NOTE
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1 Quali Vienna e Valladolid per il film religioso, Vichy per il disegno animato e Mannheim per il film industriale, Bergamo per il film d’arte, Padova per quello scientifico, Vicenza per quello didattico, Stresa per quello turistico, Trento per quello della montagna, Trieste per quello di fantascienza, Bordighera per quello comico, Sestri Levante per quello latino-americano, Ancona per quello della pesca, Salerno per il passo ridotto, Palermo per quello dei bambini, Lipari per quello dello sport subacqueo...: e ce ne sfuggono ancora parecchie decine!

2 L’augurio c’è, ma le speranze sono scarse, perché, nonostante il logoramento della formula, quelli che dai festival cinematografici si aspettano non si sa quali richiami turistici sono legione. Basti rilevare che la FIAPF (Fédération Internationale Associations Producteurs Film) nel 1963 ha ricevuto ben 83 domande di festival. Per parte sua, un rotocalco cinematografico romano, frivolo e fazioso, ma, in genere, bene informato (ottobre 1963, p. 9), ne enumera, di già organizzati nel mondo, più di cento!

3 Quest’anno le attività di seria cultura al Lido sono consistite nella presenza di tre intellettuali marxisti: Antonello Trombadori, prof. Galvano della Volpe e prof. G.C. Argan, ed in un disastroso recital dell’ottimo, ma fuori posto, Jean Vilar.

4 È noto, infatti, come nel 1922, il governo sovietico, non contento della massiccia propaganda che il partito conduceva col giornale stampato Pravda, pensò di rafforzarla con un giornale cinematografico, che, ovviamente, denominò Kino-Pravda. Ora lo storico cinematografico marxista G. Sadoul, invece di tradurre questo termine Kino-Pravda in quello comune di cinegiornale, lo tradusse in quello programmatico di cine-verità (pravda, in russo, significa verità); non solo, ma poi teorizzò su questo termine programmatico, rapportandolo alla teoria del Kino-glass, di Dziga Vertov (pseudonimo di Denis Kaufman, il cineasta appunto che negli anni 1923-’25 girò o «montò» ventitré cinegiornali comméssigli), secondo la quale, le virtù miracolistiche dell’obbiettivo cinematografico (Glass) valevano molto di più che non tutte le riprese predisposte e teatrali, alle quali normalmente il cinema ricorre (cfr G. SADOUL, Da Dziga Vertov a Jean Rouch: “cinema verità” e “camera occhio”, in V. SPINAZZOLA: Film 1963, Milano 1963, pp. 112-143).
Orbene, nel 1959, J. Rouch ed E. Morin, seguendo l’accezione del Sadoul, lanciavano “un nuovo cinema-verità”; di poi si illusero di continuare, con il loro interessante Chronique d’une été, non solo le orme di Dziga Vertov, bensì anche quelle di Flaherty. Ora, a parte la mobilità della macchina, portata in mezzo alla realtà tanto dal russo quanto – ma non sempre! – dai cineasti del cinéma-vérité, chi non sa che per il Vertov la realtà ripresa era semplice materiale grezzo, destinato ad assumere un significato soltanto in virtù del montaggio, eseguito in funzione dell’unica «verità» rivoluzionaria: la bolscevica? E quando mai il Vertov si è preoccupato, come invece hanno fatto il Rouch ed il Morin, non solo di rivelare un contesto di verità umano-sociale agli spettatori, bensì anche di rivelare a se stessi, come in uno specchio, i fotografati? In quanto poi al Flaherty – che, tra parentesi, alla macchina mobile poco ricorreva – il parallelo è del tutto da orecchianti, nulla avendo che fare la «verità» naturale, che egli trasfigura in lirica poeticità, con la intellettualistica e fredda «verità sociale» sorpresa dai nuovi venuti. Oltre tutto, poi, quello di Flaherty – e un po’ meno quello di Vertov – era cinema al cento per cento, mentre troppo del molto che ce ne è stato mostrato a Cannes, e specialmente a Venezia, è poco o nulla cinema: con inquadrature che durano, immobili, interi quarti d’ora, e con il grosso dei significati – non diciamo dell’espressione – affidato alle intemperanze verbali dei personaggi, volenterosi portatori di tesi.

5 Francamente, inchiesta per inchiesta e «verità» per «verità», pur sempre nei limiti di un modesto servizio televisivo, il canadese Pour la suite du monde, presentato a Cannes ed a Venezia da tre quasi esordienti, la vince senza paragone sul film di Zavattini, nonostante, ed anzi forse proprio per la modestia dell’assunto, per la mancanza di imperate denunce sociali e per la simpatia umana a cui s’ispira. (Per il volume sul film di Zavattini, cfr Civ. Catt. 1963, III, 368-369).

6 Si va facendo sempre più ovvia e normale, sullo schermo, la casistica circa i delitti contro la maternità. A parte quanto abbiamo rilevato su I misteri di Roma, l’uccisione del feto nel seno materno viene progettata in La belle vie, di R. Enrico, e In capo al mondo, di T. Brass; viene prima progettata e poi rifiutata in Storie sulla sabbia, di R. Fellini, e in The shaped Room, di B. Forbes; viene attuata in Una storia milanese, di E. Visconti, e in Greenwich Village Story, di J. O’ Connel.

7 Basti ricordare l’ultima ondata di malcostume rappresentata dai film: Mondo di notte, Europa di notte, Tokio di notte, America di notte, Sexy al neon, Ragazze per l’Oriente, Mondo di notte n. 2, Mondo caldo di notte, Le dolci notti, Sexy, Mondo sexy di notte, Notti calde d’Oriente, Universo di notte, Notti e donne, I piaceri del mondo, 90 notti in giro per mondo, Totò di notte n. 1, Sexy proibito, Paradiso dell’uomo, Notti nude, Amore pagano, Parigi nuda, Sexy nudo, Supersexy ’64, Sexy che scotta, Sexy proibitissimo, Italian sexy show,... E la serie continua di male in peggio; infatti si annunciano, tra gli altri, i seguenti titoli: Antologia sessuale, Sexy come Satana, Scandali... nudi!

