Articolo estratto dal volume III del 1962 pubblicato su Google Libri.
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Il mondo della Croisette...
Visto che in una illustre città di mare italiana l’iniziativa aveva riscosso un ottimo esito turistico, anche la nazione cugina decise di incrementare l’afflusso di turisti verso una graziosa sua cittadina di mare sommando ai richiami della natura quelli dell’«arte» cioè indicendo una mostra annuale primaverile... di scatole e cassette, un po’ in anticipo rispetto alla apertura della grande stagione balneare. Come previsto, mentre, a decine, le nazioni di tutti i continenti vi inviarono i loro prodotti e le loro delegazioni, insieme con migliaia di turisti vi accorsero, graziosamente ospitati, centinaia di critici e di reporter, e mediante i loro servizi diffusero in tutto il mondo, con i fatti della mostra, il nome della cittadina che ne era la sede.
Tuttavia, tra i critici accreditati, la confusione presto fu grande. I più cólti di essi si aspettavano di trovarci arche, cofani, forzieri, custodie e cassapanche pregevoli per forma artistica; altri, più pratici, vi erano accorsi per fare il punto intorno a casse d’imballaggio, cassette di sicurezza, recipienti industriali e di materie plastiche; altri ancora per ragguagliarsi sulle novità riguardanti le scatole di prodotti in conserva...; tutti, invece, critici e pubblico, si trovarono avanti alla più eterogenea esposizione che immaginare potessero. Reliquari sacri tra portaciprie e scatole a sorpresa; vuote scatole giapponesi meravigliosamente laccate e bianche scatolette ottocentesche, che, aperte, mettevano in moto mielosi carillon; scatole di fiammiferi e casse da morto; recipienti per rifiuti e complicati giuochi di scatole cinesi; cassette con teatrini smontati e relative marionette, nonché scatolotti chiusi, muniti di oculare, attraverso il quale si potevano vedere fotografie licenziose; «esotici» aggeggi dati per africani o asiatici, però manifestamente made in Usa, e bussolotti di pezzi europei montati in oriente... Né vi mancavano inutili scatolette di carta e di cartone inviate dai bambini delle scuole materne di alcune nazioni novelle. Infine fece molto parlare di sé uno scatolone a quattro scompartimenti1, così ingombrante che gli allestitori della mostra, pur collocandolo nell’ampio ingresso, giudicarono necessario amputarlo di un quarto... Inde irae, carte bollate, avvocati: tra «artisti», difensori dell’arte una ed indivisibile, organizzatori, preoccupati di non tediare i turisti, e negozianti di cassettame, che giudicarono più commerciabili due normali scatole biposto che uno scatolone quadriposto...
Ci siamo introdotti con un apologo, che speriamo trasparente, per significare che, se c’è un festival cinematografico di cui non sia lecito dare un giudizio senza ricorrere prima di tutto a criteri quantitativi, è quello di Cannes, e soprattutto il XV, di quest’anno 1962, il quale, sotto tale rispetto, pare che abbia voluto battere tutti i primati. È durato, infatti, ben diciassette giorni (7-23 maggio), ha posto in programma la bellezza di trentacinque lungometraggi (di cui due fuori concorso)2 e ventinove cortometraggi; inoltre, tra film della «Mostra mercato», proiettati nelle dieci sale cittadine, e film di retrospettive, di avanguardie e di indipendenti, proiettati fuori programma nello stesso Palais, ne ha allineati almeno un’altra cinquantina: tanti insomma che neanche il più diligente ed ascetico dei critici avrebbe potuto approfittare di tutti.
Prescindendo, quindi, dalla fatica che tanta mole di film comporta, e tenendo presente che quello di Cannes apre la stagione dei grandi festival europei, e perciò offre quanto di nuovo c’è sul mercato, è palese il suo interesse tutto caratteristico, informativo ed orientativo, rispetto alle altre imprese similari. Abbiamo detto del numero dei film; ma anche quello dei paesi partecipanti ha battuto un primato. Essi sono stati ben trentasei (ma dieci di essi soltanto con cortometraggi). E quale varietà di provenienze! Una metà europei, l’altra metà estraeuropei. Del primo gruppo: sette appartenenti all’area comunista, vale a dire a quel mondo le cui scarse notizie che ne riescono a trapelare rammentano l’hic sunt leones con cui certe carte geografiche medievali segnavano l’inizio dell’inesplorato. Dell’altro gruppo: cinque appartenenti all’America, uno all’Oceania, sette all’Asia e cinque all’Africa: tra i quali ultimi, una mezza dozzina di paesi di recente o recentissima indipendenza. Se si pensa che, bene o male, la «merce» che vi si espone è tale da rappresentare, o almeno da riflettere, le condizioni sociali e tecniche, culturali e politiche, religiose e morali dei paesi espositori, e tale ancora da influire poi, a sua volta, su quelle condizioni stesse, sì da livellare credenze e costumi su scala internazionale ed intercontinentale, l’incontro primaverile cinematografico di Cannes, nonostante tutti i limiti e gli inconvenienti che ne rileveremo, può considerarsi ancora una delle manifestazioni e una delle esperienze umane e culturali più cosmopolite ed energetiche.
Le cose cambiano quando si passa dalla quantità alla qualità. Sotto questo rispetto si direbbe che tutto sia accetto a Cannes, purché si tratti di pellicola impressionata, o, almeno, che tutto è stato accetto nell’edizione 1962. Inconveniente che si deve attribuire in parte ai criteri turistico-commerciali-politici che più o meno regolano tutti i festival, e un po’ agli equivoci ancora imperanti nel cinema: termine e realtà3.
