NOTE
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1 L’Osservatore Romano, 28 settembre 1951.

2 Bollettino mensile di statistica, settembre 1951, p. 113.

3 Compendio statistico italiano, 1951, p. 21.

4 Ivi, 87.

5 Ivi, 252. E peggio, purtroppo, vanno le cose altrove. Per l’Inghilterra, per esempio, nel volume English Life and Leisure, di ROWNTREE e LAVERS, risultato d’inchieste durate cinque anni, si trovano tra l’altro i seguenti dati: nel 1949 tra corse di cavalli e di cani e campionati di calcio sono andati in scommesse 717 milioni di sterline, pari a 1.254 miliardi di lire per abitante; il quale abitante poi, sempre di media, altre 25.000 ne ha bevute in alcool e altre 25.000 ne ha buttate in fumo. Nelle spese degli inglesi quella dell’alcool è di un quarto superiore a quella delle pigioni, cinque volte e mezza più della spesa per libri e giornali, un terzo della spesa di alimentazione; quella del tabacco è più del doppio della spesa della luce e del riscaldamento, e quasi uguale a quella del vestiario. Altro particolare di spreco vergognoso: nella sola Londra «lavorano» circa 10.000 donne, tra le quali quelle più capaci guadagnano 35.000 lire al giorno, sì da mettere insieme in alcuni anni una ventina di milioni!

6 Bollettino mensile di statistica, settembre 1951, 120.

7 Civ. Catt. 1948, III, 194.

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Articolo estratto dal volume IV del 1951 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

«L’abia o no l’abia restarò sempre Labia» avrebbe detto il patrizio veneziano di questo nome che poi fu doge di Venezia, una sera, al termine d’una pantagruelica cena data alla nobiltà della Serenissima, quando, per strafare, avrebbe ordinato che si gettassero dalle finestre in Cannaregio tutti i piatti d’oro massiccio usati nel banchetto; ed argomento dell’attendibilità della tradizione sarebbe il motto «Labia o non labia», che ancora fregia lo stemma di quella famiglia patrizia.

Casata e tradizione, note forse solo a specialisti di storia locale o a spulciatori di curiosità araldiche, sono state di colpo portate alla curiosità – non certo a scienza! – del pubblico di Venezia e d’Italia, anzi, si può dire del gran pubblico di tutto il mondo, quando, nella prima settimana di settembre di quest’anno, giornali di notizie e illustrati di curiosità, in diffuse cronache e in illustratissimi reportages straordinari, hanno chi semplicemente riferito, chi aspramente attaccato o dispettosamente difeso la festa data nel Palazzo Labia da un miliardario ispano messicano; una festa tanto magnifica da meritare l’antonomastico titolo di «festa del secolo». E per persuaderci che il superlativo titolo corrispondeva a realtà, eccoli i cronisti e gli inviati speciali a enumerare strabiliantissime cose: illuminati, nella tiepida notte, il Canal Grande, i ponti, le rive, gli imbarcaderi, i vaporetti, i palazzi con luci verdi, rosse, arancione; illuminate, sull’acqua increspata che le rifletteva dalle sponde quasi a pelo, le gondole fantasmagoriche; assiepati di spettatori non solo i ponti, le calli e le fondamenta, ma anche i campielli, i sottoportici, le rua, insomma qualsiasi spazio libero che desse modo di vedere, sia pure di scorcio, il corteo degli invitati; eccoli ancora a darci il numero di questi: oltre mille; e i nomi loro, echi di mondi passati e presenti, ma tutti un che di mezzo tra la realtà e il sogno: di nobiltà e di politica, di banca e di cinema, di mode e d’avventure, d’arte e di sport; e i loro travestimenti, maschere vistose la più parte o almeno domino, di estrosità e chiassosità inaudita; la storia spinta a ritroso di due secoli per risuscitare la società del ’700, popolata di valletti, di guardie, di ufficiali, di procuratori e di dogi, di grandi di Spagna, di conquistatori; anzi, d’intere ambascerie: una del Gran Turco, con al seguito, oltre all’harem, una folla di odalische, di eunuchi e guerrieri; un’altra di Caterina imperatrice di tutte le Russie; e poi gruppi figurati di personaggi storici, leggendari, mitologici: Antonio e Cleopatra; l’alba, il giorno e la notte, il tempo, l’angelo della notte, il sole e la pioggia, le quattro stagioni; ballerine, mirandoline, pulcinella, moretti, tutti avviati in un carosello di «entrate», di musiche, di balli e di banchetti, durato dalle dieci di sera alle cinque del mattino, quando gli ospiti, affranti di noia e di stanchezza, si sdraiarono sull’imbarcadero in attesa che le gondole li riportassero a casa. E sapendo che per far strabiliare i lettori dei rosa-celeste rotocalchi, più che il buon gusto e l’arte, valgono le cifre dei conti, eccoli, inviati e cronisti, prima a spigolare qua e là e poi a sbizzarrirsi nel tirare le somme del festino: seimila lire a testa di cibi e bevande ordinate per ognuno dei mille invitati, vini e dolci esclusi, ai quali ultimi hanno pensato cinque cuochi francesi specialisti nella bisogna; vestiti che valevano un patrimonio: dieci milioni di lire quello di una miliardaria americana, trentacinque milioni quello intessuto d’oro e trapunto di brillanti di un altro miliardario sempre americano... Costo totale della festa circa centomila dollari, pari a poco meno di tre quarti di miliardo di lire italiane.