8 A questo proposito, si legga, si mediti e si ponderi il gravissimo bilancio Un anno di censura cinematografica steso da S.E. G.G. LOSCHIAVO, nella Rassegna di diritto cinematografico (1963, n. 4, pp. 120 ss.).
A legge censoria approvata, scrivendone in questa sede (Civ. Catt. 1962, II, 305), fummo tanto ingenui da porre le nostre speranze sul Regolamento della stessa; ebbene: ad un anno e mezzo di distanza, di regolamento ancora non si parla. Quindi ci augurammo «che la pubblica Amministrazione sapesse trarre dal lavoro del legislatore, quale esso sia, tutto il vantaggio morale possibile, perché, in definitiva, una legge imperfetta, ma bene applicata, è da preferirsi ad una legge, se fosse possibile, perfetta, e non o male applicata»; orbene: ad un anno e mezzo di distanza, fermo restando che la legge era tutt’altro che perfetta, dobbiamo lamentare che non poteva essere applicata peggio. Se continuerà così, dovrà dirsi soltanto una beffa al senso morale, un servizio dello Stato a speculatori della peggior specie, ed un superbo contributo del partito che è al potere alle ideologie marxiste e laiciste, di cui laicisti e marxisti non potranno mai essergli sufficientemente grati.

9 Cfr E. BARAGLI, Cinema cattolico, Roma 1959, n. 439.

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Articolo estratto dal volume IV del 1963 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Dato il progressivo ridursi di ogni differenza tra festival e mostre cinematografiche, ed i diminuiti interessi mondano-turistici ed artistico-culturali di siffatte manifestazioni, per quest’anno non abbiamo consacrato a ciascuna di esse una relazione particolare, per conglobarle in questa panoramica che, speriamo, risulterà sufficientemente indicativa della situazione odierna del cinema. Venezia, infatti, presentandosi, rispetto a tutte le altre, col prestigio dell’anzianità e con la qualifica di «Mostra d’arte», si presume che programmi il meglio, o il meno peggio, che l’annata offra rispetto a valori formali e ad innovazioni espressive; Cannes, che per età e prestigio le viene subito dopo, offre il vantaggio di aprire ogni anno la serie dei festival, quindi, presumibilmente, raccoglie e presenta quanto di più interessante l’annata offra sotto l’aspetto spettacolare-commerciale; infine, San Sebastian, di serie “B”, si colloca dignitosamente tra le due massime manifestazioni di serie “A”, nel rappresentare certa produzione spettacolare media.

Anche quantitativamente le tre manifestazioni insieme offrono angoli sufficientemente ampi di panoramiche indicative dell’annata. Il XVI festival di Cannes, durato 14 giorni (9-22 maggio), ha programmato 26 lungometraggi e 25 cortometraggi, di 29 nazioni; nell’XI festival di San Sebastian, durato 10 giorni (7-16 giugno), i lungometraggi programmati sono stati 19 ed i cortometraggi 22, di 17 nazioni; Venezia, durata 14 giorni (24 agosto - 7 settembre), tra opere prime (9), film in concorso (19) e fuori concorso (4), ha presentato 32 film, di 11 nazioni. Sommando, abbiamo 38 giorni di spettacolo per – detratti i duplicati – ben 75 lungometraggi e 47 cortometraggi, di 33 nazioni.

L’usura di una formula

La prima impressione generale che si riporta da questa lunga corvée è che, per il cinema, il tempo delle vacche grasse è terminato. Ancora qualche anno fa, delegazioni e rappresentanze si accaparravano gli stands e li allestivano non badando a spese; distribuivano generosamente dépliants, foto, qualche volta anche volumi e dischi, ed altro materiale reclamistico; diramavano inviti a cocktails ed a colazioni a centinaia di critici; convocavano dive, divi e registi a decine. Invece, ormai, produttori e distributori hanno stretto le borse. Gli stands sono scarsi, ed allestiti in economia; ottenervi materiale informativo, spesso minimo e scadente, agli stessi critici professionisti non è sempre facile; i rari cocktails ed inviti vengono riservati a clienti invidiati, mentre i personaggi di richiamo sono rari e modesti. Di conseguenza, la stessa mondanità, che in edizioni ancora non remote costituiva, almeno per i perdigiorno locali e per il grosso pubblico dei giornali e dei rotocalchi, la caratteristica di maggior richiamo, si è notevolmente ridotta. E non ci riferiamo soltanto a Venezia, che quest’anno ha rivestito lo squallore di un pre-convegno di politicanti, od a San Sebastian, cui ragioni di costumatezza e di borsa dissuadono dal folleggiare, bensì anche a Cannes, che, nonostante l’incanto naturale del luogo, si trascina accidiosa e floscia, a mo’ delle sfiorite straniere che invano chiedono al sole della Croisette i colori di una giovinezza tramontata.

Del resto, non si tratta soltanto di impressione, bensì della manifestazione di una grave crisi del cinema, documentata, come gli operatori economici ben sanno, dal linguaggio persuasivo delle cifre. Da vari anni, infatti, si va producendo una grave emorragia di spettatori in pressoché tutti i mercati del mondo; un’emorragia il cui arresto, almeno per il momento, è molto problematico, stante il simultaneo operare di tre fattori concorrenziali che la determinano, vale a dire: la televisione, quale spettacolo a domicilio e praticamente gratuito, il diffondersi del benessere economico, che devia verso altri svaghi anche le classi meno abbienti, e lo sviluppo della motorizzazione specialmente popolare. Che se, nel frattempo, gli incassi in generale non sono diminuiti proporzionalmente col ridursi degli spettatori, anzi, per lo più, sono restati stazionari e, qua e là, anche aumentati, occorre rilevare che si tratta di danaro svilito, ed incassato portando i prezzi dei biglietti ormai al limite di rottura, oltre il quale, lungi dal risolversi la crisi del cinema, si avvantaggeranno soltanto i tre fattori concorrenziali che la causano; e ciò mentre i costi del film medio vanno aumentando vertiginosamente, ed astronomicamente quelli dei film colossali, con tutti i rischi che noti recenti dissesti finanziari di imprese già ritenute saldissime vanno ogni giorno denunciando.