...e il mondo del Kurfürstendamm
Ad un mese esatto da quello di Cannes si è aperto il Festival di Berlino, giunto quest’anno alla sua dodicesima edizione. Nonostante che il suo regolamento ufficiale lo presenti inequivocabilmente come «Concorso di film artistici» (Art. 1: filmkünstlerischer Wettbewerb), e stabilisca categoricamente come unico ed esclusivo criterio di scelta quello artistico (Art. 7: Für die Auswall eines Films für den Wettbewerb darf nur sein künstlerischer Wert ausschlaggebend sein), in realtà le cose non vi vanno, e specie quest’anno non vi sono andate, diversamente da Cannes. Anche a Berlino, infatti, la quantità l’ha vinta sulla qualità, stipando in dodici giorni (22 giugno – 3 luglio) ben trenta lungometraggi4 e trentatre cortometraggi, quindi totalizzando la presenza di ben trentasei nazioni (più quella di un film presentato come apolide). Tuttavia, l’assenza di tutte le nazioni tributarie dall’area marxista manifesta che la quantità, a Berlino, è intesa con scopi ideologici e politici; quindi, per spiegare la strana situazione che per il cinema ne risulta non è affatto necessario ricorrere ad apologhi più o meno giocosi, bastando ed avanzando il ricordare l’assurda e drammatica situazione nella quale, ormai da diciassette anni, la città vive.
Non è, infatti, chi non sappia che l’ex capitale tedesca – ancora divisa in quattro settori: francese, inglese, americano e sovietico – si trova interamente circondata, con sessanta chilometri di filo spinato, dalla zona di occupazione sovietica della Germania; e non è un mistero per nessuno che la Russia cerca e tenta tutti i modi di cacciarne via i tre occupanti suoi ex alleati, per annetterla tutta al feudo eufemisticamente da essa denominato Repubblica Democratica Tedesca. Basti ricordare le più recenti sue minacce-ultimatum, grazie a Dio fallite come già fallirono le sue prime prove di forza (secessione dalla Kommandantur alleata e blocco di Berliner-Ovest) degli anni 1948 e 1949. E dal suo punto di vista la cosa è più che ovvia. Berlino, infatti, continua ad essere una delle riprove più lampanti del fallimento di una ideologia e di un regime che pur si ostinano a voler passare come amati e voluti dal popolo; non tanto perché nel settore ovest quasi tutte le rovine e le miserie della guerra sono state ormai cancellate da splendide ricostruzioni e grandiose nuove costruzioni, nonché da un floridissimo sviluppo industriale e commerciale, mentre invece nel settore est le rovine permangono pressoché intatte, ed il livello di vita vi dura tuttora miserabile, quanto perché, fino ad un anno fa, una relativa possibilità di circolazione tra i due settori di Berlino faceva di questa città l’unica breccia che rendeva inoperanti i 1320 chilometri di vallo trincerato con cui la Russia tiene divise le due Germanie, permettendo la più grave emorragia di fuggiaschi dal «paradiso» sovietico verso l’«inferno» capitalista5. Riusciti vani, per arrestarla, i più odiosi mezzi legali e polizieschi6, nell’agosto del 1961 la Russia ripiegò sul provvedimento più vergognoso che potesse escogitare, vale a dire l’erezione di un muro: quarantadue chilometri di pietre, di filo spinato, di ostacoli anticarro, – e persino di alti tavolati, per impedire agli abitanti dell’una e dell’altra parte di vedersi e di salutarsi – vigilati continuamente dalla polizia rossa (Vopo), pronta a sparare a vista su chiunque tenti la fuga verso l’ovest.
Stanti siffatte condizioni locali, se, fino al 1961, per gli organizzatori del Festival di Berlino si trattava, più che altro, di mantenere aperto e ben vivo nell’attenzione di tutto il mondo il problema politico della città, sì da togliere ai sovietici qualsiasi illusione di poter approfittare di una remissione di interesse e di vigilanza da parte dell’Occidente, in quest’anno 1962 si è trattato piuttosto di convocare, col richiamo del cinema, il massimo numero possibile di critici, di reporter e di osservatori stranieri a rendersi conto de visu, ed a riferirne ben documentati, sul mostruoso muro della vergogna e della disfatta marxista.
Senza dubbio, i gelosi difensori del cinema quale settima arte e decima musa deploreranno siffatto suo impiego politico, non tuttavia i marxisti che siano coerenti alla loro teoria e prassi, che fa del cinema, come di ogni altra attività umana, un semplice strumento di propaganda ideologico-politica; bisogna però riconoscere che gli organizzatori sono pienamente riusciti nel loro intento. Di fatto tutto il XII Festival è stato come condizionato e messo in sordina dallo spettro e dall’incubo del muro. Non uno delle migliaia di spettatori dell’Est, che nei festival precedenti approfittavano per respirare un po’ d’aria del mondo libero, quest’anno ha potuto accorrervi. Film e registi, attori e dive, premiazioni applausi e ricevimenti, manifesti e bandiere, e la stessa caratteristica animazione del Kurfürstendamm – la grande strada mondana, che è per Berlino quel che la Croisette è per Cannes, ed i Champs-Elysées sono per Parigi – hanno rivestito un’aria quasi di realtà sospesa e provvisoria, come di un ballo mondano a bordo di un transatlantico di lusso che tutti sapessero minato. Abbiamo visto, sì, tanti eventi fittizi sullo schermo, ma il pensiero correva al tragico vero, distante appena qualche centinaio di metri dalla libertà: strade, piazze, ponti, linee telefoniche, tranviarie e metropolitane interrotte; interi palazzi di confine con tutte le porte e le finestre murate; fili spinati fin sui tetti, cannocchiali puntati e mitragliatrici imbracciate come da trincea a trincea, in un silenzio da deserto; e cippi di fiori sui marciapiedi dove temerari cercatori della libertà a tutti i costi avevano trovato la morte, o sfracellati gettandosi dall’alto, o freddati durante la fuga dalla Vopo...