* * *

Usi ormai alle esagerazioni della pubblicità e della stampa, che d’ogni recordman fa un eroe, d’ogni diverbio una tragedia e d’ogni minaccia una catastrofe, siamo si può dire come immunizzati dalla meraviglia; vediamo uomini ed eventi fuori dell’ordinario e ne restiamo come trasognati, assenti, increduli, pronti a tutto dimenticare. Eppure il festino di Palazzo Labia non è stato dimenticato; ha acceso, anzi, una polemica, i cui strascichi continuano ancora dopo più d’un mese. Segno che il meschino avvenimento di cronaca mondana è stato come il catalizzatore per un urto violento di energie, più o meno latenti, originate da opposte concezioni di vita.

Non tenendo conto degli anacronistici sospiri di qualche mondano commentatore di vita mondana, che ne ha scritto per trovare sconveniente e di poco buon gusto per i più bei nomi della vera nobiltà nostrana l’essersi prestati a far da marionette nella mania spendaiola d’un eccentrico sardanapalo, i più dei polemisti in lizza si sono scontrati nell’argomento del pazzesco spreco perpetrato nella notte veneziana. Mette conto illuminare alcuni dei loro motivi, non tanto per decidere d’autorità la non cortese tenzone, quanto per porre in rilievo, per ora, lo scadimento della morale corrente, incapace di trovare una norma oggettiva di onestà per gli atti umani, da quando ha rinnegato quella naturale e cristiana.

Uno scrittore qualunque di un settimanale qualunque sostiene che le spese fatte sono lecite lecitissime, sante e santissime per mille ed una ragione: per esempio perché i soldi spesi erano americani e non italiani, spesi in Italia e non in America; perché i vestiti erano corretti e perché il popolo, «che è sempre buon giudice, ha applaudito e s’è divertito»; e non s’accorge questo qualunque scrittore che siffatte perle, da lui date come vere, erano giapponesi e scaramazze; infatti, troppe cose illecite ed immorali non lo sarebbero più se per dimostrarle lecite e buone bastasse l’enumerazione di qualche loro buon effetto, soprattutto il divertimento del popolo!

