la luce liquida che bagna l’azzurro fondo del cielo e del mare, il verde chiaro delle dolci colline, il rosso e il giallo dei fiori che le ingemmano. Nell’allegra sarabanda dei vivaci imenotteri si muovono indaffarati produttori in cerca di vendite e di coproduzioni, distributori in cerca di compere, registi e attori in cerca di...; intanto, tra essi, squadre di lampiridi, ben più invadenti che le lucciole nei campi di grano, i fotografi, sparano a tutto aire i loro flash, mentre plotoni di ditteri e di coleotteri – giornalisti e critici – affamati di notizie e di sandwichs, saltano dalle sale di proiezione ai cocktails, dalle conferenze stampa alle halls degli alberghi, per cogliere in aria notizie, indiscrezioni, pettegolezzi, e poi volano alle macchine da scrivere e ai telefoni per i pezzi, che a loro volta sfameranno i divoratori di giornali e di rotocalchi.
Questo è Cannes: mostra, mercato, fiera, salotto mondano di vanità, di pettegolezzi e di scandali in funzione di réclame, lancio di nullità e collaudo delle effimere celebrità del momento, bazza annuale di scrocconi, cui i cocktails fanno risparmiare il pranzo, distrazione per vecchie zitelle annoiate di cani e di canaste, sogno di crocchi di ragazzine esistenzialiste innamorate di divi... Per sbaglio ci può capitare anche l’arte; nella quale evenienza gli organizzatori, se proprio non fa danno, sono pure capaci di non cacciarla via: anzi, di menarne vanto; ma chi a Cannes va per ufficio di critico sarà bene che non speri d’incontrarla, così non avrà né delusioni né disillusioni.
Tuttavia, se non per l’arte, almeno per la cultura, partecipare al festival non è senza grandi profitti. A parte quello della tempestiva visione di molti film destinati a portare alle 140.000 sale di tutto il mondo il loro messaggio quale che sia, vi si comprende, forse come non altrove, quanto complesso fenomeno sia quello cinematografico, e come esso valga a far conoscere il mondo, essendo insieme sua espressione di pensiero e termine di attività. Tre considerazioni che verremo facendo, di proposito ristrette alla morale, convinceranno, speriamo, i nostri lettori come hanno convinto noi.
Che cosa avviene oltre cortina?
Otto film inviati dai paesi sottoposti al regime comunista hanno sodisfatto in parte al desiderio che avevamo di sapere che cosa vi avvenisse dopo il famoso rapporto ChrušÄev, facendoci arguire che le cose non vi sono cambiate di molto, e che se, forse, non peggio, certo non vi vanno meglio di prima.
Sì, qualche cosa suona nuova. Per esempio non abbiamo più visto sullo schermo le esaltazioni di Stalin e le concioni ideologiche che eravamo obbligati, noi a subire e i comunisti ad applaudire, negli anni passati; nel russo Sorok pervyi si arrischia fino ad ammettere l’eresia che una rivoluzionaria possa innamorarsi di un ufficiale bianco, colto e simpatico; inoltre, contravvenendo alla rigida morale sessuale che fino a ieri aveva distinto i film d’oltre cortina da quelli corrotti dei paesi capitalistici, nello stesso film si è fatta un’ardita concessione alla nudità giustificandola con dire che certi scrupoli pudibondi bisogna lasciarli appunto ai paesi capitalisti... Ma non c’è da equivocare: tutti e otto i film gridano che in quei paesi l’ideologia è rimasta quella di prima, e che il cinema deve inculcarla e ribadirla all’interno, diffonderla all’estero.