Ma l’impressione deludente dipende anche dal logoramento subìto da questo genere di manifestazioni e dal loro assurdo moltiplicarsi. Ancora ancora potevano andare in tempi di cinema politicamente controllato, funzionando un po’ come porti franchi; oppure agendo come potenti richiami turistici quanto una serie di film in anteprima costituiva un avvenimento; od, ancora, quando, essendo soltanto due o tre, queste manifestazioni, scremando tutto il meglio della produzione annuale mondiale, potevano mettere insieme dei programmi abbastanza sostanziosi; ma, ormai, almeno nella maggior parte dei paesi non comunisti, i mercati cinematografici sono politicamente aperti, ed i film programmati nei festival, appena qualche giorno dopo, se non già settimane prima, è possibile vederseli nei circuiti ordinari; mentre, intanto, a Venezia ed a Cannes hanno fatto séguito Berlino e Bruxelles, Edimburgo, Cork, San Sebastian e Locarno, Karlovy Vary, Mosca e San Francisco..., seguìti a loro volta, da dozzine di festival minori e specializzati1.

Col bel risultato che, la torta cinematografica ogni anno restando quella che è, i troppi che pretendono spartirsela non possono metter su che programmi mediocri, abbondando in quantità ma non in qualità, magari riprendendo l’uno i film già programmati dall’altro, giocando con la comoda distinzione tra film in concorso e film non in concorso. Perciò è pressoché unanime tra i critici cinematografici l’augurio che si addivenga quanto prima alla più drastica riduzione di queste fiere della vanità, rivedendosene i criteri: o di periodicità e di territorialità (festival triennali? festival alternati? Olimpiadi del cinema?), o di specializzazione2.

Anche noi sollecitiamo questo urgente provvedimento, dal quale anche arte e cultura avranno molto da guadagnare e nulla da perdere.

Bilancio di valori

Se, dall’aspetto esteriore dei tre festival, passiamo a giudicarne la sostanza, vale a dire i settantacinque film, per valutare da essi i livelli artistico-culturale ed eticermorale della produzione mondiale, i motivi di giubilo non crescono davvero.

Cominciando, infatti, dai valori artistici, rileviamo, intanto, la mancanza di veri capolavori. Gli stessi quattro film che posseno passare per i migliori – vale a dire: il tragico Seppuku, del giapponese M. Kobayashi, lo storico-elegiaco Il Gattopardo, di L. Visconti, l’allucinato , di Fellini, ed il rigoroso Le feu follet, del francese L. Malle – ricchi quanto si vuole di valori formali, nei loro compiacimenti ora decadenti e barocchi ed ora accademici, restano molto lontani dalla perfezione delle opere compiute. Si obietterà che, come nelle altre arti, anche nel cinema folgorazioni geniali non si producono in tutte le stagioni. È vero. Ma, se non proprio capolavori, da un arte che produce più di 2.500 film l’anno, in stagioni non avverse all’arte, una cinquantina, diciamo, di opere di pregevole livello si potrebbero attendere; ed ecco, invece, che, tra Cannes, San Sebastian e Venezia, a non più di due dozzine assommano i film o di qualche livello artistico – come Il mafioso, di A. Lattuada, This Sporting Life, dell’inglese R. Karel, Ningen, del giapponese K. Shindo –, o, almeno, di buon mestiere posto al servizio di un certo buon gusto – come l’americano Hud, di M. Ritt, Au coeur de la vie, del francese R. Enrico, Az Prije Kocour, del cecoslovacco V. Jasny (per tacere del terrificante e ironico, ma in fondo, inutile The Birds, dell’incorreggibile A. Hitchcock).

Ed il resto? Tutti film che non superano il livello della produzione commerciale corrente, quando non incrementano quella più volgare e grottesca in quantità sufficiente per un ennesimo, questo, sì, originale «festival degli orrori»: dove il frenetico e sacrilego El otro Cristóbal, girato a Cuba dal francese G. Gatti, ed il caotico e presuntuoso I misteri di Roma, di C. Zavattini, si contenderebbero il primo premio; Los venerabiles todos, Los inconstantes e Los viciosos, degli argentini M. Antin, R. Kuhn ed E. Carreras, si aggiudicherebbero il premio della selezione più infelice; Les abysses, del francese N. Papatakis, e Mare matto, di R. Castellani, riscoterebbero ex aequo il premio speciale della giuria per trivialità di linguaggio e di personaggi, mentre il premio per il più inutile spreco di colore e di grande schermo andrebbe, sempre ex aequo, alla Regina diabolica, del cinese Li Han-hsiang, ed al Rat d’Amérique, del francese J.G. Albicocco. Siffatto gravemente deficitario bilancio artistico – che, oggi più che mai, viene a contestare la qualifica di Arte tout court, da molti, in funzione politica ed affaristica, reclamata al cinema –, si è avvertito specialmente a Venezia, dove, in apertura di Mostra, il nuovo direttore ha dovuto, nientedimeno, dichiarare: «È stato pienamente attuato il criterio di offrire un panorama il più possibile completo di quello che è in questo momento il cinema nel mondo», dato che «non è stato possibile mettere insieme una dozzina di film di alto livello artistico». Ammissione, ci sembra, particolarmente significativa in bocca di un direttore di una «mostra d’arte» che aveva lanciato lo slogan: «Il cinema è industria, il film è arte», e che è giunto a questa malinconica conclusione dopo aver esaminato, dicono, un centinaio di film più o meno candidati per la Mostra, ed averne scelti diciannove, tra i quali, onestamente, nessuno degno di un Leone, sia intero sia dimezzato, vuoi d’oro vuoi d’altro metallo meno pregiato. (Di fatto, il Leone d’oro ha ruggito per Le mani sulla città, di F. Rosi: un film che tutto può essere giudicato – denuncia, requisitoria o comizio - meno che cinema, e men che meno cinema artistico; perciò la sua assegnazione può dirsi logica come lo sarebbe quella che, in un concorso di poesia, in mancanza di poesie, desse il primo premio al tonitruante testo di accusa di un Pubblico Ministero).