Non molto più lontano porta il criterio utilitario di un altro moralista, che trova sufficiente a legittimare lo sperpero di milioni fatto solo per divertirsi, il motivo che detti milioni escono dalla tasca di uno che ne ha troppi per andare a finire in quelle di molti che non ne hanno: sarti, impiegati, operai, negozianti, camerieri, cuochi, gondolieri, compagnie di navigazione, enti statali; né quello di un suo emulo in questa morale da fisarmonica, il quale, spostando l’argomento dall’utile individuale a quello cittadino, anzi nazionale, trova che gli sperperi sono leciti perché utili al turismo e, nomi e cifre alla mano, dimostra come qualmente alcuni degli ospiti stranieri più in vista, finita la festa veneziana, si sono precipitosamente riversati sul golfo di Biscaglia, a Biarritz, per ivi spogliarsi degli abiti settecenteschi italiani e indossare quelli settecenteschi spagnoli ispirati all’arte del Goya, e ballare sotto quelle fogge, fadanghi, furlane e minuetti fino alle sei del mattino, e come coi guadagni ricavati da questa festa, Biarritz speri di avvicinarsi alle cifre di Deauville, che in questa stagione estiva ha incassato 768 milioni di franchi, per 1’80% spesi da turisti stranieri. Dopo di ciò chi oserà rimproverare gli organizzatori del turismo biscaglino per aver indetto per l’anno venturo la ripetizione della festa, con l’unica differenza che nel 1952 i costumi dovranno essere dell’epoca di Napoleone III?

Ma su piano addirittura universale sposta la discussione il catone di un illustratissimo «settimanale di politica, di attualità e di cultura», il quale, opponendo spreco a spreco, nota che «i manifesti di una campagna elettorale politica costano a un solo partito italiano molto di più di quanto i costumi di un ballo siano costati a tutta l’aristocrazia e la finanza mondiale; i tesori... accumulati nei palazzi reali e presidenziali di molti Stati e di templi di quasi tutte le religioni sono certo assai più vistosi di quelli sfoggiati dalla miliardaria tale o dall’artista talaltra; sicché il problema delle ricchezze non riguarda solo i privati: riguarda anche gli Stati, i partiti, le Chiese e tutte le altre collettività...». E non s’avvede, il poverino, dove lo trascina la sua insuperabile morale, secondo la quale, «in una parola le competizioni civili e politiche per il trionfo di un’idea, di un programma sociale, per il bene comune, i tesori d’arte dedicati al culto delle memorie nazionali, a monumento della civiltà, al culto e alla gloria di Dio onde il cittadino e il fedele in se stesso si esalta; il potere, la funzione morale, educativa, caritativa, artistica, della ricchezza degli Stati, dei partiti, delle Chiese sarebbero equiparati, pari pari, all’impiego, al “fasto”, al potere privato della ricchezza stessa, per esempio, come nella fattispecie, per una festa, ... sol perché suscita entusiasmo delle folle. Le quali, entusiasmandosi egualmente di fronte alla celebrità, mettiamo, di un eroe come di un bandito, bastano a pareggiare nel merito e nella valutazione della storia l’uno all’altro»1.

Bisogna proprio dire che la delittuosa incoscienza degli straricchi è eguagliata in grandezza dalla temeraria insipienza dei loro difensori, pari le due categorie d’immorali ad insultare all’angoscia, alla disperazione, alla miseria, alla fame di tanta parte d’umanità. Come agli uni e agli altri il pensiero non corre ai tanti disoccupati, cui i settecento milioni di una festa avrebbero potuto procurare un lavoro, o alle settecento almeno famiglie di randagi come cani dispersi, cui quella somma avrebbe potuto dare una casa stabile e decorosa, o alle migliaia di bambini denutriti, tubercolotici, cui quella somma maledetta avrebbe potuto ridare la salute e il sorriso, o infine alle coppie di sposi, che avviliti dalla miseria che li rode, uccidono la vita, quando sarebbe più che sufficiente a dar loro ardire e fiducia per popolare la culla vuota, la millesima parte di quanto a Venezia, o a Biarritz, o a Deauville, s’è sperperato in una notte di balli?

Sembra impossibile che sfugga loro quanto sia assurdo e sopportare e legittimare la condizione di un’umanità divisa in due categorie, l’una di moltissimi straccioni, stanchi e affamati, cui spetta il dovere di lavorare e soffrire, o al più di accontentarsi dello spettacolo della baldoria dell’altra parte, formata da pochi gaudenti e fannulloni, solo perché la fortuna, e qualche volta il disonore, li ha gonfiati di ozio e di quattrini. Purtroppo non s’accorgono costoro che così facendo e così ragionando forniscono armi ed occasioni a reazioni violente, delle quali, come la storia insegna, loro sarebbero tra i primi a fare le spese. E stupisce che i pochi tra loro, che ai quattrini uniscono ancora un po’ di cultura, non trovino proprio nessuna rassomiglianza la loro funzione nell’odierna tragedia del mondo con quella dei gaudenti profumati ed incipriati dell’impero romano e del settecento francese, che irridevano sì, col loro lusso sfrenato, all’indigenza di molti, ma non s’accorgevano che si facevano rovinare addosso, per rimanerne sepolti, le strutture di secolari civiltà, corrodendone e smovendone essi stessi gli ultimi puntelli che le sostenevano.