Una flotta da pesca si reca sulla calotta artica e vi porta a termine un’ardita campagna baleniera? L’impresa – come da noi durante il ventennio fascista – è data come opera del regime e termina con l’apoteosi della bandiera rossa con tanto di falce e martello. Sorok pervyi, di cui sopra (anno dell’azione il 1920), si concede, sì, qualche libertà insolita, ma esalta la rivoluzione di ottobre e con essa la giovane marxista che ammazza, come piccioni, quaranta ufficiali bianchi, e che non esita, con la quarantunesima infallibile fucilata , ad ammazzare il suo amante quando lo vede incamminarsi verso gli odiati antirivoluzionari. Data occasione, poi, i film russi proclamano perentoriamente che i miracoli non esistono, e che neanche Dio esiste, bensì solo la natura; e che la religione non serve a nulla, e i preti sono inutili e dannosi alla società; tutto ciò anche a costo di trasformare grottescamente il Don Chisciotte del Cervantes in anticlericale, classista e marxista5.
Chi segue la stampa marxista italiana sul cinema è stucco e ristucco di leggervi due luoghi comuni affermati da essa ad ogni piè sospinto: 1) che l’arte deve ispirarsi alla realtà quotidiana, e dev’essere di denuncia là dove la società accusa qualche inconveniente: se no non è arte, ma evasione; 2) che da noi la causa di tutti i mali del cinema è la censura. Orbene: siccome a detta degli stessi capi marxisti, nei loro paesi c’è molto marcio di miseria e di ingiustizie, e grave e diffuso deve esservi il malcontento se provoca fatti sanguinosi come quelli verificatisi da un anno a questa parte, sul filo della più onesta logica, dai loro film ci aspettavamo un neorealismo un tantinello più impegnato del nostro, dato che le cose da noi vanno, sì, malissimo, ma non tanto, poniamo, come in Ungheria! E tuttavia l’onesta logica è stata delusa. Non un solo loro film si rifà alla realtà concreta di quei paesi; tutti evadono o in problemi di genere, o in romanzi irreali, o in denunce di guai trascurabili rispetto a quelli che deliberatamente s’ignorano. Cosi Semia non sa nulla dei contadini bulgari di oggi e dei loro kolchozy; sa tutto invece di quelli d’anteprima guerra mondiale, i quali, pur di possedere molta terra (abbasso la proprietà terriera!) sposavano mogli gobbe, si alcoolizzavano e ammazzavano i fratelli! Retrocede anche più nel tempo il cecosìovacco Les enfants perdus: i cattivi di questo film non sono le truppe sovietiche che oggi tengono soggiogati i cecosìovacchi, bensì i tedeschi che ai tempi di Maria Teresa taglieggiavano i boemi! Anche in Betrogen bis zum jüngsten Tag, presentato dalla Germania orientale, i cattivi non sono i russi che ne impediscono l’unione a quella occidentale: sono i nazisti del 1939 (e dimentica di dire che proprio in quegli anni, insieme con i nazisti delinquenti, l’U.R.S.S. assaliva la Polonia!). Forse ce lo dirà il film presentato proprio dalla Polonia: Kanal? Disilludiamoci! Esso descrive un episodio disperato dei partigiani polacchi a Varsavia - 1944: i cattivi sono ancora i tedeschi, e solo i tedeschi; per nulla affatto i russi, neanche se allora essi, accampati alle porte della città, non mossero un dito in soccorso degli ingenui, che per essi si giocavano la vita, e neanche se oggi, con la loro presenza nella città, dimostrano che del tutto vano fu il sacrificio di quei patrioti... Ancora e sempre i tedeschi del 1944 sono i cattivi nel pacifista Dolina miru, mentre da buono vi funziona un negro dell’esercito americano: così l’elogio della pace farà passare il feudo di Tito per il paese delle bianche colombe e dei teneri bimbi, e quello del negro, mentre convincerà lo Zio Sam ad essere generoso dei suoi dollari, per ogni evenienza, non dispiacerà troppo a Mosca...
Non brillano di più per zavattiniana «quotidianetà» i due film della Romania e dell’Ungheria: il primo, Moara cu noroc, rifacendo un racconto che Ion Slavici (morto nel 1925) ambientò nella seconda metà del secolo scorso; il secondo, Ket vallomas, affrontando un tema purtroppo attuale in Ungheria non più che altrove, ma con tanta preoccupazione della «quotidianetà» che non un indizio vi si trova della tragedia di popolo verificatasi nel paese mentre vi si girava il film, né delle cause che l’hanno prodotta o della disperata conclusione che l’ha seguita.
