NOTE
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1 Come al solito, diamo, disposto in ordine alfabetico di nazione, l’elenco dei lunghi metraggi in concorso. Quelli in formati maggiori del normale sono seguiti da un asterisco; quelli in colore, dal segno #; i numeri in parentesi indicano quanti film ha presentato ogni nazione, compresi i cortometraggi: 1) ARGENTINA (1): El ultimo perro (L’ultimo cane) #, di L. Demare. – 2) AUSTRALIA (1): Walk into Paradise (L’odissea del dottor Steve) #, di L. Robinson e Pagliero. – 3) AUSTRIA (2): Mozart #, di K. Hartl. – 4) BELGIO (3): Meeuwen sterven in de Haven (I gabbiani muoiono nel porto), di R. Kuypers. – 5) BRASILE (1): Sob o ceu da Bahia (Sotto il cielo di Bahia) #, di E. Remani. – 6) BULGARIA (2): Totcha parva ot dnevnia red (Primo punto all’ordine del giorno) #, di B. Danowski. – 7) CANADÀ (1). – 8) CECOSLOVACCHIA (3): Dalibor #, di V. Krska. – 9) DANIMARCA (1). – 10) EGITTO (1): Chabab Emraa (La sanguisuga), di S. Abou Seif. – 1) FRANCIA (5): Marie Antoinette #, di J. Delannoy; Le monde du silence #, di J.-Y. Cousteau: Le mystère Picasso * #, di H. G. Clouzot. – 12) GIAPPONE (5): Ikimono no kiroku (Se gli uccelli lo sapessero), di A. Kurosava; Mabo Toshi no uma (Il cavallo fantasma) #, di K. Shima; Seido no kirisuto (Il Cristo di bronzo), di M. Shibuya. – 13) GRECIA (1): To Koritsi me ta mavra (La ragazza in lutto), di M. Cacoyannis. – 14) INDIA (4): Pather Panchali, di S. Ray; Shevgyacya Shenga (L’eredità morale), di J. Row Kavri Sadashiv. – 15) INGHILTERRA (5): The man who never was (L’uomo che non è mai esistito) * #, di R. Neame; Seven years in the Tibet (Sette anni nel Tibet) #, di H. Nieter; Yield to the night (L’abbandono della notte), di J. Thompson Lee. – 16) ITALIA (5): Il ferroviere, di P. Germi; Gli innamorati, di M. Bolognini; Il tetto, di V. De Sica. – 17) IUGOSLAVIA (3): Hanka, di S. Vorkapic. – 18) LUSSEEMBURGO (1). – 19) MESSICO (2): La escondida #, di R. Gavaldón; Talpa (Il voto) * III, di A. B. Crevenna. – 20) NORVEGIA (1). – 21) NUOVA ZELANDA (1). – 22) OLANDA (1). – 23) POLONIA (2): Gien (L’ombra), di J. Kawalerowicz. – 24) ROMANIA (3): Afacerea Protar (L’affare Protar), di H. Boros. – 25) SPAGNA (1): Tarde de toros (Questa sera, corrida) #, di L. Vajda. – 26) STATI UNITI (8): The harde, they fall (Più dura sarà la caduta), di M. Robson; l’ll cry tomorrow (Una donna all’inferno), di D. Mann; The man in a gray flannel suit (L’uomo in completo grigio) * #, di N. di Johnson; The man who knew too much (Uno che conosceva troppe cose) * #, di A. Hitchcock. – 27) SVEZIA (1): Sommarnattens leende (Sorrisi di una notte estiva), di J. Bergman. – 28) UNGHERIA (3): Korhinta (Carosello festivo), di Z. Fabri. – 29) UNIONIE SUD AFRICANA (2). – 30) U.R.S.S. (6): Mati (La madre) #, di M. Donskoi; Othello #, di S. Jutkevic; Pedagoghiceskaia Poema (Poema Pedagogico) #, di A. Mosliukov e M. Maievskaia.

2 A testa matta proporzionato cappello. Alti clamori, sia da parte francese sia da parte straniera, così dal pubblico come dalla critica, hanno accolto il verdetto della giuria assegnante i seguenti premi: Palma d’oro al Mondo del silenzio (Francia); premio speciale della giuria al Mistero di Picasso (Francia); premio della migliore regia a S. Jutkevic, per Othello (U.R.S.S.); premio per l’humour poetico a Sorrisi di una notte d’estate (Svezia); premio per il miglior documento umano a Pather Panchali (India); premio per la migliore interpretazione a S. Hayward nel film Una donna all’inferno (U.S.A.). La giuria non disponeva di un premio per la pornografia, che di diritto competeva allo svedese Sommarnattens leende. Per la storia, essa era composta dai seguenti signori: Arletty (Francia). J. Pierre Frogerais (Francia), H. Jeanson (Francia), M. Lehmann (Francia), D. Meccoli (Italia), O. Preminger (U.S.A.), J. Quinn (Inghilterra). R. Régent (Francia), M. Romero (Cuba), S. Vassiliev (U.R.S.S.), L. De Vilmorin (Francia).

3 Non senza qualche puntata, velata o palese, contro la religione, per esempio nel bulgaro Primo punto all’ordine del giorno, dove si preferisce il matrimonio civile a quello religioso, e nel cortometraggio cecosìovacco La creazione del mondo, irriverente ridicolizzazione del racconto biblico.

4 Si veda per esempio con quale insistente ricchezza di particolari si crogiolino nelle futilità e nei pettegolezzi di Cannes gli inviati di Cronaca italiana (1956, 18, p. 9) e del Paese; il quale ultimo, più attento alle attrici e alle loro beghe che ai film, scantona in giudizi, che a critici avveduti parranno per lo meno originali. La ragazza in nero è da lui giudicato e un film greco da principianti (26-4-56); Pather Panchali, alla stregua dell’Affare Protar, «opera interessante, ma non di rilievo» (27-4-56), mentre il bulgaro Primo punto all’ordine del giorno è detto «per molti versi pregevole» (28-4-56). Va alla pari con questi giudizi quello di G. Biraghi sul Messaggero (8-5-56): «Sorvoliamo con caritatevole discrezione su Pather Panchali, un film indiano tecnicamente assai imperfetto, tutto volto a descriverci con abbondanza di disgustosi particolari la sporcizia di certi villaggi del Bengala».