* * *

Siffatte considerazioni sono tanto ovvie e cosi drammaticamente presenti all’animo di quasi tutti gli onesti, che non è da far le meraviglie se abbiano assicurato buono e facile giuoco ai condannatori di quegli sperperi, molti dei quali, però, certamente in buona fede, ignorano affatto di non essere i più indicati a lanciare la prima pietra sulle gaudenti maschere di Venezia e di Biarritz, non essendo essi, in tema di sprechi, proprio senza peccato. E se ne sarebbero forse umilmente persuasi scorrendo le fredde statistiche delle spese voluttuarie che si fanno in Italia (per restare entro i confini di casa nostra). Eccone, a mo’ d’esempio, due voci: fumo e spettacoli.

In Italia nel 1948 abbiamo allegramente mandato in fumo 32.900 tonnellate di tabacco; nel 1949, 36.900 tonnellate; nel 1950, 38.340 tonnellate, con una spesa rispettivamente di 206, 230, e 270 miliardi di lire l’anno; per il 1951, fondandoci sul rapporto di aumento verificatosi nei primi sei mesi dell’anno rispetto a quelli omonimi del 1950, arriveremo a circa mille tonnellate in più, che rappresentano un aumento di circa sette miliardi di spesa2. Queste cifre, già imponenti, si apprezzano meglio se si riferiscono non a tutti i quarantasei milioni di abitanti della penisola, ma alla sola aliquota di essi che assorbe la quasi totalità di questi consumi: cioè ai maschi dai quindici ai sessantacinque anni. Calcolando in quindici milioni il loro numero3, ognuno di essi manda ogni anno in fumo in media non meno di 20.000 lire!

Statistiche ufficiali riportano che nel 1949 il pubblico italiano ha speso in teatri, cinema, trattenimenti vari e manifestazioni sportive più di settanta miliardi; per scommesse su competizioni sportive quasi trentadue miliardi4, e che il bilancio dello Stato dal lotto e lotterie ha introitato quasi tredici miliardi e mezzo5. Quali fastigi raggiungerebbero questi numeri se venissero integrati da quelli di altri sprechi che sfuggono ad indagini statistiche ma che tutti avvertono? Ci riferiamo ai luoghi di villeggiatura, sempre affollatissimi di gente che si sposta dal mare ai monti, dai bagni agli sci, composta non solo di straricchi, ma anche di medi e di bassi ceti, vogliosi di far figura pagando magari con gli stenti di un anno il fittizio lusso di una stagione; pensiamo ai caffè e alle bettole, sempre affollati, e non solo nei quartieri alti, dove nababbi e cicisbei profondono in una consumazione l’equivalente di un mese di pasti per un povero, ma pure alla periferia delle città o nei paesi, in cui operai scioperaioli buttano in vino la settimana negata alla moglie e ai figlioli; pensiamo alle centinaia e centinaia di migliaia di lire che certi paesetti bruciano in mezz’ora di fuochi artificiali per il gusto di stravincere sul paese vicino, trovando per questo, magari con contribuzioni forzose, i mezzi che non trovano per migliorare le deficientissime condizioni igieniche del luogo o per assicurare un po’ d’educazione o d’istruzione ai bambini, che vengono su poco differenti dalle bestie che hanno in cura; pensiamo finalmente a tutto lo stillicidio di spese grandi e piccole causate dalla voglia di tutto permettersi, tutto provare, pena l’infelicità, di quanto una volta era e tuttora sarebbe lusso; al ragazzetto di sette o otto anni che deve potersi pavoneggiare col suo orologio al polso; al ragazzo cui non basta più la bicicletta, ma occorre assolutamente un motorscooter; alla cameriera cui sono assolutamente indispensabili le migliori calze di nylon; al giovanotto e alla signorina che temono di scomparire se dopo l’estate o dopo il Natale non portano la tintarella presa a Cervinia, a Cortina o a Ovindoli; all’operaio, poi comandato a protestare con gli scioperi, che dev’essere in grado di buttare biglietti da mille (lusso impensato per impiegati che non scioperano) per andare a vedere la partita nella città non tanto vicina, e non gli bastano più le ferie passate al paese, ma deve andare in Austria; al camionista, che non può più assolutamente trasportare collettame o cemento se sul cofano non si rizza l’antenna della radio...