Coerenza avrebbe voluto che, mancando la materia da mostrare, la Mostra venisse dichiarata deserta; oppure che avesse programmato, sì, ciò di cui disponeva, ma in una fiera campionaria, o in una sessione di esami, o in un serio convegno di studio, senza premi per i campioni prelevati e per gli alunni esaminati, e senza bandiere festivaliere sul frontone di un più austero Palazzo3. Invece è stata celebrata la solita «Mostra d’arte», con una delle più infelici formule adottate nelle ventiquattro edizioni veneziane, vale a dire congestionandola di 32 film, di cui: 19 scelti più o meno col criterio della fiera campionaria (il meglio che si trovava sul mercato), quattro con quello, oggi molto meritorio, della denuncia sociale (i cosiddetti film-inchiesta), e nove col criterio filantropico dell’incoraggiamento ad esordienti (le cosiddette opere-prime). In tal modo la Mostra di Venezia si è assunta, rispetto agli altri festival, il compito non richiestole di testimoniare una situazione di crisi acuta nel cinema odierno, oltre che riguardo ai valori artistici, anche riguardo a quelli più generali della cultura.

* * *

Tipica, sotto questo riguardo, ci sembra la precarietà, sia logica sia cronologica, delle innovazioni di cui il cinema, quasi frenetico che non trovi pace, sembra non possa fare a meno. Ricordiamo tutti l’esplosione della cosiddetta nouvelle vague. Critici cinematografici francesi, sempre fecondi in formule tanto nuove quanto vaghe, la lanciarono, non si è mai capito bene se come coraggiosa sfida alla produzione industriale, da parte di figli di papà capaci di girare film a poco prezzo, oppure come scapestratura giovanile nemica di ogni regola espressiva – letterarie e grammaticali comprese –, od, ancora, come corrente che l’anarchia della macchina avesse adottato a simbolo della sua proclamata anarchia etica. Ebbene, passati due o tre anni, che cosa n’è rimasto? L. Malle ci ha dato, in Le feu follet, un film che non ha nulla da invidiare al formalismo accademico di certo vecchio cinema, e non solo francese.

Ancora: con Hiroshima, mon amour e con L’année dernière à Marienbad, scoppiò, subito dopo, la rivelazione-rivoluzione Resnais. Con la solita fretta, critica e giurie gridarono al miracolo, e scoprirono, o almeno fiutarono, nel nuovo modo di esprimersi, non si sa quali arcani significati psicologici, psicanalitici, metafisici, trascendentali. Ed oggi, che cosa ha finito di partorire la montagna? Il ridiculus mus di Muriel, capolavoro dell’inespresso, arte vera, se l’arte consiste in indovinelli privi di significato: in realtà si tratta di confusione di idee non si potrebbe maggiore, in una équipe ignara di ogni metafisica e di ogni logica, la quale in buona fede, anche nelle conferenze stampa, scambia la sua nescienza, ed i suoi maldestri tentativi di supplirla, per originalità e personalità di cultura.

Il caso Antonioni è più complesso. Per anni nessuno lo capiva; poi, di colpo, chi mostrasse di non capirlo ed apprezzarlo fu giudicato sospetto di scarsa intelligenza e di cultura arretrata; e tutti spasimarono per Antonioni. Conseguenza: declassata la psicanalisi, trionfando la quale non si era qualcuno se non si ostentavano una mezza dozzina di complessi, è diventato di moda posare all’«alienato», disquisire sulla crisi dei sentimenti, «monaca-vittare»; e, manco a dirlo, i cineasti si sono buttati a pesce a raccontarci storie scucite, di personaggi lunari, in atmosfere rarefatte, popolate di oggetti ordinari, sì, ma pregnificati di sensi arcani; e non solo in Europa, – a Venezia i due esordienti (nella regia) P. Festa Campanile e M. Franciosa, ci hanno ammannito il loro infelice Tentativo sentimentale, e un altro esordiente, il finlandese J. Donner, ci ha dato En Sondag i September –, ma fin nell’America del Sud, dove vari registi insistono goffamente a sposare l’alienazione antonioniana ad un orecchiato esistenzialismo sartriano, e nel cucire sentimenti in crisi con cascami di un pirandellismo in ritardo.

Ma la novità del 1963 – dono, ancora una volta, della Francia – è stato il mazzo di ambiguità culturali che va sotto il cosiddetto cinéma-vérité.

La stessa etichetta è frutto di un grossolano malinteso4. Ma, a prescindere dalla sua origine spuria, il colmo della faciloneria culturale vi si rivela nel darvi per raggiunta la oggettività della realtà psicologico-sociale fotografata, e nel darla come armonizzata con la spettacolarità, condizionante, se non sempre la ripresa, almeno la proiezione pubblica del materiale fotografato, nonché con la soggettiva creatività, artistica o d’altro genere, del cineasta, tramite non inerte tra realtà e spettacolo. Com’è possibile, per esempio, accettare per «veri» i bruciati vitelloni-tricheurs di Los inconstantes, di R. Kuhn? Il regista ha un bel protestare che li ha fotografati sul luogo stesso dove quei viziosi fannulloni ammazzano il loro tempo: ai fatti, lontano le mille miglia si vede che quei campioni non si confessano affatto, ma che dànno spettacolo, e che, anche al regista, la loro presunta confessione importa poco o nulla, perché gli importa molto più lo spettacolo, e che solo per farlo accettare al conformismo corrente egli conferisce ad esso il (falso) tono di denuncia. E chi mai, che s’intenda un poco di cinema, è disposto ad accettare il Le Joli mai, di C. Marker, come una descrizione oggettiva del «pacifico» maggio parigino del 1962? Sì, certamente, qua e là inquadrature e sequenze danno l’impressione del vero, còlto di sorpresa; ma, a parte il modo tutto televisivo e per niente cinematografico di adoperare la macchina, sono anche evidenti le scelte compiute di eventi e personaggi di comodo, nonché i significativi rilievi di inquadrature, ed i contrasti di montaggio, dettati da una ben individuata interpretazione – qui politica – della realtà, rispettabile quanto si voglia, ma che non può affatto identificarsi senz’altro con «la verità».