5 Dopo aver ottimisticamente, nonché retoricamente osservato che a Cannes gli uomini si incontrano per ideali «qui disent non aux frontières et oui l’Art», melanconicamente soggiunge: Il y a cependant un reproche que je voudrais formuler, un reproche général, il n’y a pas de films gais. On ne rit pas assez. Moi, je vends de la joie à longueur de vie. J’aime entendre rire le public. Cela m’est une joie et le spectacle gai n’est pas, loin de là, obligatoirement stupide. Selon une formule classique, il peut également «donner à penser». Réfléchir n’est pas pleurer. J’ai horreur de la tristesse et je suis assez contre le «mélodrame où Margot a pleuré».

6 Per un altro verso un’insopportabile atmosfera di falsità abbiamo respirato durante la proiezione del Mistero di Picasso, in cui l’arte si è fatta spettacolo, il cattivo gusto esibizionismo, e rare le proteste dell’annoiatissimo pubblico, obbligato, dalla presenza di pochi snob finissimi intenditori, ad atteggiarsi a competente e gustatore di figurazioni, apprezzabili sì e no da iniziati. E almeno l’organizzatore H.G. Clouzot ne avesse salvato il valore puramente documentario, evitando i patenti trucchi della ripresa, imposti dallo scopo spettacolare della pellicola!
In contrasto col suo carattere mondano commerciale il Festival ha avuto due iniziative seriamente culturali: la commemorazione di A. Korda, nell’anno della aua morte, e le giornate internazionali del cinema di animazione, dovute all’iniziativa dell’Institut des Hautes Etudes Cinématographiques (I.D.H.E.C.). Il concorso di pubblico ha indicato che non manca, neanche a Cannes, chi nel cinema cerca qualcosa di più dei pettegolezzi e degli scandali mondani.

7 Civ. Catt. 1955, III, 59 ss.; 1956, Il, 493 ss.

8 Ivi, II, 496. Tra quelli che fanno della censura la testa di turco responsabile di tutte le boiate del cinema ci sono i critici marxisti nostrani, specialmente da qualche mese rastrametati nei circoli del cinema, i quali poi, vedi caso, trovano tutti i film d’oltre cortina, dove la censura evidentemente non funziona, o capolavori, o almeno «per molti versi pregevoli»: il tutto in omaggio alla libera cultura!

9 Infatti l’O.C.I.C. ha ritenuto Il ferroviere degno di menzione e Il tetto degno del premio, con questa motivazione:
La Giuria dell’Office Catholique International du Cinéma esprime il suo plauso per i film, con cui alcune nazioni, partecipanti al IX Festival Internazionale di Cannes, hanno rilevato il valore e l’importanza della famiglia come fattore sociale e morale. Per tale ragione la Giuria segnala i seguenti film: Il Ferroviere, di Pietro Germi (Italia); L’uomo dall’abito grigio, di Nunnally Johnson (U.S.A.); Il lamento del sentiero, di Satyajt Ray (India). La Giuria assegna il Premio dell’O.C.I.C. del Festival di Cannes 1956 a: Il Tetto di Vittorio De Sica (Italia). Pascual Cebollada (Spagna), Presidente; Emilio Lonero (Italia); Joz van Liempt (Belgio); Bjiorn Rasmussen (Danimarca); M.me S. Luis (Francia); M. Rowas (Germania); R.P. John A. Burke (Inghilterra); R.P.E. Flipo S.I., Consulente Ecclesiastico.

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Articolo estratto dal volume II del 1956 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Se per riportare un buon voto bastasse ammassare molta roba, la nona edizione del Festival di Cannes avrebbe meritato dieci e la lode, dato che in diciotto giorni, nel Palais du Festival, ci ha ammannito ben trentotto lunghi metraggi ed altrettanti corti metraggi (corti poi per modo di dire, ché buona parte di essi toccava e superava i tre quarti d’ora), e per soprammercato, in altre sale della bella cittadina, ci ha fatto vedere altri venti film fuori concorso; portando ad una trentina abbondante le nazioni in lizza1; un programma pletorico, che ha collaudato la pazienza e la resistenza fisica degli inviati stampa, inchiodati per sei, per otto e per dieci ore di proiezione giornaliere, e li ha spesso messi in necessità di scegliere tra il buio della sala e il sorbirsi dei cocktails, ricevimenti ed altri incontri mondani, che completano, come il formaggio un primo piatto, le fatiche di ogni festival che si rispetti. Ma se, come sembra, per meritare un buon voto, più che la quantità vanno soppesati la qualità della merce e i criteri con cui viene presentata, questo festival non ha raggiunto la sufficienza.

Intanto, per cominciare dai criteri di scelta, se prima di andarvi credevamo di avere, poveri ingenui!, qualche idea chiara sul cinema, lasciando Cannes non distinguevamo più tra procedimento tecnico e opera di fantasia, tra ripresa della realtà a scopo didattico e scientifico e il più grossolano raffazzonamento pubblicitario, tra spettacolo pubblico di sicuro mestiere e prime prove di maldestri dilettanti2. Pare ormai, che per concorrere a Cannes sia sufficiente procurarsi qualche rotolo di pellicola perforata: quello che dica e come lo dica non importa; basterà che un figlio di papà in cerca di svago, o un maneggione in cerca di fortuna, imparino a premere il bottone di avviamento di una macchina da presa puntandola ed armeggiandola all’impazzata, e poi cuciano alla moviola, senza ordine e senza racconto, i loro inconsci elaborati, per acquisire il diritto di infierire sul pubblico proiettandogli le loro «immagini in movimento»; e naturalmente, anche allora, con molta serietà, i competenti di turno, nelle concioni augurali e nei pezzi d’occasione, chiameranno quel fritto misto “Arte” e i soliti critici marxisti, i quali, se intelligenti, sono stati i primi a bollare come artisticamente falliti la più parte dei film di Cannes, appena comandati a difenderli, poniamo, contro i soprusi della censura, non si periteranno di dichiararli sacri e intangibili.