* * *

Men che meno sugli sperperatori di Venezia possono gettare pietre i comunisti; i quali, invece, fedeli alla loro tattica di tutto osare, si sono pavoneggiati in prima linea nella difesa della salute pubblica, dimenticando che siffatta difesa non conviene alla mosca, il noioso dittero che pari alla petulanza porta il triste attributo di tutto infettare dove si posa. A parte infatti il tono d’odio invidioso contro il ricco come tale, che nel loro ragionamento tiene il posto dell’amore alla giustizia, e tacendo il particolare pepato riferito da ironici cronisti sulle modeste pretese dei «compagni» delle gondole e dei motoscafi, dei quali i primi hanno chiesto solo diecimila lire e i secondi solo venticinquemila per attendere una notte i loro anfitrioni, proprio alla politica sociale e sindacale dei comunisti va imputato lo spreco più colossale che sistematicamente si compie, come altrove, anche in Italia.

Meditino essi, se sono capaci di farlo senza goderne, questi dati statistici. Nell’anno 1950 i 1.491 scioperi in Italia hanno paralizzato 62 milioni e 874 mila ore di lavoro, pari a più di sei miliardi di lire di ricchezza non prodotta, se vogliamo calcolare sulle cento lire il valore medio di un’ora di lavoro. Nel primo semestre di questo 1951 gli scioperi sono stati 743 e quasi 26 i milioni di ore di lavoro perdute, pari a circa due miliardi e mezzo di perdite, con un ritmo di quindici milioni al giorno6. E, magra consolazione per i compagni, non si troverà per questo sperpero un difensore che possa addurre lo specioso argomento invocato più sopra nell’illogica difesa dello sperpero veneziano, perché qui non si tratta neanche di soldi americani spesi in Italia, ma di ricchezze italianissime buttate a fiume, o addirittura esportate in America, se è vero che ogni impoverimento della nazione si ripercuote in una contrazione dell’esportazione e in aumento dell’importazione; né si può dire che si tratta di soldi che escono dalle tasche dei ricchi per entrare in quelle dei poveri, perché a pagare il conto sono proprio questi ultimi a profitto ideale di un’impresa inumana, e a profitto concreto dei pochi mestatori che la dirigono.

E come se ciò non bastasse, vanto ed onta dei comunisti è la difesa e la diffusione della teoria che legittima gli sprechi generali lamentati più sopra. Se n’ebbe una prova clamorosa nel 1948, quando il Papa, parlando alle A.C.L.I., esortò gli operai al risparmio e all’oculata amministrazione. «Dappertutto — disse il Santo Padre — si nota un senso di malessere e di malcontento: il lavoratore non è soddisfatto della sua sorte né di quella della sua famiglia: egli afferma che i suoi guadagni non sono proporzionati ai suoi bisogni. Niuno più della Chiesa ha sostenuto e difende le richieste giuste del lavoratore. Ma tale asserita sproporzione e insufficienza è sempre e unicamente dovuta alla modicità del guadagno? L’accrescimento dei bisogni non vi entra per nulla? Senza dubbio, vi sono necessità che debbono essere urgentemente soddisfatte: gli alimenti, il vestito, l’abitazione, l’educazione dei figli, il sano ristoro per l’anima e per il corpo. Ma Noi intendiamo di alludere a quelle altre esigenze, le quali dimostrano come la moderna anticristiana bramosia smodata del piacere e la spensierataggine tendono a penetrare anche nel mondo operaio. Le ardue condizioni economiche del tempo di guerra fecero perdere fin la possibilità del risparmio, ma anche oggidì non se ne ha più il senso e l’idea. E in tali condizioni di spirito, come si potrebbe avere la chiara e retta coscienza della responsabilità nell’uso e nell’amministrazione del denaro pubblico destinato alle case popolari, alle assicurazioni sociali, ai servizi di sanità? E come si potrebbe assumere quella corresponsabilità nella direzione della intiera economia del paese, a cui aspira la classe lavoratrice? Soprattutto ora che la grave piaga della disoccupazione non può essere sanata con la demagogia, ma con la ragionevolezza e la disciplina, non con la profusione d’ingenti somme per rimediare soltanto agli immediati bisogni del momento, ma con saggi e lungimiranti provvedimenti?... Importante è senza alcun dubbio l’altezza dello stipendio o del salario, che il padre di famiglia, e forse anche i figli già grandi, ogni mese od ogni settimana portano a casa; anche più importante è la comune cura di impiegarlo saggiamente per i veri bisogni della famiglia»7.