A proposito di censura
Ci devono essere in giro idee un po’ confuse sulla censura: teoria e pratica. A Cannes, anche quest’anno, non sono mancati gli attacchi contro di essa. Il cortometraggio inglese Breve storia del cinema e il già ricordato La casa del angel hanno tirato le loro frecciate contro l’antipatica matrona, nemica dell’arte e della libertà d’espressione, e molti signori hanno applaudito convinti: gli stessi signori che hanno poi applaudito i film d’oltre cortina, tutti prodotti di industrie statali e sterilizzati dalla più draconiana delle censure...
Ma quest’anno Cannes, a proposito di censura, ha registrato un fatto che dimostra, non si potrebbe meglio, la confusione di cui sopra. Si tratta di Le notti di Cabiria. Coadiuvato da Flaiano e da Pinelli, Fellini ne butta giù soggetto e sceneggiatura; col copione sotto il braccio si mette in cerca di un produttore. Almeno una dozzina ne abborda, inutilmente. Alcuni leggono il soggetto, se ne entusiasmano, ma poi scuotono la testa: «Nessuna censura al mondo passerebbe questo film sulle prostitute!», dice uno. Si tratta, infatti, di un soggetto che è tutto su quelle povere donne, da capo a fondo. «Va bene: però bisognerebbe che lei firmasse una lettera autorizzando i tagli della censura», dice un altro6. E invece il film, sostanzialmente intatto, viene girato, e non solo la censura italiana non lo mette in quarantena, ma lo invia a Cannes., e qui non solamente «i preti» non se ne scandalizzano, ma gli conferiscono la menzione onorevole dell’Office Catholique International du Cinéma (O.C.I.C.), l’unico attribuito quest’anno7.
Le astiose polemiche con le quali i marxisti nostrani hanno accompagnato i primi passi del film e gli attacchi da essi mossi contro Fellini tradiscono il loro imbarazzo nel giudicare siffatto modo di procedere delle autorità tutorie. A nostro avviso, invece di accusare il regista di essere andato a mendicare dai preti la libertà di espressione che era un suo diritto come cittadino, avrebbero fatto meglio a rileggersi alcuni brani dei discorsi di Pio XII sul film ideale8.
Con intima sodisfazione di cattolici e di italiani andavamo gustando la luminosa verità di quelle direttive a Cannes durante e dopo la proiezione del film di Fellini. Lo confessiamo: conoscendo la spregevole materia in cui il film si ambientava, temevamo trovarvi più di una concessione di cattiva lega; ed invece vi abbiamo sorpreso pulizia morale, nobiltà e finezza di gusto. Non un’inquadratura indulge agli esibizionismi cari a certo recente cinema italiano, non una battuta si compiace del volgare, non una delle rappresentazioni della corruttela mondana, per quanto veristicamente espressa, suscita nello spettatore maturo un moto di compiacimento verso il male morale, anzi piuttosto tutto il molto di putrido che v’è descritto suscita nausea, mentre la scintilla di bontà, che l’uomo più perverso e la donna più debole mantengono accesa in se stessi, commuove l’animo dello spettatore, ne migliora e ne eleva lo spirito.