Propaganda e industria

Sta il fatto che, nella confusione delle lingue che ha regnato sulla Costa Azzurra, se una verità è balzata fuori inequivocabile, è proprio questa: che il cinema può essere benissimo un’arte, ed anche una grande arte, ma che, oggi come oggi, è prevalentemente industria, quando non volgare propaganda. Questa seconda nota resta pregio ancora quasi esclusivo della produzione di oltre cortina. Le esigenze del disgelo e la volontà d’inserirsi nei mercati del mondo ancora “non liberato”, dove, neanche a pagarli, i compagni andrebbero a subirsi le loro solite apoteosi di trattori, di stakanovisti, di colcosiani e di rivoluzionari in marcia, hanno consigliato i “liberi” registi bolscevici a rallentare un po’, almeno ad uso esterno, nel ricorrere a quegli argomenti; ma, per quanto facciano, anche nel rifacimento di opere teatrali politicamente neutre (L’affare Protar, Otello, Dalibor) o nei pretenziosi remakes di film girati un quarto di secolo fa (La madre, Poema pedagogico), e soprattutto nei cortometraggi, torna monotona, asfissiante, la retorica magniloquente del comunismo e delle sue benemerenze, dalla lotta di classe alla rivoluzione armata, dal benessere economico alla potenza industriale raggiunta e alla pace difesa, dai consigli di fabbricato alle adunanze oceaniche3, nella dipintura di un mondo dove ormai tutte le cose vanno bene, tanto che per trovarvi qualche mascalzonata bisogna risalire al tempo degli zar...; tutte cose che a noi italiani ricordano le autoesaltazioni del tramontato regime, e ci fanno compiangere i disgraziati, ai quali, impossibilitati a saltare la finestra, tocca ancora, e chissà per quanto tempo, mangiare quella minestra.

Non è meraviglia che al di qua della cortina di ferro non tutti condividano siffatta visione pianificata sul presente e sul passato prossimo dei sovietici, ed ovviamente alcune cinematografie esprimano il loro punto di vista con una strana libertà; ecco allora gli euforici sovietici farsi musorni, ed impermalirsi, e sbandierare l’articolo quinto del regolamento del Festival, il quale dà al Consiglio «il diritto di rifiutare l’ammissione di film giudicati di natura tale da ferire un sentimento nazionale»; ipso facto, Cielo senza stelle, della Germania di Bonn, reo di criticare la spartizione di Berlino, e Il soldato ignoto, della Finlandia, reo di intuitivi misfatti, vengono ritirati. Allora i rossi ritrovano il sorriso e, magnanimamente, «per dimostrare la loro volontà di pace», ritirano dalla competizione il polacco Sotto lo stesso cielo; cortesia per cortesia, la Francia, per non stizzire la Germania, blocca il documentario sui campi di concentramento tedeschi Nuits et brouillards, il che, mettendo nel mazzo il Medico per forza, ritirato dal Marocco, il Combattente hussita ritirato dalla Cecosìovacchia, e La mia vita comincia in Malesia, ritirato dall’Inghilterra per non urtare i giapponesi, porta a sette i film ai quali Cannes ha sbarrato il passo.

Non ci facciamo alcuna illusione: non un’oncia di convinta cortesia internazionale ha guidato siffatti provvedimenti, come non un’oncia di amore all’arte. Al prevalere della propaganda politica da parte dei comunisti risponde da parte degli altri solo il più concreto interesse materiale, e negli organizzatori unicamente il pensiero di non compromettere la riuscita mondana e commerciale del Festival.

* * *

Più che la cifra degli affari – miliardi in poco più di due settimane! – che si conchiudono a Cannes, l’atmosfera mondana e sfoggiatamente festaiola del Festival, a chi sa leggervi oltre le sue più ovvie apparenze, tradisce gli interessi concreti che muovono la grande macchina. Una folla cosmopolita, eterogenea e stramba parecchio vi cala, ansiosa di evadere verso un mondo di sogno, dove l’irreale diventa reale e lecito l’illecito, per gli attori e le attrici, registi e ispidi esistenzialisti che possono entrarvi e vivervi, ed anche un po’ per gli occasionali spettatori, che, sognando ad occhi aperti, vi possano dimenticare il grigiore della loro monotona giornata. Ai componenti di questa folla non interessano tanto i film quanto gli attori; se entrano in sala, è più che altro per cogliere le stille della mondanità che precede e segue le proiezioni, paghi, se non hanno i soldi, di attendere il passaggio degli dèi e delle dee del giorno, pigiati avanti al Palais du Festival, o al Carlton, al Martinez e agli altri lussuosi alberghi della Croisette.

I produttori sanno bene che questi sono i futuri consumatori, a loro volta creatori di altri futuri consumatori, dei loro film, e non badano a mezzi per eccitarne gli appetiti, che li porteranno durante l’anno a ricercare sugli schermi gli idoli che a Cannes hanno potuto intravvedere, di tra la ressa osannante, in carne e ossa. Di qui il battage più fragoroso per lanciare i loro divi e specialmente le loro dive. Viaggi in aereo o in yacht personali, fotografie distribuite senza risparmio, cocktails per mille invitati e tavolate di pranzi lunghe come treni, sperpero di fiori, dieci milioni di franchi a un’attrice sol perché si mostri a Cannes per due o tre giorni, semiorge in panfili ormeggiati in rada...: al novellino non addentro alle segrete cose potranno sembrare, come in gran parte sono, sperperi che gridano vendetta al cospetto degli uomini e di Dio; ma in realtà, a Cannes e altrove, nell’intenzione dei produttori, sono milioni ottimamente impiegati, perché destinati a fruttare miliardi. Con quei mezzi si crea e s’intrattiene nel pubblico l’atmosfera da Mille e una notte intorno al mondo del cinema; con quei mezzi, una volta abbandonata la competizione sul terreno dell’arte e del buongusto, si lancia quella carne da cinema, che il più deteriore divismo moderno reclama e divora a tonnellate. Per vincere la concorrenza in questa merce pregiata tutti i mezzi sono buoni, anche se occorra sfruttare le passioni delle vittime, freddamente soppesate e prescelte intorno a un tavolo di amministrazione: vanità, ambizione, invidia, gelosia, sconforto, disperazione, che in quelle disgraziate creature, pur sempre umane e vive, allignano e furoreggiano. Ci vuole l’acerba fantasia di sbarbati provincialotti o il sentimentalismo di sartine educate alle cretine romanticherie di Grand Hôtel per supporre chissà quali ingenue e fresche passioni nelle loro eroine preferite. La più parte di esse sono pedine di un giuoco altrui, le quali, quando hanno realizzato, pagando forse ignobili pedaggi, una loro fortuna, soffrono tutte le pene del mondo per non restare soffocate dal successo altrui; ché passa presto l’incanto della giovinezza: altri volti vengono a solleticare la fame del pubblico, ristucco di un cibo offerto senza misura e presto vinto da altri esplosivi lanci della pubblicità. Di qui la lotta tra stelle di ieri e stelle di oggi, tra quelle di oggi e quelle di domani, tutte impegnate a far parlare di sé, se in bene o in male non importa, pur di scavalcare le concorrenti.