Ed anche a Festival concluso, il ricordo più tenace di Berlino ’62 resta quello di una tragica e vergognosa realtà, che, più di qualsiasi altra argomentazione teorica, testimonia dell’inumana barbarie di una ideologia e di un regime, i quali non ragionano, o convincono, bensì imprigionano ed uccidono; non amano l’uomo, né lo servono, ma l’odiano e lo sfruttano; non incamminano l’umanità verso convivenze di libere intese, bensì verso la coazione e lo scempio di un unico sterminato campo di concentramento.
Cinema di transizione?
Ma quali che siano stati gli scopi immediati, così degli organizzatori come dei concorrenti, che hanno condizionato l’afflusso di tanti film in questi due festival, il loro stesso numero ci invita a dare uno sguardo alla qualità della produzione mondiale odierna con sufficiente presunzione di obiettività, pur rimandando, per ovvie ragioni di spazio, ad un altro tempo e ad altre sedi, i rilievi analitici sui singoli film7.
Iniziando la nostra rapida panoramica sotto l’angolazione, diciamo così, geografico-politica della produzione, ci viene fatto prima di tutto di rilevare la sua sempre più rapida internazionalizzazione. Il monopolio produttivo e distributivo già detenuto dagli Stati Uniti d’America va sempre più restringendosi a causa del consolidarsi delle produzioni europee, e dell’affacciarsi più ardito sui mercati internazionali di produzioni una volta quasi del tutto limitate al fabbisogno interno (Giappone, India, Argentina, Brasile...), nonché di nazioni che sono alle loro prime anni cinematografiche (Congo, Corea, Indonesia, Libano, Marocco, Senegal...). Spesso, è vero, si tratta di tentativi maldestri; ma è facile prevedere dove potrebbero in breve condurre su piano di concorrenze, di autonomie e di integrazioni di mercati, con tutte le conseguenti risonanze di carattere economico, artistico, culturale, politico, sociale e religioso.
Forse anche per il prevalere che l’interesse tecnico viene ad assumere nelle prime esperienze del genere, e soprattutto per l’interesse economico sempre dominante nelle produzioni che operano nei paesi non soggetti a regimi ideologici, non solo la grande arte, ma anche l’arte media è per lo più assente. A occhio e croce, tra Cannes e Berlino, su sessantacinque lungometraggi, crediamo che le dita di due mani siano già troppe per contare le opere che in qualche maniera raggiungano la vera arte cinematografica. Tutte le altre, a nostro modesto parere, o non sono cinema, bensì teatro, coreutica, cronaca, documento, romanzo, fumetto, ed altra roba fotografata; o sono grosso spettacolo, infarcito di tutti gli ingredienti di richiamo del genere, o trattenimento convenzionale, o fumisterie cerebrali appena sopportabili come esercitazioni sperimentali, o addirittura pietosi balbettamenti di principianti8, i quali, equivocando forse sulla sua definizione, si illudono di fare del vero cinema soltanto perché, armati di una macchina fotografica, producono e cuciono insieme chilometri di immagini, che effettivamente «si muovono», e spesso anche troppo9.
Degna di rilievo è anche l’osmosi che, un po’ tra tutte le latitudini e le longitudini, si va con gran rapidità avverando tra produzioni e produzioni, correnti e correnti, autori e autori, preludendosi ad una specie di livellamento mondiale di moduli espressivi, di strutture narrative, di stereotipi, di situazioni e di problemi umani. Se è noto, per esempio, che almeno da un decennio tutto il mondo cinematografico è tributario del cosiddetto neorealismo italiano, fa tuttavia una certa impressione rilevare ancora oggi in film presentati dalla Spagna, dal Marocco, dal Libano, dall’India, dal Giappone, dall’Indonesia derivazioni palesi, reminiscenze, cadenze, procedimenti, tipi ed ambienti inequivocabilmente provenienti da esso. Così pure: nessuna meraviglia se i film dei paesi africani recentemente giunti alla indipendenza sembrano più francesi che indigeni, dato che francesi appunto ne sono i registi; ma non è senza interesse scoprire che l’anarchia grammaticale, sintattica ed anche morale della cosiddetta nouvelle vague francese, ha dilagato anche in film della Spagna, della Germania, del Brasile..., mentre l’India ed il Giappone, ora commisti a motivi tradizionali indigeni, ed ora, diciamo così, allo stato puro, adottano stile di recitazione, strutture narrative, melodie ed armonie europee ed hollywoodiane. Intanto, mentre il Bergman echeggia l’ultimo Dreyer, l’argentino Torre-Nilsson echeggia personaggi, situazioni ed atmosfere tipiche del Bergman e dell’Antonioni; le esperienze, ammirate o discusse che siano, del Resnais in Hiroshima, mon amour e in L’année dernière à Marienbad proliferano nel greco Ta cheria, di J.G. Contes, e nei tedeschi Das Brot der frühen Jahre, di H. Vesely, e Ohne Datum, di O. Domnick, nel giapponese Mitasareta Seikatsu, di S. Hani, anzi si risentono, si può dire, un po’ dappertutto nel mondo, sconvolgendo, insieme con le tradizionali continuità spazio-temporali del racconto cinematografico, anche molte regole tecniche che l’uso di decenni aveva forse fatto ritenere del tutto connaturali ad un corretto linguaggio filmico. La stessa produzione indipendente americana ne risente, e non è escluso che, o prima o poi, non scuota anche la produzione hollywoodiana, ancora ferma alle sue fortunate formole commerciali. Probabilmente questa attende di poter disporre di sufficienti masse di spettatori preparati ad intendere i nuovi stili espressivi: tipo Antonioni, per intenderci. Resta il fatto che quanto abbiamo visto ultimamente a Cannes ed a Berlino sembra provare che il cinema in se stesso, come linguaggio, si trovi in uno stato di transizione, dal quale, data la portata mondiale del fenomeno, non possono non attendersi i più interessanti sviluppi, sia su piano di revisioni teoriche, sia di prassi produttive.