E che dire de I misteri di Roma? Raramente abbiamo assistito a spettacoli culturalmente pietosi come questo. La zavattiniana teoria della quotidianeità e del pedinamento – che da anni la critica di sinistra va esaltando quasi fosse il non plus ultra delle estetiche e delle poetiche, anzi la matrice del cosiddetto neo-realismo – qui ha mostrato tutto il vuoto estetico, filosofico e culturale che maschera. Quindici baldi giovanotti, quasi tutti sintonizzati con le intuizioni politico-estetiche del Maestro, armati di quindici macchine e di quindici magnetofoni, sono stati da lui sguinzagliati a scoprire, niente po’ po’ di meno, i misteri di Roma. Reduci, i baldi, dalla storica impresa col bottino di trenta chilometri di pellicola impressionata, Zavattini ne ha prelevato il meglio nella severa misura del dieci per cento. Che ne è risultato? Forse una Roma inedita, strappata alla quintessenza del mistero? Mai no! Ché abbiamo assistito ad un’antologia di banalità, comuni a tutte le città del mondo – se si eccettui quell’alzata di ingegno e di buon gusto che è l’inquadratura delle fogne del Vaticano –; e di-banalità, ostentate col pietoso candore di chi neanche sospetta dei propri limiti5.

* * *

Sotto l’aspetto morale, i tre festival possono disporsi secondo una graduatoria. Il meno sgradevole è stato quello di San Sebastian. Se non avesse programmato l’argentino Los inconstantes, fastidiosa visione di una gioventù putrefatta, la cui colpevolezza, salvo sviste, viene ribaltata su di un Creatore poco previggente o maldestro, e se avesse escluso il messicano, grossolanamente aniticlericale, El tejidor de milagros, che, dato l’ambiente cattolico, è stato presentato come una innocua leggenda simbolica, avrebbe raggiunto la sufficienza. Infatti, a film di pura evasione, o d’interesse spettacolare, moralmente anodini, e magari di discutibile buon gusto - oh, mostri sacri di Bette Davis e Joan Crawford, sciupati in quella sagra dell’orrore che è What ever happened to Baby lane? – ha visto film impegnati in una certa problematica umana – come il (purtroppo fiacco e piatto) Das Feuerschiff, stilla doverosa resistenza del diritto contro la ingiustizia armata; l’inglese The L-shaped Room, col suo pesante campionario di umanità debole e dolorante, ma non del tutto perduta; e l’italiano Una storia milanese, in cui, malgrado la materia greve, non tutto è negazione e rinuncia morale –; ed anche film che, senza attingere al pieno della caritas cristiana, salvano qualche valore che le appartiene; tali, per esempio, Au coeur de la vie, con la sua (un po’ formalistica) aspirazione alla pace, Les dimanches de la Ville d’Avray, con la sua (un po’ manierata) nostalgia di una umanità più buona e fanciulla; il giapponese Sono Yowa Wasurai, trepida elegia di esseri apparentemente integri, ma che la guerra ha svuotato, come la bomba atomica ha calcinato le pietre di Hiroshima; e, soprattutto, con Days of Wine and Roses, che, per la sua fiducia nella volontà umana alle prese con le spire del vizio, ha meritato il premio O.C.I.C.

A Cannes le cose hanno un po’ peggiorato. Non vi sono mancati film che respirano un po’ di aria nostra, quali (il tenue) I fidanzati, premio O.C.I.C., il (un po’ fuggevole) To Kill a Mockingbird (che, ad Assisi, a sua volta, si è aggiudicato mezzo gran premio O.C.I.C., insieme col bergmaniano Luci d’inverno), e l’ironico, ma, in fondo, benevolo Pour la suite du monde. A questi tre va aggiunto il nobile, ma (almeno per noi europei) troppo veristico Seppuku, vigorosa denuncia della viltà di certi falsi maestri di eroismo guerriero, peraltro condotta su paradigmi morali lontani dalla rivelazione cristiana. Ma, nel resto, o è stato assente ogni problema morale (così tutta la produzione d’oltre cortina, più o meno esplicitamente impegnata materialisticamente), o si è perso nella denuncia, ora sterile ed ora crudamente compiaciuta, di miserie morali, individuali e collettive (il volgare Les abysses, il simbolico ed equivoco Lord of the Flies, il drammatico This Sporting Life, dove l’accentuata mancanza del senso del peccato è vanamente supplita da pseudo valori), o si è toccato il fondo del malgusto nell’esibizionismo sensuale commisto a cose e persone religiose (il pochadistico, applauditissimo e premiato L’ape regina, che la produzione italiana, dopo aver sfruttato in patria la réclame gratuitamente fattagli dalla censura, non si è vergognata di inviare all’estero).

Inoltre, a Cannes, più che nella programmazione, si è notato nel comportamento del pubblico un accentuarsi di aperta irrisione verso i valori morali e religiosi, tanto frequenti sono stati i rilievi ironici verso atti personaggi ed istituzioni attinenti alla religione ed al cristianesimo, e di scherno verso fatti personaggi ed accenni riguardanti la virtù, particolarmente la verginità e la castità prematrimoniale.

Ma, purtroppo, a questo riguardo, anche la mostra veneziana va facendo molti progressi da parte di certo pubblico, che, francamente, non sappiamo con quale giustificazione giuridica venga ammesso a certi spettacoli, quasi che Venezia costituisse un porto franco del malcostume, in sfregio di un valore pur tutelato dalla Costituzione a pro di tutti indistintamente i cittadini. Giustamente, il cardinale patriarca Giovanni Urbani, rivolgendo la parola alle personalità presenti alla Mostra (5 settembre 1963) rilevava: «Voi non avete bisogno che io vi dica le riserve che anche questo anno ogni persona onesta è costretta a fare dinanzi ad alcuni film, ammessi alla vista non solo di critici e di giornalisti, ma anche del pubblico, in rapporto all’evidente contrasto con le leggi eterne della morale umana e cristiana».