Cannes è, sotto questo aspetto, un osservatorio di prim’ordine. Vedi torme di fotografi alla caccia di attrici in abbigliamenti esotici e in pose esibizionistiche, e magari sulla spiaggia deserta, dove le poverette, per amore della firma, si espongono lungamente, livide ed accapponate, ai rigori di un clima invernale; senti di patti tra concorrenti e produttori, sì da riservare ore e giorni alle singole attrici, in modo da non turbare la mostra di una con la concorrenza di un’altra: patti che poi, o per imprevisti o per ragion veduta, vengono rotti e causano la stizzosa ritirata di chi teme di non vincere, o il pianto isterico di chi gli applausi e le fotografie fatte ad un’altra dichiarano soccombente. Non c’è stramberia che non sia tentata per attirare su di sé l’attenzione. Una fa il giro della Croisette su un’automobile traballante e antidiluviana; un’altra si esibisce in bicicletta e si diverte a svegliare i vicini di albergo con fragorose grammofonate antelucane; una terza eseguisce un procace fuori programma sulla pubblica via; una quarta dà fuoco alla sua Cadillac novissima; E. G. sfila preceduta da quindici bauli; K. N., che un anno fa era ancora un’oscura impiegata, fa parlare del suo casco atomico; un’attricetta, che da un anno a questa parte vede calare le sue azioni, simulando una rottura imprevista, fa in modo che una torma di reporter la fotografino in una nudità ancora più impudica delle già spudoratissime che sulla spiaggia sono di moda; il comico F., dal canto suo, prima si esibisce prendendo il posto del portiere dell’albergo, poi si fa fotografare nella vasca da bagno... La stampa locale, pimentata di futilità, di scandali e di maldicenze, lancia queste primizie destinate a rimbalzare su tutti i rotocalchi del mondo, insieme con i particolari della piscina a D fotografata nell’abitazione privata della diva D. D., alle foto delle compiacenti attrici che, per lanciarsi, hanno accettato di cenare con l’Aga Kan e, naturalmente, alle nuove combinazioni matrimoniali delle dive, tra le quali se ne contano di quelle che sono al loro terzo o quarto «marito»...

Non è escluso che alcuni di questi scandali siano inventati di sana pianta; ma vengono inventati a bella posta e diffusi per esigenze di commercio, per piazzare l’articolo...

Morale o interesse?

Questi espedienti, su cui vive il cinema e, di riflesso, il festival di Cannes, prendendovi tanto rilievo da fornire quasi tutta la materia ai servizi anche di giornali, che, per l’ideologia cui sono asserviti, parrebbe che non dovrebbero interessarsene gran che, o farlo solo per condannarli4, generano sospetti sulla sua sincerità quando denuncia ingiustizie e aspirazioni della società umana; cosa che quest’anno a Cannes si è verificata con una frequenza tale da allarmare, non senza motivo, dal suo punto di vista, il direttore della manifestazione, M. Lehmann5.

Sotto il cielo di Bahia denuncia l’atroce egoismo di sporchi commercianti, che spingono al suicidio una giovane da loro forzata a concedersi per poter vendere la sua merce e quella del suo paese; Più dura sarà la caduta, a sua volta, denuncia l’egoismo non meno sporco di affaristi, che avviano al macello inesperti pugili dopo averli spellati senza pietà; La ragazza in lutto bolla l’egoismo di giovinastri, che infieriscono sul dolore di una già agiata famiglia schiantata dalla sventura; Abbandono alla notte è un’accorata protesta contro la pena di morte; Se gli uccelli sapessero... insorge contro la guerra atomica e contro l’incubo in cui quella piomba l’umanità prima di distruggerla fisicamente; La sanguisuga denuncia i pericoli morali che una grande città riserva all’inesperienza dei giovani provinciali; Carosello di festa e Il ferroviere lamentano le incomprensioni tra genitori e figli, che o intralciano l’amore tra i giovani o ne intristiscono l’esistenza; Poema pedagogico porta l’attenzione sul problema dell’infanzia abbandonata; Maria Antonietta invoca pietà su una coppia reale, che paga con la ghigliottina colpe troppo grandi per essere tutte sue. Aneliti ad una vita più umana da parte di chi se l’è vista troncata o dalle inumane esigenze della carriera, o dalle tragiche esperienze della guerra, circolano in L’uomo dal completo grigio, mentre nel Tetto vibra l’ansia pudica di due giovani sposi che desiderano solo un nido tranquillo per amarsi. Consigli morali, aperti e gridati, abbondano: «Fratelli, siate solleciti più della vostra unione affettiva che del danaro ereditato da vostro padre!», insegna Eredità morale; «Non spingete alla disperazione un giovane che la guerra può aver traviato, ma piuttosto reinseritelo nella vita civile con la vostra comprensione», consiglia I gabbiani muoiono nel porto, e «Voi, genitori, non cedete alla vostra vanità spingendo le figlie a una vita per cui non son fatte: le rendereste infelici; ma voi, figliole, che la vanità materna e l’egoismo degli uomini ha spinto al vizio e all’abbrutimento, non disperate! Se volete, anche per voi è possibile una redenzione!», predica Una donna all’inferno...

Che il diavolo si sia fatto frate? Sono, questi, argomenti di un festival o di un corso di esercizi spirituali di un quaresimale? Un po’ di pazienza. Attendete la parola «Fine». Quando si riaccendono le luci: guardatevi intorno. Un’occhiata alle persone che vi circondano, ai loro abbigliamenti, alle dive, che due minuti fa vi hanno fatto fremere di umana commozione e che ora, con la loro stessa spavalda e adorata presenza, vi riportano alla realtà in cui esse vivono. A quello che esse sono vanno gli applausi del pubblico e non a quello che hanno detto sullo schermo. L’eroina del film didattico ed edificante non è la tal dei tali, nota per il suo matrimonio avventuroso, per un tentato suicidio e per un recente scandalo amoroso? Il produttore, il regista, il soggettista e il protagonista di quel film coraggiosissimo sulla giustizia sociale, ora applauditi da personaggi in smoking e da dame ingioiellate come basilisse, non sono noti per treni di vita tutt’altro che proletari? Ma sì: essi vi dicono che la commozione era un espediente, la virtù un espediente, l’eroismo un espediente, l’interesse ai guai dell’umanità un espediente; che tutto il cinema qui è un espediente per far quattrini. Che meraviglia che un senso di nausea vi assalga per l’ipocrisia di questa macchina, la quale, forse senza che i suoi meccanici se ne accorgano o senza che vi attribuiscano molta importanza, così com’è combinata, distrugge con cento mani quello che costruisce con una? Non sembra un oste, che attira avventori alla sua bettola organizzandovi conferenze sulla temperanza, o un tenutario, che convoglia clienti alle sue case di vizio, organizzandovi corsi di pudicizia e di etica familiare?6.