Lungi da noi il far passare Le notti di Cabiria per un film predica, avente lo scopo, dichiarato o sottinteso, dell’edificazione, o dirlo senz’altro innocuo per tutti i pubblici. No: Fellini ha descritto un caso di redenzione umana perché l’ha amato, e l’ha fatto suo artisticamente; ed ha espresso questo suo amore con un linguaggio figurativo di alta classe artistica; tuttavia la sua opera d’arte, per essere compresa nel pieno dei suoi valori originari e non deviata verso un mondo estraneo a quello dell’artista, esige che lo spettatore si trovi in sintonia interiore con esso. Vale anche qui l’omnia munda mundis di fra Cristoforo (come può valere anche il suo parallelo contrario: omnia immunda immundis). Film, dunque, eccellente per adulti di pieno equilibrio morale, ma anche film che si avvicina ai sommi vertici del film ideale auspicato da Pio XII, se per attuarlo occorrono, armoniosamente fuse insieme, verità, bontà e bellezza. Ragione, questa, per cui Fellini in Italia non deve difendersi dagli assalti di nessuna censura, né mendicare l’elemosina della libertà; gli basta, per poter mostrare la sua opera ad un pubblico adeguato, la sua piena onestà di artista.
Cannes ha provveduto un supplemento di prova a queste nostre considerazioni proiettando Guendalina, di Lattuada; un film che incentra la sua attenzione sul mondo acerbo ed ingenuo degli adolescenti sacrificati dall’egoismo dei grandi. Argomento, come si vede, niente affatto scabroso come quello di Fellini, anzi suscettibile di notazioni delicate e rasserenanti, poetiche e pulite, com’è tutto il mondo dell’adolescenza non viziata. Orbene: non diremo che queste notazioni, per quanto frammentarie, nel film di Lattuada manchino; tuttavia, come non lamentarvi certi inutili compiacimenti plastici. quel suo frequente camminare sul filo del non espresso e tuttavia icasticamente suggerito alla fantasia, quel suo minuto descrivere situazioni e tipi apparentemente dettati da scrupolo di verità, ma che, non riferendosi a nessun mondo morale intimamente accettato, diventano spettacolo, gratuita violazione di intimità e, si direbbe, qua e là eco di un mondo amorale? Le realtà restano cariche della loro situazione di fatti avvenuti, non sublimati in una visione artistica, eppure intonati ad una visione di vita che, per contrasto o per lacunosità, non collima con quella totale della morale cristiana.
È lecito uccidere?
Dicevamo che Cannes, malgrado la sua aria di fiera, è anche un buon osservatorio per sorprendere quali preoccupazioni angustino il mondo. Ne abbiamo notate alcune comandate dall’ideologia dei paesi d’oltre cortina; un’altra quest’anno ne abbiamo vista affiorare in molti film, e cioè se sia sempre illecita la violenza o se in qualche caso non si debba preferire alla pace a qualsiasi costo.
Friendly Persuasion si pone questo problema come tema centrale; ma il regista, da buon americano, se la cava trattandolo in tono scherzoso, amabilmente ironizzando intorno ai mormoni, sostenitori della bella, ma poco pratica, non violenza in ogni caso. Esso non solo proclama che bisogna seguire la propria coscienza quando questa ordina di respingere, magari a fucilate, la violenza di chi attenta alla sicurezza della propria famiglia e dei propri beni, ma dichiara anche sacrosante le vigorose scopate con cui la predicatora mormona, razzolando meglio di quanto non predicasse, caccia via un soldataccio che vuole rubarle un’oca magnifica, da essa considerata come un membro della famiglia. Tragico ed epico invece, per quanto non centrale, si ripresenta il tema nel francese Celui qui doit mourir; esso, infatti, si chiude con una panoramica su di una barricata irta di fucili spianati verso lo spettatore: è la risposta di povera gente che, tentati inutilmente tutti i mezzi pacifici, si ribella contro chi le nega l’uso dei suoi diritti sociali; e uno dei fucili è imbracciato da un prete che, prima di unirsi ai suoi protetti nella lotta armata, li benedice e bacia il Vangelo...