Si poteva parlare con maggiore comprensione e sapiente moderazione? Ebbene, sì, il «partito del popolo» vide la rocca in pericolo, e alle stelle salì lo schiamazzo delle oche comuniste. Il Papa, tanto per cambiare, fu detto alleato dei capitalisti e nemico dei lavoratori, sol perché insieme con le esigenze della giustizia rilevava la necessità della mortificazione e temperanza cristiana.

Il comunista ortodosso, di temperanza e di rinuncia non vuole e non può sentir parlare. Perché la sua idea trionfi, il lavoratore deve restare uno scontento; ma il modo migliore per farlo stare scontento è quello di fargli spendere tutto quello che guadagna. Via dunque la proprietà! Non solo di chi già l’ha, ma anche di chi piano piano col risparmio può acquistarla! Perché ogni povero è un rivoluzionario in potenza, ogni possidente minaccia di diventare un uomo d’ordine; e via ancora la proprietà perché solo su d’una massa di nullatenenti potrà esercitare, senza valida opposizione, il suo prepotere lo Stato, che nel paradiso comunista è l’unico datore di lavoro! Per raggiungere questo scopo, al comunista ortodosso tutto è buono. Mentre si guarderà bene dal mettere mattone su mattone per dare una casa ai senza tetto, pedine preziosissime, questi, nel suo aizzare i poveri contro il governo «che non fa nulla», trova a milioni e a miliardi le lire per moltiplicare le sue sedi dove la gioventù è chiamata a bere e a ballare; e poi ancora a spendere centinaia di milioni «spontaneamente» offerti dai «poveri» proletari, e qualche volta non meno spontaneamente trattenuti sullo stipendio di contentissimi compagni, per finanziare convegni e raduni, festini e mascherate, tutti terminanti nell’immancabile ballo; e, intanto, predicare nei comizi e dai giornali, fatti coi milioni dei poveri lavoratori, la più pagana e materialistica morale del godimento: nulla negarsi, a nulla rinunciare, neanche a quello che supera le oneste esigenze della vita, neanche a ciò che insulta ai bisogni di chi manca del necessario.

* * *

Ma con questa morale che lecito fa il libito, a quale principio etico si ancorerà legittimamente la critica al ricco che si scapriccia come gli pare e piace coi suoi soldi? Perché, in fondo in fondo, che cosa fa il ricco prodigo se non applicare in grande quei medesimi principi che il comunista in particolare e l’ateo in genere non applicano in misura estrema sol perché non ne hanno la possibilità, ma che, se l’avessero, applicherebbero senza scrupolo, come senza scrupolo già li applicano come possono in misura ridotta? Molto, molto lontano dal materialismo dei comunisti vanno cercati i principi morali capaci di far da norma all’uso delle grandi ricchezze come all’uso della proprietà in genere. Essi sono depositati in quella religione cristiana che assomma insieme tutto quello che dall’uomo esigono natura e rivelazione; che insegna al ricco e al povero che le ricchezze della terra sono da Dio date ad uso di tutti e non a monopolio egoistico di pochi; che giustizia e carità pongono limiti all’uso del possesso e al possesso stesso; che sopra poveri e ricchi c’è un Dio, il quale tutto vede e tutto misura per chiedere stretto conto agli uni e agli altri dell’uso che avranno fatto dei beni della terra; un Dio, che se è pronto a premiare con la ricchezza infinita del Regno dei Cieli la cristiana sopportazione del meno abbiente, è anche pronto a punire con la miseria infinita dell’inferno le peccaminose letizie dell’Epulone; in quella religione che si appella cristiana proprio perché ai ricchi e ai poveri propone come modello Gesù, fustigatore, sì, del duro cuore dei ricchi, ma dispregiatore a un tempo delle cose di questo mondo: di quella religione, infine, che nella teoria e nella pratica, seguita da milioni dei suoi figli migliori, addita la perfezione nel vendere tutto – singolare forma di prodigalità – per darlo ai poveri!