Dati per un consuntivo

Anche dalla nona edizione di Cannes, prescindendo a fatica dal suo contorno mondano e dall’eterogeneità delle materie apprestatevi, si possono dedurre elementi per un bilancio di qualità sulla produzione cinematografica mondiale, supponendo che le singole nazioni inviino ai festival quello che giudicano il meglio delle loro produzioni. Orbene, ricalcando quanto dicevamo a proposito dell’edizione precedente e circa i problemi più generali posti dalle nuove tecniche del cinema7, si vede chiaro che in esso perdura fortissimo lo squilibrio tra perfezione di mezzi tecnici e diffusa mediocrità artistica.

Anche quest’anno, infatti, abbiamo assistito a tours de force della tecnica, già monopolio delle grandi produttrici ed ormai fatta di uso corrente in paesi, che dalle vecchie fonti bevono la civiltà meccanica senza tirocini e senza graduali misure: nettezza e preziosità di bianco-neri, panfocus, colori, cinemascope e stereofonia vengono usati non solo dalla Svezia, dagli Stati Uniti, dalla Russia, dall’Inghilterra, dalla Francia e dall’Italia, bensì anche dall’Argentina, dall’Australia, dal Giappone, dal Marocco e dal Messico; ma il loro uso, di regola, mira a meravigliare, a sbalordire, e men che raramente risponde ad esigenze espressive; supplisce alla mancanza d’ispirazione e, come sempre avviene dopo siffatte supplenze, nella migliore delle ipotesi produce capolavori di mestiere, prodigi di tecnica, spettacoli a sorpresa, che scattano con la precisione del millimetro e del secondo; insomma, tipici film di cassetta, che con l’arte hanno poco o nulla da spartire. La cosa è tanto evidente che entro e fuori Cannes, un po’ in tutto il mondo, nonostante l’inflazione di grandioso che in questi ultimi anni imperversa nel cinema, si dà per pacifico che questo sta passando una crisi tutt’altro che prossima alla fine. Le divergenze dei patologi sono nell’individuare le cause del malanno, non della diagnosi, individuandole gli uni nella carenza dei soggetti, gli altri nelle esigenze del pubblico ormai male educato, altri infine, peregrinamente, nella mancanza di libertà dei registi, cui un’illiberale censura tarperebbe le ali, mentre noi, modestamente, l’indicavamo in un’acuta carenza di artisti e di poeti8, trovandoci in ciò, una volta tanto, d’accordo con lo spassoso M. Bessy, per il quale nel cinema, Hélas, les poètes sont morts!

Una riprova della fondatezza di questa nostra opinione la troviamo nel fatto che, se quest’anno a Cannes qualche film è riuscito a distinguersi dalla compatta massa grigia e mediocre, si tratta di film in bianco e nero, alcuni dei quali girati con mezzi tecnici modesti o addirittura insufficienti. Perché non abbiano riscosso i premi loro dovuti è un mistero che potrebbero diradare solo i membri della giuria, alla quale si deve se Cannes ’56 non ha imitato l’esempio di Cannes ’55 e delle due ultime mostre veneziane, le cui giurie hanno laureato, contro concorrenti tecnicamente e spettacolarmente più agguerriti, appunto film in bianco e nero, ma provvisti di un po’ di poesia, quali Fronte del porto, I sette samurai, La strada, Marty e Ordet, seguiti poi, vedi caso, da amplissimo favore di critica e di pubblico in tutto il mondo.

Tanto per esemplificare, questa volta il quasi unanime plauso della critica ha dato l’indiano Pather Panchali come la rivelazione del festival, pur con le sue ingenuità e lungaggini, approssimazioni psicologiche e tecniche, che tradiscono la mano di un esordiente, ma commosso e misurato poeta della natura e dell’anima infantile. Anche l’ungherese Carosello di festa è stato apprezzato per una certa schiettezza di sentimento che riesce a sopraffare, una volta tanto, l’imposta propaganda politica, oltre che per alcune sequenze pregevoli per efficacissimo ritmo; anche il greco La ragazza in lutto, nonostante un eccessivo indugiare su panoramiche, offre pagine pregevoli per l’accorata descrizione di sofferenze umane, rilevate dalla sobria recitazione della protagonista, sullo sfondo di un paesaggio riarso. A queste affermazioni di cinematografie minori si è aggiunta quella del Giappone, che da tempo è tra i più agguerriti concorrenti dei festival, col suo Se gli uccelli sapessero..., efficace, e tuttavia ben dosata descrizione dello sfacelo psichico causato dalla bomba atomica, e quella della selezione italiana, la quale, se non ci fa velo l’amor di patria, sotto quest’aspetto, è stata l’indiscussa vincitrice del Festival.

La parte dell’Italia

Se l’anno scorso, chiudendo il consuntivo di Cannes, ci vedemmo costretti dalla forza delle cose a rinfacciare all’Italia il suo non invidiabile primato di volgarità, con profonda sodisfazione quest’anno ci vediamo autorizzati a tributarle applausi per i suoi tre film, ricchi di temi fondamentalmente morali, e di buoni, ed anche eccellenti, valori formali.

Gli innamorati, di M. Bolognini, non raggiunge le altezze dell’epica o della lirica, è vero, ma, pur nei suoi modesti limiti di bozzetto, se non accusasse qualche concessione al pittoresco di maniera, si potrebbe dire un piccolo capolavoro. Nel breve giro di una piazzetta della vecchia Roma, ragazzi e ragazze, di tra le porte delle bottegucce e delle officine, e dalle finestre fuori simmetria che si aprono sui muri patinati dal tempo, si chiamano e si parlano: scherzano, leticano, si rappacificano, vanno e tornano sulle loro rombanti motociclette; e un bel giorno, dai loro incontri spensierati vedono nascere, ed è già gigante quando se ne accorgono, qualche cosa di serio. Nel fermento degli affetti incipienti non tutto veramente va pulito come dovrebbe; ma un’onestà di fondo, salda e robusta malgrado tutto, evita il peggio e riporta giovani e non più giovani nell’alveo degli affetti sani e nel terreno solido della famiglia pulita e tradizionale. E questo è raccontato senza prediche e pedanterie moralistiche, anzi con una genuina vena di gustoso umorismo, con notazioni tanto vere e vive di ambiente umano che si direbbero da documentario, e insieme con fresco affetto per i simpatici personaggi.