Crisi dell’uomo?
Se dai procedimenti tecnico-formali portiamo l’attenzione sui contenuti umani di tanti film, ci sembra che occorra parlare non più soltanto di transizione, bensì anche di crisi, sia dell’uomo di oggi, sia della sua società. Eccettuata, infatti, la produzione d’oltre cortina, che, nell’insieme, non diversamente dalle passate cinematografie fascista e nazista, suona falsa e programmatica, il grosso della produzione sembra fatto tutt’altro che per dare fiducia ed animo agli spettatori.
Ritornano insistenti i ricordi più dolorosi e laceranti delle guerre passate, mentre incombono terrori di un avvenire apocalittico minacciato dalle esplosioni atomiche. Il progresso tecnico appare insieme motivo di orgoglioso vanto e di disperata ribellione all’uomo, che da una parte si illude di montarne gli ingranaggi da padrone, e dall’altra se ne ritrova presto schiavo, schiacciato e distrutto. La casa, l’officina e la città moderne vengono descritte e denunciate come agglomerati mostruosi, dove gli uomini si stipano, violentati nei loro più elementari comportamenti: convivono senza conoscersi, si ascoltano senza intendersi, si guardano come estranei, quando non anche come rivali e nemici. Allora, questa città materiale e disumana diviene il simbolo della stessa società che l’uomo si è costruita, sicché come questi spesso è ritratto ribelle contro la prima, in cerca d’aria nella libera natura, così spesso è ritratto ribelle contro la seconda, le sue leggi e le sue assurde convenzioni, in cerca di atti gratuiti e di vissute esperienze asociali ed antisociali. Ed ecco trame e trame di delitti contro la proprietà e contro la vita fisica, di anarchia sessuale, in un crescendo di anno in anno più accentuato, fino a toccare ormai punte di sadismo, di mal gusto e di impudicizia difficilmente superabili.
Il critico che ne subisce l’assalto come di una torbida valanga, ne esce col cuore stretto ed amareggiato. Solo in un secondo tempo, giudicandone col distacco di una più tranquilla considerazione, riesce a distinguere quanto di siffatto cinema faccia veramente parte della realtà del mondo estra-schermico, e quanto invece sia più o meno fittizio, mettendo al conto di questa seconda partita: e il bisogno che il cinema commerciale ha sempre avuto di casi tanto più eccezionali quanto minori siano le risorse artistiche e creative di chi lo faccia; e l’incoltura della massima parte dei cineasti, incapaci perciò di imporsi un freno nell’uso del formidabile mezzo tecnico che maneggiano, soprattutto quando abbiano male assimilato, nella loro cultura recente e d’accatto, esperienze espressive di ceppi culturali ben altrimenti maturi ed antichi; ed il vizioso crescendo di esigenze in cui viene a trovarsi la massa degli spettatori una volta esposta a progressive esperienze di certi stimoli e di certe reazioni; e, finalmente, la indicazione data dalla televisione alle produzioni cinematografiche, di buttarsi, per batterne la concorrenza, su quei contenuti più osati che quasi dappertutto nel mondo sono preclusi ad essa, quale spettacolo familiare.
Ma, pur tenendo presenti tutti questi elementi di giudizio, resta inoppugnabile il fatto che da una parte il cinema, in una certa misura, si rifà allo spettatore ed alla società quali in realtà sono, avendo bisogno che l’uno e l’altra in qualche modo vi si riconoscano, e, d’altra parte, che proprio per i processi di osmosi e di diffusione universale che lo distinguono, esso forma a sua volta gli spettatori e la società, precisandone, esaltandone ed intercomunicandone situazioni e stati d’animo, in tal maniera diventando insieme documento e fattore di una crisi umana in atto.