Comune, si direbbe, ai due film è la soluzione che esalta la mansuetudine come valore ideale, ma in pratica accetta il romanesco «Quanno ce vo’, ce vo’!»; e, in fondo, è la soluzione suggerita anche da altri film, le varianti dei quali si riducono nel concretizzare casi in cui la violenza proprio ci vuole. Per esempio, secondo il russo Sorok pervyi, come abbiamo visto, la pace è una gran bella cosa, ma le fucilate, quando sono distribuite per assicurare il trionfo della rivoluzione comunista, sono anche meglio. Anche lo iugoslavo Dolina miru e il cecosìovacco Les enfants perdus, in linea di principio inneggiano alla pace, anzi il secondo si avanza fino a lodare la defezione dal servizio militare; ma senza tanti scrupoli poi fanno imbracciare archibugi e mitra ai loro soldati pacifisti quando archibugi e mitra servono per far fuori i tedeschi manigoldi... La stessa idea segue il polacco Kanal, secondo il quale non c’è alcun dubbio che ammazzare i tedeschi sia meritorio, non solo, ma anche che un partigiano possa ammazzare un altro partigiano, oppure se stesso, a scelta, sempre «quanno ce vo’»; dal canto suo il tedesco Betrogen bis zum jüngsten Tag si pone il caso limite di come si devono comportare tre soldati che hanno ucciso per sbaglio la figlia del loro comandante, e il francese Un condamné à mort s’est échappé, a freddo ipotizza la possibilità dell’uccisione di un compagno di cella, sospettato traditore, e senza complessi di colpa fa eseguire un’uccisione di un carceriere tedesco da parte di un fuggitivo; e, finalmente, l’inglese Yang-tse incident non ha il minimo dubbio sull’onesta natura di cannonate sparate per legittima difesa.
Questa casistica dimostra che la coscienza umana, per quanto dal materialismo e dal razionalismo imperanti distratta dalle posizioni già normali in una società cristiana, torna alle esigenze morali iscritte nel fondo della natura dell’uomo. Due ideali, ancora oggi, vivono presenti alla coscienza come esigenze di una società umana e cristiana: quello della mansuetudine totale e quello della difesa del diritto; da una parte c’è l’aspirazione alla pace, esaltata dagli orrori delle guerre sperimentati dalle nostre generazioni, dall’altra c’è il doloroso piegarsi all’uso della violenza come ultimo mezzo per respingere l’aggressore ingiusto. Tuttavia dispiace che nessuno dei film prospetti in chiari termini religiosi questo cozzo di esigenze morali, e che i rari che in qualche modo lo tentano, lo facciano con nulla o con molta confusa sensibilità cristiana e cattolica. Sembra che pochi ricordino che Gesù Cristo ha lasciato al mondo il suo Vangelo con i principi per la soluzione di tutti i casi morali degli individui e della società, e che il Vangelo l’ha in mano la Chiesa cattolica, continuazione viva del Cristo ed interprete infallibile del suo pensiero. Ma poi si vede che l’incertezza delle soluzioni morali proposte dallo schermo dipende anche dalle caratteristiche del linguaggio filmico, più atto a proporre i termini dei problemi morali e a drammatizzarli trasferendoli su piano di emotività, che a scioglierli su piano d’illuminata logica, specialmente appena essi sono, sia pure un poco, complessi.
Appunto a questo tutto-potere e poco-potere del cinema poniamo mente ogni volta che, condotta a termine l’improba fatica del festival, lasciamo la bella cittadina della Provenza; ed ogni volta ci sentiamo più convinti che, qualsiasi giudizio di merito si voglia dare circa questa iniziativa turistica e le sue concrete attuazioni, resta un fatto che oggi l’umanità beve gran parte delle sue opinioni e norme di vita da quanto il cinema, di formato e d’informe, le viene ammannendo, e che il festival di Cannes è una delle cause che ne esaltano l’influsso nel mondo. In questo senso interessarsi al cinema – dunque anche ai suoi festival – diventa per noi italiani e cattolici un dovere di alta civiltà e di religione. C’è perciò da augurarsi che il nostro inserirsi in siffatta attività sia tempestivo e concorra a mutare il cinema in genere, e i festival in particolare, da attività vane, in cui spesso si riducono, in manifestazioni sempre più degne di persone colte, sollecite dei valori superiori dell’uomo.