Più complessa è la tematica del Ferroviere. Pietro Germi, insieme regista e protagonista, vi descrive un anno di vita di un conducente, l’ultimo, che si chiude con la morte, dopo che, da quanto ha veduto avvenire intorno a sé, egli è indotto a compiere, e non tutto in attivo, un bilancio morale della sua vita. Il minore dei suoi figli, è vero, l’adora come un nume, lui che ha tanti filetti d’argento sul cappello e che scende glorioso come un capitano di vascello dall’elettrotreno che ha condotto da Firenze a Roma; ma i figli maggiori o se ne tengono a fredda distanza, rimproverandogli il suo scarso interesse ai loro problemi, o gli si ribellano, facendogli colpa del fallimento della loro vita e di quella della madre. La moglie, da parte sua, continua a volergli bene, ma a patto di chiudere gli occhi sulle sue croniche debolezze, che lo portano a bere e a giocare con gli amici con più assiduità di quanta non ne mostri nel guidare la famiglia. Ma un giorno, nella vita del ferroviere succede un imprevisto che lo scuote e gli apre gli occhi sul troppo che egli, col suo chiuso egoismo, ha chiesto, senza contropartita, ai suoi amici e ai suoi cari; allora la bontà di quanti lo circondano lo tocca e l’avvia verso una vita meno scarsa di comprensione umana; però troppo tardi, perché ciò serve solo ad illuminare di mesta calma il suo tranquillo tramonto.

Temiamo che, sottoposto a serrata analisi, il film non riuscirebbe a nascondere alcune incrinature, che a prima vista possono passare inosservate, quali un frazionamento di temi non sempre confluenti, un insistere su facili effetti di commozione, l’artificio di alcuni particolari e di alcuni raccordi nella sceneggiatura e il finale non del tutto convincente. Tuttavia, non possiamo non ammirarvi la saldezza fondamentale del racconto, la felice impostazione dei caratteri nella costruzione e nell’analisi di una famiglia di una verità perfetta, i casi dei componenti della quale si inseriscono con perfetto contrappunto gli uni negli altri, conferendo alle vicende serene e drammatiche che ne risultano un’attendibilità psicologica sempre nuova e pure sempre credibile, e una dosatura di effetti ammirevole. A questi pregi si aggiungono quelli di una buona recitazione da parte dello stesso Germi, del piccolo Edoardo Nevola, di Sylvia e, soprattutto, di Luisa della Noce, nella parte della moglie affettuosa e accorata, ma comprensiva e paziente.

Il caldo successo del Ferroviere, applaudito a scena aperta tanto da far sospettare a qualche troppo corrivo critico francese la presenza in sala di una claque italiana, è stato superato dal Tetto. Se il richiamo del duo De Sica-Zavattini spiegava l’attesa piena di speranza del pubblico, il modo con cui De Sica ha portato avanti il racconto, non solo senz’ombra di rettorica e di effettacci, ma nudo e scarnito, si direbbe addirittura povero e negletto, pareva fatto apposta per deluderlo. Invece il pubblico ha resistito, si è commosso, ha accettato ed ha applaudito. Perché? Non per gli interpreti, presi dalla strada e privi di speciali doti di richiamo; non per il dialogato, di nessun rilievo letterario e, per giunta, in gran parte dialettale; non per particolari preziosità di fotografia o di scenografia, ridotta a pochi comunissimi interni e ad esterni del tutto ordinari, in gran parte notturni; non per la tenue vicenda, che porta due sposini a cercare, ma invano, un’abitazione, ed a costruirsene in fretta e furia una abusiva in una nottata, eludendo di misura la vigilanza della polizia: una trama senza colpi di scena, senza fughe, morti, ritrovamenti: insomma, si direbbe, senza mordente... Ebbene, diciamolo: perché l’esile orditura del racconto è sostenuta da una comprensione tutta umana per i due protagonisti, da una commossa partecipazione alla loro giovinezza tormentata e al loro amore indifeso; perché la linea del racconto si svolge unitaria, coerente, drammatica, ma affetti e passioni vi sono espressi in sordina, come avviene nel mondo appartato di gente semplice, un po’ timida, eppure non meno sensibile e sofferente nelle strettezze della vita, come non meno abbandonata alle sue gioie più semplici; una realtà umana in cui ritroviamo quel che c’è di più genuino nelle nostre speranze e nei nostri dolori, accarezzati, temuti e sofferti non tanto per quello che hanno di vasto e di universale, quanto per quello che per noi portano di più intimo e profondo.

Se analizziamo queste esigenze e questi sentimenti, e i mezzi stilistici con cui il regista li esprime, ci accorgiamo che sono gli stessi, i quali, in misura più o meno vicina, abbiamo avvertiti nel Ferroviere, negli Innamorati, ed anche, sia pure con minore efficacia di vocabolario, nei film da noi segnalati come rari casi di poesia nelle steppe di questo e degli ultimi festival; anzi, risalendone il filone verso le origini, ci troviamo orientati verso quei film che nell’immediato dopo guerra diedero un nome al cinema italiano nel mondo, e più che un nome, gli riconobbero una missione contro tutti i convenzionalismi della rettorica letteraria e politica imperante, e tutti i compromessi della spettacolarità, del divismo e della pornografia; missione che il cosiddetto neorealismo italiano ha fruttuosamente svolto, se a lui, a ragione o a torto, oggi si fanno risalire la più parte di opere poetiche prodotte dal cinema in questo decennio nel mondo, e che oggi Il tetto svolge tanto efficacemente, che crediamo non sarà facile per un pezzo superarlo, tanto esso è ridotto alla più scarna sostanza.