E, sempre riferendosi all’insieme dei film di Cannes-Berlino 1962, ci pare che si possa parlare di crisi non soltanto per lo stato di disagio, di insofferenza, diciamo pure di incertezza e di angoscia, in cui spesso vi si inquadra l’esistenza umana, ma anche per lo scotimento che sembrano avervi subìto i valori della stessa esistenza, già universalmente considerati o assolutamente validi o, almeno, consuetudinariamente stabili. Per molti registi, e per i loro squallidi e tormentati personaggi, patria e famiglia, arte scienza cultura, virtù ed onore, educazione pulizia e decoro sembrano archiviati come risibili residui di vecchia retorica, buona appunto per gli imperati edificanti film d’oltrecortina. Che cosa resta ad essi, allora, come argomento, sfondo, problema e pimento universale, se non le smanie del sesso, per giunta nella loro espressione più vuota e disperata di esperienze fisiologiche, dato che, sulla scia antonioniana, anche ogni sentimento ormai è nulla e vuoto, e l’uomo, con i suoi tormenti e col suo vano cercare, è soltanto soggetto ed oggetto della più sterile pietà? Quando anche non intervengano gli epigoni della nouvelle vague, a negare anche la pietà, ed a limitare le loro esperienze ad una costatazione dell’esistenza umana, priva anche di ogni sentimento...
Si direbbe che più basso, nella curva della crisi dei valori umani, l’uomo non possa scendere; che egli abbia toccato il fondo, e che non resti altro che offrirgli il soccorso di una mano amica, perché finalmente riprenda la sua ascesa. E ciò, in tanto triste e generale spettacolo fallimentare, costituisce pure un elemento di speranza.
Il grande Assente
Per noi – religiosi, cristiani e cattolici – siffatta crisi dell’uomo e della società moderni, in parte rilevata, documentata ed incrementata anche dallo schermo, si riassume in una profonda e prolungata carenza di Dio. Se, infatti, è vero, com’è vero, che l’uomo è fatto per Dio e che, distratto da lui, il suo cuore non può non agitarsi tormentato, per noi sarebbe inesplicabile la mancanza di un diffuso stato di angoscia nel mondo odierno, che o ha rinnegato ed escluso, o ignora Dio; come sarebbe inesplicabile la mancanza di qualche malessere in individui umani normali che persistessero a vivere e ad operare rovesciati, con la testa in basso ed i piedi in alto.
Orbene, a Cannes ed a Berlino, questa verità ha avuto una riprova tanto lampante quanto dolorosa. Su sessantacinque lungometraggi, in ben quaranta Dio e la sua legge sono stati del tutto ignorati, mancandovi qualsiasi accenno diretto a problemi, a persone o realtà esplicitamente religiose. Secondo il doloroso rilievo più volte mosso da Pio XII al cinema, anche cosiddetto buono, «gli uomini vi nascono, vi vivono e vi muoiono come se Dio non esistesse e non fosse il protagonista della storia». In altri undici, la religione e la morale sono ridotti o a semplici allusioni, o ad elementi narrativi svuotati di ogni contenuto genuinamente trascendente, come per esempio nell’argentino Las hermanas, centone di sacro, di profano e di peccaminoso, di un malgusto eccezionale, nonostante l’inappuntabile esecuzione delle funzioni liturgiche e dei canti sacri.
Soltanto nei quattordici restanti il problema religioso viene più o meno direttamente affrontato, non mai tuttavia in maniera pienamente sodisfacente per un cattolico. Ecco, per cominciare, a Cannes, l’americano All Fall Down, in cui la religione, con le sue manifestazioni tradizionali, viene collezionata tra le componenti di quell’insieme asfissiante che sarebbe il mondo della provincia, al quale i giovani hanno tutto il diritto di ribellarsi. Non molto diversamente si prospetta il problema religioso nel film senegalese Liberté 1, opponendovisi alla superstizione, simboleggiata da un enorme baobab che sbarra un’autostrada in costruzione, la vittoriosa marcia di un bulldozer, simboleggiante il progresso, e si ha l’aria di conglobare in una stessa denuncia e condanna tanto la superstizione più crassa quanto le esigenze religiose più profonde, senza le quali ben misere e dolenti cose restano tutte le autostrade ed i macchinoni della civiltà tecnica.
Pari confusione forse soggiace nell’indiano Devi, ove – insistendo su temi già affiorati nei suoi precedenti Pather Panchali (1956) ed Aparajito (1957), di antinomie, se non proprio di conflitto, tra scienza e progresso tecnico da una parte, religione e tradizioni popolari dall’altra – il regista S. Ray denuncia i danni della superstizione, senza darsi la pena di distinguere tra ragionevole e doveroso senso religioso ed indebite deviazioni dallo stesso. A sua volta esaltato dal progresso tecnico, il goffo film cecosìovacco Muz z prvniho stoleti, in piena ortodossia col materialismo d’oltre cortina, oppone, nella numerazione degli anni e dei secoli, all’era dell’Incarnazione di Cristo quella degli Sputnik; mentre nel coreano To the last Day, presentato a Berlino, i buoni sentimenti ed il sano messaggio morale e sociale vengono turbati da una ribellione contro la Provvidenza divina.