Di fatto, sotto l’aspetto morale generale, il tono della mostra veneziana ci è sembrato notevolmente inferiore a quello dei due festival considerati. Appena un film ha impostato la vita umana su valori esplicitamente religiosi, per quanto non cristiani, cioè il giapponese Ningen; ed a meno di mezza dozzina si sono ridotti quelli ispirati a qualche valore morale non deteriore, quali per esempio, l’americano Hud, il canadese – più volte ricordato – Pour la suite du monde, il francese La belle vie, ed il bozzettistico ed esile Storie sulla sabbia, di R. Fellini (fratello di Federico); il resto, o ha simpatizzato con significati e spunti antireligiosi, anticlericali e marxisti – significati e spunti che certi zelantissimi settori della critica si sono ingegnati di individuare, rilevare ad applaudire anche in film che obiettivamente ne correvano privi –; o, al solito, delle miserie morali umane hanno fatto argomento di compiaciuto spettacolo o di gratuita denuncia, oppure – alcuni nell’impianto generale, altri in particolari rilevanti –, hanno largamente passato i limiti del moralmente tollerabile in uno spettacolo pubblico onesto; e ciò, si badi, quasi sempre senza neanche l’attenuante, come dicono, catartica dell’arte, data la pressoché generale mancanza in essi di decoro, anche artistico.

Tra le cose più immoralmente fastidiose ricordiamo alcune pesanti ed insistenti allusioni sensuali dell’inglese Tom Jones, del resto brioso e colorito, dato in spettacolo di apertura; una sequenza insopportabile dello svedese En Sondag i September a non necessario argomento di tutta una dubbia tesi del film; il miscuglio di preteso documentarismo etnografico e di sadico sessualismo di Il demonio, di B. Rondi; tutto il mondo ostentatamente immorale e cinico di Tentativo sentimentale, del duo P. Festa Campanile e M. Franciosa; la corrosione e l’irrisione di ogni valore umano dell’In capo al mondo, di T. Brass; linguaggio e situazioni pesantemente triviali in Mare matto, di R. Castellani, e in Omicron, di U. Gregoretti; almeno una sequenza di I misteri di Roma, già ricordato, nella quale l’uso di mezzi anticoncezionali viene insistentemente divulgato e quasi raccomandato, in esplicita opposizione alla morale6; e, finalmente, tutto Le feu follet, di L. Malle, che, se per un pubblico cerebrale può passare quale elegante esercitazione stilistica, e se a spettatori particolarmente preparati e maturi può anche fornire una controprova della disperata sorte che, sola, rimarrebbe logicamente aperta a chi abbia rinnegato tutti i veri valori della vita, al pubblico generico, al quale di fatto è destinato, finisce col proporre una visione nefasta dell’esistenza umana, e la conseguente ineluttabilità, se non addirittura la legittimità, del suicidio.

La parte dell’Italia

«È stato detto — soggiungeva il cardinale Patriarca — che i film rappresentano il meglio della produzione mondiale; e la considerazione che sorge spontanea dall’animo è questa; che cosa deve essere il peggio, se questo è il meglio?». – Dopo quanto siamo andati rilevando, la risposta a siffatta domanda, tutt’altro che accademica, non può essere che rattristante, soprattutto se il bilancio di Venezia si congloba con quello dei due festival sopra considerati, in rappresentanza, come abbiamo detto, di tutta la produzione mondiale dell’annata; e specialmente se si considera quanto abbia pesato l’Italia in siffatto consuntivo.

Vero è che non mancano argomenti per sostenere, come si va facendo, che il cinema italiano goda di un fortunato periodo di floridezza. Si vanta, infatti, il numero dei film da esso prodotti, col quale si è piazzata prima nel mondo: ben 226 nel 1962 (dei quali, 51 di co-produzione), contro i 198 (di cui, 40 di co-produzione) del 1961, quando il Giappone, nello stesso biennio, è sceso da 535 a 275 (però nella quasi totalità destinati al mercato interno), ed Hollywood è calata a 138 film (dei quali, 48 girati in Europa). Si sventolano poi con giubilo i dati dell’esercizio: il calo delle frequenze, che ha toccato indici molto minori che altrove, e la spesa del pubblico ai botteghini, salita a 132 miliardi dai 125 miliardi del 1961. Ancora: si rileva che i film esportati dall’Italia nel 1962 hanno realizzato profitti per 20 miliardi di lire, contro i 19 ed i 15 miliardi del 1961 e del 1960. Ma, soprattutto, ci si vanta della mèsse di primi premi che l’Italia ha mietuto in tutti, si può dire, i festival dell’annata, con Il Gattopardo, di L Visconti, a Cannes, Il sorpasso, di D. Risi, a Mar del Plata, Il mafioso, di A. Lattuada, a San Sabastian, Il diavolo, di G. L. Polidoro, a Berlino, e, contro ogni ragionevole previsione ideologica, persino con , di Fellini, a Mosca.

Ma è anche vero che, secondo oggettivi e prudenti osservatori, certi dati brillanti ne mascherano altri, molto preoccupanti, di una crisi economica già in atto, e che, ad ogni modo, lo stesso boom del cinema italiano risulta tanto più precario quanto più anormalmente prosperoso, dando motivo di temere poco piacevoli crac in un futuro non molto remoto. Inoltre, in merito alla qualità, si direbbe che alcuni film, dato il basso livello medio della produzione mondiale, siano stati premiati in base al principio del Beati monoculi in terra caecorum!, quando non anche per meriti di giurie e di criteri non proprio ortodossi (come s’è visto per Venezia).