* * *

La compiacenza con la quale quest’anno noi cattolici tributiamo ai film italiani le lodi che si meritano è motivata, oltre che dai loro pregi artistici, anche da quelli morali e sociali che contengono, tanto da fornirci un’arma per controbattere ai luoghi comuni di critici, specialmente marxisti, i quali da un pezzo ci incolpano, in un unico fascio con la censura, come persecutori ed affossatori del neorealismo italiano, reo di denunciare i problemi più scottanti della nostra triste realtà politica e sociale. A costoro, infatti, i tre film ci danno il destro di rispondere: 1) che non è la denuncia degli stracci, anche se sporchi, che ci dispiace, come è stato fatto nel Tetto, ma la denuncia dei soli stracci, come se in Italia ci fosse solo miseria, e non anche larghe zone di popolazione che vivono in una discreta agiatezza, come quella del Ferroviere e Gli innamorati, e addirittura nell’abbondanza, senza per questo appartenere all’orda degli orchi capitalisti; 2) che se, come più volte ha precisato Zavattini, per noi cristiani un solo caso di miseria esistente dovrebbe giustificare e comandare la denuncia, rispondiamo che, a parte i modi e le forme con cui farla, ci troviamo d’accordo con lui, non senza chiedergli però perché mai i film dei paesi d’oltre cortina non osservino la stessa regola; né ci rispondano i marxisti «perché in quei paesi la miseria non c’è più», perché noi, che non abbiamo mai bevuto il mito di Stalin, non beviamo neanche questo, tanto più che, restando per il momento al solo caso del Tetto, potremmo esporre una documentazione di fatti, per denunciare i quali sullo schermo non basterebbero tutti i registi marxisti passati, presenti e futuri; 3) che qualora denunce si debbano fare, queste servano a sciogliere i problemi solubili, favorendo la mutua umana comprensione, o, se vogliamo essere più precisi, la carità cristiana, come appunto avviene nel Tetto, e non l’odio e la lotta. Film di questo genere, allora, neorealisti o non neorealisti essi siano, non solo non li avversiamo, ma li applaudiamo e li premiamo9, riconoscendo ad essi, se non proprio tutti, almeno molti dei pregi culturali, umani e soprannaturali che nei suoi recenti discorsi Pio XII ha auspicato presenti nel film ideale.

Verso Venezia

Lasciando un festival che ha visto prevalere, più che mai altre volte, la quantità sulla qualità, il nostro pensiero si rivolgeva a Venezia, chiamata quest’anno a restituire alla qualità il prestigio che le conviene. Sappiamo che la produzione è quella che è, conosciamo le more della legge in Italia e il ritardo con cui l’organizzazione di Venezia si è messa in moto, e che, dunque, le difficoltà da superare non saranno poche; ma sappiamo pure che un insuccesso farebbe il giuoco dei marxisti nostrani, i quali già hanno denunciato come uno scandalo insopportabile la presenza di un cattolico militante alla sua direzione e la non presenza di marxisti tesserati nella sua commissione di scelta; ragioni di più per augurarci che, accentuate le differenze e i compiti, resti al Festival di Cannes il carattere economico e di lancio commerciale dei film, dato che l’industria cinematografica anche di questo ha bisogno, e resti alla Mostra Veneziana quello dell’arte e della cultura, sicché il parteciparvi, senz’altra distinzione di premi, costituisca già di per sé un titolo di merito.

In un mondo soffocato dall’interesse, respireremo, finalmente, una boccata di aria buona.

1 Come al solito, diamo, disposto in ordine alfabetico di nazione, l’elenco dei lunghi metraggi in concorso. Quelli in formati maggiori del normale sono seguiti da un asterisco; quelli in colore, dal segno #; i numeri in parentesi indicano quanti film ha presentato ogni nazione, compresi i cortometraggi: 1) ARGENTINA (1): El ultimo perro (L’ultimo cane) #, di L. Demare. – 2) AUSTRALIA (1): Walk into Paradise (L’odissea del dottor Steve) #, di L. Robinson e Pagliero. – 3) AUSTRIA (2): Mozart #, di K. Hartl. – 4) BELGIO (3): Meeuwen sterven in de Haven (I gabbiani muoiono nel porto), di R. Kuypers. – 5) BRASILE (1): Sob o ceu da Bahia (Sotto il cielo di Bahia) #, di E. Remani. – 6) BULGARIA (2): Totcha parva ot dnevnia red (Primo punto all’ordine del giorno) #, di B. Danowski. – 7) CANADÀ (1). – 8) CECOSLOVACCHIA (3): Dalibor #, di V. Krska. – 9) DANIMARCA (1). – 10) EGITTO (1): Chabab Emraa (La sanguisuga), di S. Abou Seif. – 1) FRANCIA (5): Marie Antoinette #, di J. Delannoy; Le monde du silence #, di J.-Y. Cousteau: Le mystère Picasso * #, di H. G. Clouzot. – 12) GIAPPONE (5): Ikimono no kiroku (Se gli uccelli lo sapessero), di A. Kurosava; Mabo Toshi no uma (Il cavallo fantasma) #, di K. Shima; Seido no kirisuto (Il Cristo di bronzo), di M. Shibuya. – 13) GRECIA (1): To Koritsi me ta mavra (La ragazza in lutto), di M. Cacoyannis. – 14) INDIA (4): Pather Panchali, di S. Ray; Shevgyacya Shenga (L’eredità morale), di J. Row Kavri Sadashiv. – 15) INGHILTERRA (5): The man who never was (L’uomo che non è mai esistito) * #, di R. Neame; Seven years in the Tibet (Sette anni nel Tibet) #, di H. Nieter; Yield to the night (L’abbandono della notte), di J. Thompson Lee. – 16) ITALIA (5): Il ferroviere, di P. Germi; Gli innamorati, di M. Bolognini; Il tetto, di V. De Sica. – 17) IUGOSLAVIA (3): Hanka, di S. Vorkapic. – 18) LUSSEEMBURGO (1). – 19) MESSICO (2): La escondida #, di R. Gavaldón; Talpa (Il voto) * III, di A. B. Crevenna. – 20) NORVEGIA (1). – 21) NUOVA ZELANDA (1). – 22) OLANDA (1). – 23) POLONIA (2): Gien (L’ombra), di J. Kawalerowicz. – 24) ROMANIA (3): Afacerea Protar (L’affare Protar), di H. Boros. – 25) SPAGNA (1): Tarde de toros (Questa sera, corrida) #, di L. Vajda. – 26) STATI UNITI (8): The harde, they fall (Più dura sarà la caduta), di M. Robson; l’ll cry tomorrow (Una donna all’inferno), di D. Mann; The man in a gray flannel suit (L’uomo in completo grigio) * #, di N. di Johnson; The man who knew too much (Uno che conosceva troppe cose) * #, di A. Hitchcock. – 27) SVEZIA (1): Sommarnattens leende (Sorrisi di una notte estiva), di J. Bergman. – 28) UNGHERIA (3): Korhinta (Carosello festivo), di Z. Fabri. – 29) UNIONIE SUD AFRICANA (2). – 30) U.R.S.S. (6): Mati (La madre) #, di M. Donskoi; Othello #, di S. Jutkevic; Pedagoghiceskaia Poema (Poema Pedagogico) #, di A. Mosliukov e M. Maievskaia.