Altri film se la prendono non tanto contro la religione, o le superstizioni che ne sono le deformazioni ed anche gli immancabili surrogati, quanto contro la stessa religione cristiana e cattolica, le sue dottrine, la sua prassi, le sue persone: inserendosi così in un’opera di scardinamento dei valori più preziosi di una civiltà che si qualifica cattolica, assumendosi questo non nobile ed ingeneroso incarico proprio i paesi di antica ed antichissima tradizione cattolica, quali la Francia, l’Italia, la Spagna, il Brasile, il Messico, l’Argentina... Così il regista francese del congolese Konga Yo fa muovere contro i colonizzatori europei il rimprovero, del resto meritato, di aver importato in Africa un Dio, e di avervi insegnata una morale cristiana, che essi per primi, con la loro scandalosa condotta, ogni giorno hanno tradito, per concludere: «Dunque, fanno bene oggi gli indigeni a rifiutare il cristianesimo ed a ripiegare su di una religione a loro placito e misura!». Meno dottrinaria e più facilona, e in Boccaccio 70, e in Divorzio all’italiana, e, con due battute di pessimo gusto, in La bellezza d’Ippolita, l’Italia si è riservato il metodo incivile dell’irrisione generica. La Spagna, a sua volta, con Placido ha fatto del pesante sarcasmo sulla carità dei cattolici, nonché sui concetti di peccato e di matrimonio-sacramento. Il Messico, paladino suo l’iconoclasta Buñuel, a Cannes, con L’angel exterminador, ha rincarato la dose, auspicando un bagno di sangue che stermini dalla Chiesa tutti gli ipocriti che la riempiono, ed a Berlino, con El tejedor de milagros, ha coinvolto la Chiesa cattolica, impersonificata da uno più carabiniere ed energumeno che prete, nell’accusa di oscurantismo e di superstizione. L’argentino Torre-Nilsson, stando almeno ad una glossa illustrativa del testo cinematografico Setenta veces siete piuttosto anodino, sarebbe insorto addirittura contro la provvidenza e la misericordia di Dio, la prima rea di permettere certi orridi mali morali e sociali, e rea la seconda anche di perdonarli; infine, il brasiliano O pagador de promessas arriva alla mirifica proposta di sfondare a forza le porte delle chiese sbarrate dall’ortodossia pignola del clero cattolico, per introdurre nel tempio cristiano non soltanto la «fede» di sempliciotti analfabeti, bensì anche tutto il guazzabuglio di superstizioni e di paganesimo, di riti magici e folkloristici che, specie nel Brasile, proliferano in simbiosi col cristianesimo, non certo ad utile della cultura e della morale. Ragion per cui, mancando al film anche il pregio della originalità e dell’arte, ci si domanda quali misteriosi motivi abbiano fatto attribuire ad esso la Palma d’oro.
Due premi O.C.I.C.
Verosimilmente, le due giurie dell’O.C.I.C. incaricate di premiare, tra i film presentati ufficialmente nei due festival, «quelli che, per ispirazione e qualità, meglio contribuiscano al progresso spirituale ed allo sviluppo dei valori umani», stante il deficitario livello artistico e morale generale delle due manifestazioni, non dovrebbero aver fruito di molte possibilità di scelta. Fortuna, che hanno potuto contare sulle opere di due artisti, l’indiscusso prestigio dei quali non può non richiamare la considerazione ed il rispetto della stessa critica più antireligiosa ed antimorale, e tali tuttavia da farle contare tra le rare opere cinematografiche che tutelano ed alimentano l’affermazione e lo sviluppo dei massimi valori umani: vale a dire quelli della libera coscienza posta in situazione di scelta rispetto al suo destino eterno.
Il Procès de Jeanne d’Arc, di R. Bresson, premio O.C.I.C. di Cannes, canta, col rigore di un’arte forse fin troppo sorvegliata, che cosa possa l’intelligenza contro la forza, la libertà interiore contro la violenza esterna, e soprattutto la grazia di Dio nell’animo di qualsiasi povera fanciulla che fiduciosamente e totalmente le si abbandoni. Forse con minore lirismo che l’insuperato modello dreyeriano, il Bresson commenta un tema mistico analogo a quello che già ispirò il suo capolavoro, il Journal d’un curé de campagne. Esso si trova nella promessa di Gesù: «Sarete condotti per causa mia avanti ai presidi e avanti ai re... Ma quando sarete posti nelle loro mani, non vi date pensiero del come parlerete o di quel che direte; poiché in quel momento vi sarà dato quello che dovrete dire, non essendo voi quelli che parlate, ma lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Mt 10,18-20).
Più problematico il premio O.C.I.C. di Berlino, attribuito a Sasom i en Spegel, di J. Bergman. Se il grande regista francese vive nella luce e nella certezza della verità religiosa e cattolica, il grande svedese è un’anima che cerca, che si apre faticosamente il cammino tra i richiami passionali del senso ed i residui di un gelido protestantesimo familiare, naufragato nel dubbio razionalista. A piccoli passi contesi e sofferti egli si avvicina alla luce. Se in Det sjunde Inseglet (Il settimo sigillo, 1957) e in Smultronstallet (Il posto delle fragole, 1958) egli non pervenne oltre una certa ansia del trascendente, in Jungfrukallan (La fontana della vergine, 1959), sia pure sotto i simboli di una ballata medievale, egli ha prospettato la possibilità di un colloquio e di una risposta da parte dell’Inaccessibile; con questo film, invece, egli pone espressamente il problema dell’esistenza di Dio. Non ancora su piano di obiettività logica – egli fa opera di artista e non di didattica religiosa –, bensì nell’ansia psicologica dei suoi personaggi, indotti a porsi il problema dei problemi dalle situazioni drammatiche in cui vengono a trovarsi, dall’angoscia delle esperienze singole, tutte complesse di valori affettivi, si direbbe, drammaticamente escludentisi a vicenda. Non solamente, dunque, i quattro personaggi cercano ed intravedono Dio nella indistinta luce di uno specchio e «in aenigmate», come dice il titolo, ricalcando il noto testo paolino ai corinti, ma si direbbe che lo stesso Bergman partecipi alla loro incertezza, arrivando almeno ad ambiguità, se non proprio a confusioni, tra Dio ed amore umano, tra certezza razionale della esistenza della Carità, ed esigenze, esperienze personali della stessa...