Comunque sia, è un fatto che il cinema italiano, oggi come oggi, sta registrando primati e riconoscimenti unanimi nel mondo; che i nomi di molti nostri registi ed i titoli di molti nostri film vanno definitivamente entrando nella storia del cinema, e vanno segnando evidenti orme in molte produzioni estere, sia come arte genuina e sia come originalità di impianto e di forme espressive; come pure è un fatto che disponiamo di numerose leve, giovani e giovanissime, in possesso di stoffa e di mestiere non meno eccellenti che i maestri da tempo affermatisi.

Ciò è reso possibile, da una parte, dalla libertà di cui il cinema italiano gode rispetto a quelli dei paesi soggetti a regimi totalitari, specie marxisti; dall’altra, dall’humus di secolare cultura latino-cristiana nel quale, bene o male, continua a radicarsi, a differenza, per esempio, della grande produzione americana, mortificata da norme di anonima standardizzazione e da una cultura mercantilistica; ma, soprattutto, è merito dell’invidiabile ricchezza espressiva e spontaneità fantastica di cui il Signore ci ha fatto dono, a compensare, forse, il difetto di altre doti; ricchezza e spontaneità egregiamente coadiuvate da apparecchiature e maestranze eccellenti.

Crediamo, perciò, che in queste favorevoli condizioni, sia di fondo e sia di congiuntura, il cinema italiano potrebbe compiere miracoli in tutti i sensi; ed anzi, che dovrebbe, per la responsabilità che è insita in ogni eccellente dono di Dio – lungi dal rigurgitare per il mondo il sovrappiù delle idiozie, delle volgarità e dei lenocini che va smerciando all’interno della nazione7 – farsi veicolo, nel mondo, di gioia serena, di problematica onesta, di cultura decorosa e di liberante moralità; in sintesi: di civiltà umana e cristiana.

Ma crediamo pure che, a ciò ottenere, occorre rimuovere i tre più grossi fattori responsabili dello stato di cose odierno.

Il primo è la pletora di avventurieri, senza arte né parte, e senza scrupoli d’alcun genere, che infesta la produzione; pletora regalmente servita da una legge delittuosa, la quale, premiando il successo, in qualsiasi modo carpito, e non l’arte, la cultura e l’onestà, li incoraggia a tutto osare pur di arraffare i milioni che essa riserva loro; per giunta tenendo a loro disposizione un servizio censorio che funziona quasi unicamente come réclame gratuita del prodotto più ignobile8.

Il secondo è il monopolio di fatto esercitato nel mondo cinematografico dai marxisti, specialmente col condizionare gli autori e col manovrare la critica verso produzioni, o faziosamente ideologiche, o dirette a scardinare quanto resta in valori morali di una civiltà umanistica e cristiana; ed in ciò, a loro volta, i marxisti sono efficacemente appoggiati dalle correnti laiciste di ogni colore, pronte a tutto, pur di avversare la bestia nera del conformismo moralistico e religioso. 

Il terzo è il conformismo gregario del grosso pubblico, e particolarmente la scandalosa indisciplina ed incoerenza morale di troppi spettatori cattolici, i quali, o ignorando, o spregiando, le norme della Chiesa, accorrono ai film di più pesante richiamo imposti dai produttori, e non reagiscono – seppure le avvertono – alle manovre, si direbbero concertate, dei marxisti e dei laicisti; così esso pubblico finisce con lo scoraggiare qualsiasi tentativo di produzione artisticamente, culturalmente e moralmente apprezzabile, e col poter disporre, come Pio XII giustamente rilevava, di quella produzione deteriore che solo si merita9.

* * *

La rimozione di questi tre ostacoli richiede e suppone la presenza, attiva e coordinata – nei quattro settori nevralgici del cinema: creazione, produzione, critica e pubblico – di uomini provvisti insieme di retta coscienza, di buona cultura e di eccellente preparazione specifica.

Se nei decenni passati, quando «gli altri» – molto accortamente – si davano a formare (a loro modo) coscienze, culture e specializzazioni, anche noi, invece di sostare presso il muro del pianto, avessimo messo a punto un piano di azione, e ne avessimo avviato l’esecuzione secondo precise scadenze, oggi non ci troveremmo, di ritorno dai festival di un’annata, a lamentare, forse meritoriamente ma sterilmente, l’ottimo che vi è mancato, lo scarso buono che vi si è trovato, il mediocre ed il pessimo che vi è abbondato!

Che la mesta sapienza del «meglio tardi che mai!», ma anche l’urgenza dettata dal grave pericolo di arrivare troppo tardi, ci sproni a concordare subito, sulla carta e nella prassi, il quid agendum, perché il cinema italiano produca non senza di noi i buoni film che pur produce; mentre non continui ad abbondare in film deleteri, di cui la nostra assenza – oppure la nostra presenza non qualificata, o non concordata – porta le massime responsabilità.

1 Quali Vienna e Valladolid per il film religioso, Vichy per il disegno animato e Mannheim per il film industriale, Bergamo per il film d’arte, Padova per quello scientifico, Vicenza per quello didattico, Stresa per quello turistico, Trento per quello della montagna, Trieste per quello di fantascienza, Bordighera per quello comico, Sestri Levante per quello latino-americano, Ancona per quello della pesca, Salerno per il passo ridotto, Palermo per quello dei bambini, Lipari per quello dello sport subacqueo...: e ce ne sfuggono ancora parecchie decine!

2 L’augurio c’è, ma le speranze sono scarse, perché, nonostante il logoramento della formula, quelli che dai festival cinematografici si aspettano non si sa quali richiami turistici sono legione. Basti rilevare che la FIAPF (Fédération Internationale Associations Producteurs Film) nel 1963 ha ricevuto ben 83 domande di festival. Per parte sua, un rotocalco cinematografico romano, frivolo e fazioso, ma, in genere, bene informato (ottobre 1963, p. 9), ne enumera, di già organizzati nel mondo, più di cento!

3 Quest’anno le attività di seria cultura al Lido sono consistite nella presenza di tre intellettuali marxisti: Antonello Trombadori, prof. Galvano della Volpe e prof. G.C. Argan, ed in un disastroso recital dell’ottimo, ma fuori posto, Jean Vilar.