1 L’atto di nascita ufficiale del festival risale al maggio 1939, ma, a causa della guerra, la prima edizione di esso, indetta per il 1º settembre di quell’anno, si tenne solo nel 1946; le altre, regolarmente ogni anno, eccezion fatta per il 1948 e il 1950. In questo 1957 festeggiano il loro decennale anche i due festival di Karlovy Vary, in Cecosìovacchia, e di Locarno, in Svizzera.
2 Cioè: J. Cocteau, presidente (1953), M. Genevoix (1952), A. Maurois (1951), M. Pagnol (1955), J. Romains (1949). I due membri francesi non accademici erano G. Huismann (1946 e 1947) e M. Lehmann (1956). Gli altri quattro membri non francesi erano: D. Del Rio, M. Powell, G. Stevens e W. Voltcek. (Gli anni che abbiamo posti in parentesi si riferiscono alle rispettive presidenze del festival).
3 Ecco, disposto in ordine alfabetico di nazioni, l’elenco dei lungometraggi in concorso, nel quale distinguiamo, come al solito, con un asterisco quelli in formato maggiore del normale, e col segno # quelli in colore. I numeri in parentesi indicano quanti film ha presentato ogni nazione, compresi i cortometraggi, e tra parentesi sono ricordati anche i film proiettati fuori concorso.
1) ARGENTINA (1): La casa del angel, di L. Torre Nilsson. – 2) AUSTRIA (2): Sissi, die junge Kaiserin * #, di E. Marischka. – 3) BELGIO (1). – 4) BULGARIA (2): Semia, di Z. Jandov. – 5) CANADÀ (2). – 6) CECOSLOVACCHIA (2): Les enfants perdus, di M. Makovec. – 7) CEYLON (1): Rekava, di L. J. Peries. – 8) DANIMARCA (2): Quivitoq * #, di E. Balling. – 9) FINLANDIA (1): Elokuu, di Kassila. – 10) FRANCIA (3): Celui qui doit mourir #, di J. Dassin; Un condamné à mort s’est échappé, di R. Bresson. – 11) GERMANIA OCCIDENTALE (2): Rose Bernd * # di W. Staudte. – 11 bis) (GERMANIA ORIENTALE (2): Betrogen bis zum jüngsten Tag, di K. Jung-Alsen). – 12) GIAPPONE (3): Kome *, di T. lmai; Shiroi sammyaku * #, di S. Imamura. – 13) INDIA (2): Gotoma the Buddha, di R. Khanna. – 14) INGHILTERRA (3): High tide at noon, di Ph. Leacock; Yang-tse incident, di M. Anderson. – ITALIA 3): Guendalina, di A. Lattuada; Le notti di Cabiria, di F. Fellini. IUGOSLAVIA (1): Dolina miru. – 17) LIBANO (1): Ila Ayn, di G. N. Nasser. – 18) NORVEGIA (1): Same Jakki * #, di P. Höst. – 19) OLANDA (2). – 20) POLONIA (2): Kanal, di A. Wajda. – 21) ROMANIA (1): Moara cu noroc, di V. Iliu. – 22) SPAGNA (2): Faustina * #, di J. L. Saenz de Heredia. – 23) STATI UNITI (3): Bachelor’s party, di D. Mann; Friendly Persuasion * #, di W. Wyler; Funny Face * #, di St. Donen; (Le tour du monde en 80 jours * #, di M. Anderson). – 24) SVEZIA (1): Det sjunde inseget *, di I. Bergman. – 25) TUNISIA (1). – 26) UNGHERIA (2): Ket vallomas, di M. Keleti. – 27) UNIONE SUD AFRICANA (2). – U.R.S.S. (3): Don Chisciotte * #, di G. Kosinzev; Sorok pervyi * #, di G. Ciukrai. – 29) URUGUAY (1).