Non occorre molto acume d’ingegno, sol che non sia ottenebrato da passione faziosa, per immaginare in quali condizioni ideali si svolgerebbe la convivenza umana se venisse impostata e praticata su queste direttive della Chiesa di Gesù Cristo, e perciò balza agli occhi tutta l’impudenza del capogregge del pecorame comunista italiano, il quale, nella delittuosa discorsa da lui fatta a conclusione delle umilianti esibizioni del festival di Bologna, ha accusato «le gerarchie ecclesiastiche fino all’ultimo dei sacerdoti» di essere responsabili fra l’altro «se nel nostro paese si chiudono le fabbriche, si lasciano gli operai senza pane e senza lavoro... se si nega il pane a chi vive soltanto del pane guadagnato col proprio lavoro»; e da buon emulo, in potenza, dei carnefici d’oltre cortina, ha minacciato alle une e agli altri di far loro sentire i colpi, «da cui verrà travolta questa società fondata sull’ingiustizia, sull’inganno, sull’oppressione dei lavoratori».

Fortunatamente non saranno le acide minacce del piccolo gradasso moscovita a far tacere la Chiesa, come non la fanno tacere le sataniche persecuzioni in atto dei vili moscoviti passati, presenti e futuri. Essa, nel vedersi oggetto di accusa e di persecuzione simultaneamente dai ricchi e dai poveri, sol che in essi s’annidi o ignoranza o odio di quel ch’essa insegna, pur piangendo la sorte di tante anime lontane dalla verità, scorge una conferma di adempire fedelmente la missione affidatale da Cristo.

«Guai a voi, o ricchi!» e «Beati i poveri di spirito!» continua a ripetere la Chiesa; e per questo viene perseguitata dai vili farisei d’oggi; non differentemente da Gesù Cristo, che per aver detto e ripetuto la stessa minaccia e la stessa beatitudine, fu condannato a morte dai vili farisei di ieri.

 

1 L’Osservatore Romano, 28 settembre 1951.

2 Bollettino mensile di statistica, settembre 1951, p. 113.

3 Compendio statistico italiano, 1951, p. 21.

4 Ivi, 87.

5 Ivi, 252. E peggio, purtroppo, vanno le cose altrove. Per l’Inghilterra, per esempio, nel volume English Life and Leisure, di ROWNTREE e LAVERS, risultato d’inchieste durate cinque anni, si trovano tra l’altro i seguenti dati: nel 1949 tra corse di cavalli e di cani e campionati di calcio sono andati in scommesse 717 milioni di sterline, pari a 1.254 miliardi di lire per abitante; il quale abitante poi, sempre di media, altre 25.000 ne ha bevute in alcool e altre 25.000 ne ha buttate in fumo. Nelle spese degli inglesi quella dell’alcool è di un quarto superiore a quella delle pigioni, cinque volte e mezza più della spesa per libri e giornali, un terzo della spesa di alimentazione; quella del tabacco è più del doppio della spesa della luce e del riscaldamento, e quasi uguale a quella del vestiario. Altro particolare di spreco vergognoso: nella sola Londra «lavorano» circa 10.000 donne, tra le quali quelle più capaci guadagnano 35.000 lire al giorno, sì da mettere insieme in alcuni anni una ventina di milioni!

6 Bollettino mensile di statistica, settembre 1951, 120.

7 Civ. Catt. 1948, III, 194.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162