Tuttavia, crediamo che sia già molto, in un mondo smarrito nella caligine come quello odierno, l’aver portato tale problema sullo schermo, senza mezzi termini. Immerso ed agitato nella suggestione tipica delle immagini del Bergman, senza dubbio esso risonerà nel mondo, e vi produrrà un po’ di quel salutifero tormento che rese insonne la notte dell’Innominato.
1 Alludiamo alle quattro parti del mediocre italiano Boccaccio 10, dalle quali il produttore, a Cannes, prudentemente ha soppresso il Renzo e Luciana di M. Monicelli, innescando una alquanto ridicola serie di clamori, proteste e dimissioni date e rientrate, da parte di autori, critici e giurati italiani.
2 Eccoli in ordine alfabetico di nazioni. (I numeri in corsivo riguardano i cortometraggi; i titoli chiusi in parentesi quadre sono dei film presentati fuori concorso). ARGENTINA (1): Setenta veces siete (Settanta volte sette), di L. Torre-Nilsson. – AUSTRALIA (1). - AUSTRIA (1): Julia, du bist zauberhaft (Giulia, tu sei un tesoro), di A. Weideman. – BELGIO (1). – BRASILE (1): O pagador de promessas (Uno che mantiene la parola), di A. Duarte. – BULGARIA (1+1): Pleneno Yato (Lo stormo nella pania), di D. Mundrov. – CANADÀ (2). – CECOSLOVACCHIA (1+1): Muz z prvniho stoleti (L’uomo del secolo primo), di O. Lipsky. – CEYLON (1). – CINA (1): Uang Kwei Fei (La concubina magnifica), di Li Han-hsiang. – CONGO (ex belga) (1): Konga Yo, di Y. Allegret. – DANIMARCA (1): Harry og Kammertjeneren (Harry e il suo servitore), di B. Christensen. – FRANCIA (3[1]+2): Les amants de Teruel, di R. Rouleau; Cléo de 5 à 7 (Cleopatra dalle cinque alle sette), di A. Varda; Le procès de Jeanne d’Arc (Il processo di Giovanna d’Arco), di R. Bresson; [Le crime ne paye pas (Il delitto non rende), di G. Oury]. – GERMANIA FEDERALE (1+1): Das Brot der frühen Jahre (Il pane degli anni verdi), di H. Vesely. – GIAPPONE (1): Cupola, di K. Urayama. – GRECIA (1): Elettra (Electra), di M. Cacoyannis. – INDIA (1): Devi (La dea), di S. Ray. – INGHILTERRA (2+1): The Innocents (Suspense), di J. Clayton; A Taste of Honey (Un gusto di miele), di T. Richardson. – ISRAELE (1): Baal ha Khalamot (Giuseppe venduto dai fratelli), di A. e Y. Gross. – ITALIA (3[1]+2): Divorzio all’italiana, di P. Germi; L’eclisse, di M. Antonioni; Mondo cane, di G. Jacopetti, P. Cavara e F. Prosperi; [Boccaccio 70, di F. Fellini, L Visconti e V. De Sica]. – LIBANO: (1): Le petit étranger (Il piccolo estraneo), di G.M. Nasser. – MAROCCO (1+1): Les enfants du soleil (I ragazzi del sole), di J. Severac. – MESSICO (1): El angel exterminador (L’angelo dello sterminio), di L. Buñuel. – NIGERIA (1). – OLANDA (2). – PAKISTAN (1). – POLONIA (1+1): Dom bez Okiem (L’addio impossibile), di St. Jedryka. – ROMANIA (1+1): S-a furat o bomba (Hanno rubato una bomba), di I. Popesco-Gopo. – SENEGAL (1): Liberté 1 (Liberta 1), di Y. Ciampi. – SPAGNA (1+1): Placido, di L. G. Berlanga. – SVIZZERA (1). – UNGHERIA (1). – UNIONE SUD AFRICANA (1). – U.R.S.S. (1+1): Kogda derevia byli bolchimi (Quando gli alberi erano alti), di L. Kuligianov. – STATI UNITI D’AMERICA (3+2): Advise and Consent (Tempesta su Washington), di O. Preminger; All Fall Down (A ciascuno il suo inferno), di J. Frankenheirner; Long Day’s Journey into Night (Lunga giornata verso la notte), di S. Lumet. – IUGOSLAVIA (1+1): Dvoje (Lei e lui), di A. Petrovic.
3 «È molto difficile parlare di cinema, perché ci sono tante maniere di considerare quello che il mio amico De Sica definisce: — Questo grande equivoco che è il cinema —» (R. CLAIR, in Bianco e Nero, 1962, n. 2, p 35).