4 È noto, infatti, come nel 1922, il governo sovietico, non contento della massiccia propaganda che il partito conduceva col giornale stampato Pravda, pensò di rafforzarla con un giornale cinematografico, che, ovviamente, denominò Kino-Pravda. Ora lo storico cinematografico marxista G. Sadoul, invece di tradurre questo termine Kino-Pravda in quello comune di cinegiornale, lo tradusse in quello programmatico di cine-verità (pravda, in russo, significa verità); non solo, ma poi teorizzò su questo termine programmatico, rapportandolo alla teoria del Kino-glass, di Dziga Vertov (pseudonimo di Denis Kaufman, il cineasta appunto che negli anni 1923-’25 girò o «montò» ventitré cinegiornali comméssigli), secondo la quale, le virtù miracolistiche dell’obbiettivo cinematografico (Glass) valevano molto di più che non tutte le riprese predisposte e teatrali, alle quali normalmente il cinema ricorre (cfr G. SADOUL, Da Dziga Vertov a Jean Rouch: “cinema verità” e “camera occhio”, in V. SPINAZZOLA: Film 1963, Milano 1963, pp. 112-143).
Orbene, nel 1959, J. Rouch ed E. Morin, seguendo l’accezione del Sadoul, lanciavano “un nuovo cinema-verità”; di poi si illusero di continuare, con il loro interessante Chronique d’une été, non solo le orme di Dziga Vertov, bensì anche quelle di Flaherty. Ora, a parte la mobilità della macchina, portata in mezzo alla realtà tanto dal russo quanto – ma non sempre! – dai cineasti del cinéma-vérité, chi non sa che per il Vertov la realtà ripresa era semplice materiale grezzo, destinato ad assumere un significato soltanto in virtù del montaggio, eseguito in funzione dell’unica «verità» rivoluzionaria: la bolscevica? E quando mai il Vertov si è preoccupato, come invece hanno fatto il Rouch ed il Morin, non solo di rivelare un contesto di verità umano-sociale agli spettatori, bensì anche di rivelare a se stessi, come in uno specchio, i fotografati? In quanto poi al Flaherty – che, tra parentesi, alla macchina mobile poco ricorreva – il parallelo è del tutto da orecchianti, nulla avendo che fare la «verità» naturale, che egli trasfigura in lirica poeticità, con la intellettualistica e fredda «verità sociale» sorpresa dai nuovi venuti. Oltre tutto, poi, quello di Flaherty – e un po’ meno quello di Vertov – era cinema al cento per cento, mentre troppo del molto che ce ne è stato mostrato a Cannes, e specialmente a Venezia, è poco o nulla cinema: con inquadrature che durano, immobili, interi quarti d’ora, e con il grosso dei significati – non diciamo dell’espressione – affidato alle intemperanze verbali dei personaggi, volenterosi portatori di tesi.

5 Francamente, inchiesta per inchiesta e «verità» per «verità», pur sempre nei limiti di un modesto servizio televisivo, il canadese Pour la suite du monde, presentato a Cannes ed a Venezia da tre quasi esordienti, la vince senza paragone sul film di Zavattini, nonostante, ed anzi forse proprio per la modestia dell’assunto, per la mancanza di imperate denunce sociali e per la simpatia umana a cui s’ispira. (Per il volume sul film di Zavattini, cfr Civ. Catt. 1963, III, 368-369).

6 Si va facendo sempre più ovvia e normale, sullo schermo, la casistica circa i delitti contro la maternità. A parte quanto abbiamo rilevato su I misteri di Roma, l’uccisione del feto nel seno materno viene progettata in La belle vie, di R. Enrico, e In capo al mondo, di T. Brass; viene prima progettata e poi rifiutata in Storie sulla sabbia, di R. Fellini, e in The shaped Room, di B. Forbes; viene attuata in Una storia milanese, di E. Visconti, e in Greenwich Village Story, di J. O’ Connel.

7 Basti ricordare l’ultima ondata di malcostume rappresentata dai film: Mondo di notte, Europa di notte, Tokio di notte, America di notte, Sexy al neon, Ragazze per l’Oriente, Mondo di notte n. 2, Mondo caldo di notte, Le dolci notti, Sexy, Mondo sexy di notte, Notti calde d’Oriente, Universo di notte, Notti e donne, I piaceri del mondo, 90 notti in giro per mondo, Totò di notte n. 1, Sexy proibito, Paradiso dell’uomo, Notti nude, Amore pagano, Parigi nuda, Sexy nudo, Supersexy ’64, Sexy che scotta, Sexy proibitissimo, Italian sexy show,... E la serie continua di male in peggio; infatti si annunciano, tra gli altri, i seguenti titoli: Antologia sessuale, Sexy come Satana, Scandali... nudi!

8 A questo proposito, si legga, si mediti e si ponderi il gravissimo bilancio Un anno di censura cinematografica steso da S.E. G.G. LOSCHIAVO, nella Rassegna di diritto cinematografico (1963, n. 4, pp. 120 ss.).
A legge censoria approvata, scrivendone in questa sede (Civ. Catt. 1962, II, 305), fummo tanto ingenui da porre le nostre speranze sul Regolamento della stessa; ebbene: ad un anno e mezzo di distanza, di regolamento ancora non si parla. Quindi ci augurammo «che la pubblica Amministrazione sapesse trarre dal lavoro del legislatore, quale esso sia, tutto il vantaggio morale possibile, perché, in definitiva, una legge imperfetta, ma bene applicata, è da preferirsi ad una legge, se fosse possibile, perfetta, e non o male applicata»; orbene: ad un anno e mezzo di distanza, fermo restando che la legge era tutt’altro che perfetta, dobbiamo lamentare che non poteva essere applicata peggio. Se continuerà così, dovrà dirsi soltanto una beffa al senso morale, un servizio dello Stato a speculatori della peggior specie, ed un superbo contributo del partito che è al potere alle ideologie marxiste e laiciste, di cui laicisti e marxisti non potranno mai essergli sufficientemente grati.

9 Cfr E. BARAGLI, Cinema cattolico, Roma 1959, n. 439.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151