4 Il lettore ci perdonerà queste nostre percentuali un po’ troppo sempliciste e, naturalmente, largamente soggettive. Altri critici, altre opinioni. Non dista molto da noi V. Marinucci, per il quale: «A Cannes si sono visti trentadue film, dei quali un terzo inammissibili, un altro terzo sopportabili e il rimanente “da festival”, con gradazioni di merito che vanno dall’interessante all’ottimo e all’eccellente» (Giornale dello spettacolo, 1957, n. 19); per M. Liverani, «su trentotto (??) presentati, dieci avrebbero valori superiori, di cui nessuno immune da mende, e una ventina da trascurare» (Paese Sera, 18 maggio 1957): (e gli altri otto?) Più secco, G. L. Rondi tra i trentadue film ne trova «solo quattro o cinque, che, magari anche solo per pura combinazione, sono riusciti ad arrivare a Cannes pur essendo degni di stima», e dà conto di essi, lasciando gli altri «agli annotatori felici di rencontres mondaines» (Rivista del cinematografo, 1957, n. 5, p. 162).
5 Con sodisfazione dei marxisti nostrani: «Alcune pellicole hanno manifestato una fondamentale spregiudicatezza nel trattare i problemi religiosi. È stata la mostra della libertà di espressione e della libertà degli spiriti. Più volte abbiamo udito dallo schermo del Palazzo del cinema personaggi negare l’esistenza di un ordine soprannaturale, e richiamare gli uomini a una concreta e realistica visione dei casi umani» (M. Liverani, cit.).
6 Chi vuole conoscere i particolari della istruttiva storia li legga nel brioso racconto fattone da Narciso Vicario nel volume Le notti di Cabiria, compilato da Lino del Fra. Bologna, Cappelli, 1957, p. 215 ss.
7 Con questa motivazione: «Ogni anno l’O.C.I.C. segnala il film che per ispirazione e qualità dà il maggior contributo al progresso spirituale e allo sviluppo dei valori umani. La giuria dell’O.C.I.C. del 10º Festival di Cannes, in presenza di più opere, ricche di valori artistici, morali e ideologici, specialmente colpita dal merito eccellente di due film: Celui qui doit mourir, di J. Dassin, e Le notti di Cabiria, di F. Fellini, ma sensibile anche alla complessità o all’ambiguità del significato di essi, conferisce loro una menzione altamente elogiativa per il coraggio con cui stimmatizzano alcuni aspetti dell’egoismo umano, al quale oppongono le virtù della giustizia e della carità cristiana». – Ne abbiamo pubblicato un commento nella Rivista del cinematografo, cit., 1957, n. 6. Sui due film e sulla complessa problematica da essi posta torneremo quanto prima diffusamente in questo stesso periodico.
8 Il Sommo Pontefice chiede se sia in esso «permesso scegliere, e con quali cautele si deve trattare il male e lo scandalo, che senza dubbio hanno una parte così importante nella vita dell’uomo»; e risponde, distinguendo secondo l’animus con cui il male è rappresentato e il danno che presumibilmente può causare agli spettatori. «Una risposta negativa a tale domanda è naturale, qualora la perversità e il male sono offerti in ragione di loro stessi; se il male risulta, almeno di fatto, approvato; se esso è descritto in forme eccitanti, insidiose, corrompitrici; se è mostrato a coloro che non sono in grado di dominarlo e di resistervi. Ma quando non si dà alcuno di questi motivi di esclusione... allora una tale materia può essere scelta ed intrecciata... nella intera azione del film stesso... Lasciamo, dunque, che anche il film ideale possa rappresentare il male: colpa e caduta; ma che lo faccia con intenti seri e con forme convenienti, così che la sua visione aiuti ad approfondire la conoscenza della vita e degli uomini e a migliorare ed elevare lo spirito. Rifugga, dunque, il film ideale, da ogni forma di apologia, e tanto meno di apoteosi del male, e dimostri la sua riprovazione in tutto il corso della rappresentazione e non solo nella chiusa, che giungerebbe spesso troppo tardi, dopo cioè che lo spettatore è già stato adescato e sconvolto da cattivi incitamenti». – Cfr Le cinéma dans l’enseignement de Église, Città del Vaticano 1955, p. LXVI ss.