4 Eccoli in ordine alfabetico di nazioni. (I numeri in corsivo riguardano i cortometraggi; il titolo chiuso in parentesi quadre è del film presentato fuori concorso, in quanto già insignito di un Oscar come il miglior film straniero dell’anno). ARGENTINA (1+1): Las hermanas (Le sorelle), di T. Tinayre. – AUSTRALIA (1). – AUSTRIA (1). – BELGIO (1+1): Il y a un train toutes les heures (Ogni ora c’è un treno), di A. Cavens. – BOLIVIA (1). – BRASILE (1+1): Os cafajestes (Uomini senza scrupoli), di R. Guerra. – CANADA (1). – COREA (1): To the Last Day (Fino all’ultimo giorno), di Shin Sang Okk. – DANIMARCA (1): Duellen (Il duello), di K. Leif Tomsen. – EGITTO (1+1): Al Zouga Talattashar (La tredicesima moglie), di F. Abdel Wahab. – FINLANDIA (1+1): Pikku Pietarin Piha (Pierino), di J. Witikka. – FRANCIA (3+3): L’amour à vingt ans (L’amore a venti anni), di registi vari; Le caporal épinglé (Il caporale pizzicato), di R. Renoir; La poupée (La bambola), di J. Baratier. – GERMANIA (2+3): Galapagos, di H. Sielmann; Die Rote (La rossa), di H. Kautner. – GIAPPONE (2): Kohayagawake no aki (Primo autunno), di Y. Ozu; Mitasareta Seikatsu (Una vita bene spesa), di Susumu Hani. – GRECIA (1): Ta cheria (Le mani), di J. G. Contes. – INDIA (1+1): Hum Dono (Noi due), di Amar Jeet. – INDONESIA (1): Badai Selatan (Tempesta del Sud), di S. Waldi. – INGHILTERRA (1+2): A Kind of Loving (Una specie di amore), di J. Schlesinger. – ISRAELE (1): Donnez-moi dix hommes désespérés (Datemi dieci uomini arditi), di P. Zimmer. – ITALIA (3+1): La bellezza d’Ippolita, di G. Zagni; Salvatore Giuliano, di F. Rosi; La steppa, di A. Lattuada. – MALESIA (1). – MESSICO (1): El texidor de milagros (Il combinatore di miracoli), di F. Del Villar. – NIGERIA (1). – NORVEGIA (1): Tonny, di N. R. Müller. – OLANDA (2). – PORTOGALLO (1). – SENEGAL (1). – SIRIA (1). – SPAGNA (1+1): Los atracadores (Gli scippatori), di R. Beleta. – SVEZIA (1): [Sasom i en Spegel (In uno specchio), di I. Bergman]. – SVIZZERA (1). – STATI UNITI D’AMERICA (2+2): Mister Hobbs takes a Vacation (Il signor Hobbs va in ferie), di H. Koster; Out of the Tiger’s Mouth (Dalla bocca della tigre), di T. Whelan, jr. – UNIONE SUD AFRICANA (1). – VIET NAM (1). – UNESCO (1). – APOLIDE (1): No Exit (A porte chiuse), di T. Danielewski.
5 Stralciamo da Le mur de Berlin (Ginevra 1962, p. 14 ss.): «La marea di rifugiati che dal 1946 ha rifluito dalla zona di occupazione sovietica della Germania – dal 1950 “Repubblica Democratica Tedesca” – verso Berlino-Ovest e la Repubblica Federale Tedesca ha le caratteristiche di un fenomeno unico nel nostro tempo. Fino al 13 agosto 1961 – giorno in cui l’isolamento di Berlino-Est fu un fatto compiuto, e l’ultima via di comunicazione con l’Ovest fu sbarrata –, si valutano sui quattro milioni gli abitanti delle regioni tedesche occupate dai sovietici che si sono rifugiati nell’Ovest. Dal 1950 al 1959 la popolazione di queste regioni è calata di un milione di abitanti... Esse sono il solo territorio dell’Europa, per non dire del mondo, nel quale la popolazione è in costante diminuzione.
Non è possibile precisare il numero esatto di questi rifugiati, la loro immatricolazione essendosi cominciata soltanto nel settembre del 1949. Ma da tale data al 15 agosto 1961 sono stati registrati 2.691.270 rifugiati, in pari proporzione uomini e donne, e per la metà giovani sotto i 25 anni, per più del 60% appartenenti alla popolazione professionalmente attiva... Più numerosi sono gli operai e gli artigiani, vengono poi i commercianti, i trasportatori e gli agricoltori; ultimi sono gli intellettuali... Dal 1954 al 1961 si sono contati tra i rifugiati: 3.371 medici, 1.329 dentisti, 291 veterinari, 960 farmacisti, 132 magistrati, 679 avvocati o notai, 752 docenti superiori, 16.724 altri docenti, 17.082 ingegneri e tecnici...».
6 L’11 dicembre 1957 furono estese ai viaggi verso la Germania Federale le leggi penali riguardanti i viaggi all’estero, comminanti fino a tre anni di carcere ai violatori, e si creò il nuovo delitto di «incitazione fraudolenta ad abbandonare la Repubblica Democratica Tedesca», punibile con quindici anni di carcere e la confisca dei beni (ivi, p. 15 ss.).
7 Cfr, per una presentazione dei singoli film di Cannes, Letture (numero di luglio 1962, pp. 534 e ss.); per una panoramica degli stessi sotto il profilo religioso, Maschere (numero di giugno-luglio 1962), e sul film di Bresson: Incontro (1° luglio 1962, p. 20 ss.).
8 Abbiamo notato che le opere prime sono state particolarmente abbondanti, tanto a Cannes, dove, salvo errori, ne abbiamo contate nove, quanto a Berlino, dove non sono state meno numerose. Reputiamo che tanta inflazione si debba molto alla Mostra di Venezia 1961, nota, tra l’altro, per le opere prime di E. Olmi (Il posto), di V. De Seta (Banditi a Orgosolo), e di P.P. Pasolini (L’Accattone).
9 AI contrario delle tre opere migliori che abbiamo visto – Procès de Jeanne d’Arc, L’eclisse e Sasom i en Spegel –, nelle quali il «movimento», così inteso, è ridotto al minimo.