2 A testa matta proporzionato cappello. Alti clamori, sia da parte francese sia da parte straniera, così dal pubblico come dalla critica, hanno accolto il verdetto della giuria assegnante i seguenti premi: Palma d’oro al Mondo del silenzio (Francia); premio speciale della giuria al Mistero di Picasso (Francia); premio della migliore regia a S. Jutkevic, per Othello (U.R.S.S.); premio per l’humour poetico a Sorrisi di una notte d’estate (Svezia); premio per il miglior documento umano a Pather Panchali (India); premio per la migliore interpretazione a S. Hayward nel film Una donna all’inferno (U.S.A.). La giuria non disponeva di un premio per la pornografia, che di diritto competeva allo svedese Sommarnattens leende. Per la storia, essa era composta dai seguenti signori: Arletty (Francia). J. Pierre Frogerais (Francia), H. Jeanson (Francia), M. Lehmann (Francia), D. Meccoli (Italia), O. Preminger (U.S.A.), J. Quinn (Inghilterra). R. Régent (Francia), M. Romero (Cuba), S. Vassiliev (U.R.S.S.), L. De Vilmorin (Francia).

3 Non senza qualche puntata, velata o palese, contro la religione, per esempio nel bulgaro Primo punto all’ordine del giorno, dove si preferisce il matrimonio civile a quello religioso, e nel cortometraggio cecosìovacco La creazione del mondo, irriverente ridicolizzazione del racconto biblico.

4 Si veda per esempio con quale insistente ricchezza di particolari si crogiolino nelle futilità e nei pettegolezzi di Cannes gli inviati di Cronaca italiana (1956, 18, p. 9) e del Paese; il quale ultimo, più attento alle attrici e alle loro beghe che ai film, scantona in giudizi, che a critici avveduti parranno per lo meno originali. La ragazza in nero è da lui giudicato e un film greco da principianti (26-4-56); Pather Panchali, alla stregua dell’Affare Protar, «opera interessante, ma non di rilievo» (27-4-56), mentre il bulgaro Primo punto all’ordine del giorno è detto «per molti versi pregevole» (28-4-56). Va alla pari con questi giudizi quello di G. Biraghi sul Messaggero (8-5-56): «Sorvoliamo con caritatevole discrezione su Pather Panchali, un film indiano tecnicamente assai imperfetto, tutto volto a descriverci con abbondanza di disgustosi particolari la sporcizia di certi villaggi del Bengala».

5 Dopo aver ottimisticamente, nonché retoricamente osservato che a Cannes gli uomini si incontrano per ideali «qui disent non aux frontières et oui l’Art», melanconicamente soggiunge: Il y a cependant un reproche que je voudrais formuler, un reproche général, il n’y a pas de films gais. On ne rit pas assez. Moi, je vends de la joie à longueur de vie. J’aime entendre rire le public. Cela m’est une joie et le spectacle gai n’est pas, loin de là, obligatoirement stupide. Selon une formule classique, il peut également «donner à penser». Réfléchir n’est pas pleurer. J’ai horreur de la tristesse et je suis assez contre le «mélodrame où Margot a pleuré».

6 Per un altro verso un’insopportabile atmosfera di falsità abbiamo respirato durante la proiezione del Mistero di Picasso, in cui l’arte si è fatta spettacolo, il cattivo gusto esibizionismo, e rare le proteste dell’annoiatissimo pubblico, obbligato, dalla presenza di pochi snob finissimi intenditori, ad atteggiarsi a competente e gustatore di figurazioni, apprezzabili sì e no da iniziati. E almeno l’organizzatore H.G. Clouzot ne avesse salvato il valore puramente documentario, evitando i patenti trucchi della ripresa, imposti dallo scopo spettacolare della pellicola!
In contrasto col suo carattere mondano commerciale il Festival ha avuto due iniziative seriamente culturali: la commemorazione di A. Korda, nell’anno della aua morte, e le giornate internazionali del cinema di animazione, dovute all’iniziativa dell’Institut des Hautes Etudes Cinématographiques (I.D.H.E.C.). Il concorso di pubblico ha indicato che non manca, neanche a Cannes, chi nel cinema cerca qualcosa di più dei pettegolezzi e degli scandali mondani.

7 Civ. Catt. 1955, III, 59 ss.; 1956, Il, 493 ss.

8 Ivi, II, 496. Tra quelli che fanno della censura la testa di turco responsabile di tutte le boiate del cinema ci sono i critici marxisti nostrani, specialmente da qualche mese rastrametati nei circoli del cinema, i quali poi, vedi caso, trovano tutti i film d’oltre cortina, dove la censura evidentemente non funziona, o capolavori, o almeno «per molti versi pregevoli»: il tutto in omaggio alla libera cultura!

9 Infatti l’O.C.I.C. ha ritenuto Il ferroviere degno di menzione e Il tetto degno del premio, con questa motivazione:
La Giuria dell’Office Catholique International du Cinéma esprime il suo plauso per i film, con cui alcune nazioni, partecipanti al IX Festival Internazionale di Cannes, hanno rilevato il valore e l’importanza della famiglia come fattore sociale e morale. Per tale ragione la Giuria segnala i seguenti film: Il Ferroviere, di Pietro Germi (Italia); L’uomo dall’abito grigio, di Nunnally Johnson (U.S.A.); Il lamento del sentiero, di Satyajt Ray (India). La Giuria assegna il Premio dell’O.C.I.C. del Festival di Cannes 1956 a: Il Tetto di Vittorio De Sica (Italia). Pascual Cebollada (Spagna), Presidente; Emilio Lonero (Italia); Joz van Liempt (Belgio); Bjiorn Rasmussen (Danimarca); M.me S. Luis (Francia); M. Rowas (Germania); R.P. John A. Burke (Inghilterra); R.P.E. Flipo S.I., Consulente Ecclesiastico.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151